Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2018-019
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2018
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Kristol De Stefani†Eduardo Blasco Ferrer/†Peter Koch/Daniela Marzo (ed.), Manuale di linguistica sarda, Berlin/Boston (de Gruyter) 2017, xv + 573 p. (Manuals of Romance Linguistics 15)
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2018
Giovanni Lupinu https://orcid.org/0000-0001-9916-1127
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294 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 Pour ne pas conclure, mais seulement ouvrir des perspectives de lecture pour cet ouvrage, nous pouvons constater que le Dictionnaire de terminologie sociolinguistique présenté dans ces lignes est un outil précieux pour les spécialistes. Tout d’abord, l’effort de l’auteure de synthétiser toute l’information scientifique dans le domaine est salutaire, tout en générant un travail lexicographique actualisé, avec les plus importants concepts opérationnels utilisés dans la sociolinguistique contemporaine. L’avantage d’«un regard périphérique» sur la littérature du domaine, soutenu de près, cependant, par la «vigilance» épistémique et éditoriale de quelques noms «centraux» dans le domaine, comme J.-M. Eloy et A. Kristol, a comme principal résultat une radiographie compréhensive de l’état des choses en sociolinguistique, qualité soutenue aussi par la présence d’une Annexe à la fin de l’ouvrage, où sont présentés quelques «sociolinguistes marquants du XX e siècle». En outre, une lecture attentive de cette radiographie met en exergue un aspect fondamental pour le statut même de la sociolinguistique: l’existence de cette «inflation» terminologique rapportée tout au long de cette présentation par rapport à certains champs conceptuels montre tout simplement que la sociolinguistique a dépassé le stade naissant et incertain du «début de chemin» et se trouve déjà dans la période de sa maturité, avec une pléthore de perspectives analytiques qui conduisent naturellement à une redondance terminologique. Enfin, la valeur de cet ouvrage est donnée aussi par le fait que, par sa publication, nous pensons que même la sociolinguistique roumaine est entrée dans une phase de maturité, tant au niveau conceptuel qu’au niveau terminologique: si sur le plan conceptuel, on peut citer déjà, comme «jalons», les volumes signés par R. Liliana, D. Chitoran, Sociolingvistica actual ă (1975), par M. Ciolac, Sociolingvistic ă româneasc ă (1999) et par F.-T. Olariu, Varia ţ ie ş i variet ăţ i în limba român ă. Studii de dialectologie ş i sociolingvistic ă (2017), au niveau terminologique ces jalons sont représentés par Le glossaire présent dans le volume de référence rapporté ci-dessus de 1975, après par le volume de L. Colesnic-Codreanca, Sociolingvistica. Mic dic ţ ionar terminologic (2002) et, enfin par le travail de C. Ungureanu, Dic ţ ionar de terminologie sociolingvistic ă, un ouvrage qui impose par le volume de données (599 entrées), l’effort bibliographique (1003 références) et la précision éditoriale. Veronica Olariu https: / / orcid.org/ 0000-0002-1449-3761 Italoromania †Eduardo Blasco Ferrer/ †Peter Koch/ Daniela Marzo (ed.), Manuale di linguistica sarda, Berlin/ Boston (de Gruyter) 2017, xv + 573 p. (Manuals of Romance Linguistics 15) Il Manuale di linguistica sarda che recensiamo fa parte della collana Manuals of Romance Linguistics e si propone quale «lavoro di riferimento obbligato per chiunque si occupi della lingua e della linguistica sarda», come si legge nella quarta di copertina. Contiene un’introduzione (1-11) di E. Blasco Ferrer e D. Marzo, seguita da 30 contributi scritti da 24 autori e appartient au comportement linguistique» (cf. roum. norm ă) est d’une importance majeure pour l’acceptation de ce terme en roumain, vu que dans la plupart des situations les deux termes étaient considérés comme des synonymes parfaits, le terme langajier étant perçu le plus souvent comme un xénisme redondant dans la terminologie linguistique roumaine. 294 307 019 295 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 divisi in due grandi sezioni: Aspetti esterni (13-248) e Aspetti interni (249-524). La prima parte, sugli Aspetti esterni, è a sua volta articolata in due sottosezioni: La situazione linguistica in Sardegna (15-66), con tre articoli, e Storia esterna della lingua (67-248), con undici articoli. Nella seconda parte, sugli Aspetti interni, troviamo poi cinque sottosezioni: Documentazione (251-302), con tre articoli, Tipologia del sardo (303-19), con un unico articolo, I livelli d’analisi linguistica nelle macrovarietà del sardo (320-430), con sei articoli, Le varietà alloglotte della Sardegna (431-45), con tre articoli, Le dinamiche linguistiche attuali (476-524), con tre articoli. Chiudono il volume un’Appendice cartografica (525-65) curata da Alessandro Pintus e un Indice dei fenomeni e delle forme notevoli (566-73). Dapprima esporremo alcune considerazioni generali sull’opera, quindi ci soffermeremo sui singoli contributi, e prevalentemente su quelli che ci paiono più meritevoli di precisazioni o rilievi, avvertendo che il lavoro in esame si presterebbe, per complessità ed estensione, ad annotazioni assai più ampie. La prima circostanza da porre in risalto è che, mentre una parte dei capitoli si confà a un’impostazione prettamente «manualistica», cioè mira a esporre lo «stato dell’arte», un’altra parte - vedremo - se ne discosta perché vi sono illustrate e difese (anche con toni polemici) posizioni che sono sostanzialmente quelle di chi scrive. Rileviamo poi che l’opera è carente di quegli interventi editoriali e redazionali che avrebbero dovuto prevedere e garantire una ragionevole uniformità di usi da parte degli autori; è assente inoltre un’adeguata revisione finale. Il primo aspetto si manifesta, nel modo più evidente, nella mancata adozione di un criterio univoco di trascrizione del sardo e delle altre varietà linguistiche della Sardegna, come mostreremo nel dettaglio per gli aspetti più problematici: per ora, segnaliamo che, oltre all’IPA, sono stati utilizzati diversi altri sistemi grafici, più o meno esplicitamente definiti, e in alcuni casi si è rinunciato all’impiego di una qualsivoglia notazione fonetica. Quanto al secondo aspetto, una rilettura attenta del volume avrebbe certamente sanato sviste di vario calibro: giusto per indicarne qualcuna, menzioniamo l’uso di «spento» (60) come participio passato di spendere; l’impiego della minuscola nel genitivo dell’espressione «exercitus dei» (123); l’uso di «nesso» per esito nella frase «Il nesso tipico sardo di s + / j/ è una sibilante sonora» (130); il mancato utilizzo dell’articolo determinativo in frasi quali «Negli stessi anni anche [il] prof. Pittau … faceva largo uso del sardo» (237); l’uso di «bensì» (266) per benché, o di «precisioni» (384) per precisazioni; l’impiego dell’espressione «uso oscillato» (488) per uso oscillante; la grafia Lörinczi, ripetuta svariate volte lungo tutto il volume, per il cognome ungherese della linguista Marinella L ő rinczi (mai scritto correttamente). Altro aspetto generale sul quale ci soffermiamo brevemente è che, anche riguardo ai contenuti, non si rileva un’efficace strategia di raccordo fra i diversi capitoli. Ciò è evidente, ad es., negli articoli dedicati al «Superstrato catalano» (150-67), di Marcello Barbato, e al «Superstrato spagnolo» (168-83), di Maurizio Virdis: il secondo, infatti, ripete a breve distanza una serie di informazioni già fornite nel primo, come quelle relative ai tempi e ai modi della sostituzione del catalano con il castigliano, o alla diffusione geografica delle voci catalane rispetto a quelle castigliane. Per ciò che concerne l’architettura del lavoro, a nostro avviso sarebbe stato opportuno dedicare un capitolo all’onomastica, più coerente con un’opera di questo tipo rispetto, ad es., a quello di Paola Pittalis «Il sardo come lingua letteraria» (217-31) che, contrariamente a quan- 296 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 to annunciato dal titolo, rinuncia a ogni notazione linguistica e, nel tentativo di riassumere in poche pagine una materia vastissima, si riduce giocoforza a una rassegna cursoria di autori e opere; o, ancora, rispetto a quello di Oreste Pili «Il ruolo del sardo nei mass media e nelle istituzioni pubbliche» (232-48), che assume i toni più di uno scritto polemico che di un articolo scientifico, come mostrano pure alcune discutibili scelte lessicali (es.: «la prima generazione vittima del proibizionismo [linguistico], fattasi adulta, collaborò, con rare eccezioni, più o meno inconsciamente con lo Stato, facendosi così a sua volta boia delle generazioni successive», 233). Venendo ora ai singoli contributi, cominciamo dall’introduzione (1-11) di E. Blasco Ferrer e D. Marzo, ove si propone una sorta di breve storia della linguistica sarda costruita intorno alla figura di Max Leopold Wagner, «il Maestro» (2), la cui opera è vista come lo spartiacque fra «precursori» (1) ed «eredi» (3). Una simile prospettiva «teleologica», accompagnata da una diffusa intenzione valutativa degli autori piuttosto che delle opere, ci appare antistorica, nel senso che decontestualizza i singoli lavori dal periodo in cui videro la luce e li incasella in relazione a una fase di asserita «piena maturità scientifica nella ricerca sul sardo» (2): anche l’opera di uno studioso straordinario come Wagner non può essere assunta, metastoricamente, a pietra di paragone per tutto ciò che è venuto prima e dopo di essa. Seguono quindi tre contributi che hanno valenza propriamente manualistica (almeno, stando alle consuetudini italiane), nel senso che fanno il punto sui rispettivi argomenti: «Storia delle indagini e delle classificazioni» (15-30), di Lucia Molinu e Franck Floricic, ove «si riassumono le principali posizioni che riguardano il problema spinoso della classificazione dialettale del sardo» (15); «Sociolinguistica e vitalità del sardo» (31-44), di Rosita Rindler Schjerve, che «fornisce una panoramica sociolinguistica della vitalità e del degrado del sardo dal medioevo fino a oggi» (31); «La questione ‹de sa limba/ lìngua sarda›: Storia e attualità» (45-66) di Daniela Marzo, che offre un resoconto sulle problematiche connesse alla normazione e normalizzazione del sardo, inquadrando il discorso in un appropriato contesto teorico. Un discorso più approfondito merita il contributo «Paleosardo: Sostrati e toponomastica» (67-84) di Eduardo Blasco Ferrer, nel quale l’autore, dopo alcune considerazioni preliminari sulla nozione di sostrato e sull’ausilio che discipline quali l’archeologia preistorica e la genetica possono offrire agli studi linguistici, passa rapidamente in rassegna le ricerche precedenti, salvo poi rivendicare con accenti polemici la giustezza della propria personale posizione, formulata nel modo più organico in una monografia del 2010 1 . In sostanza, muovendo soprattutto dall’analisi di numerosi microtoponimi della Sardegna centro-orientale di presunta origine preromana, Blasco Ferrer ipotizza che il paleosardo fosse una lingua di tipo agglutinante. Individua così «una trentina di basi produttive paleosarde, che unite fra di loro producono centinaia di composti con radici agglutinate» (76-77): sono proposte basi monosillabiche tipo lok, ol, otz (alcune delle quali presenterebbero allomorfi, spiegati di volta in volta invocando processi assimilatori o dissimilatori, prostesi etc.), che possono ricorrere in derivati a mezzo di «suffissi produttivi», tipo lok-ele, ol-ai, ol-è, o anche in composti, tipo lok-ol-ai o lok-otz-ai (77). Compiuta questa operazione, l’autore afferma che «diverse basi riscontrate per il paleosardo coincidono appieno con basi paleobasche riscontrate recentemente dall’allievo di Luis 1 Blasco Ferrer, E. 2010: Paleosardo. Le radici linguistiche della Sardegna neolitica, Berlin/ New York. 297 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 Michelena … Joseba Lakarra» (78), ciò che trarrebbe conferma dal «collaudo referenziale sistematico [effettuato] esplorando le caratteristiche geomorfologiche più evidenti plausibilmente espresse dalle radici ricostruite» (76). La conclusione è la seguente: emerge limpidamente la netta deduzione che il paleosardo costituisca un ramo indipendente dell’antenato paleobasco che dette vita all’aquitano e alle varietà basche odierne. Le molteplici testimonianze toponomastiche restituiscono un nucleo solido di strutture che combaciano perfettamente, nella forma e nel significato, con strutture basche, del passato remoto e del presente. Una giustificazione possibile di questi fatti è appunto che per via d’una colonizzazione primitiva della Sardegna, già prima del Neolitico (VII/ VI millennio a.C.), un gruppo di protobaschi sia giunto nell’Isola e, per affinità antropologica (cultura pastorale d’altura), si sia insediato tra i picchi del Gennargentu e il mare. Nei millenni a seguire l’input linguistico s’è trasformato secondo il modello di origine, enucleando anche dei mutamenti propri, come in ogni area laterale. (80) In un lavoro pubblicato nel 2013, non citato nel contributo di cui ci stiamo occupando ma ospitato in un volume curato dallo stesso Blasco Ferrer, è stato proprio Lakarra a indicare le fragilità di una simile costruzione: a parte le obiezioni più minute, anch’esse dirimenti, esistono gravi problemi di metodo. Se, infatti, un gruppo di «protobaschi» giunse in Sardegna «già prima del Neolitico», è «absolutamente arbitrario o irrelevante defender que hay pocos o muchos términos vascos y (paleo)sardos que coinciden o se asemejan en forma y significado aun después de muchos milenios… en ocasiones después de cambios históricos o protohistóricos - posteriores al cambio de Era - en vasco» 2 . Dunque, o si riesce a stabilire un sistema di corrispondenze fonetiche regolari che consentano di mettere in relazione (paleo)basco e (paleo) sardo, costruendo una solida rete di forme omologhe, o altrimenti il rischio di casuali omofonie sconsiglia di avventurarsi su sentieri tanto impervi. Segue quindi nel volume l’articolo «Il latino e la romanizzazione» (85-103), sempre di E. Blasco Ferrer, in cui si riscontrano numerose imprecisioni, anche di carattere storico. Per es., l’autore riferisce che la Sardegna fu «[e]saltata da Varrone come una delle tria frumentaria rei publicae dell’Impero» (86): affermazione nella quale si confonde Varrone con Cicerone (De imp. Cn. Pompei 12, 34), si scrive «tria frumentaria» (reso col femminile in italiano) per tria frumentaria subsidia, e si parla a sproposito di Impero. O ancora, si menziona a più riprese la «massiccia deportazione di liberti africani in Sardegna durante il principato di Tiberio» (86), cui si connette l’approdo in Sardegna del termine kenápura e simm. ‘venerdì’ 3 : in realtà, le fonti storiche riferiscono che nel 19 d.C. 4000 liberti di religione ebraica furono espulsi da Roma e inviati nell’isola per combattervi il brigantaggio, ma non specificano che fossero africani (in ogni caso, si trattò di un episodio militare di breve durata) 4 . Quanto poi alla peculiare 2 Lakarra, J. 2013: «Protovasco: comparación y reconstrucción… ¿para qué y cómo? (Por una vascología autocentrada, no ensimismada)», in: E. Blasco Ferrer/ P. Francalacci/ A. Nocentini/ G. Tanda, Iberia e Sardegna. Legami linguistici, archeologici e genetici dal Mesolitico all’Età del Bronzo, Firenze: 143. 3 Per trascrivere il sardo adottiamo una notazione fonetica semplificata. 4 Cf. Marasco, G. 1991: «Tiberio e l’esilio degli Ebrei in Sardegna nel 19 d.C.», in: A. Mastino (ed.), L’Africa romana. Atti dell’VIII convegno di studio (Cagliari, 14-16 dicembre 1990), Sassari: 649-59. 298 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 denominazione sarda del venerdì - che deriva dal lat. cenā purā (in caso ablativo), sintagma adoperato dagli Ebrei latinofoni e in séguito dalle prime comunità cristiane dell’Africa romana per indicare la festa ebraica della vigilia del sabato - è assai verosimile che, essa sì, sia giunta nell’isola proprio dall’Africa, ma alcuni secoli più tardi, verosimilmente in età vandalica (quando è ampiamente documentata una consistente deportazione di vescovi e di clero cattolici da parte dei sovrani vandali, schierati a favore dell’eresia ariana) 5 . Ancora, è azzardato sostenere che, «verosimilmente dopo la campagna definitiva di M. Cecilio Metello nel 111 a.C., la Barbagia era interamente romanizzata» (100): occorre invece spostare questi eventi alla prima età imperiale, come rilevava puntualmente Wagner e confermano anche gli studi più recenti 6 . L’articolo inoltre, «con lo scopo di offrire un quadro organico di specificità linguistiche proprie del latino di Sardegna» (89), presenta in modo sin troppo cursorio una serie di dati su lessico, fonetica, morfosintassi, congiunzioni, ordine e formazione delle parole (89-99). Nella sintesi si incontrano, al fianco di affermazioni impegnative che avrebbero meritato maggiori chiarimenti, alcuni evidenti errori: ad es., si legge che «[i]n campidanese, la chiusura delle vocali finali [si verificò] attorno al VI sec. (per probabile influsso bizantino)» (92), ma non si fornisce al lettore alcun elemento per valutare su cosa si basi questa ipotesi, fermo restando che è inappropriato il riferimento al «campidanese» in un orizzonte cronologico di VI sec.; si asserisce che «apem» ha per esito «camp. [ˈa β i] … ‘uccello’» (93), mentre in realtà vale ‘ape’; si afferma che «[p]er il relativo spicca il mantenimento di cuius in log.: cujus est ‘di chi è? ’» (97), ma nell’esempio allegato si trova un interrogativo. Inoltre, a proposito di cuiu (così, senza -s finale, già nei testi medievali), sarebbe stato bene precisare, con Wagner, che «si usava in sardo ant. come relativo possessivo e concordante nel genere e nel numero con il sostantivo al quale si riferiva», mentre «[c]ome pronome interrogativo possessivo si mantiene nei dialetti centrali, dove si dice: kúyu est kustu pittsínnu? ; kúya est kusta pittsínna? … Ma oggi si dice spesso anche de kíe est? , come nel resto del log.» 7 . Si presta a interessanti considerazioni anche il quadro proposto da Blasco Ferrer riguardo alla latinizzazione dell’isola. Sin dall’introduzione si legge che già nel 1928 Wagner avrebbe dimostrato che «la bipartizione tra logudorese e campidanese è in fondo riconducibile a diverse ondate di latino (ĭānua/ ĭēnua, fŭrnus/ fŏrnus, īlex/ ēlex)» (3) 8 ; occorre però precisare che lo studioso tedesco, pur cogliendo in taluni casi differenze dialettali riconducibili a strati di latinità di periodi diversi, sostenne in generale l’assunto di uno sviluppo fondamentalmente unitario, soprattutto dal punto di vista fonetico, delle varietà sarde sino a dopo il Mille 9 . L’idea che «diverse ondate e norme del latino siano penetrate in Sardegna, dando vita 5 Per un esame della questione rinviamo a Lupinu, G. 2000: Latino epigrafico della Sardegna. Aspetti fonetici, Nuoro: 20-22. Cf. anche Maninchedda, P. 2012: Medioevo latino e volgare in Sardegna, Cagliari: 36. 6 Cf. Wagner, M. L. [1950]: La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Berna: 61, 96; Mastino, A. (ed.) 2005: Storia della Sardegna antica, Nuoro: 171. 7 DES 1: 423. 8 L’opera cui si fa riferimento è Wagner, M. L. 1928: «La stratificazione del lessico sardo», RLiR 4: 1-61. 9 Cf. Wagner, M. L. 1941: Historische Lautlehre des Sardischen, Halle (Saale): §486-87. Si vedano anche, a proposito del pensiero dello studioso tedesco, le considerazioni espresse nel capitolo «Storia 299 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 poi a due macrovarietà» (87), ossia che quella che è indicata come bipartizione fondamentale del sardoromanzo risalga all’epoca della dominazione romana, è, dunque, di Blasco Ferrer e non di Wagner, ed è stata messa a punto dallo studioso catalano già in un lavoro del 1989 10 . In sintesi, si ipotizza «una sequenza temporale tripartita» (101) nella romanizzazione linguistica dell’isola: avremmo così una prima ondata di latinità, di stampo africano, che «investì globalmente l’Isola e si consolidò nelle aree centrali tra il III/ II sec. a.C. e il I sec. a.C./ I d.C.»; una seconda ondata, «poco definita sul piano geolinguistico» e collocabile fra il I sec. a.C./ I d.C. e la fine dell’Impero, che investì il Campidano; infine, una terza «ondata parziale campana», tra il II e il IV sec. d.C., cui si imputa la «latinizzazione tarda dell’Ogliastra» (100). Occorre osservare che il quadro così proposto è del tutto ipotetico: quando non forza la cornice storica dei fatti (come si è visto, ad es., per la romanizzazione della Barbagia), l’autore congettura accadimenti - quali la «presenza più cospicua di personale militare di origine campana» (100) in Ogliastra, responsabile della (ri)latinizzazione di questa regione - soltanto sulla base di ragionamenti di carattere ricostruttivo, per giunta largamente opinabili e non cogenti neppure in un’ottica strettamente linguistica. Per es., si legge: «Lo sfruttamento massiccio di grano e di metalli nel Campidano andò di pari passo con una presenza continua di personale, e ciò spiega bene il ricambio costante di strutture (cantaret > cantavisset, face > fac sono le più chiare)» (100). Di fatto, è molto improbabile che la differenziazione fra area logudorese-nuorese, con congiuntivo imperfetto tipo kantáret, e area campidanese, con il tipo kantéssit, rifletta due strati successivi di latinità: in particolare, per il secondo tipo è preferibile ipotizzare, stante anche la testimonianza dei testi medievali, che sia sorto per influsso toscano o catalano e che, dunque, non rappresenti la continuazione diretta del piuccheperfetto congiuntivo latino 11 . L’articolo successivo, di Giulio Paulis, è intitolato «Greco e superstrati primari» (104-18): consegna una sintesi chiara e aggiornata sull’apporto che il greco bizantino offrì al sardo nei secoli cruciali lungo i quali si compì la gestazione del volgare romanzo dell’isola che apparirà nei primi documenti dopo il Mille. Integrando e correggendo l’opinione di Wagner, incline a ritenere l’influsso medioellenico sul sardo in generale esiguo e limitato agli ambienti elevati dell’amministrazione imperiale e della Chiesa, l’autore ritiene che l’influsso di Bisanzio in Sardegna, pur manifestando le caratteristiche di una «bizantinizzazione» culturale piuttosto che di una «ellenizzazione» linguistica, non di meno riuscì a raggiungere con qualche elemento lessicale, oltre che con l’onomastica personale, anche il mondo rurale delle indagini e delle classificazioni»: «L’assunto principale … consiste nell’affermare che a partire dall’esame degli antichi documenti sardi si può constatare l’originaria unità del sistema fonetico sardo (vocalismo, conservazione delle occlusive intervocaliche, assenza di palatalizzazione nelle sequenze formate da consonante velare + vocale anteriore ce e ci, esito labiale della labiovelare latina kw- > / bː/ ). Le differenze attuali sarebbero dovute in parte a un’evoluzione autonoma delle aree dialettali, ma soprattutto ad influenze linguistiche straniere» (19). 10 Blasco Ferrer, E. 1989: «Il latino e la romanizzazione della Sardegna. Vecchie e nuove ipotesi», AGI 74: 5-89. 11 Cf. Pisano, S. 2007: Il sistema verbale del sardo moderno: tra conservazione e innovazione, Pisa: 90. 300 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 e le aree più interne dell’isola, grazie soprattutto all’impatto sul territorio dell’esercito e della Chiesa. (106) Porta la firma di Eduardo Blasco Ferrer anche l’articolo «Sardo antico» (119-36) per il quale, tralasciando di riferire dei numerosi refusi, occorre rimarcare come la volontà di contrastare in modo veemente le opinioni di altri studiosi vada a scapito di una chiara esposizione dei fatti e di un’argomentazione adeguata. La tesi di fondo, peraltro non nuova 12 , è quella che sostiene un vuoto pressoché totale di scriptoria e di esercizio quotidiano col latino dopo l’annessione della Sardegna al mondo bizantino (VI secolo), con un recupero brusco e subitaneo nell’XI secolo, quando la presenza politica di Pisa e culturale dei Benedettini «introdusse» la diretta adozione del volgare, seguendo tecniche sperimentate a lungo nella Penisola, adattando i documenti alle particolarità culturali e linguistiche dei monasteri sardi e addestrando le nuove figure deputate alla ricopiatura dei testi ufficiali negli scriptoria o nelle cancellerie dei Giudici. (123) Considerazioni assai negative sono riservate a un lavoro nel quale, reagendo a una lettura che affida «pressoché alla sola oralità il mondo latino e protoromanzo della Sardegna medievale» 13 , Maninchedda ha esaminato le più recenti acquisizioni relative al periodo altomedievale provenienti da linguistica, filologia, storia della Chiesa, archeologia, sfragistica, studi liturgici e agiografici: la conclusione cui è giunto è che l’isola, pur non partecipando alla cosiddetta rinascita carolingia, seppe tener viva in àmbito ecclesiastico una latinità medievale attiva e non isolata, con una sua dimensione scritta. Giusto per dare un esempio degli argomenti portati da Maninchedda, si può riflettere sul fatto che i più antichi documenti di cui disponiamo - la carta di Nicita, in latino, del 1065, e il Privilegio logudorese, in sardo, del 1080-85 - sono vergati in una scrittura di base carolina, con apporti esterni: dunque, o si pensa che tale scrittura sia giunta in Sardegna insieme ai primi monaci cassinesi nel 1065 e abbia prodotto un lievito culturale quasi istantaneo, o si ammette più verosimilmente che via sia giunta già in precedenza, forse nel X sec. 14 L’insofferenza di Blasco Ferrer ai vincoli che la documentazione pone al ragionamento linguistico si manifesta in modo evidente anche nelle valutazioni espresse su alcuni importanti testi medievali. Emblematico è il caso del cosiddetto Privilegio logudorese (124, N2): è ormai acclarato che la proposta dello studioso catalano di modificare le coordinate spazio-temporali di questo documento, che si vorrebbe collocare in àmbito arborense (anziché logudorese) e datare con approssimazione al 1124-1127/ 30 (anziché al 1080-85) 15 , non ha trovato appigli sui versanti storico, filologico e paleografico. Qui sarà sufficiente ricordare, con Ronzani, che nel Privilegio trova menzione, oltre al vescovo Gerardo e al visconte Ugo, una serie compatta di «personaggi … identificabili nella grande maggioranza con uomini viventi a Pisa all’inizio 12 Cf. Merci, P. 1982: «Le origini della scrittura volgare», in: M. Brigaglia (ed.), La Sardegna, Cagliari, 1/ 3: 18-21. 13 Maninchedda, P. 2012: Medioevo latino e volgare in Sardegna, Cagliari: 9. 14 Maninchedda, P. 2012: Medioevo latino e volgare in Sardegna, Cagliari: 112-22. 15 Così, ad es., in Blasco Ferrer, E. 2003: Crestomazia sarda dei primi secoli, Nuoro, 1: 118-24. 301 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 degli anni ottanta (ma non più venti o trent’anni dopo)» 16 . Del tutto indimostrata, poi, è la tesi che liquida la carta sarda in caratteri greci di Pisa, databile al 1108-30, alla stregua di «un mero esercizio calligrafico, eseguito da un copista annoiato sulla base d’un esemplare in volgare sardo» (126). O ancora, è sorprendente che si sostenga, a proposito della Carta de Logu, che il testo trasmesso dall’incunabolo tardoquattrocentesco sia «più integro» (128, N7) rispetto a quello dell’unico manoscritto, quasi si abbia a che fare con un testo letterario e non una raccolta giuridica (in vigore sino al 1827), per sua stessa natura soggetta nel corso del tempo a modificazioni di vario tipo, ivi comprese aggiunte che ne modificarono la primitiva strutturazione 17 . Riguardo all’articolo di F. Toso sul «Superstrato toscano e ligure» (137-49), segnaliamo che la voce sarda medievale «maccubellu ‘estorsione’ < maccobello» (139) è in realtà muccubellu (pure muchubellu, sempre negli Statuti sassaresi) e proviene dal pisano moccobello. Lascia parecchi dubbi, inoltre, il sistema di trascrizione adottato dall’autore, non definito e neppure intuibile: ad es., posto che in sassarese ‘occhiali’ si dice ippittʃítti, non si riesce a comprendere rispetto a cosa sia adeguata la grafia «ishpiccitti» (143); sempre in relazione al sassarese, poi, andrà segnalato che la forma per ‘fegato’ è fíggaddu e non «fiètu» (143). Inoltre, a noi pare che laddove si accenna a un influsso del genovese sui testi giuridici trecenteschi in logudorese, con specifico riferimento agli Statuti sassaresi e agli assai frammentari Statuti di Castelsardo (142), sarebbe stato opportuno proporre un’esemplificazione che ne mostrasse gli esiti concreti: questo, soprattutto in considerazione del fatto che negli Statuti sassaresi - il testo medievale sardo di più ampia estensione - si ha a che fare con un volgare logudorese, intriso di pisano, in cui i genovesismi sono viceversa assai sporadici. Il contributo di Marcello Barbato dedicato al «Superstrato catalano» (150-67) merita una menzione particolare perché offre una sintesi originale, ricca di utili precisazioni, degli elementi culturali e linguistici che hanno dato contesto e forma all’influsso della lingua iberica sul sardo. Il sondaggio finale (160-65), condotto sui primi duecento catalanismi presenti nell’indice del DES, consegna un quadro ben documentato sulla distribuzione dialettale e per àmbiti nozionali delle voci interessate, sull’adattamento fonologico dei prestiti e sulle tipologie dei calchi. Segue quindi l’articolo di Maurizio Virdis sul «Superstrato spagnolo» (168-83) che, come si è avuto modo di osservare, ripete in certa misura informazioni già presentate nel contributo che lo precede. L’autore propone lunghi elenchi di vocaboli sardi di origine spagnola, ricavati dallo spoglio del DES, operando una distinzione fra «voci lessicali più persistenti e radicate» (174-76), «voci persistenti, ma limitate nell’uso e a settori più ristretti di parlanti competenti» (176-77) e «voci desuete o di più raro impiego» (178): l’attribuzione alle diverse liste avviene non sulla base di un’inchiesta, ma secondo un criterio che rimane sin troppo vago, ossia tenendo conto di «coloro che hanno una discreta competenza linguistica sarda» (173). Singolare è poi la scelta di dare in maiuscoletto gli etimi spagnoli e catalani, che contribuisce a rafforzare 16 Ronzani, M. 1996: Chiesa e «Civitas» di Pisa nella seconda metà del secolo XI. Dall’avvento del vescovo Guido all’elevazione di Daiberto a metropolita di Corsica (1060-92), Pisa: 193. 17 Cf. Lupinu, G. (ed.) 2010: Carta de Logu dell’Arborea. Nuova edizione critica secondo il manoscritto di Cagliari (BUC 211) con traduzione italiana, con la collaborazione di G. Strinna, Oristano: 3-25. Si veda inoltre Murgia, G. (ed.) 2016: Carta de Logu d’Arborea. Edizione critica secondo l’editio princeps (BUC, Inc. 230), Milano: 13-95. 302 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 l’impressione di scarsa pianificazione degli usi redazionali su cui abbiamo richiamato l’attenzione in precedenza. Il contributo di Antonietta Dettori sul «Superstrato piemontese» (184-99), che utilizza, «con qualche adattamento, la grafia semplificata … proposta dalla Rivista Italiana di Dialettologia 1» (184), tratta dell’influsso linguistico piemontese sul sardo, realizzatosi a partire dal 1720: si procede focalizzando l’attenzione sui prestiti, catalogati in base ai settori lessicali di maggiore incidenza. Segnaliamo soltanto che in alcuni casi la provenienza piemontese non è pacifica: ad es. per «cucciari» ‘cucchiaio’, il cui etimo prossimo è indicato nel piemontese «cuciar» (195), mentre nei contributi di Barbato e Virdis sopra menzionati la medesima voce è spiegata come castiglianismo (155, 179) 18 . L’articolo «L’italiano in Sardegna» (200-16) di Emilia Calaresu e Simone Pisano studia i modi in cui l’italiano si affermò per gradi in un’isola profondamente plasmata, culturalmente e linguisticamente, dal lungo dominio iberico. Le considerazioni dei due autori offrono un quadro storico-culturale aggiornato e di estremo interesse che si propone, fra l’altro, di correggere alcuni luoghi comuni: i termini del rapporto tra scolarizzazione e italianizzazione, soprattutto in relazione alla seconda metà del Novecento, andrebbero invertiti rispetto al luogo comune: non l’aumento di scolarizzazione crea, o addirittura impone, un nuovo accresciuto bisogno di italiano, ma è la scolarizzazione che tende ad aumentare a causa del crescente bisogno di competenze attive (e non solo passive) dell’italiano. (208) Sui contributi di Paola Pittalis, «Il sardo come lingua letteraria» (217-31), e Oreste Pili, «Il ruolo del sardo nei mass media e nelle istituzioni pubbliche» (232-48) abbiamo già avuto modo di soffermarci per l’essenziale, sicché si può passare direttamente all’articolo di Daniela Marzo dedicato a «Linguistica areale: atlanti linguistici, carte» (251-70). Dopo una serie di questioni teoriche preliminari, quali la definizione delle nozioni di isoglossa e area linguistica, le differenze di metodo fra geografia linguistica e geografia delle lingue, l’illustrazione dei vari tipi di carte linguistiche, l’autrice propone un’utile rassegna della cartografia linguistica che ha interessato la Sardegna, partendo dalla famosa Carta della Sardegna secondo i suoi dialetti, realizzata dal canonico Spano, sino ad arrivare ai giorni nostri. Nel capitolo sulla «Grammaticografia» (271-86) Eva-Maria Remberger presenta in ordine cronologico le grammatiche scritte sul sardo a partire dal Settecento, con un approccio descrittivo che rinuncia a esprimere, nella maggior parte dei casi, «[u]n giudizio di tipo qualitativo» (271). Dopo aver segnalato che il titolo esatto dell’opera di Porru del 1811 è Saggio di gramatica sul dialetto sardo meridionale e non «Il saggio di grammatica del dialetto sardo meridionale» (275), rileviamo che, pur comprendendo l’intento di completezza nella catalogazione che anima l’autrice, si sarebbe nondimeno atteso l’impiego di un qualche filtro, specie in relazione a lavori da lei non esaminati e che sono stati realizzati da cultori della lingua sarda, animati 18 Nel DES I: 420-21, per il log. kuččári, -e, koččári, -e sono segnalate come possibili entrambe le spiegazioni («In favore dell’origine piem. parla forse il genere masc., mentre cuchar sp. ant. era femm., ma potrebbe anche essere un adattamento del genere alla corrispondente forma italiana»). 303 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 dalle migliori intenzioni ma non sempre forniti dei necessari strumenti scientifici: tale è il caso, giusto per fare un esempio, dello scritto di Porcheddu - recente sostenitore dell’ardita tesi che sia il latino a derivare dal sardo e non viceversa - che «comparerebbe la LSC con la lingua della Carta de Logu ‘Lingua Sarda Comune nel Medioevo’ [sic! ]» (281). Dopo un altro articolo di servizio di Mauro Maxia dedicato alla «Lessicografia» (287-302), nel quale si fornisce una rassegna commentata dei dizionari relativi al sardo e alle altre varietà linguistiche dell’isola messi a punto a partire dal XIX sec., si ha il capitolo scritto da Ignazio Putzu sulla «Tipologia del sardo» (303-19). Vi si delineano utilmente «alcuni tratti tipologici del sardo sulla base dei principali risultati ottenuti nel quadro della tipologia areale europea, ove la tipologia del sardo è strettamente collegata a quella romanza e il confronto sistematico consente di cogliere convergenze, divergenze e peculiarità» (303): il discorso affronta alcuni aspetti che interessano il livello fonetico e fonologico, per concentrarsi poi sulla morfologia e la sintassi. Il successivo articolo, opera di Thomas Krefeld, ha per oggetto «Fonetica, fonologia, prosodia: diacronia» (320-38). L’autore, «[d]ata la grande quantità di materiali a disposizione», ritiene «necessaria una cernita rigorosa e metodologica» e decide di «basarsi esclusivamente su dati forniti dall’AIS, nonostante si tratti di materiali un po’ ‹invecchiati›»: ciò, a motivo del fatto che «essi rispecchiano la situazione degli anni 20 del secolo scorso, cioè di un periodo antecedente all’onnipresenza dei mass media e al bilinguismo generalizzato» (320). Sebbene l’importanza e l’utilità della documentazione dell’AIS (raccolta per la Sardegna da Wagner) siano indubbie, autolimitarsi a essa genera non pochi inconvenienti: il primo e più rilevante è che, se si vuole studiare «la variazione diacronica delle strutture fonetiche-fonologiche del latino» (320), e per farlo si crea un ponte ideale fra latino e dati dell’AIS (ignorando non solo i dati successivi, ma anche quelli disponibili già prima della pubblicazione dell’AIS, messi talora a disposizione da Wagner stesso, vedremo), ci si priva di tutta una serie di elementi fondamentali di giudizio e riscontro, sia di ordine diacronico come di ordine diatopico. Per esemplificare questa criticità, si può considerare il modo in cui è affrontata la questione della «[r]iduzione dei nessi labiovelari»: Krefeld afferma che tali nessi, nella loro evoluzione, «perdono alternativamente l’ostruzione velare, passando all’occlusiva b, o l’approssimante labiale nelle parlate dove conservano solo l’ostruzione velare (k)» (326). Per esemplificare il primo trattamento si propongono i seguenti esempi: lat. quattuor ‘quattro’ > nuor., log. ˈbattoro (AIS 285)… lat. lingua(m) ‘lingua’ > nuor., log. limba (AIS 106) … lat. sanguine(m) ‘sangue’ > nuor., log. (su) ˈsambene, camp. (su) ˈsambene (punto 854 [sic: per 954]), (su) ˈsambini (punti 944 [sic: per 941], 955, 959 [sic: in realtà per il punto 959 è dato ṣu ṣámbene], 968), (su) ˈsammene (957) (AIS 88) (326). Per quanto concerne il secondo trattamento, che comporta la «perdita della labialità», è fornito un unico esempio: «lat. quando > nuor., camp. [sic: per log.] kando, ʔando (947), gall., sass., camp. kandu (AIS 9)». Si aggiunge poi che «[i]l fatto che in certi casi sia documentato anche il gruppo intero (p.e. camp. kʋatru; kʋattru, kʋaturu (punto 967; AIS 285) fa pensare a toscanismi». La conclusione, che si motiva sulla base dell’analisi della carte 9, 301, 285, 88, 45 (sic) e 292 dell’AIS, è che «l’esito più frequente, ‹normale›, sembra essere la velare (kw > k) … 304 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 proprio questa variante (e non bb) risulta dunque essere autoctona nella parte sud della Sardegna» (326). Sorvolando sui rilievi che pure si potrebbero muovere circa il modo in cui sono riportati i dati dell’AIS (ci torneremo a proposito della varietà sassarese), pare di capire che, secondo Krefeld, in sardo coesistessero precocemente due trattamenti concorrenti delle labiovelari latine, uno «labializzante» e uno «velarizzante», quest’ultimo giudicato «più frequente» e anzi «normale»: tuttavia, già la lettura stessa data dall’autore degli elementi ai quali è ancorato il suo ragionamento è tutt’altro che perspicua e la conclusione risulta poco argomentata, al di là di un’asserita «analisi quantitativa» (326) che, peraltro, non tiene in considerazione neppure gli esiti in sardo di aqua(m) ed equa(m) (AIS 1037 e 1062), utili anche per problematizzare la questione. La letteratura sull’argomento, poi, ha fornito da tempo ottime ragioni per supporre che alla base di esiti quali kánɖo, kánɖu < quando, kántu < quantu(m) e simm. - diffusi in tutto il dominio sardoromanzo e, dunque, non idonei a circoscrivere «parlate dove [i nessi labiovelari] conservano solo l’ostruzione velare (k)» (326) - stiano forme in cui la perdita dell’elemento labiale, dovuta a un processo analogico a partire da elementi pronominali, sia antica (precedente rispetto al trattamento «labializzante») 19 . In definitiva, ciò che costituisce il tratto peculiare dell’area meridionale rispetto a quella centro-settentrionale è la presenza di forme tipo ákwa per ‘acqua’ (a fronte di ábba), o língwa per ‘lingua’ (a fronte di límba). Non bisognerà poi ignorare la situazione documentata dai testi medievali e le testimonianze che provano come sino al principio del Novecento gli esiti labiali fossero assai più estesi verso il meridione 20 : elementi che indicano con chiarezza che forme tipo ákwa rappresentano un’innovazione che muove dal sud, verosimilmente da Cagliari, e conveniamo che questa innovazione possa originare dall’imitazione di modelli pisani. Più in particolare, a noi pare che sia ancora da considerare con la dovuta attenzione l’opinione di Wagner secondo la quale un tempo si avevano anche a meridione esiti labiali delle labiovelari latine, conservati peraltro come relitti in vocaboli del lessico rustico privi di corrispondenze in toscano, ad es. báttili o simm. ‘panno che si mette sotto la sella’, parallelo al log. báttile e da ricondurre a una base latina coactĭle, quactĭle 21 . Siamo invece d’accordo con Krefeld nel giudicare latinismi certe grafie tipo ἄκουα per ‘acqua’ nella carta sarda in caratteri greci di Marsiglia (1081-89). Segnaliamo ancora che la «[c]onservazione… di -p-, -t-, -kin nuorese», asserita sulla base di «lat. nepōte(m) > … nuor. nepɔte (AIS 21; punti … 938)» e di «lat. facet > nuor. faket ‘face’ [sic] (AIS 363; punti 938, 937, 943 [sic])» (324), è tale solo per una generalizzazione indebita: fra le quattro località - Nuoro (937), Bitti (938), Fonni (947) e Dorgali (949) - fatte rientrare operativamente dall’autore nel «nuorese» (321), solo Bitti presenta in generale le tre occlusive sorde intervocaliche conservate (nepòte, fákete), mentre per Nuoro sono registrati nepòðe, 19 Cf. ad es. Lausberg, H. 1976: Linguistica romanza. Fonetica, Milano: 291-93. Si veda inoltre Paulis, G. 1981: «La tensione articolatoria delle tenui latine e il sardo», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari. Nuova serie 2: 91-92, N19. 20 Cf. Wagner, M. L. 1907: Lautlehre der südsardischen Mundarten. Mit besonderer Berücksichtigung der um den Gennargentu gesprochenen Varietäten, Halle: 73, N1 («Die älteren Leute in Seui und Lanusei sagen noch abba, auch unter dem ungebildeten Volk hört man es noch, aber die junge Generation sagt aqua»). Si veda anche Wagner, M. L. 1928: «La stratificazione del lessico sardo», RLiR 4: 6-7. 21 Cf. Wagner, M. L. 1941: Historische Lautlehre des Sardischen, Halle (Saale): §214-21. 305 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 fáket, per Fonni neβòðe, áʔeðe, per Dorgali neβòðe e fákeðe 22 . Infine, le grafie con cui sono riportate alcune voci sassaresi, tipo «peru ‘pelo’ e … soldu ‘sordo’» (325), o ancora «aˈɔttu» per ‘agosto’ (332), sono da correggere, anche sulla base dell’AIS, in pèru, sóɮdu, aòɬtu (sempre usando il nostro sistema di notazione). Dopo l’articolo di Lucia Molinu su «Fonetica, fonologia, prosodia: sincronia» (339-58), che si dedica soltanto alla fonologia, in ottica generativista, si legge il contributo di Guido Mensching ed Eva-Maria Remberger su «Morfosintassi: diacronia» (358-75), in cui gli autori chiariscono preliminarmente di voler descrivere la morfologia «nel suo pieno sviluppo diacronico», limitando invece lo studio della sintassi soprattutto al sardo medievale (359). Sempre di Guido Mensching è l’articolo «Morfosintassi: sincronia» (376-96), nel quale si dichiara che «[p]er facilitare la lettura e la comprensione degli esempi riportati siamo ricorsi alle rappresentazioni in grafia, unificando anche le diverse grafie o rappresentazioni fonetiche delle opere citate» (377). Cosa si intenda per «rappresentazioni in grafia» è chiarito in una nota, ove si legge che «ci siamo basati fondamentalmente sulle raccomandazioni della LSC per la grafia delle varietà locali» (377 N2: LSC è acronimo di Limba Sarda Comuna, la controversa varietà scritta sperimentale adottata dalla Regione Sardegna, a partire dal 2006, per i suoi documenti in uscita): in questo modo, il lettore incontra l’ennesimo sistema grafico impiegato nell’opera per il sardo. Segnaliamo inoltre che la forma pronominale «sene» (379) data per il nuorese è inesistente, tanto che sorge il dubbio possa trattarsi di un refuso. Nel contributo dedicato a «Lessico e formazione delle parole: diacronia» (397-412) S. Pisano, valendosi in larga parte di dati raccolti sul campo, illustra dapprima, con un’adeguata esemplificazione, i diversi strati cronologici del lessico sardo definiti tramite l’analisi etimologica (397-407), poi affronta brevemente il tema della formazione delle parole (407-10). A Immacolata Pinto si deve il capitolo «Lessico e formazione delle parole: sincronia» (413- 30), nel quale l’autrice, in relazione al lessico, chiarisce che «[p]er quanto riguarda il sardo … cercheremo di presentare una breve analisi della situazione attuale, con particolare riguardo ad alcuni studi modello … e alla distribuzione dei cosiddetti tipi lessicali nelle quattro aree principali (arb., camp., log. e nuor. …)» (414). Emerge qui con evidenza il problema della contestualizzazione diacronica e diatopica - e, in definitiva, della qualità - dei dati esibiti, nel senso che le fonti utilizzate dall’autrice, non dichiarate preliminarmente con la necessaria chiarezza, sono fondamentalmente di tipo lessicografico, ossia opere come il DES o il Ditzionàriu di Puddu, molto diseguali sotto diversi aspetti e principalmente per l’affidabilità e la quota cronologica della lingua documentata. Al di là e prima della formalizzazione dei dati, riteniamo che lavori di questo tipo, incentrati sulla «situazione attuale», dovrebbero basarsi su informazioni raccolte di prima mano o comunque controllate e riconducibili a un periodo e delle località precisamente circoscritti, ché altrimenti sono inevitabili dei cortocircuiti e delle affermazioni difficilmente verificabili per il lettore. Giusto per portare un esempio, leggiamo che «[s]ulla base dei dati che sinora abbiamo a disposizione, è possibile classificare tre tipi di geosinonimi e due tipi di lessemi pansardi». Fra i geosinonimi si segnala un tipo «che oppone tre varianti, 22 Per dati più precisi rimandiamo a Wagner, M. L. 1941: Historische Lautlehre des Sardischen, Halle (Saale): §101-10. Rimarchiamo che quest’opera fondamentale non è citata da Krefeld neppure nella bibliografia che chiude il suo articolo (338). 306 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.8357/ VOX-2018-019 p.e. per ‘dimenticare’ una settentrionale (log. olvidàre), una centrale (nuor. ismentikàre) e una meridionale (camp. skarèširi, cf. Virdis 1988: 910)» (416). Il tipo «olvidàre», però, non è rilevato per alcuna località già nella carta 1649 dell’AIS 23 ; noi stessi, poi, abbiamo verificato, attraverso un rapido sondaggio ad hoc in centri quali Osilo, Florinas, Ossi, Tissi, Usini, Uri, Ittiri, Olmedo, Villanova Monteleone, Siligo, Bessude, Bonnanaro, Thiesi, Torralba, Pozzomaggiore, Bono, Bottidda, Esporlatu, Illorai, Nule e Benetutti, che la voce non è conosciuta dai nostri informatori e per ‘dimenticare’ si impiega immintiɣáre o simm. Dunque, è possibile che «olvidàre» sopravviva con varia veste fonetica in qualche località che andrà specificata (magari presso i parlanti più anziani, o nell’uso letterario), ma non è certo generale in logudorese: ciò che l’autrice avrebbe potuto appurare con facilità se non si fosse affidata unicamente a un’affermazione contenuta in un lavoro di Virdis di trent’anni fa 24 . L’articolo successivo di M. Maxia ha per tema «Il gallurese e il sassarese» (431-45). Converrà innanzi tutto rettificare alcune affermazioni qui contenute, come quella in apertura per cui «[f]inora gli studiosi ritenevano che il sassarese fosse insorto nell’età giudicale»: Wagner, ad es., sosteneva che questa varietà «si stava formando a poco a poco a partire dal sec. XVI» 25 , dunque dopo il periodo giudicale. Inoltre, pur constatando che «[n]essuna di queste varietà dispone ancora di grafie condivise per la resa dei fonemi [ɖɖ], [ɬ], [ɮ], [x], [ɣ], [c], [ɟ]» (432), l’autore rinuncia a ogni tipo di notazione fonetica, sicché il lettore non esperto della materia rimane in dubbio circa la pronuncia, ad es., di voci quali «báddu ‘ballo’» o «sass. zèppu ‘ceppo’» (432). Lascia poi interdetti il riferimento all’apofonia per spiegare il fenomeno della chiusura di vocali medie in protonia posto in evidenza nel rapporto fra «bèddu ‘bello’ ma biddèsa, sass. biddèzia» (433; cf. anche 435), come pure il ricorso alla categoria della cacofonia laddove si legge che «[i] poss. méu, tóu, sóu risolvono la cacofonia con / -j-/ (tóiu, sóiu, méu, sass. méiu)» (433). Andrà corretto l’etimo di «brúndu < blundu» (434), giacché si tratta di una voce comune con il sardo di origine spagnola (< blondo) e, in ogni caso, una base latina come quella ipotizzata dall’autore fa problemi. Infine, la frase «no c’è nisciunu» (441) non è certo adatta a esemplificare i complementi diretti. Sempre dedicati alle varietà alloglotte della Sardegna, seguono l’articolo di F. Toso, avente per tema «Il tabarchino» (446-59), e quello di Sarah Dessì Schmid, che interessa «L’algherese» (460-75): tracciano la storia, le caratteristiche e il profilo sociolinguistico della varietà ligure, approdata in Sardegna (Carloforte e Calasetta) nel Settecento, e di quella catalana, l’origine e l’affermazione della quale sono legate al ripopolamento di Alghero con elementi provenienti da Barcellona, Valenza e le Baleari, alla metà del Trecento. Rileviamo soltanto che, in questa 23 Inoltre, olvidàre è segnalato come «lett[erario], poet[ico]» in Casu, P. 2002: Vocabolario sardo logudorese-italiano, ed. G. Paulis, Nuoro: 1000 (la stesura di questo lavoro risale alla prima metà del Novecento). Cf. pure DES 2: 186 (qui si propone pure una forma camp. «olvidai», si indica l’etimo nello sp. olvidar e si precisa che «[p]iù frequente è iṡmentiǥare … in log., e … skarèširi in camp.»). Abbiamo invece informazione che continuatori di olvidar sono ancora vitali in qualche paese della Sardegna centrale (es. Fonni e Gavoi), insieme al tipo più diffuso irmentiʔáre o simm., ma ci riserviamo di condurre un’indagine sistematica al riguardo. 24 Virdis, M. 1988: «Sardisch: Areallinguistik», LRL 4: 910. 25 Wagner, M. L. [1950]: La lingua sarda. Storia, spirito e forma, Berna: 394. 307 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 294-307 DOI 10.2357/ VOX-2018-019 sede, si sarebbe attesa da entrambi i contributi una maggiore attenzione al tema degli influssi reciproci che le due varietà svilupparono con il sardo nel corso del tempo. Susanna Gaidolfi prende quindi in esame «L’italianizzazione del sardo» (476-94): osserviamo soltanto che in un’opera come quella che recensiamo si sarebbe potuto dare per scontato che il lettore possieda una serie di nozioni di base, ad es. quelle di code-switching e code-mixing (477), o evitare di precisare che all’it. prestito corrispondono l’ingl. borrowing e il ted. Entlehnung (476). N. Piredda è poi autrice del capitolo intitolato «L’italiano regionale di Sardegna» (495-507): lo scopo dichiarato che si prefigge è quello di fornire una breve caratterizzazione dell’italiano regionale di Sardegna, basata sia sulla produzione linguistica dei parlanti che sulla loro percezione. A tal fine, in riferimento alla produzione linguistica, si utilizzeranno principalmente i dati forniti dallo studio esemplare di Loi Corvetto (1983). (496) Scrivere oggi di italiano regionale di Sardegna basandosi su dati censiti negli anni Settanta del secolo scorso è un’operazione che a noi pare di non grande utilità: la stessa Loi Corvetto, nel 2015, in una ristampa invariata nei contenuti del suo volume del 1983, ha chiarito di voler «fornire … un momento di riflessione e una base di confronto per ulteriori approfondimenti nella dimensione diatopica, ma anche diastratica e diafasica», attraverso la riproposizione di «una ricerca che è nata in un dato momento storico, caratterizzato da fenomeni socioculturali marcatamente differenti da quelli che contraddistinguono la realtà attuale» 26 . Chiude il volume il contributo «I linguaggi giovanili» (508-24) di G. Colella ed E. Blasco Ferrer, che propone il risultato di una ricerca fondata su un ampio corpus di 230 registrazioni di dialoghi spontanei … nelle quattro province storiche sarde e su 398 questionari distribuiti nelle scuole e presso gruppi di giovani intervistati. L’età degli informatori è, nella media (85%), compresa tra i 17 e i 24 anni con una minima percentuale (15%) di oltre 25 anni. (510) I risultati di questo studio ci paiono originali: gli autori consegnano una serie di conclusioni di grande intesse, ad es. quando delineano le caratteristiche di un linguaggio giovanile dell’isola peculiarmente caratterizzato che, fra le altre cose, mostra che «la nota bipartizione tra Sardegna centro-settentrionale e meridionale si riflette anche in norme giovanili in contrapposizione, e anche in una netta antitesi tra focolai d’irradiazione (Cagliari contro Sassari)» (508). In conclusione, il volume recensito mostra profonde disomogeneità e disuguaglianze: in particolare, da un lato propone alcuni contributi che offrono utili consuntivi critici sugli argomenti trattati e rientrano così a pieno titolo in una manualistica di livello alto; d’altro lato, non sono pochi gli articoli ai quali non è possibile estendere una valutazione simile e che, anzi, presentano criticità di diversa natura, come abbiamo illustrato in precedenza. Giovanni Lupinu https: / / orcid.org/ 0000-0001-9916-1127 26 Loi Corvetto, I. 2015 ( 1 1983): L’italiano regionale di Sardegna, Cagliari: 7.
