Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2018-024
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Kristol De StefaniAlain Corbellari (ed.), L’épopée pour rire. Le Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople et Audigier, édition bilingue, Paris (Honoré Champion) 2017, 320 p. (Champion Classiques Moyen Âge)
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Nicolò Premi https://orcid.org/0000-0003-4864-7594
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329 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 329-332 DOI 10.2357/ VOX-2018-024 symbolique est une composante essentielle du récit, la clef la plus utile pour en ouvrir les significations» (349). Il prend comme principal sujet d’étude L’Escoufle de Jean Renart: «Pensée symbolique et narration réaliste. La conjonction des contraires? » (347-62). Au regard de la carrière académique du dédicataire du volume, P. Gilli revient pour sa part sur les «Péchés et vices des maîtres et étudiants médiévaux: le regard d’Alvaro Pelayo, pénitencier pontifical et évêque de Silvès» (151-66). On retrouve chez cet auteur le «catalogue des vices universitaires, à la fois celui des maîtres et celui des étudiants, peut-être le plus détaillé du Moyen Âge, à défaut d’être le plus original» (152). Sa particularité est la «systématicité recherchée visant à ne rien laisser de côté» (154). On citera enfin d’autres études, sur des sujets plus divers, qui complètent ces Mélanges: C. Weiand, «Traumatismes tropologiques: le sonnet 310 du Canzoniere (RVF)» (379-86). O. Soutet, «Que signifie le dans le faire figé? » (739-53), suite d’une étude entamée dans les Mélanges Roussineau axée principalement sur faire. Dans un style plein d’érudition, C. Galderisi aborde pour sa part «La matière des laboratores et la mimésis des sens» (663-74). D. Souiller, «L’énigme du sens dans le Gascon extravagant (1637)» (575-90) s’intéresse à l’œuvre attribuée à Onésime de Claireville dans ses rapports avec le roman picaresque à l’espagnole. P. Haugeard, «Le système des personnages et l’usage des richesses dans Girart de Roussillon» (591-604), propose une étude intéressante du rapport aux richesses qui diffère entre les hommes (Charles, Girart) et les femmes (Berthe, Elissent) et suggère des dimensions humaines, religieuses et politiques différentes. J.-C. Vallecalle, «Aquilon de Bavière et l’histoire» (506-17), s’attarde de son côté sur «cet immense roman épique» de Raffaele da Verona (fin XIV e , début XV e siècles). B. Ribémont, «Fauvel et l’idée de justice» (207-14), constate que s’il s’inscrit dans la «tradition médiévale de la satire animale» (207), le Roman de Fauvel tient son originalité en ce domaine plus dans la forme de la satire que dans le fond (209). Enfin, M. Blaise, «Le vrai mythe de la culture moderne» (245-57), propose une étude de littérature comparée autour du motif de la «terre gaste» (246) du Moyen Âge à T. S. Eliot (The waste land) au début du XX e siècle. Laurent Bozard https: / / orcid.org/ 0000-0003-0146-3886 ★ Alain Corbellari (ed.), L’épopée pour rire. Le Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople et Audigier, édition bilingue, Paris (Honoré Champion) 2017, 320 p. (Champion Classiques Moyen Âge) Nel solco di un’intuizione di Joseph Bédier che associò per la prima volta le due opere in questione (J. Bédier, Les Fabliaux. Études de littérature populaire et d’histoire littéraire du Moyen Âge, Paris 1895: 373), il volume riunisce le edizioni - con testo a fronte e traduzione in francese moderno - del Voyage e dell’Audigier, due chanson de geste accomunate dalla brevità (gli 870 versi della prima e i 517 della seconda fanno delle due chanson le più brevi in assoluto del genere), dall’intonazione comica e dissacrante e dal fatto di essere entrambe attestate da un solo manoscritto. Per quanto riguarda l’Audigier si tratta della prima traduzione in francese moderno; quanto al Voyage è la prima volta che l’opera compare affiancata tipograficamente alla sua 329 332 024 330 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 329-332 DOI 10.8357/ VOX-2018-024 traduzione francese (in effetti la cosiddetta «traduction critique» di Madeleine Tyssens, per quanto puntualmente annotata, non riportava il testo originale; cf. M. Tyssens, Le Voyage de Charlemagne à Jérusalem et à Constantinople, traduction critique, Gand 1978). Il volume si apre con due saggi introduttivi, ciascuno dedicato a una delle due chanson; quindi seguono una Note sur l’édition (93), con i criteri di edizione per entrambe le opere, e una ricca e aggiornata bibliografia. Le edizioni si trovano dopo questa parte introduttiva e sono seguite da un glossario e da un indice dei nomi propri per entrambe. Infine, in appendice al volume si trovano due Dossiers (267) in cui sono antologizzati testi, medievali e non, che dialogano a vario titolo con i due poemi. La disposizione dei materiali non è forse delle più agevoli: invece di staccare le introduzioni dai testi sarebbe stato più pratico legare ciascuna introduzione alla propria edizione, dividendo in due parti il volume, una per ciascuna opera con i rispettivi materiali paratestuali. Dividerò per comodità la trattazione delle due chanson partendo dalla più breve, ossia l’Audigier. Nello studio introduttivo l’editore si concentra in particolare sui riferimenti alla geste che si trovano nella letteratura galloromanza medievale e tocca la questione dell’ipotetica versione occitanica perduta del testo. Dialoga quindi fruttuosamente con gli studi di L. Borghi-Cedrini (La cosmologia del villano secondo testi extravaganti del duecento francese, Alessandria 1989) e di L. Lazzerini (Audigier. Poema eroicomico antico-francese in edizione critica con versione a fronte, introduzione e commento, Firenze 1985) per tracciare un profilo critico aggiornato dell’opera che arriva a indagare anche i portati antropologici e psicoanalitici della dimensione fecale. Quanto al testo critico Corbellari segnala sempre in nota le espunzioni del manoscritto che si devono alla mano del copista originale o di un suo immediato lettore, «pour rendre hommage à la qualité de son travail» (96). Mi permetto solo di segnalare due piccole dimenticanze: al v. 441 il codice legge que lq li con lq espunto, ma ne manca l’indicazione in apparato; allo stesso modo al v. 482 manca l’indicazione dell’espunzione della d di beud del manoscritto. Quanto all’edizione si può fare qualche minimo rilievo confrontando le scelte di Corbellari con quelle, ad esempio, dell’edizione Lazzerini: l’editore scioglie sempre in quens la forma abbreviata qns del codice, ma la Lazzerini stampa sempre quans rimandando a W. Förster, «Volantiers und volentiers», ZRPh. 13 (1889): 541 dove si argomenta che «Im Laufe der Zeit wurde dies quens regelmäßig zu quans (lautlich kans) und wurde später, nachdem sie durch den Gebrauch in Fällen wie quans Roberz geläufig geworden auch alleinstehend gebraucht»; al v. 124 seu < *sūtĕg non necessita di dieresi perché c’è già iato; al v. 405 Corbellari legge nos (i) l’ostroion, ma nel manoscritto si legge chiaramente dopo nos una s espunta e non una i; al v. 449 si stampa ses ma nel manoscritto si legge sez che potrebbe essere, come si chiede la Lazzerini, un esito di satis (in aequivocatio con il v. 447) piuttosto che un aggettivo possessivo; al v. 452 infine potrebbe non essere necessaria l’integrazione qu’i[l] se si sciogliesse l’abbreviatura semplicemente con que come stampa la Lazzerini. Passando al livello della traduzione mi sembra felice la scelta di introdurre traduzioni parlanti di alcuni nomi propri (per esempio Dame Poitru diventa ‘Madame Ducul’, il prete Renier diventa ‘René-gars’) per rendere il tono faceto del testo. È interessante annotare qualche rilievo anche a margine della traduzione. Per i v. 259-60, «Il ne li convient pas faire esclitoire, / Quar en toutes saison avoit la foire», Corbellari propone la traduzione ‘Le métier de scribe ne 331 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 329-332 DOI 10.2357/ VOX-2018-024 lui aurait guère convenu, / car à tout moment il avait la colique’, tuttavia esclitoire significherà qui ‘clistere’ (< clysterium, con epentesi, cf. FEW 2: 801b), che è termine più coerente con il passo, piuttosto che scriptorium > escritoire ‘scrittoio’. Al v. 291 la misteriosa forma Jachie viene intesa come un «pays imaginaire dont le nom reste un mystère complet» (225) come al v. 25, ma le due occorrenze si potrebbero distinguere sul piano della traduzione: nel primo caso si tratta sicuramente del paese, in questo secondo caso si potrebbe intendere come interiezione a partire dalla locuzione ja chi ja (oppure, come ipotizza la Lazzerini, nel senso di ja chie, con chie imperativo del verbo chier ‘cadere’, forse alla base dell’interiezione di collera chia! chia! ) da tradurre con ‘hé bien’. Il nome del paese non sarà altro che una personificazione burlesca a partire dall’interiezione: in Eustache Deschamps, ad esempio, si trova un’espressione come «Que ferez vous, saincte Jachie? » ma, altrove, sempre in Eustache, si ha anche ja chi ja. Passando al Voyage, mi sembra particolarmente efficace nello studio introduttivo l’impiego del concetto di «double rationalité» (49) dell’opera per intendere che il testo non è semplicemente - come credevano gli eruditi del XIX e secolo - la parodia di una ipotetica canzone perduta, ma piuttosto si presenta da un lato come perfettamente ironico, dall’altro come portatore di un messaggio che poteva essere preso sul serio dai suoi lettori/ uditori medievali: secondo Corbellari il Voyage «nous narre un transfert de souveraineté symbolique de l’Orient vers l’Occident» (50). Il concetto di «double rationalité», così formulato, compendia efficacemente il problema dell’ambivalenza culturale sottesa a molte opere medievali; penso in particolare a certi testi di ambiente francescano che uniscono a un serio intento etico-educativo i modi e i toni brillanti della giulleria. Assai chiaro e ben apparecchiato è poi il paragrafo sulla datazione, La datation du Voyage de Charlemagne (57), che riepiloga i termini di un vasto dibattito organizzandoli per nuclei di argomentazioni (storiche, linguistiche, intertestuali, codicologiche e religiose). L’editore propende per una datazione che segue di poco la Seconda Crociata. Quanto all’edizione, sono note le problematicità di un testo come quello del Voyage, la cui lingua profondamente segnata da tratti anglo-normanni pone non pochi problemi metrici risolti dal primo editore ottocentesco dell’opera, il Koschwitz, all’insegna di un lachmannismo massimalista. La scelta ecdotica di Corbellari è quindi di «essayer de faire le plus possible confiance au manuscrit, proposer des lectures conjecturales ne revenant souvent qu’à inventer de nouvelles difficultés dont ce texte ardu et si abondamment glosé n’a vraiment pas besoin» (23). Per questo l’editore sceglie di introdurre a testo il puntino sottoscritto per segnalare le vocali da espungere tipiche della versificazione anglo-normanna e le parentesi per indicare espunzioni (tonde) e integrazioni (quadre). Questa estrema fedeltà al dettato del codice rischia però, per reagire all’interventismo talvolta eccessivo degli otto editori precedenti dell’opera, di ricadere nell’estremo opposto di un neutralismo muto. L’editore infatti non interviene neanche nei casi in cui la necessità di emendamento è praticamente certa. Al v. 398, ad esempio, il manoscritto riporta in assonanza il termine remist in una lassa in é: «Li vespres aprocet, li orages remist». Considerando che qui, come già notava G. Favati (Il Voyage de Charlemagne en Orient, Bologna 1964), il senso richiederebbe il perfetto di remaner (remest) e non di remettre (remist), non ci sono dubbi che la forma corretta sia remest che restaura anche l’assonanza. Eppure l’editore stampa remist: è vero che nella nota al testo dichiara di avere evitato di «subordonner le respect du texte aux nécessi- 332 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 329-332 DOI 10.8357/ VOX-2018-024 tés de l’assonance» perché «les inférences que l’on pouvait faire m’ont paru trop aléatoires pour être même discutées» (95), ma in un caso come questo citato l’inferenza non è affatto aleatoria. Allo stesso modo la parola-assonanza del v. 707, esté, crea ben due problemi: si trova in assonanza in una lassa i-e e rende il verso maschile in una lassa tutta femminile. Anche in questo caso emendare, come fa ad esempio Favati, con un estive < aestiva (tempestas), chiaramente difficilior, sembra assai ragionevole considerando che esté perturba non poco la metrica. L’idea di «laisser le lecteur imaginer les corrections qui lui plairont» (95) che informa una prassi ecdotica così conservativa mi sembra francamente un esercizio di pensiero debole in ambito filologico. Del resto, al v. 753, che è chiaramente il verso di esordio di una lassa con assonanza in é, l’editore emenda giustamente la parola-assonanza fenduz in fend perché riconosce un errore di attrazione da parte della lassa precedente, assonanzata in u. A ben vedere l’emendamento in questo caso non sembra più ragionevole degli altri due casi citati come esempio: perché allora non intervenire anche negli altri casi? Infine, può essere interessante fare qualche osservazione intorno al v. 719 che si riferisce al gab di Olivier e che, come nota giustamente Corbellari, è «l’un des plus problématiques de toute la chanson» (46). Attorno al verso si è sviluppata in effetti una piccola tempesta critica. Nel manoscritto (o meglio, nell’edizione diplomatica di Koschwitz, stante che il codice sparì misteriosamente dalla British Library sabato 7 giugno 1879), si legge: «de vus mes volentez aamplir ço ne queir aveir». Il verso è chiaramente ipermetro e numerosi critici hanno proposto emendamenti differenti. Corbellari recupera la proposta di J. Horrent (Le Pèlerinage de Charlemagne. Essai d’explication littéraire avec des notes de critique textuelle, Paris 1961: 96) di espungere ço ne, ricostruzione che qualifica però il personaggio di Olivier come eccessivamente audace (se non apertamente scortese) soprattutto considerando la traduzione un po’ ardita che viene proposta: ‘je ne cherche qu’à concrétiser le désir que j’ai de vous! ’. La traduzione di Horrent era un po’ meno ardita ma non cambiava nella sostanza: ‘Je veux avoir de vous [l’autorisation] d’accomplir mes désirs’. A questo emendamento si oppongono però le argomentazioni della Tyssens la quale non solo notava che la costruzione aveir de + infinito è molto insolita, ma anche che questa ricostruzione testuale pone da una parte e dall’altra della cesura del décasyllabe un complemento diretto e il verbo da cui dipende «sans que le groupe verbal occupe tout l’hémistiche, ce qui ne paraît conforme à la pratique du poète» (M. Tyssens, 1978: 71). Alla luce di questi rilievi mi sembra che la soluzione migliore sia piuttosto una delle alternative possibili proposte dalla Tyssens ossia, senza allontanarsi troppo dalla lettera del manoscritto ma cambiando l’ordine delle parole: «Mes de vus volentez ço quier aamplir», che si può tradurre ‘Ma è con il vostro accordo che desidero realizzarlo’. In conclusione, il volume si offre ai lettori come contributo interessante da due punti di vista: da un lato è il frutto editoriale - in una collana canonica per il suo prestigio - di una felice intuizione critica che accosta due delle opere più divertenti e dissacranti del medioevo europeo, favorendone una volta di più il confronto anche in ottica comparatistica; dall’altro lato si presenta come un’applicazione pratica di una precisa tendenza filologica che porta alle estreme conseguenze la sképsis bédierista suscitando riflessioni anche sul piano della teoria ecdotica. Nicolò Premi https: / / orcid.org/ 0000-0003-4864-7594 ★
