Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2017-002
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2017
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Kristol De StefaniL’italiano dalla Svizzera
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2017
Lorenzo Tomasin
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Lorenzo Tomasin 24 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 L’italiano dalla Svizzera Sul lessico italoromanzo di asserita origine elvetica * Lorenzo Tomasin (Lausanne) Résumé: L’article se penche sur le concept d’«helvétisme», notamment en linguistique italienne; il propose une classification du lexique italien d’origine helvétique vraie ou présumée. Une reconstruction étymologique et historique est proposée pour les termes suivants: alabarda, bezzo, schib(b)a, mucca, chepì, ugonotto, chalet, nevato, onanismo, ozono, schizofrenia, micella, interglaciale, semiologia, nostalgia, cellophane, meta, fon, sbrinz, emmental, groviera. En conclusion, l’article propose une comparaison entre les mots italiens d’origine tessinoise et les autres régionalismes ou mots italiens d’origine dialectale. Keywords: Helvetism, Italian vocabulary, Etymology, Lexical history, Italian A Franco Lurà, per festeggiarlo 0. Premessa. Il concetto di elvetismo Nell’ambito degli studi linguistici, col termine elvetismo e coi suoi corrispondenti francese (helvétisme) e tedesco (Helvetismus) si indica normalmente un elemento linguistico (soprattutto lessicale) caratteristico delle varietà rispettivamente di italiano, francese e tedesco parlate in Svizzera. Una definizione che potremmo dire standard è quella offerta dal Dizionario storico della Svizzera 1 , in cui pure si nota qualche differenza tra la versione italiana da un lato, e francese e tedesca dall’altro: Coniato alla fine del XIX sec. dalla critica letteraria franc. e reso celebre dall’Histoire littéraire de la Suisse au XVIII e siècle di Gonzague de Reynold, il termine elvetismo designava (in ambito francofono) le peculiarità linguistiche della Svizzera franc. (http: / / www.hls-dhs-dss.ch/ textes/ i/ I24574. php) En linguistique, helvétisme désigne une tournure ou une expression typiques de la Suisse. Ce terme fut aussi utilisé en Suisse à la fin du XIX e s. pour nommer un courant littéraire du XVIII e s. et c’est Gonzague de Reynold qui le fit connaître dans son Histoire littéraire de la Suisse au XVIII e s. (http: / / www.hls-dhs-dss.ch/ textes/ f/ F24574.php) 1 http: / / www.hls-dhs-dss.ch. * Lavoro prodotto nell’ambito del progetto di ricerca: Svizzera italiana. Storia linguistica di un’espressione geografica, finanziato dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca (100012_156355) L’italiano dalla Svizzera 25 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 H[elvetismus] bezeichnet in der Linguistik eine schweiz. Spracheigentümlichkeit. In anderer Bedeutung erscheint der Begriff Ende des 19. Jh., um eine literar. Strömung des 18. Jh. zu beschreiben. Gonzague de Reynolds Histoire littéraire de la Suisse au XVIII e siècle machte den helvétisme bekannt. (http: / / www.hls-dhs-dss.ch/ textes/ d/ D24574.php) Una definizione analoga si ricava dai più recenti studi storicoe sociolinguistici sulla Svizzera contemporanea. Ad esempio, Gaetano B erruto 2012: 49, riprendendo una formula di Elena M. P andolfi 2011: 237, considera elvetismi «i termini in qualche modo caratteristici dell’italiano parlato e scritto in Svizzera» 2 . In tedesco (ma non, o più marginalmente, in altre lingue) la stessa designazione è impiegata anche per indicare gli elementi lessicali che, formatisi in Svizzera, circolano anche al di fuori dei confini geopolitici e culturali della Confederazione 3 . Di quest’ultima categoria lessicale peculiare ci si occuperà qui con riferimento all’italiano. Per quanto riguarda il francese, la ricerca prodotta finora appare nettamente sbilanciata verso lo studio delle peculiarità regionali del francese di Svizzera, anche se le premesse per un puntuale inquadramento (peraltro ancora mai tentato in un lavoro a sé stante) del contributo elvetico al francese comune sono state poste da vari lavori usciti nel corso dell’ultimo ventennio: la situazione appare comunque, su quel versante, più complessa che su quello italiano per la costante difficoltà, e talora per l’arbitrarietà della distinzione dell’elemento di uso locale da quello comune 4 . Quanto all’italiano, dunque, esistono vari termini che, accolti nella lingua comune, possono considerarsi di origine elvetica, e la maggior parte di questo pur sparuto 2 Alla stessa P andolfi 2010: 119 si deve una discussione di quelli che lo Zingarelli a partire dal 2002 classifica come elvetismi e include nel suo lemmario. Si tratta evidentemente di regionalismi lessicali o semantici della Svizzera italiana: non quindi dei lessemi che qui discuteremo. 3 Sul concetto di Helvetismus nella linguistica germanica rinvio al volume curato da d ür scheid / B usinger 2006, e in particolare a l ingg 2006, con l’ampia bibliografia ivi segnalata, per i «Kriterien zur Unterscheidung von Austriazismen, Helvetismen und Teutonismen», ma soprattutto a l äuBli 2006 per il trattamento degli Helvetismen nella lessicografia del tedesco. Riprendendo una distinzione di a mmon 1995, vi si distinguono gli Absolute Helvetismen («Helvetismen, die ausschliesslich in der schweizerischen Standardvarietät vorkommen») e i Frequenzhelvetismen («Sprachliche Erscheinungen, die an sich gesamtdeutsch sind, in schweizerischen Texten jedoch besonders häufig auftreten»). Che taluni termini di origine svizzera si possano occasionalmente «über die Grenzen der Schweiz hinaus finden und allgemeines deutsches Spracheigentum werden» era stato notato già da B lümner 1892: 6 (cit. da a mmon 1995: 54). 4 t hiBault 2001: 80-82 ha dedicato qualche cenno ai «mots du français de Suisse romande empruntés par le français commun» (vi si discutono i termini canton - su cui peraltro si sarebbe potuto tener conto dell’origine italiana acclarata da a eBischer 1943 - chalet, fondue, cible: quest’ultimo considerato poco significativo perché «entièrement dérégionalisé», il che tuttavia non ne cancella l’origine). Apprezzabile negli intenti, il Dictionnaire suisse romand redatto dallo stesso studioso in collaborazione con altri (t hiBault / K necht / B oeri / Q uenet 1997) ha in effetti posto le basi per un’indagine come quella che qui proponiamo per l’italiano; ma lo statuto spesso incerto delle voci qui accolte, dovuto certo alla difficoltà nel circoscrivere la materia, rendono tutt’altro che agevole l’operazione; si tengano presenti intanto le riserve espresse da l engert 2000. Lorenzo Tomasin 26 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 manipolo è già registrata caso per caso dalla lessicografia corrente 5 . Censirli e studiarli nel loro complesso appare tuttavia utile per varie ragioni: la prima è che la comune matrice elvetica degli elementi di cui stiamo parlando corrisponde a una pertinenza linguistica varia, visto che naturalmente le parole svizzere dell’italiano possono provenire, volta a volta, dalle varietà locali (dialettali) delle lingue parlate in Svizzera; o ancora, esse possono essersi originate in quella sorta di area comune europea costituita dal lessico intellettuale. Si tratta in quest’ultimo caso di termini coniati da autori svizzeri e introdotti originariamente nella loro lingua di riferimento, e presto divenuti patrimonio comune delle lingue d’Europa. Sebbene entrambe le fattispecie appena richiamate si ritrovino puntualmente anche in situazioni linguistiche diverse da quella svizzera, una classificazione più specifica ha senso proprio in virtù della configurazione linguistico-culturale di quest’area (ben a ragione Bruno m oretti 2005 ha parlato di un «laboratorio elvetico»), e per l’evidente riflesso di tale configurazione nel formarsi e nel diffondersi di molti degli esemplari lessicali interessati. Il materiale di cui diciamo può essere dunque classificato nelle categorie seguenti, che si tratteranno nelle prossime pagine: 1. Germanismi dei quali sia documentabile l’irradiazione a partire dalla Svizzera (e in particolare dalle varietà svizzerotedesche dell’alemannico, cioè del gruppo dialettale germanico che interessa il territorio elvetico). In alcuni casi si tratta di termini mediati dal francese. 2. Gallicismi (e in particolare francoprovenzalismi) dei quali sia documentabile l’irradiazione a partire dal territorio svizzero romando (eventualmente giunti all’italiano per tràmite del francese). 3. Ticinesismi passati all’italiano comune: per questa categoria, caratteristicamente esigua, discuteremo anche un termine che a nostro avviso è stato impropriamente considerato un ticinesismo 6 . 4. Grecismi e latinismi scientifici o filosofici introdotti o coniati ex novo da studiosi svizzeri o operanti in Svizzera - ora in tedesco, ora in francese, ora in latino -, e da qui diffusi generalmente nelle lingue di cultura europee, quindi anche in italiano (normalmente si tratta di internazionalismi del lessico intellettuale). 5 La raccolta del materiale discusso in queste pagine ha preso le mosse, in effetti, da una ricognizione dei due dizionari etimologici italiani interrogabili automaticamente, cioè il DELI e l’Etimologico. 6 Un caso particolare è quello del termine referendum, che gli etimologici italiani (DELI, Etimologico) considerano «un latinismo introdotto dapprima in Svizzera nel ling. pol.», con riferimento alla costituzione elvetica del 1874, mentre il TLFi risale al secolo XVIII. Ma che in italiano questo tecnicismo politico arrivi appunto dalla Svizzera appare garantito dal fatto che il suo uso tra Otto e Novecento in Italia rinvia sistematicamente all’ordinamento politico elvetico, che è con tutta evidenza il modello, anche terminologico, per l’istituto giuridico italiano introdotto, come è noto, in occasione del voto su monarchia e repubblica nel 1946, e chiamato così per distinguerlo dall’ottocentesco plebiscito (cf. P ergolesi 1949). L’italiano dalla Svizzera 27 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 5. Parole d’autore, marchionimi e nomi commerciali che, pur non appartenendo in senso stretto a nessuna delle tre lingue federali, provengono all’italiano dalla Svizzera. Mi pare sia legittimo indicare i (peraltro pochi) elementi lessicali riferibili a questa tassonomia come elvetismi, come di fatto accade comunemente in tedesco quando si parla di Helvetismen, anche se tale accezione risulta fino ad oggi meno consueta in italiano 7 . La distinzione che andremo delineando pone in evidenza la peculiarità della situazione linguistica del «laboratorio». Parafrasando la nozione di italiano di Svizzera impiegata da m oretti 2011 per l’insieme di varietà di lingua italiana presente sul territorio della Confederazione, si potrà insomma parlare di italiano dalla Svizzera per il pur modesto contingente lessicale qui individuato. Tentarne un esame detta gliato consentirà di trarne, conclusivamente, qualche indicazione storico-linguistica generale. 1. Germanismi di vera o presunta irradiazione svizzero-tedesca La prima categoria è ulteriormente distinguibile nei sottoinsiemi dei termini passati: a) all’italiano e al francese, indipendentemente; b) al solo italiano; c) al solo francese, e da questo all’italiano. 1.a. Al sottoinsieme appartengono l’italiano alabarda e il francese hallebarde. Si tratta di un germanismo (mhd. helmbarte) che sia la lessicografia italiana (GDLI, DELI, Etimologico, s.v.), sia quella francese (TLFi s.v., FEW 16: 194) riconducono al medio-altotedesco, ma considerano diffuso dai soldati svizzeri, come in effetti mostrano la cronologia e l’àmbito delle prime attestazioni, riconducibili agli ambienti delle truppe mercenarie d’origine elvetica. La più antica attestazione registrata dal DELI risale al 1514-20 (Machiavelli), mentre per il francese si risale al 1448 (FEW). La prima è in realtà retrodatabile al 1499 grazie alla recente edizione delle Lettere di Baldassar c astiglione (2016: I, 5; e cf. già V etrugno 2010: 13). Varie testimonianze cinque-seicentesche recuperabili grazie al DI s.v. Svizzera e tedeschi mostrano poi 7 Naturalmente gli elvetismi dell’italiano e del francese (intesi nel senso consueto) vanno distinti fra termini che si usano solo in Svizzera, e termini che qui hanno significato diverso, o parzialmente diverso da quello consueto nell’italiano e nel francese impiegati fuori dalla Svizzera. Per i ticinesismi, da ultimo m oretti 2011 distingue tra quelli assoluti («lessemi per cui non esiste corrispondente nell’italiano d’Italia né a livello di significante né a livello di significato: corso di ripetizione ‘richiamo periodico al servizio militare’»), quelli semantici («nell’italiano d’Italia esiste il significante ma con significato diverso»), e lessicali (in italiano esiste il significato ma non il significante, come in trattanda ‘punto all’ordine del giorno’, ramina ‘rete di confine o rete metallica in genere’). Lorenzo Tomasin 28 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 come l’alabarda fosse considerata a quell’epoca un contrassegno tipico dei soldati elvetici. Da avvisi a stampa tardocinquecenteschi spogliati nel Deonomasticon si ricava dunque: «Li Squizzeri a piedi, con l’Archibugi & Alabarde» (1598); «la guardia delli Tedeschi di S. Maestà comparve non vestita di nero, ma con habito di velluto cremesino, & tafetano giallo, & alabarde tutte indorate come sogliono usare li Sguizzeri delle guardie senza cappa, ò mantello» (1598); «i Svizzeri della Guardia Reale in Francia con le loro alabarde» (1670). Sebbene non retrodatino la documentazione, vanno segnalati anche alabarda censito nel veneziano cinquecentesco da c ortelazzo 2007, con un esempio da un inventario del 1584, e alabardieri pedestri nel Sanudo (c rifò 2016: 397, secondo il quale la voce italiana è un adattamento del fr. halbardier). Simili materiali confermano, mi pare, provenienza, cronologia e traiettoria di diffusione suggerite dalla lessicografia. Diverso il caso della coppia costituita dal fr. batz e dall’it. bezzo. Il nome della moneta bernese Batz (per cui cf. SchwId. 4: 1964-76), coniata a quanto pare dalla fine del sec. XV è tradizionalmente e popolarmente ricondotto a quello dell’orso (Bëtz) che vi si trovava impresso, anche se precedenti attestazioni in area austriaca (una moneta salisburghese del 1495) suggeriscono una diversa spiegazione, accolta da K luge / s eeBold 2011 s.v. (da Batzen nel senso di ‘massa compatta’). In francese (prima attestazione nota: Friburgo 1517, TLFi), il termine è comunque riferito a monete svizzere, mentre in Italia esso si acclima passando, a Venezia, a indicare anche monete locali. Sebbene la lessicografia italiana rinvii compattamente alla Svizzera come luogo d’origine del termine italiano (GDLI, DELI), la coeva testimonianza di Marin Sanudo - che è anche, per quanto se ne sa, la più antica attestazione del termine in Italia - sembra puntare, di nuovo, sulle Alpi centro-orientali, e in particolare sulla Carnia e su una terra todescha che potrebbe ben essere il Salisburghese. Nel 1498, in effetti, Sanudo dà notizia del bando da parte del Consiglio dei Dieci, di una moneta che, a causa della sua comodità, aveva larga circolazione nello Stato veneto. Si tratta dei «bezi, ch’è una moneda di rame con arzento di valuta di do al soldo che si fa per alcuni signori in Carna over in terra todescha» (cf. s anudo 1879: 729, cit. ad es. da c ortelazzo 1994: 108, che tuttavia non mette in dubbio l’origine svizzera del termine). Metterà conto osservare che il decreto - in latino - cui allude Sanudo è in realtà del 16 settembre 1497, e che nella stessa deliberazione i Dieci ordinavano di battere moneta di identica forma e grandezza dei bez messi al bando 8 (col che andrà corretta la data 1500 che si legge nel LEI Germ. 1: 631, per la coniazione dei bezzi veneziani). Se dunque il tipo bazz diffuso fino ad oggi in area ticinese e nelle valli italiane del Canton Grigioni (VSI 2: 303b) arriverà verosimilmente dalla Svizzera interna, è verosimilmente dall’area veneta che il termine (con vocale tonica palatale) si diffonde in Italia, soprattutto in forma plurale col significato generico di ‘soldi’. Dalle varietà 8 Il testo della deliberazione si legge direttamente in Internet nell’originale, riprodotto nel sito dell’Archivio di Stato di Venezia (archiviodistatodivenezia.it): Consiglio dei Dieci, Misti, r. 27, c. 118r. L’italiano dalla Svizzera 29 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 settentrionali (anche lombarde e anche ladine: cf. il fiammazzo bèzeghi censito dal LEI Germ. 1: 629) si propagherà alla lingua comune letteraria, tanto che il GDLI s.v. riporta esempi anche da Borgese e Verga. Un caso solo parzialmente simile è quello costituito dai termini fr. cible e it. schib(b)a. Che cible ‘bersaglio’ sia appunto un germanismo verosimilmente irradiato dalla Svizzera tedesca (cf. SchwId. 8: 43, s. Schîbe 2.b), che riporta anche come comune il diminutivo Schībli) è nozione su cui la lessicografia galloromanza concorda (TLFi s. cible, FEW 17: 30). Quanto alla voce italiana, essa occorre nel trecentista Niccolò de’ Rossi («no mi val scudo ni lança cum schiba» B rugnolo 1974: 168), nell’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trissino (XXVII 617: «ma ben si rupper le possenti lance / d’ambedua loro infin presso le schibbe») e in un inventario di Alfonso II d’Este («Schibe da lancia di ferro», GDLI). La spiegazione data da Brugnolo (p. 318) che si tratti di una «picca», cioè di una «lancia a punta acuta a uncino» e che l’etimo sia REW 3906 gŭbia ‘sgorbia’, da cf. con voci venete come sgubia, sgurbia e sgorbia appare insoddisfacente sia dal punto di vista fonetico (difficilmente giustificabile il passaggio della tonica da velare a palatale), sia dal punto di vista semantico: il passo derossiano allude a elementi difensivi, non offensivi; inoltre, l’occorrenza nell’inventario estense fa pensare a una parte o a un accessorio di una lancia piuttosto che a un tipo di lancia. Sembra dunque più adeguata l’illustrazione del GDLI s. schiba: «piccola ruota metallica posta davanti all’impugnatura di una lancia, rotella di guardia». Da rigettare quindi anche la spiegazione di l ieBer 1993: 454 per il passo trissiniano («punto, forse, ove la lancia è conficcata nel legno»), che tuttavia offre una buona pista quanto all’etimo, rinviando al medio tedesco schibe, ovvero appunto (ma indipendentemente) la cible del francese. Sia nel caso di batz/ bezzo, sia in quello di cible/ schibba saremmo di fronte a germanismi migrati dall’area germanica al francese, ma giunti in italiano attraverso una trafila verosimilmente diversa, cioè da regioni distinte: se l’origine comunemente accettata è plausibile per il termine francese, per quelli italiani (particolarmente l’ultimo, per il quale è del tutto improbabile una trafila svizzera) occorrerà pensare a germanismi d’altra provenienza. 1.b. Rappresenta questa categoria l’it. mucca, termine diffuso in Italia a partire dal secolo XVIII e di etimologia molto discussa. Appare persuasiva, pur se bisognosa di qualche precisazione, l’ipotesi di l urati 1976 secondo cui la voce sarebbe irradiata dall’ambiente luganese della fiera del bestiame che vi si svolgeva annualmente. Mucca rifletterebbe «il termine svizzero ted. Mugg, Muchi, Mucheli, Muggeli con cui si indica affettivamente una bovina (SchwId. 4: 63, 115), termine che dovette essere ripreso e adottato quale mucca dagli acquirenti italiani con lo specifico valore di ‘bovina da latte’». Il fatto che un’importazione particolarmente precoce abbia riguardato, a quanto pare, la Toscana (per cui già nel 1758 A. Cocchi, cit. dal DELI: «il latte deve essere di vacca di cui fassi il burro, mi pare in Toscana si chiamino mucche, e credo che siano una sorta di vacche più mansuete dell’altre») poté favorirne la diffusione nella lingua comune ottocentesca. La voce svizzero-tedesca va comunque legata - Lorenzo Tomasin 30 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 come peraltro riconosce lo stesso l urati 1976: 64 in una nota - a un gruppo di termini per ‘giovenca’ vivi sui due versanti delle Alpi, su cui già aveva richiamato l’attenzione J ud 1911: 17 e che postulano una base *mugverisimilmente prelatina; vi è successivamente tornato anche P ellegrini 2003: 186 9 . Il termine italiano può insomma ritenersi un germanismo solo a patto di considerare la trafila indicata da Lurati come via d’accesso all’italiano (del Ticino, e di qui a quello comune) di un lessema prelatino comunque già diffuso nei dialetti, anche romanzi, dell’arco alpino. La voce merita un supplemento d’indagine anche a motivo dell’apparente retrodatazione, in sé clamorosa, offerta dal cosiddetto Inventario dei contadini di Ludovico Ariosto, un documento autografo relativo alla gestione di beni privati del poeta conservato in tre frammenti (uno a Ferrara, uno a Forlì e uno alla British Library). Nell’edizione attualmente di riferimento (quella curata da Stella per gli Opera omnia diretti da Segre, a riosto 1984: 547) il frammento forlivese presenta, in una lista d’animali consegnati nel 1518 a Guido da Guastalla, «una mucca bruna stellata» e «una mucca rossa». Un controllo su una riproduzione digitale del testo 10 assicura che di vacche si tratta, e non di mucche (la forma vacca è usata in vari altri punti dell’inventario; facile comprendere come la grafia possa essere stata equivocata). La lessicografia italiana ha (fortunatamente) ignorato questa fuorviante occorrenza. 1.c. A questa categoria appartiene la coppia fr. képi, it. chepì, ‘cappello militare di forma cilindrica’, passato senza dubbio all’italiano dal francese. Le fonti lessicografiche italiane (GDLI, DELI, Etimologico) lo indicano come originariamente svizzero, mentre il TLFi parla genericamente di un’origine alémanique. Sebbene lo SchwId. 3: 388 non censisca la forma Käppi (e registri anzi che «Chäppi scheint aus dem frz. képi zu stammen - das allerdings seinerseits wieder aus dem Deutschen entlehnt ist -; das Wort verbreitete sich in dieser Bedeutung auch nach Deutschland»), appare risolutiva l’informazione del FEW (2: 294, nonché 16: 300): «Aus der Schweiz entlehnt, wo das käppi bis zum Weltkrieg die ordonnanzmässige kopfbedeckung der soldaten war». La prima attestazione italiana riportata dal DELI (nella forma cheppì) è del 1873, mentre l’Etimologico dà «ante 1855», senza esempi. Facile, grazie a Internet, una lieve retrodatazione: kepì, non glossato né in corsivo, in M. c accia , Sulla cavalleria piemontese, Torino 1849: 132. Data la forma grafico-fonetica della voce nelle prime attestazioni, è probabile che esso giunga in italiano dal francese, assieme a vari altri termini militari ottocenteschi. Trafila analoga potrebbe avere avuto, ma in epoca ben anteriore, la coppia fr. huguenot/ it. ugonotto, dal ted. Eidgenossen ‘confederati’, forse incrociato con il nome di Hugues Besançon, che nel 1517 assunse la guida del partito anti-savoiardo di Ginevra, favorevole a un’alleanza con la Confederazione degli allora 13 cantoni (la derivazione 9 P ellegrini (ibid.) cita in part. «Upper Engadina muj-a, Sent muoi ‘two-year-old steer’» e inoltre «alto engad. muj-a, Valtellina di Livigno motc ‘one-year-old calf’, Valtellina močč ‘young bull’, Bormino mùghera ‘heifer’, Soprasilv. mutg, muje -a ‘two-year-old steer’, Bresciano mug ‘young steer’, Piedmontese mogia ‘heifer’, etc.». 10 Ringrazio Simone Albonico per avermela fornita. L’italiano dalla Svizzera 31 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 di huguenot dal nome Hugues è diffusa fin dalla più antica lessicografia francese, cf. già m énage 1694: 410); che il termine arrivi in italiano attraverso il francese appare evidente per la veste fonomorfologica (FEW 15: 86). Il DELI (correggendo una segnalazione errata di Zaccaria, registrata dal DEI) riporta una locuzione all’ugonotta attestata in area veneta già nel 1563, che «ha un valore nettamente negativo»: si tratta di uno dei vari esempi cinquecenteschi di impiego in italiano con valore denigratorio di termini relativi alla riforma protestante (non mi risulta che ne sia ancora stato fatto un censimento, che sarebbe interessante 11 ). 2. Gallicismi elvetici I termini italiani di quest’àmbito provengono di solito dal francese piuttosto che direttamente dalle varietà locali della Svizzera romanda. Banale il caso del non adattato chalet ‘casa di montagna’, mot-souvenir che si riferisce a un oggetto caratteristico del paesaggio alpino occidentale e che è termine appunto tipico della Svizzera romanda (GPSR 3: 270-72). Più interessante l’it. cretino, fr. crétin, entrato nelle due lingue durante il secolo XVIII assieme al tecnicismo medico cretinismo (che tuttavia non è un latinismo o grecismo, ma un termine plasmato su una voce locale), e indicante una forma di demenza patologica endemica nell’area alpina nordoccidentale, e in particolare nella regione linguistica francoprovenzale; crétin è appunto l’esito francoprovenzale di christianus , termine usato compassionevolmente per indicare gli individui affetti da questo morbo (GPSR 4: 536-37 12 ). Merita attenzione poi l’it. nevato, fr. névé. La voce francese è stata persuasivamente descritta da g redig 1939: 52 come un «empr[unt] aux patois de la Suisse Rom[ande]», e indica la «couche de neige sur un glacier, qui n’a pas encore atteint la consistance de la glace du glacier»; oppure, nel linguaggio degli sciatori, la «neige de printemps, neige cristalline et très homogène, rencontrée surtout à partir d’une certaine altitude, où elle se forme sous l’action alternative et répétée du soleil diurne et du gel nocturne» (la provenienza geolinguistica è certa nel caso del francese, trattandosi dell’esito francoprovenzale di niVatus , cf. FEW 7: 157). Per la corrispondente forma 11 Per la diffusione anche dialettale di questo fenomeno - che ha un precedente nell’impiego in senso denigratorio di termini come i corrispondenti dialettali di eretico e patarino, per cui cf. l urati 1987: 54, che riporta anche un lomb. zanevreghin ‘ginevrino’, nel senso di ‘calvinista’, quindi ‘miscredente’ - segnalo come ottimo punto di partenza l’articolo Lutero del DI già pubblicato in anteprima da s chweicKard 2013. 12 Vi si legge (p. 537): «Dans les doc. anc. du Valais, le terme le plus courant pour désigner les crétins était simplex (comm. de g. g hiKa ). Dans V all., on les appelait Gauch (Schw. Id. II, 104), tandis qu’en V. d’Aoste et dans V Finh., distr. Entr. apparaît le synon. marn . Vers 1650, le docteur c onstantin a c astello , médecin officiel de la République du Valais, se sert d’un mot grec latinisé pour parler du crétinisme: moria (De antiquo et hodierno excelsae Vallesii reipublicae statu discursus brevis, ms. L 139, p. 34, 84, 153. AC Sion)». Lorenzo Tomasin 32 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 italiana nevato il DELI chiosa «campo di accumulo della neve nella parte più alta d’un ghiacciaio, al di sopra del limite delle nevi perpetue» e dà un es. da P. J ahier 1919, aggiungendo che «il DEI data la voce al 1807 [? ] senza indicare la fonte». Non chiarisce il quadro nemmeno il recente Etimologico, che riporta, s. neve, «nevàta s.f. [sec. XIV], femm. sost. di nevato, der. di neve» (ma con quale significato? ). Semanticamente, il termine appare affine al più comune nevaio, che è certo una formazione toscana (come garantisce il suffisso). Che tuttavia la voce in questione sia verosimilmente d’irradiazione francoprovenzale - ciò che, a differenza del francese, non è assicurato dalla fonomorfologia - par suggerito dalla prima occorrenza che ne rintraccio grazie a Internet, cioè la relazione di Felice Giordano (1825-92, torinese, co-fondatore del Club Alpino Italiano) di una Ascensione del Monbianco partendo dal versante italiano, pubblicata nel 1864 negli Atti della Società italiana di Scienze Naturali 7: 285-318. Il termine vi ricorre più volte, e alla prima occasione in cui appare (p. 292) è glossato e riportato in corsivo: «La neve granosa o nevato che ricopre gran parte del ghiacciaio tien bene i passi già scavati dalle guide». Verosimile, dunque, che si tratti di un termine che l’esperto alpinista riconosce come tipicamente locale. Precedenti a questa sono le occorrenze di un femminile nevata che parrebbe avere un significato identico. Così, nelle Nozioni di geologia di G. B arzanò pubblicate nel 1856 nella Rivista ginnasiale e delle scuole tecniche e reali 3: 74-92, a p. 89 si legge: Chiamansi ghiacciaj di primo ordine, quelli che si trovano presso le più alte montagne, e stanno nelle valli dominate da alture disposte in circolo, e poco inclinate, ove si raccolgono molte nevi. Quelli di secondo ordine sono posti sulle pianure delle alte sommità. Nei primi al disopra dei cerchi sta il campo di neve (firn dei Tedeschi) nei cerchi il nevajo o la nevata e al disotto di questi il ghiacciaio bolloso, indi il vero ghiaccio. Più generica, ma anteriore, l’occorrenza recuperabile in un resoconto d’una Esposizione di belle arti in Brera pubblicato sul Ricoglitore italiano e straniero, del 1837 (4/ 1: 398-411, a p. 406): «Giuseppe Elena ritrasse una scena delle Alpi, con nevate, ghiacciai, e l’effetto d’un temporale, che al merito della verità unisce quello del meraviglioso». Non è questa, verosimilmente, la trecentesca nevata richiamata dall’Etimologico, che tuttavia non sono riuscito a rintracciare, mancando esempi nel corpus dell’OVI: per nevata nel senso di ‘nevicata’ la V Crusca porta esempi a partire dal Vasari. 3. Un preteso elvetismo (e un’etimologia da ridiscutere): secchione Il termine italiano secchione ‘sgobbone’ è stato incluso da Ottavio Lurati fra i lessemi che sarebbero tipici dell’italiano regionale lombardo e ticinese in particolare. La spiegazione che egli ne dà, accolta con prudenza dal DELI e apparentemente convalidata anche dall’Etimologico, è così peculiare che merita riportarla per esteso (l urati 1976: 187-89): L’italiano dalla Svizzera 33 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 Termine dialettale che ha ampia fortuna anche «in lingua» è segiá ‘studiare molto’ e segión ‘allievo che studia molto’ (donde secchiare e secchione). La sua storia è gustosa. Per quanti sforzi si facciano (l’allievo sedulo è come una secchia da riempire oppure va continuamente al pozzo della scienza come una secchia ecc.) non si riesce a connetterlo con segia ‘secchia’. Anche nei termini paralleli per ‘essere un allievo diligente e applicato’ delle altre lingue non compare mai l’immagine della secchia, del recipiente. La coniazione nasce attorno agli inizi del nostro secolo ed è, dialettalmente, di tutta la Lombardia (Cherubini, Tiraboschi ecc. non la registrano proprio perché di data posteriore). La nostra proposta di interpretazione muove dal lomb., tic. ecc. sgamelá ‘sgobbare, lavorare molto’, che deriva da cámalo [sic], voce dialettale genovese (a sua volta dal turco) che indica ‘il facchino, l’uomo di fatica che carica e scarica le merci dalle navi nel porto di Genova’. Nel gergo e nell’espressione gergaleggiante sono frequentissimi i rifacimenti scherzosi ed espressivi basati sull’irradiazione sinonimica nel senso che ad una parola viene spesso sostituito un sinonimo. Ora in Lombardia (e in Ticino) sgamelá ‘lavorare moltissimo’ dovette venir trattato come se fosse da gamela ‘recipiente per il rancio dei soldati ecc.’ e scherzosamente si dovette passare ad altro, più grande recipiente: la segia ‘il secchio’: nasceva così segiá ‘sgobbare, lavorare’, donde poi segión ‘sgobbone’ con -one non aumentativo, ma derivativo di verbo come in brontolone, imbroglione, chiacchierone, ecc. Lo sviluppo è insomma sgamelá ‘lavorare molto’ con gamela che richiama segia > segiá. Questa interpretazione è appoggiata oltre che dalla riconduzione a uno dei procedimenti più usuali del gergo, da un fatto areale: segiá ‘lavorare molto’ compare esclusivamente nell’area di sgamelá ‘sgobbare’: solo lì era possibile il giuoco sinonimico tra gamela e segia! Questo non impedisce che, a posteriori, a giuochi fatti, ci si possa vedere, sincronicamente, l’immagine della «secchia». Ma è lectio facilior. Che la ricostruzione di Lurati sia tanto ingegnosa quanto difettosa perché decisamente antieconomica appare suggerito già da alcuni marginali, ma evidenti problemi: la voce genovese da cui partirebbe la spericolata trafila è in effetti camàlo e non «cámalo», e si tratta di un arabismo e non di un turchismo: basti il richiamo a P ellegrini 1972: 435-36; ancora, il verbo genovese che ne deriva, registrato dal c asaccia 1851 e riferito dallo stesso Pellegrini, è camallà non sgamelà. Indipendentemente da questo, una spiegazione della voce la cui linearità e semplicità mi paiono ben più economiche e prudenti è offerta da quello che se non m’inganno è l’esempio cronologicamente più alto fra quelli disponibili 13 , nel GDLI alla voce secchione, 5 («chi si dà esageratamente da fare per concludere un affare e conseguire un utile economico»), e cioè una delle Voci e maniere del parlar fiorentino di Pietro f anfani 1870: 167: «Suol dirsi dal popolo che uno fa la parte del secchione allorché si affanna andando su e giù brigando per qualche fine di guadagno». L’analogo far come le secchie ‘di chi va continuamente attorno’ è addirittura di Crusca (e già della prima impressione, s. secchia). 13 In un intervento successivo a quello sopra citato, l urati 1987 datava al 1907 la presenza dell’espressione nell’italiano regionale lombardo e al 1920 in quello triestino, pur senza fornire rinvii precisi. Lorenzo Tomasin 34 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 Da questo significato, e in particolare dall’espressione riportata da Fanfani, a quello di ‘sgobbone’, con esempi a partire da Bacchelli, il passo non sembra poi così lungo. E se anche si volesse ammettere che l’uso nel gergo scolastico origini in Lombardia, i dizionari dialettali ottocenteschi in cui Lurati notava l’assenza del referto non sono in realtà completamente muti: già il Vocabolario bresciano e toscano di Bartolommeo P ellizzari 1759 riporta «Fà côme i seció de S. Piéro. Fare come le secchie. Andare continuamente attorno» (p. 112) 14 . L’immagine del secchione (con suffisso comunissimo per la denominazione italiana del secchio del pozzo 15 ) in movimento come metafora del lavoro indefesso appare dunque già ben diffusa, perlomeno in età moderna, in un’area piuttosto vasta. Aggiungeremo, per corredare la scheda di un ulteriore dettaglio demopsicologico, che lo stesso oggetto come figurante di operosità pertinace ricorre in espressioni tipiche di varie lingue. Si pensi al corrispondente del proverbio italiano sulla gatta e sul lardo, che in lingue sia romanze, sia non romanze (così in francese, provenzale, catalano, spagnolo, e in tedesco) richiama appunto il ‘secchione’ (cf. t omasin 2015: 284): tant va la cruche à l’eau qu’à la fin elle se casse; tanto va el cántaro a la fuente que al final se rompe; Der Krug geht so lange zum Brunnen bis er bricht, etc. 4. Parole d’autore Di matrice ben diversa dai termini fin qui passati in rassegna sono i tecnicismi coniati da scienziati e letterati svizzeri in età moderna e contemporanea. Si tratta di latinismi o grecismi introdotti ora in tedesco, ora in francese, ora in latino: tale è il caso, ad esempio, di tecnicismi psichiatrici e medici come autismo e schizofrenia (entrambi si devono allo psichiatra zurighese Eugen Bleuler (1857-1939), che scriveva in tedesco all’inizio del secolo XX), o del più antico onanismo, coniato dal medico vodese Samuel-Auguste Tissot (1728-97) nella seconda metà del Settecento, per il quale i lessici citano la Dissertation sur les maladies produites par la masturbation intitolata appunto L’onanisme, pubblicata per la prima volta a Losanna nel 1760. Alle scienze naturali appartiene il termine ozono (significativo per la lessicografia italiana, perché ad esso come è noto si arrestò la quinta e ultima impressione della Crusca), introdotto nel 1840 dallo scienziato tedesco-svizzero (perché nato in Germania, mentre il DELI lo qualifica semplicemente come «svizzero») Christian-Friedrich Schönbein (1799- 1866) in un articolo pubblicato nella «Bibliothèque universelle de Genève» nel 1840; 14 Il modo di dire sembra schiettamente bresciano solo limitatamente all’allusione al pozzo del convento di San Pietro, alla cui carrucola - come peraltro in molti casi simili - si trovavano appesi due secchi, di modo che mentre l’uno saliva, l’altro scendeva, cosicché ancora in anni recenti di due persone in disaccordo si dice a Brescia che «i va d’acorde come i siciù de San Piero» (B igna mi / P edersoli / r icardi 2002: 82). 15 Un secchione è quello attaccato alla carrucola di un pozzo già nella novella di Andreuccio da Perugia nel Decameron (2.5). L’italiano dalla Svizzera 35 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 ancora, secondo il DELI micella ‘particella, aggregato di molecole’ fu coniato dal botanico zurighese Karl Nägeli (1817-91): e in effetti in generale a lui la bibliografia scientifica attribuisce termine e concetto (cf. ad es. r andall / c ann 1930), di cui trovo un’esposizione in n ägeli 1884, opera che guadagnò al suo autore la fama di antagonista germanico di Darwin, e che a quanto pare influenzò Nietzsche 16 . Allo stesso DELI si deve la segnalazione dell’aggettivo interglaciale, tecnicismo della geologia, come conio del sangallese Oswald Heer (1809-83) nel suo volume Die Urwelt der Schweiz (1865). Alla linguistica è passato, provenendo dalla medicina, il termine semiologia, introdotto come è noto da Ferdinand de Saussure nel Cours de linguistique générale. La data 1906 indicata dal GDLI sarà influenzata dalla formulazione di d e f elice 1984, che parlava dei «corsi di Ginevra dal 1906 al 1911»; e la frase è riportata anche dal DELI; ma la datazione più corretta sarà, ovviamente, il 1916, anno di uscita del Cours. Una particolare fortuna nell’uso comune ha poi conosciuto il termine nostalgia, coniato nel 1688 dall’alsaziano di Mulhouse Johannes Hofer, studente all’università di Basilea: nella sua tesi, Hofer si occupava della «malattia che coglieva non di rado gli svizzeri durante il loro servizio militare in eserciti stranieri. Nella tesi latina il nome popolare di Heimweh ‘dolore, male della patria’ sembrò al laureando o ai suoi maestri troppo poco solenne, ed egli pensò di fare quel che spessissimo si fa nel completare la terminologia medica: lo tradusse in greco»: così Bruno m igliorini 1968: 141, autore di un esemplare profilo della storia di nostalgia e nostalgico - la cui origine era stata individuata già da Fritz e rnst 1949 -, termini destinati ad uscire dagli ambienti medici negli ultimi decenni dell’Ottocento. 5. Denominazioni commerciali Affini alle denominazioni scientifiche, perché di solito databili con precisione e ben circoscrivibili nella loro origine, sono alcuni nomi commerciali e marchionimi, come cellophane, brevetto depositato nel 1908 da Jacques Edwin Brandenberger (1872- 1954); in italiano il termine viene spesso adattato (da cèllofan a cellofane, -o), mostrando un caso esemplare di transito dal nome proprio al nome comune 17 . Un brevetto svizzero è anche meta (trattato come femminile in italiano, come maschile in fr. méta), nome commerciale della metaldeide, un polimero usato come combustibile: a depositarlo nel 1924 furono Emil Lüscher e Heinrich Steiger. 16 Cf. e mden 2014: 34. Come spiega e lias 1985: 12, il termine non ha conservato il significato originariamente datogli da Nägeli, e «bedeutet heute wieder etwas anderes, nämlich eine mehr oder weniger geordnete physikalische Zusammenlagerung kleiner Moleküle ohne Ausbildung chemischer Bindungen». 17 Sul termine si soffermava infatti m igliorini 1975a: 29. Lorenzo Tomasin 36 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 Appartiene infine a questa categoria l’it. fon ‘asciugacapelli’, ted. Föhn, poi nome commerciale di un modello divenuto per antonomasia nome dell’oggetto nell’italiano del Ticino, e di qui in quello comune 18 . Affini a quest’ultimo gruppo sono i nomi commerciali che ripetono toponimi elvetici. Banale è il caso di emmental, la cui provenienza elvetica è fuori discussione, mentre per sbrinz la lessicografia etimologica italiana continua a riportare una spiegazione che è stata persuasivamente respinta dall’Idiotikon: il nome non verrebbe in effetti dal toponimo Brienz, nel canton Berna, come afferma il DELI (e prima già il VEI), bensì sarebbe da accostare ai molti analoghi nomi di formaggi (di solito senza s-) diffusi nell’Europa sudorientale (romeno brinza, dalmatico brenza, austriaco Brimsenkäs); essendo sbrinzo una denominazione attestata in vari dialetti italiani già nell’Ottocento (Cherubini, Sant’Albino), lo stesso Idiotikon propone il termine come un Alpenwort, da collegare forse a REW 1272 * Brancia ‘ramo’ (SchwId 10: 925). Quanto a groviera (possibile adattamento non della forma francese Gruyère ma di quella francoprovenzale locale grevire 19 ), quest’altra denominazione è oggetto recente di una controversia internazionale. Il formaggio caratteristico del borgo friburghese di Gruyères è da tempo imitato, in Francia, da un prodotto che in base a un recente accordo bilaterale tra Svizzera e Unione Europea può essere commercializzato sotto il nome di Gruyère a patto che possegga determinati caratteri fisici - in particolare i buchi - che lo rendano ben distinguibile dall’omonimo svizzero (che oggi non ha buchi). La normativa comunitaria europea (Règlement d’exécution 110/ 2013) che mette fine alla lunga vertenza risale a pochi anni fa, ma nel frattempo sembra che l’uso italiano alluda a un prodotto più simile a quello attualmente realizzato in Francia che a quello svizzero, visto che il significato che normalmente si dà al termine in italiano a groviera (o gruviera, o più raramente gruera) è quello di ‘formaggio dolce a pasta dura, caratteristico per i suoi buchi’ (DELI). Dato che del gruera come formaggio bucato parla già il dizionario piemontese dello z alli 1830 s. eui ‘occhio’ (a proposito degli ‘occhi’ della sua pasta, appunto), e che Formaj de Grujèr è attestato già nella prima metà dell’Ottocento dal c heruBini 1840 s. formaj, è probabile che in Piemonte e in Lombardia il prodotto sia sceso dalla Svizzera quando ancora l’imitazione francese non s’era affermata (anche se il Cherubini non dà indicazioni sull’aspetto del prodotto), ma in una versione simile a quella attualmente prodotta in Francia. Cioè appunto con i buchi, che il parallelo esempio dell’emmental spinse poi, nell’italiano comune, ad essere considerati connotati tipici dei prodotti caseari svizzeri. 18 Del termine si occupò m igliorini 1975b: 56-57, parlando del «piccolo elettrodomestico di toletta che soffia aria calda - quello che i parrucchieri chiamano abusivamente fon», raccomandandone senza successo la sostituzione con l’etimologico favonio. 19 Devo il suggerimento ad Andres Kristol, che ringrazio. L’italiano dalla Svizzera 37 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 6. Conclusioni Nelle pagine che precedono si sono proposte una classificazione tipologica e un’indagine storico-etimologica di una porzione del lessico italiano cui sino ad ora erano rivolte rare indagini complessive, che si devono soprattutto ad approcci di tipo sociolinguistico. Ne emerge un profilo del contributo elvetico alla formazione del lessico italiano di uso comune. Nell’italiano contemporaneo è possibile - anche se non sempre agevole - individuare un cospicuo insieme di regionalismi, cioè di unità lessicali o di forme fonomorfologiche che, in origine impiegate solo in un’area geografica particolare, fanno parte attualmente del lessico condiviso dalla pluricentrica totalità del dominio linguistico italoromanzo 20 . Sebbene tale processo conosca anche stagioni più antiche, il periodo più spesso indagato per questo fenomeno è quello otto-novecentesco, in cui è possibile tracciare con una certa sicurezza il percorso che ha condotto numerosi termini dialettali, o voci dell’italiano regionale, ad allargare i confini del loro uso divenendo elementi non più connotati (o poco connotati) diatopicamente 21 . Il periodo postunitario è in effetti quello in cui da un lato l’italiano comune, emancipandosi dal dominante - se pure non esclusivo - uso letterario, attinge a una più ampia gamma di varietà, e da un altro le accresciute occasioni di contatto tra lingua e dialetti favoriscono non solo la ben nota italianizzazione di questi, ma anche quella che è stata chiamata la dialettizzazione dell’italiano comune, il quale s’arricchisce così di una quantità cospicua di termini di provenienza locale 22 . Dato il ridottissimo numero di ticinesismi accolti dall’italiano comune che abbiamo potuto rilevare in questo studio, l’area svizzera italiana sembra partecipare in misura molto limitata al fenomeno cui abbiamo appena accennato. È una conseguenza della separatezza storico-politica della storia ticinese recente da quella dell’Italia politicamente unificata? Probabile; ma è evidente che la Svizzera italiana è pur sempre di un’area territorialmente e demograficamente esigua rispetto alla totalità del dominio linguistico italiano, e soprattutto che essa è parte integrante di una regione linguistica lombarda, il cui contributo all’italiano comune postunitario è tutt’altro che trascurabile, e spesso difficilmente sceverabile in singoli distretti di provenienza (pur essendo scontato il ruolo radiante della metropoli milanese). È comunque certo che le vicende storico-politiche hanno favorito più la distinzione dell’italiano della Svizzera da quello comune all’Italia unificata che l’irradiazione di un lessico italiano dalla Svizzera italiana verso la lingua comune: ciò ben si riflette nel valore che il termine elvetismo, come abbiamo visto, ha di norma negli studi linguistici italiani (elemento proprio dell’uso svizzero, piuttosto che elemento svizzero entrato nel patrimonio comune). 20 Sui regionalismi dell’italiano si veda da ultimo t rifone 2010: 155-90. 21 Ibid.: 157: «la maggioranza delle parole italiane di matrice dialettale o regionale risale al periodo postunitario, in rapporto a un progressivo ammorbidimento dei vincoli normativi». 22 Sul fenomeno si sofferma a Volio 1994: 563. Lorenzo Tomasin 38 Vox Romanica 76 (2017): 24-40 DOI 10.2357/ VOX-2017-002 Se dunque proprio al periodo otto-novecentesco risale l’entrata in italiano di molti dei termini di cui abbiamo parlato in queste pagine, è significativo che si tratta nella maggior parte di casi non di regionalismi, ma piuttosto di tecnicismi internazionali, dei quali la Svizzera si rivela, per l’italiano, un fornitore generoso. Se tali termini delle scienze, delle tecniche e del commercio vengono originariamente coniati, com’è ovvio, ora in tedesco ora in francese, il loro processo di naturalizzazione in altre lingue sembra prolungare una tendenza propria dell’area di cui ci occupiamo qui, e già evidente in fasi più antiche della sua storia: la tendenza, cioè, a far da ponte e da naturale luogo d’interscambio fra le grandi regioni linguistiche sul cui crocevia essa si situa. 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