Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2018-026
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Kristol De StefaniGilbert Dahan/Anne-Zoé Rillon-Marne (ed.), Philippe le Chancelier prédicateur, théologien et poète parisien du début du XIIIe siècle, Turnhout (Brepols), 2017 (Bibliothèque d’Histoire Culturelle du Moyen Âge 18)
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Gerardo Larghi
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335 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 335-338 DOI 10.2357/ VOX-2018-026 Gilbert Dahan/ Anne-Zoé Rillon-Marne (ed.), Philippe le Chancelier prédicateur, théologien et poète parisien du début du XIII e siècle, Turnhout (Brepols), 2017 (Bibliothèque d’Histoire Culturelle du Moyen Âge 18) Il volume che qui recensiamo affronta il complesso della produzione di Filippo il Cancelliere, personaggio eminente sia dal punto di vista politico che dal punto di vista artistico e letterario della Parigi di inizio XIII secolo. La prima parte del libro è dedicata alla analisi di «Philippe le Chancelier en son temps», con l’obiettivo di inserirne la figura e le scelte politiche ed ecclesiastico-accademiche nella vita parigina del primo Duecento. La sezione si apre con un articolo di J. W. Baldwin su «Philippe, chancelier de Notre-Dame» (15-24), nel quale lo studioso inquadra l’azione di questo chierico «pluridimensionnel» sia dal punto di vista biografico (le oscure origini), la carriera ecclesiastica (arcidiacono di Noyon, cancelliere del capitolo di Notre-Dame nel 1217), il ruolo accademico (la licentia docendi, il titolo di magister), gli scontri con i colleghi e con gli studenti che infiammarono Parigi tra 1217 e 1230, nonché gli studi teologici, la vena poetica e compositiva, il penchant musicale. Un po’ più settoriale si rivela invece il contributo di S. Delmas «Philippe le Chancelier et les ordres mendiants: anatomie d’une relation» (25-39) che studia, come dice il titolo, i rapporti fin qui considerati assai tesi del Cancelliere con gli ordini fondati da Francesco e Domenico, ma soprattutto con i domenicani. Appoggiandosi su una rilettura dei suoi testi ne emerge un quadro sfumato, che cambia a seconda delle circostanze storiche e dei momenti, nel quale si alternano critiche e lodi, consenso e dissenso. Ma che evidenzia anche una influenza del Cancelliere sul pensiero dei mendicanti. Chiude la sezione l’articolo che F. Morenzoni dedica a «Le conflit pour l’élection de l’évêque de Paris en 1227-28 d’après les sermons de Philippe le Chancelier» (41-60) nel quale lo studioso grazie a due sermoni attribuibili a Filippo stesso, ne riprecisa il ruolo durante la controversa elezione episcopale del 1227-28, definendone l’autopromozione e il reiterato tentativo di candidarsi al prestigioso episcopio parigino. Il secondo gruppo di studi si concentra invece sulla attività pastorale di Filippo, e infatti raccoglie indagini su «Prédication, exégèse et théologie». Apre la sezione un articolo di una specialista come N. Bériou la quale cerca (e individua) le «Traces écrites de la prédication effective de Philippe le Chancelier» (63-109). La ricercatrice francese giunge ad isolare nel corpus documentario filippino, i segni inequivoci dell’esistenza di una consapevole opera di conservazione dei materiali omelitici prodotti dal cancelliere. In particolare tutta la materia predicabilis che trovò spazio nella Summa sul Salterio, nelle Omelie per i vangeli domenicali, e nei Festivales fu concepita come modello per i predicatori della diocesi parigina (88). Anche il secondo contributo è dovuto alla riflessione di una esimia specialista, C. Casagrande, che si china sulla concezione de «Les vertus chez Philippe le Chancelier, théologien et prédicateur» (111-24). Ne emerge l’immagine dei testi di Filippo come di un laboratorio ideale per studiare il rinnovamento della predicazione all’inizio del Duecento e l’influsso che tale cambiamento ebbe sulla costruzione di una nuova scienza teologica. Analizzando le Distinctiones sui Salmi, oltre che la Summa de bono, la docente italiana vi trova la presenza di 335 338 026 336 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 335-338 DOI 10.8357/ VOX-2018-026 coincidenti posizioni sulle virtù e l’insistenza con cui Filippo riflette su questo argomento: al punto che si può sostenere che vi è chiaramente continuità dottrinale tra la predicazione del Cancelliere e la sua riflessione teologica. Ad un argomento teologico è dedicato l’intervento di G. Dahan dal titolo «Philippe le Chancelier et l’exégèse de la Bible» (125-47). In esso lo studioso parigino, pur assumendo che Filippo non fu certo un esegeta biblico, almeno come lo si intendeva allora, ne scava le opere alla ricerca di tracce esegetiche. Anche a voler escludere i due commenti (al Libro di Giobbe e alle Lamentationes) che gli sono attribuiti ma che non ci sono stati conservati (e sulla cui paternità gravano comunque fortissimi dubbi), non vi sono infatti dubbi sulla enorme competenza in materia biblica del Cancelliere, al punto che Dahan non esita a metterla a paragone con quella dei monaci dei XII secolo (125). Esaminando due luoghi della Summa de Bono nei quali Filippo riflette sui versetti di Giov 11,49-52 e di Mi 2,11, ne emerge la capacità, tipica comunque dell’epoca, di legare esegesi e teologia. Quanto ai Sermones in Psalterium (note anche come Distinctiones in Salterium, ma Dahan dimostra che l’opera non possiede le caratteristiche proprie di questo genere), in essi il metodo esegetico è messo al servizio della dimensione morale e omiletica. Lo stesso può dirsi per i Sermones, conservatici in latino ma pronunciati in francese. Dal punto di vista dei principi ermeneutici adottati, Filippo si rivela un ottimo conoscitore dei grandi commenti del XII secolo, oltre che un fruitore della quadripartizione allegorica (litteralis et moralis, mistica et anagogica), con maggiore attenzione verso il senso morale e tropologico. Pur non facendo opera esegetica, insomma, Filippo scava nel testo sacro alla ricerca della sua attualizzazione, quasi abolendo i confini che lo dividono dal mondo. Su «Science et sagesse dans la Summa de bono de Philippe le Chancelier» (149-68), è invece l’apporto di C. Trottmann. Partendo da una rilettura dell’importante Summa del cancelliere, lo studioso arriva alla conclusione che Filippo tentò, attraverso una originale reinterpretazione della lezione di Giovanni Damasceno, una inedita sintesi tra la psicologia platonizzante e quella aristotelizzante. Chiude questa parte del volume lo studio di S. Vecchio su «Passions et vertus dans la Summa de bono» (169-83), anch’esso dedicato a un aspetto del principale trattato del Nostro, tra i testi fondamentali della teologia morale del primo Duecento. In tale prospettiva il discorso sulle passioni rappresenta un esempio quasi paradigmatico per comprendere l’evoluzione del pensiero occidentale di fronte alla disponibilità sul mercato delle idee di nuove fonti, di origine greca e araba, che allargarono considerevolmente il campo di indagine e le conoscenze sulla natura dell’affettività. Il tema del rapporto tra virtù e affettività non trova uno spazio autonomo e coerente nel testo di Filippo, ma esso è piuttosto affrontato in modo disordinato, in singole parti del trattato, mentre l’analisi psicologica è la premessa stessa al discorso sulle virtù. Utilizzando un largo spettro di fonti, abilmente cucite e contrappuntate, egli propone un modello che è sintesi del pensiero teologico, agostiniano certo, ma soprattutto del Damasceno, e del pensiero filosofico (Aristotele e Avicenna). Ma Filippo si dimostra anche capace di posizioni originali (come quella del legame tra «difficile» e «irascibile»; o nella definizione della Forza; soprattutto come l’illustrazione della dinamica tra sensualità e volontà ottenuta attraverso l’analisi della passioni dei martiri), e se non esiste in lui alcuna traccia di una sistematicità nell’ordinamento delle passioni, nella sua riflessione si dimostra capace di classificare non solo le virtù cardinali ma anche quelle teologali. In particolare nel suo pensiero 337 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 335-338 DOI 10.2357/ VOX-2018-026 gioca un ruolo fondamentale la Speranza, breccia attraverso cui egli esaminerà il tema della affettività. La terza e ultima sezione del libro affronta la figura di Filippo come «Le poète et le musicien». Il contributo di apertura si deve a P. Bourgain, «L’esthétique poétique de Philippe le Chancelier et l’empreinte biblique» (187-207), ed in esso la specialista di letteratura latina medievale esamina i manoscritti che ci hanno conservato la produzione lirica del Cancelliere, a partire dalla convinzione che le sue poesie non erano che la prosecuzione di una presenza biblica totalizzante nella sua vita intellettuale, e che a un certo momento della storia della tradizione dovette esistere una raccolta di testi di Filippo del genere di un manoscritto d’autore che fu alla base della compilazione del codice F (Firenze, Bibl. Medicea-Laurenziana, Plut.29.1, assemblato tra 1243 e 1249 per la Sainte-Chapelle), oltre che di quelli oggi conservati a Londra, BL Egerton 274 (risalente all’incirca al 1260), e Darmstadt Landesbibliothek 2777 (fine XIII secolo). Alcune testimonianze ci permettono di farci un’idea del corpus (così Salimbene evoca nove poesie di Filippo note in Italia, per una delle quali si tratta della sola attestazione). A pochi anni dalla morte del loro autore, poi, gruppi di liriche già circolavano autonomamente, al di fuori dei manoscritti discendenti dal codice d’autore: già nel 1236 anonimi copisti o amatori trentini provvidero a riclassificare taluni poemi del Cancelliere sulla base del rispettivo genere poetico. Insomma il manoscritto d’autore iniziale si sarebbe frazionato dando vita a più rami della tradizione e insieme, insiemi di poesie autonome avrebbero circolato disperse. Quanto alla presenza del linguaggio biblico nei suoi testi, Bourgain nota come Filippo abbia scritto versi che, per essere religiosi, sembrano nondimeno rinunciare ad ogni esplicita citazione biblica, preferendo fondarsi invece sulla cultura classica rivisitata con l’ausilio della retorica e dei suoi procedimenti (195). Più presenti invece appaiono le immagini e i rinvii a passi noti del Sacro Libro, ovvero il procedimento delle citazioni testuali integrate nel corpo dell’opera ma senza mai essere messe in rilievo. Di impronta critico-letteraria e con un occhio attento alle fonti mediolatine appare il contributo di J.-Y. Tilliette sui «Modèles et contre-modèles de la poésie lyrique de Philippe le Chancelier: Adam de Saint-Victor et Gautier de Châtillon» (209-27), il quale parte dalla constatazione che Filippo si colloca perfettamente in quel secolo d’oro della lirica mediolatina che va dal 1130 al 1230, allorquando iniziano anche a moltiplicarsi le raccolte poetiche non destinate all’uso religioso. Lo studioso accosta le opere di Filippo alla produzione di due capisaldi della lirica quali furono Adamo di San Vittore (per il versante mistico della poesia del Cancelliere) e Gualtiero di Châtillon (per il versante satirico, in qualche modo goliardico della sua produzione). Esaminando dapprima le figure retoriche di suono (paronomasia, polittoti, anafore, assonanze, allitterazioni); le metafore; i suoi modelli lirici, ne evidenzia la dimensione mistica, le connessioni con la produzione precedente, soprattutto in funzione di racconto ed evocazione della dimensione misteriosa insita nei testi lirici religiosi. Sul versante opposto, quello della poesia satirica, Tilliette individua nella produzione di Filippo una straordinaria inventività verbale, piegata a sottolineare l’ironico intento che ne guida il talento. Conclude il lavoro una approfondita analisi del conductus Crux de te volo conqueri, un dialogus della Vergine con la Croce. Non possiamo che citare la conclusione di queste belle pagine con la domanda che Tilliette stesso si (e ci) pone guardando all’ultima strofa, laddove si legge Jam 338 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 338-343 DOI 10.8357/ VOX-2018-027 non pendet ad ubera,/ pendet in cruce verbera/ corporis monstrans lividi: «ce passage n’annonce-t-il pas la poésie franciscaine? » (226). A.-Z. Rillon-Marne, grande specialista della figura di Filippo e promotrice della sua riscoperta bibliografica, si è invece soffermata su «Les sources de la lyrique de Philippe le Chancelier: une approche pragmatique des ‹collections› dédiées au corpus», un intervento nel quale parla del corpus poetico-musicale del Cancelliere, della sua partecipazione alla invenzione delle melodie. Una analisi delle fonti manoscritte consente alla studiosa non tanto di definire di nuovo l’ampiezza della produzione del Nostro, quanto invece di comprendere quale immagine ce ne rinviino le singole collezioni, l’uso del corpus per cui esse furono composte: ne emerge una immagine nuova della diffusione geografica ma anche storico-letteraria e della circolazione delle composizioni musicali del Cancelliere. La loro intrinseca qualità ha consentito nel corso dei decenni e dei secoli successivi, a personaggi assai diversi dall’autore, di trovarvi «matière à penser et à s’élever» (259). Lo scontro tra Filippo e Guglielmo d’Alvernia per il seggio episcopale parigino, infine, è indagato da T. B. Payne: «Chancelor versus Bishop: the conflict between Philip the Chancelor and Guillaume d’Auvergne in poetry and music» (265-306). Attraverso l’analisi di alcuni mottetti (Ypocrite pseudopontifices/ Velut stelle/ Et gaudebit), ne pone la scrittura entro precisi confini cronologici e ne individua la fonte ispiratrice (cioè i diversi momenti dello scontro con Guglielmo). Chiudono questo bel volume quattro indici completi: uno relativo ai manoscritti citati; il secondo alle citazioni scritturali; il terzo degli autori antichi e medievali; il quarto degli autori moderni. Gerardo Larghi ★ Geneviève Hasenohr (ed.), Le Jeu d’Adam. Édition critique et traduction, introduction par Geneviève Hasenohr et Jean-Pierre Bordier, Genève (Droz) 2017 (Texte Courant 1), cxlv + 256 p. C’est avec une dix-huitième édition du Jeu d’Adam que Geneviève Hasenohr (GH) inaugure la nouvelle collection «Texte courant» publiée par les éditions Droz. Étant donné le nombre remarquable d’éditions de cette pièce, GH défend l’intérêt de sa nouvelle édition critique dès l’avant-propos (vii-x): ce travail est prêt depuis dix ans, étant destiné à figurer dans un recueil dont la publication a été bloquée par des aléas éditoriaux. Pendant ce temps, trois autres éditions sont parues. GH entend alors justifier son édition en lui conférant un angle essentiellement philologique, laissant l’analyse dramaturgique aux éditions précédentes. La structure de l’ouvrage se présente de la manière suivante: l’introduction de 135 pages est partagée entre GH (données codicologiques du ms. [xi-xxviii]; données paléographiques du ms. - écriture et scripta - [xxviii-lvi]; données liturgiques [lvii-lxxvii]; langue et origine: localisation du texte et du ms. [lxxviixcvii]) et J.-P. Bordier qui accorde un long chapitre à la place du Jeu d’Adam dans l’histoire du théâtre médiéval (xcviii-cxxxii). GH présente ensuite ses principes d’édition (cxxxiv-cxlv), avant l’édition du texte accompagné de sa traduction en 338 343 027 339 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 338-343 DOI 10.2357/ VOX-2018-027 français moderne (1-135). 112 pages de notes (137-249) suivent, et l’ouvrage est clôturé par un court index lexical (251-52) dressant séparément la liste des mots latins et français, auquel s’ajoute un index des sigles, des titres abrégés, suivi enfin des références bibliographiques (253-56). Rappelons que le Jeu d’Adam est une pièce dont les dialogues sont rédigés en français et les didascalies en latin. Il nous est parvenu grâce à l’unique copie conservée dans le ms. Tours 927, volume de 229 feuillets connu pour être «le plus ancien recueil de textes littéraires qui ait été écrit sur papier en France» (xi), à une époque (début du XIII e siècle) où le recours au papier était encore très rare en France. GH nous propose ici l’édition des fol. 20-40 du codex: le Jeu d’Adam occupe les fol. 20-35. On y distingue deux épisodes (Adam et Eve, fol. 20-31v° et Caïn et Abel, fol. 31v°-35) qui sont suivis de l’Ordo Prophetarum, fol. 35-40. Cette édition n’intègre pas les Quinze signes du jugement dernier (fol. 40v°-46v°). Sur le plan codicologique, GH indique qu’une discordance de scripta laisse à penser qu’un changement de modèle a eu lieu au sein même du Jeu d’Adam et que «le modèle d’Adam + Cain provenait d’une autre plume que celui de Prophètes + Quinze signes» (xvi). Elle annonce également que ce volume peut être considéré comme étant constitué de deux unités distinctes (le changement se produit entre les fol. 46 et 47). Même si les deux scribes en présence étaient originaires de la même région linguistique et avaient probablement travaillé dans le même scriptorium (xxi), ces deux entités n’étaient pas forcément destinées à être assemblées (xx): la variation de la mise en page le prouve (xvi). D’ailleurs, GH déplore que des anomalies de reliure (notamment celle qui s’est produite au XVIII e siècle, [xiv]) empêchent de replacer le Jeu d’Adam dans son emplacement textuel original. En effet, des indices (plus particulièrement l’emplacement inhabituel d’un ex-libris mystérieux: propia; et les différences de calligraphie [xviii]) la conduisent à proposer une nouvelle reconstitution de l’agencement original des cahiers du deuxième ensemble (inversion des cahiers 1 et 2 [xix]). Elle rappelle que R. Marichal situa le premier ensemble (contenant le Jeu d’Adam) au deuxième quart du XIII e siècle (xxi), estimant le terminus ad quem à 1250 (xxix). Elle affine cette datation en la situant au milieu du XIII e siècle et en rappelant «[qu’]aucun recueil de la polyphonie parisienne n’est antérieur à la décennie 1240-1250» (xxii). Quant au second ensemble, elle s’appuie sur la présence d’un filigrane dont la facture serait antérieure à 1225, pour émettre l’hypothèse d’un décalage chronologique probable entre les deux ensembles (xxii). C’est également à partir d’une documentation précise qu’elle retrace les différentes étapes de l’histoire et du parcours des deux ensembles constituant ce volume. Elle rappelle que ceuxci ont été acquis et reliés à l’abbaye de Marmoutier en 1716 et faisaient partie d’un lot provenant de la bibliothèque des ducs de Lesdiguières dont de nombreux ms. étaient porteurs de l’ex-libris propia. L’état actuel de la recherche ne permettant pas de se prononcer précisément sur le parcours antérieur des cahiers du ms., elle retient pour dernière hypothèse l’appartenance au XV e siècle à la bibliothèque du château de Saulx, en Provence (xxiii-xxviii). L’étude paléographique prend dans un premier temps appui sur un résumé des conférences tenues par R. Marichal en 1969-1970 à l’École Pratique des Hautes Études. Il avait décelé la main de deux scribes (A et B), B n’étant responsable que d’une dizaine de lignes du fol. 20v° (xxix). Elle se réfère à ses enseignements auxquels elle rend hommage et qu’elle va prendre en considération pour l’étude des particularités régionales. Elle revient donc sur le «x très anglo- 340 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 338-343 DOI 10.8357/ VOX-2018-027 saxon» (xxx) et sur le recours chez le copiste A au i long <j> uniquement à l’initiale, et à valeur phonétique pour transcrire [d ʒ ] comme il est d’usage dans les scriptae occitanes (B réserve à j un usage graphique systématique en fin de mot, emploi diacritique comme en France septentrionale, mais dont la constance rappelle l’usage du Midi [xxx-xxxii]). GH ajoute ensuite une étude de nouveaux éléments extraite d’un travail en cours d’élaboration qu’elle mène avec G. Giannini (xxxiii-xlii). Celle-ci concerne trois graphies rares n’ayant pas retenu l’attention jusqu’à présent. Il s’agit de l’emploi d’un e muni «d’une cédille à boucle ouverte vers la droite» < ę > qu’elle considère comme une marque d’un diacritique, archaïsme d’origine savante, relevé aussi bien dans des témoins anglais que continentaux, et qui remonterait à la copie primitive (xxxiii-xxxvi). Elle décèle également le recours à un t cédillé < ţ > se substituant aux finales en tz. Bien qu’il ait déjà été relevé dans des textes mixtes occitans/ oïliques, dans lesquels l’emploi du < ţ > est limité aux XII e -XIII e siècles aux régions Centre-Ouest et Sud-Ouest, mais également sporadiquement présent en anglo-normand, notamment dans la conjugaison, GH reconnaît dans ce < ţ > un archaïsme poitevin, ce qui permettrait de supposer qu’il était présent dans la copie primitive (xxxvi-xli). Elle relève enfin la présence de la ligature <œ> (xli-xlii) qui autorise une lecture en <o> (poeste, v. 360), graphie d’un clerc lettré, peut-être à rapprocher du pronom neutre ol «caractéristique du Sud-Ouest» (xli-xlii). Concernant la scripta, GH va progressivement avancer que celle-ci se révèle «conforme à la pratique de l’écrit littéraire occidental …, parsemée de traits plus communs en anglo-normand, voire donnés comme spécifiques de l’écriture insulaire» (xlii-xliii). Prenons par exemple ses observations concernant l’absence de voyelles accentuées (hormis quelques rares i accentués): l’absence d’accents ne plaiderait pas en faveur d’un original insulaire dans la mesure où les copistes insulaires «qui ont transmis, ou donné, cet habillage graphique au texte» (les traits anglo-normands) auraient conservé cet accent appartenant à leur norme (xliv). Elle exclut également une intervention du dernier copiste dont le conservatisme avéré l’aurait conduit à maintenir l’accent. Plus profondément, elle décèle une régularité des formes en ch (pour [k]) plus soutenue dans la partie de l’Ordo Prophetarum, fol. 35-40 (et dans les Quinze signes du jugement dernier qui suit, fol. 40v°-46v°), que dans les épisodes Adam et Caïn (fol. 20-35). Elle en déduit un «raccordement de deux entités distinctes à un moment donné de la tradition» (xliv, à rapprocher avec le changement de modèle évoqué plus haut [xvi]). À ce «fond occidental composite» s’ajoute un petit nombre de graphies qui rappellent la scripta des textes français occitanisés: le digramme cz-, le zintervocalique pour [ts], tz pour [ts] final, [k] maintenu en finale, a en finale féminine, ainsi que le traitement [d] > [z]. Mais elle rappelle toutefois que certains de ces traits sont également attestés dans les textes occidentaux purement oïliques (xlv). Par ailleurs d’autres indices matériels et historiques (l’origine espagnole du papier et le fait que seules les villes de La Réole et de Bordeaux étaient connues pour avoir eu recours au papier en 1230-40) et paléographiques (les nombreuses coïncidences entre les graphies anglonormandes et saintongeaises) ont engagé GH à déplacer la patrie du copiste du Sud-Est (localisation habituellement retenue par la critique, probablement sous l’influence de l’implantation provençale des premiers possesseurs du ms.) vers le Sud-Ouest où certaines graphies occitanes avaient été adoptées (l). D’ailleurs elle en conclut que «la silhouette qui s’esquisse à l’issue de l’examen paléographique est celle d’un copiste d’oïl (A) qui, à la différence de son auxiliaire (B, responsable d’une dizaine de lignes seulement), partageait ou avait sciemment adopté cer- 341 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 338-343 DOI 10.2357/ VOX-2018-027 taines particularités de la tradition graphique occitane (au double sens de graphisme et de scripta), telle qu’elle avait cours dans les provinces du Sud-Ouest» (l). Soulignons qu’un des apports majeurs de cette édition repose sur la distance prise par GH avec la position générale adoptée par la critique au sujet de l’origine du texte. L’hypothèse généralement admise par les études et éditions précédentes avance que le Jeu d’Adam a été écrit en «‹dialecte anglo-normand aux alentours du milieu du XII e siècle›, et copié à plusieurs reprises en Angleterre, avant qu’un exemplaire ne tombe entre les mains du scribe méridional auquel nous devons le manuscrit de Tours» (lxxvii). Or GH nous propose une hypothèse radicalement différente: celle «[d’]un texte composé par un clerc d’origine ‹poitevine›, d’un côté ou de l’autre de la Manche, recopié ensuite par des clercs d’origine insulaire (en Angleterre ou sur le continent …), puis passé entre les mains d’un clerc poitevin ou saintongeais, familier de la scripta occitane, dont l’écrit des provinces limitrophes porte toujours, dans ces années 1230, la marque bien visible» (xcvi-xcvii). Cette hypothèse est la conclusion à laquelle elle parvient après avoir relevé une série de faits qui affaiblissent l’hypothèse d’une origine exclusivement insulaire. Ainsi, «la totalité des vers contenant des formes et constructions typiquement anglonormandes (étrangères aux écrits de l’Ouest) sont faux, mais redeviennent métriquement corrects une fois rétabli l’usage continental commun» (lxxxvii). Quant à certaines rimes, elle fait remarquer que, d’une part, les traits anglo-normands du texte ne sont pas propres à cette seule aire scripturale mais peuvent être partagés avec «le français écrit à la même époque dans un grand quart Ouest de la France d’oïl» et que, d’autre part, ces traits ne figuraient pas forcément dans le texte original (lxxviii). Après avoir écarté les traits qui peuvent être communs au français insulaire et au français continental «de l’Ouest/ Sud-Ouest Plantagenêt (Anjou, Touraine, Poitou)» (lxxx), elle concentre son attention sur deux paires de rimes «emblématiques de l’ambiguïté linguistique» du texte: hahan: pan, «occitanisme typé», et criator: dur, «marque réputée la plus caractéristique du français insulaire» (lxxx et lxxxi). La première rime s’ajoute à d’autres occitanismes, notamment la rime bel: ciel [ts ɛ l] qui peut être considérée à la fois comme la marque d’un phénomène anglo-normand tout comme un «traitement vocalique de type occitan [dont on sait qu’il] a débordé la frontière linguistique pour s’imposer, notamment, dans les parlers de la partie méridionale du Poitou …». Elle ajoute que ce type de rime est retrouvé dans la langue mixte français/ occitan de Girart de Roussillon qui «passe pour avoir pris corps aux alentours de cette même région» (lxxxvi). Quant à la rime criator: dur, elle avance prudemment que celle-ci peut également être à la fois assignée à un phonétisme anglo-normand tout comme elle peut être rapprochée d’une tradition culturelle poitevine influencée par l’emploi de cette langue mixte (xciv). Elle invite donc à «ne pas se laisser abuser par une scripta anglo-normande invasive» (lxxxix). La notation du latin des didascalies semble peu exploitable, GH regrettant qu’elles ne puissent fournir des indications plus précises permettant de localiser le texte. Le copiste semble être négligent, «plus pressé de reproduire à l’identique et à la hâte ce qu’il croit déchiffrer que d’en suivre le sens» (lii). Elle avait déjà regretté plus haut (xxxii) que la notation de la musique n’ait également offert que peu d’informations pour permettre aux musicologues d’apporter des conclusions déterminantes. Par ailleurs, c’est en s’écartant de l’analyse purement linguistique que GH va nous livrer une présentation détaillée du contexte liturgique dans lequel pouvait s’inscrire le Jeu d’Adam pour 342 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 338-343 DOI 10.8357/ VOX-2018-027 apporter des éléments de réponse concernant ses origines et sa fonction. En mobilisant une importante documentation historique, elle s’appuie à la fois sur le cotexte des écrits voisins et sur la pratique liturgique contemporaine pour estimer que le Jeu d’Adam est d’abord une œuvre littéraire et dramatique innovante qui n’est pas structurée par la liturgie d’un office, mais qui va intégrer du «matériel liturgique» pour rythmer un drame qui peut être joué par de jeunes clercs, à tout moment de l’année, lors de rituels festifs, et à destination de clercs et de laïcs (lvii-lxxvii). J.-P. Bordier (JPB) a été associé à cet ouvrage pour apporter un éclairage nouveau sur la place du Jeu d’Adam dans le contexte historique du théâtre médiéval. Le Jeu d’Adam offre des indices permettant de le placer dans la tradition du théâtre scolaire et plus particulièrement dans celle des fêtes de fin d’année des jeunes clercs des écoles cathédrales. Le théâtre assurait un rôle pédagogique à destination des jeunes clercs, il fédérait différentes communautés religieuses et avait vocation à édifier le public laïque. À l’instar de GH, JPB s’appuie sur une solide documentation pour démontrer comment le Jeu d’Adam s’inscrit dans une coutume théâtrale, liturgique d’une part (les jeux de Daniel, de saint Nicolas, de la fête des Innocents et de l’Etoile) et profane d’autre part, inspirée des modèles classiques (Pamphilius, Babio). Mais il dévoile également la principale originalité du Jeu d’Adam dans cette tradition qui présente, si l’on peut dire, une rupture avec son héritage. Pour JPB, la rupture ne se résume pas à une évolution uniquement littéraire consistant à le présenter comme une œuvre de transition, un drame «semi-liturgique». Cette rupture est linguistique: la place accordée à la langue vulgaire constitue l’innovation la plus remarquable. La langue d’oïl est en première place, «la création littéraire se fait en français, le latin l’escorte» (cxxii). Mais JPB nous rend surtout attentif à un autre élément novateur. Il signale que, si le recours au français est porté par une volonté pratique de faciliter la communication du message dans une visée didactique à l’égard d’un public composé de laïcs et de clercs, le Jeu d’Adam est aussi le témoin de la reconnaissance de la richesse esthétique et de l’efficacité expressive du français. Dans le Jeu, le français n’est plus une langue formulaire, mais il atteint un statut digne d’une langue apte à exprimer toute la complexité de l’esprit (cxxiv). Dans la partie qu’elle consacre à ses choix éditoriaux, GH regrette que les dernières éditions se soient limitées à une approche conservatrice en reproduisant les erreurs du ms. Elle déclare ainsi nous livrer un «essai d’édition» (cxxxvii) clairement interventionniste. Une phrase résume sa démarche: «… après tant d’éditions refusant (par principe ou facilité) de s’engager sur le chemin de la critique verbale et d’en prendre en considération les résultats, le temps m’a paru (re)venu pour le philologue de rejeter les énoncés qu’il sait, dit et analyse comme corrompus, et d’inscrire à l’intérieur du texte imprimé les rectifications que ses prédécesseurs et lui-même ont patiemment argumentées au fil du temps et des notes» (cxxxvi). Et précise que le lecteur peut aisément reconstituer le ms. à partir de l’apparat qui présente la leçon originale suite à chaque correction. À ceci s’ajoute effectivement les variae lectiones de ses prédécesseurs depuis l’édition de Sletsjöe 1968 (en ajoutant celle de Pauphilet 1951 que L. Sletsjöe n’avait pas intégrée). Quant à la restitution des répons et des versets liturgiques latins, GH développe leur incipit en s’appuyant sur les travaux de R.-J. Hesbert (cxli). Enfin, l’édition du texte et sa traduction en français moderne se font face. Il est important de noter l’exigence philologique à laquelle GH s’est contrainte pour fournir une traduction la plus 343 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 exacte et la plus proche de la grammaire du ms.: «La traduction aurait pu être plus littéraire … Elle se veut avant tout exacte et, autant que faire se peut, respectueuse de la syntaxe médiévale» (cxlv). Naturellement, la richesse et la précision de la documentation réunie par GH aboutit à un système de notes et de renvois complexe, à plusieurs niveaux, avec lequel le lecteur doit se familiariser. L’apparat du texte présente les variae lectiones du texte français et latin, et les notes de bas de page ne concernent que le texte latin. La longueur des commentaires relatifs au texte français (la note du v. 482 s’étale sur près de quatre pages) impose de les placer en fin d’ouvrage. Et parmi ces notes figurent également les commentaires propres au texte latin (dont les notes peuvent atteindre une dizaine de pages, cf. la note 1f) qui sont indiqués par un système de notes alphabétiques attachées à la traduction. L’édition ne propose pas de glossaire, GH préférant proposer, dans la lignée d’A. Henry 1 , un index lexical renvoyant aux notes et à l’introduction. Nous retiendrons de cette publication du Jeu d’Adam une édition érudite d’une impressionnante précision documentaire. Les notes abondent d’hypothèses relatives à la mise en scène et aux décors. Les études lexicales contribuent non seulement à asseoir la localisation du texte (par exemple la note au v. 561, haschée), mais aussi à renseigner le lecteur sur le contexte historique et technologique (p. 240 N855a au sujet de rotulum carte et de l’utilisation du papier où GH profite d’ailleurs pour corriger et actualiser des propos tenus dans une étude précédente 2 ). Enfin cette étude renseigne le lecteur, par l’ampleur des sources consultées, sur le contexte liturgique du XIII e siècle et fournit une réflexion parfois proche de l’exégèse biblique ou du commentaire théologique: la très longue N1f concernant l’interprétation de figura 3 est à ce sujet très emblématique. Enfin, l’exigence d’une traduction précise, le choix de rompre avec la tradition conservatrice de ses derniers prédécesseurs, et la rigueur scientifique avec laquelle GH s’applique pour «tenter de récupérer le texte primitif» tout en maintenant l’accès au texte du ms., font de cet ouvrage une édition précieuse tant pour le philologue que pour le linguiste. Olivier Spenler https: / / orcid.org/ 0000-0001-9084-7034 ★ Dominique Boutet, Poétiques médiévales de l’entre-deux, ou le désir d’ambiguïté, Paris (Honoré Champion) 2017, 486 p. Per comodità, per abitudine, ci siamo sempre accomodati a inserire le opere medievali entro una precisa griglia interpretativa, il cui perimetro era il genere letterario di appartenenza, ed i cui contenuti dovevano comunque, nella grande maggioranza dei casi, rientrare in canoni, estetici o filologici poco importa, che a loro volta confermavano la scelta di origine. 1 Cf. Index lexicologique et grammatical, in A. Henry, Les Œuvres d’Adenet le Roi, Buevon de Conmarchis, vol. 2, Bruges 1953: 211-15. 2 Rapport paru dans le Livret-Annuaire de l’E.P.H.E. Section des sciences historiques et philologiques, vol. 17 (2001-2002), 169-72. 3 GH complète sa réflexion dans une note récemment publiée. Cf. G. Hasenohr, «Figura: note à propos d’un appellatif du Jeu d’Adam», R 135 (2017): 432-33. 343 347 028 344 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.8357/ VOX-2018-028 Eppure quasi da subito ci si è anche accorti che tali griglie in numerosi casi erano assimilabili a vere e proprie gabbie: non è per nulla scontato che i testi medievali abbiano un unico tono o registro interpretativo, né che al genere letterario che noi gli attribuiamo, corrisponda, sempre e comunque, un preciso stile. Al contrario proprio dell’uomo medievale, per nulla monodimensionale o tetragono ad ogni esplorazione e ricerca, fu l’indagine dei confini, delle zone di contatto tra diversi. Se noi poi siamo, romanticamente, abituati a equivalere la sorpresa con la novità, l’uomo dei secoli di mezzo collocava l’inedito entro i confini di quel che egli già conosceva. Il suo mondo era sì chiuso ma non per questo meno denso di meraviglia. Non pochi testi, infatti, scelsero di giocare con le aspettative del proprio pubblico, di stimolarne la memoria intrecciando più piani stilistici, contenutistici, linguistici: è qui, in queste zone laterali, che D. Boutet, docente alla Sorbona e autore di un considerevole numero di pubblicazioni, colloca quella che lui chiama le «stratégies d’entre-deux». In quelle terre si tentò lo stupore dell’uditorio. Laddove infatti il mondo classico, e le poetiche che ne furono il frutto e il riflesso, cercava chiarezza di definizioni, di confini, di lingua e contenuti, laddove cioè l’unità era data dalla unitarietà e dalla unicità, il medioevo colse tutta la multidimensionalità di una realtà che gli appariva perfettamente ambigua: incrociando gli strumenti di cui disponeva e mettendoli al servizio di un mondo nuovo, di una nuova antropologia, costruì una letteratura volgare, e non solo, di grande fascino, ma verso la quale noi mostriamo ancora troppe fragilità ermeneutiche. Alla fin fine cerchiamo chiarezza dove invece essi usarono incroci e intrecci. Tali incroci, deliberatamente pensati e voluti, influiscono sull’estetica, ma anche sul registro comunicativo, rendendo meno esplicito, ai nostri occhi, il senso complessivo delle opere; ci siamo così rifugiati nelle categorie del satirico, del ludico e provocatorio: senza negarne la presenza, ci sarebbe da chiedersi quanto la presenza del beffardo corrisponda davvero a una precisa percezione della realtà. Boutet in questo libro, si sforza di far emergere tali punti di tangenza in testi appartenenti a una pluralità di generi: dalle canzoni di gesta ai canzonieri lirici, dal Roman de la Rose al Testamento di Villon, dalla storiografia alla produzione religiosa, su un arco cronologico che va dalle origini fino al XV secolo. Apre il volume una breve ma interessante analisi della canzone di Guglielmo IX, il più antico trovatore, Farai un vers de dreit nien (BdT 183.7): sono versi che rappresentano la bandiera di quella «ambiguità» che Boutet esplora. A cavallo tra un senso volutamente nebuloso e un linguaggio tanto comprensibile (al netto di una serie di varianti testuali sulle quale si è molto discusso e molto si discuterà), quanto criptico nel suo significato complessivo; tra la presenza alle origini stesse della letteratura in lingua volgare e la sua appartenenza a quella ideologia della fin’amor che proprio lui contribuirà a generare; il componimento non si lascia facilmente spiegare. Dopo una rapida, ma esaustiva, panoramica delle principali interpretazioni che su di esso sono state fornite dagli studiosi (e forse qui ci saremmo attesi una maggiore presenza dei lavori di E. Köhler) 1 , Boutet avanza una sua proposta: non di un «poème sur le rien, le pur 1 Ma non sarebbe stato errato tenere in considerazione anche i più recenti apporti di F. Gambino, «Sur quelques expressions du vers de dreit nien de Guilhem de Poitiers (183.7)», in RLaR 116 (2012): 439-60; e quello, più a largo spettro, di W. Meliga, «Spazio dell’interiorità nei primi trovatori», in: 345 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 néant» si tratterebbe, quanto invece di un «poème sur rien, fondé sur le principe de la négation et définissant une tentative de poésie sans objet, d’une poésie qui évacue l’objet, c’est-à-dire la matière thématique, au profit de la seule forme» (38). In questa chiave le famose citazioni di Normanni e Francesi sarebbero da intendersi in chiave letteraria, in quanto gli uni e gli altri avevano fin lì prodotto solo testi con un contenuto, ed entrambi sarebbero stati nella impossibilità stessa di comprendere un testo senza contenuto (39). Non ci sembra una interpretazione che raccoglierà l’unanimità dei consensi, e in ogni caso continuiamo a preferirgli la soluzione proposta da M. Stanesco che nei versi intravede un poema ontologico che narra un’esperienza del nulla, in una dimensione quasi mistica. Il libro si divide in quattro grandi parti, a loro volta suddivise in capitoli. Ogni parte affronta l’«ambiguïté» da un diverso punto di vista, e ogni capitolo è dedicato ad uno, o più, dei grandi generi letterari medievali. Il risultato è un affascinante e innovativo quadro della produzione artistica lungo quasi 500 anni. La prima parte (titolata «Le rire et l’épique: entre ambivalence et ambiguïté») ruota intorno al genere epico, e specificamente al ciclo guglielmino («Guillaume et le carnaval épique»), ed a quello carolingio («Le Pèlerinage (ou Voyage) de Charlemagne»). Specialista riconosciuto di questo tema, Boutet non ha difficoltà a mostrare, anche grazie agli esempi opportunamente scelti, come l’epopea, pur proverbialmente seriosa, abbia saputo fondere epica e carnevale, riso e seriosità. Boutet si pone domande più che affrettarsi a dare risposte. Ne emerge un quadro, ad esempio, del Pellegrinaggio di Carlomagno come di un precursore, forse perfino il fondatore, di una poetica ludica, fondata sul desiderio di ambiguità. Senza però confonderci: non si trattò tanto di andare oltre schemi e contenuti narrativi che sarebbero stati sentiti come sorpassati, quanto invece della deliberata apertura di un secondo fronte, della costituzione di un fronte interno, fatto di alternative agli schemi classici, non di parodie di questi (95-96). La seconda parte affronta invece i generi propriamente religiosi secondo la prospettiva delle «Parodies religieuses ou écritures de l’entre-deux? ». Si passa qui dalla ambiguità del genere alla ambiguità del senso: certo anche Boutet parte dalla lezione di Baktin, dalla sua polarizzazione tra un serio ufficiale, autoritario, fatto di divieti e limiti, opposto a un carnevalesco popolare, fatto di riso, di parodico. La materia religiosa si presta dunque particolarmente bene a questa analisi, giacché in essa l’incontro tra sacro e profano, o se meglio vogliamo dire, tra ufficiale e parodico, diviene un vero choc, produce (o vorrebbe produrre) un contrasto. La scrittura parodica prende a proprio oggetto testi liturgici (inni, preghiere, messe) che vengono deformati nella loro struttura, sia attraverso procedimenti linguistici, sia attraverso la trasposizione in dimensione profana di quanto in essi è invece religioso e divino (il vino della messa che diviene liquido ubriacante; la dimensione tabernaria che si impossessa di momenti solenni, Homo interior. Presenze dell’anima nelle letterature del Medioevo, a cura di F. Mosetti Casaretto, Alessandria 2017: 237-52. Si segnala, perché apportatore di alcuni elementi interessanti, anche il contributo di B. Barbiellini Amidei, «Guglielmo IX. Farai un vers de dreit nien e l’immaginazione melanconica», in Studi Mediolatini e Volgari 56 (2010): 27-54, nel quale si ipotizza che la lirica descriva un accesso di furor malinconico e che le amigas chiamate in causa da Guglielmo siano rispettivamente Mort (amica molto desiderata e mai vista) e Amor («più nobile e bella» della prima amica), come dimostrerebbero le rarissime rime anomale e imperfette (in ort e in or) della VI stanza. 346 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.8357/ VOX-2018-028 ecc.). Ma poi vi è la pratica, glossatoria, delle farciture testuali, mono o plurilinguistiche. Appoggiandosi in parte sui materiali accolti in un vecchio lavoro di Eero Ilvonen, nel quale furono pubblicati un gruppo di testi accomunati dalla dimensione parodica, Boutet mette a confronto due coppie di testi. La prima è composta dal Patrenostre d’Amour di Paris B.N.F.fr. 837, e dal Martyre de Saint Bacus, cioè da un’opera nella quale la lirica religiosa segue schemi propri della lirica cortese, la quale a sua volta, però (e forse su questo l’autore non insiste abbastanza) segue schemi retorici e epistolografici ben definiti. Nella prima opera i linguaggi confinano l’uno con l’altro ma senza mai sovrapporsi, né il religioso è oggetto di contestualizzazione ironica: entrambi gli argomenti sono affrontati con uno stilus gravis. Nella seconda la parodia è insita già nel nome del protagonista (Baccus, compagno di San Sergio e come questi martirizzato, non potendo non richiamare la dimensione enologica, e enolofila di tanto medioevo): composta nel 1313, la poesia ricorre ai procedimenti della personificazione e della allegoria, sia per quanto attiene a Baccus stesso che alla sua dimensione enologica, la vigna. Il vero nesso unificante, però, non è il procedimento retorico in sé quanto la pianta della vite, intesa nella sua bidimensionalità di luogo nel quale l’uva arriva a maturazione, ma anche come doppio del martire. A giusta ragione Boutet si chiede se vi sia parodia in questo procedimento, o se invece esso non si ponga entro una ben definita tradizione religiosa che ebbe al centro proprio la vigna, il tralcio e l’uva (immagini indubbiamente evangeliche), e se il contesto nel quale l’opera trovò vita non corrisponda a quella devozione del sangue di Cristo suscitata e sancita con il dogma della presenza reale di Cristo nella Eucarestia da Urbano IV nel 1264. Allargando poi lo sguardo su altre vite di santi, Boutet vi identifica non tanto una componente parodica quanto una pluralità di registri: ne conclude che la molteplicità di legami simbolici (una pluralità di significati, potremmo dire), insita nel testo stesso consente a questi di unire, nella ricezione del lettore uditore, tema sacro e tema profano (122-23). Alla poetica medievale stava davvero stretto l’abito dei generi classici. Il secondo capitolo di questa sezione pone a confronto una terna di testi: il Credo au ribaut (anch’esso conservato solo in quel mirabile deposito di pezzi unici che è il B.N.F.fr. 837); Le Pet au vilain di Rutebeuf, e Le fabliau des Trois Dames de Paris. Il primo naviga tra serio e faceto ma soprattutto il riso fa da prologo alla salveza dell’anima del protagonista (un ribaldo conclamato); nel secondo il genio di Rutebeuf si esercita nel dare alla bruttezza una dimensione poetica e a fare del riso l’espressione di tale ricerca: una lettura stratigrafica vi evidenzia però la presenza di riferimenti analogicamente pregnanti (il gracidare delle rane come vanitas, certo, secondo il ben noto suggerimento di Rosanna Brusegan, ma anche come espressione delle false dottrine che vorrebbero evincere la verità dall’animo degli uomini), tali da rendere questo fabliau un testo nel quale temi seri sono affrontati con linguaggio e toni di registro «basso». Un orientamento allegorico sembra anche caratterizzare il terzo testo messo a frutto da Boutet, il fabliau sulle Trois dames de Paris, se non fosse che esso si inserisce perfettamente nell’alveo di quella letteratura erede del Libro di Giobbe biblico che annovera capolavori come il De miseria humane conditionis e i poemi sui Trois morts et les trois vifs (152). La terza parte (che ruota intorno a «Brouillages intergénériques et ambiguïtés du sens») mette a frutto dapprima un lungo lavoro sul Roman de Renart (un complesso multiforme di tessere legate fondamentalmente tra esse solo dal non avere nessuna comune ideologia, e invece dal loro essere tutte una «parodia di se stesse», un lungo discorso nel quale cortesia e 347 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 epica vengono ricondotte al nulla, un lungo romanzo nel quale senso e gioco si contendono la palma senza che vi sia tra le due un vero vincitore), e quella storiografia medievale nella quale sembrano (e in effetti lo sono) trovare posto tutti gli elementi agiografici. Esaminando due vite esemplari, redatte a quasi un secolo di distanza l’una dall’altra (la Vie de saint Thomas le martyr di Guernes de Pont-Sainte-Maxence, e la Vie de Saint Louis di Joinville), Boutet vi individua la presenza degli elementi strutturali propri delle vite dei santi o meglio degli Acta Martyrum. Per contro il raffronto tra il Roman de Brut e il trecentesco Myreur des histors diviene l’occasione per esplorare il confine tra storia e romanzo nella prospettiva medievale, prospettiva, come noto, secondo la quale nulla distingueva l’un dall’altro (257-78), mentre il terzo e ultimo capitolo di questa sezione è dedicato al teatro, e specificamente al Jeu de saint Nicolas nel quale la fonte agiografica è coperta da strutture e contenuti epici ma anche di fabliaux, e al Jeu de la Feuillée (279-320). Chiude il volume una quarta sezione («Brouiller le sens ou faire le sens? ») nel quale l’autore esplora ambiguità e ambivalenze del Roman de la Rose («Ambiguïtés courtoises: le leurre de Guillaume»), del mondo arturiano («Ambiguïtés arthuriennes»), di Chrétien de Troyes e del ciclo arturiano e tristaniano (349-439), e infine del mondo villanoviano. Chiudono questo bel volume una ampia bibliografia e un indice degli autori e dei luoghi citati. Ben scritto, chiaro, con pochissime mende tipografiche e, secondo consuetudine dell’editrice Honoré Champion, curato nella parte tipografica. Non ci sono dubbi che esso apra spazi di ricerca e terreni di indagine, ma a nostro giudizio, l’autore avrebbe potuto scandagliare più a fondo altre piste di indagine che non quella poetica, così da ricorrere a più strumenti ermeneutici. In particolare, come si accennava prima a proposito di testi fabliolistici in cui sacro/ serio e profano/ carnevalesco sembrano convivere, quegli accostamenti che alla nostra mente ordinata e razionale, in qualche modo figlia (o nipote) della pensée géometrique pascaliana, appaiono stridenti, allo sguardo dell’uditore/ lettore medievale dovevano sembrare assai meno confliggenti. Ciò, tanto più se noi consideriamo che nella poetica dei secoli di mezzo era sempre l’intera storia ad essere figurale, in parallelo col fatto che nel Medioevo nulla era pensato fuori da un disegno ordinario e completo, che a tutto era assegnato un ruolo e un compito, e dunque un significato e che per tale motivo ogni evento storico, ogni narrazione non faceva altro che trasporre nel passato (o nel futuro, o in un futuro che è già stato, secondo la teologia cristiana), ciò che si raccontava nel presente 2 . Diviene quasi piano concluderne che anche per gli «entre-deux» identificati da Boutet vale la presunzione che i collegamenti tra i diversi piani, tra i registri, non siano da cercare sempre e solo in una dimensione retorico-letteraria, ma che la loro origine possa trovarsi anche (non solo, ma anche), in quei piani analogici che fondarono il ragionamento di quella cultura così complessa. Gerardo Larghi ★ 2 E. Auerbach, «Figura» in: Id., Studi su Dante, Milano 1982, specialmente alle p. 208-09. 348 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 348-351 DOI 10.8357/ VOX-2018-029 Juhani Härmä/ Elina Suomela-Härmä (ed.), Aimer, haïr, menacer, flatter … en moyen français, Paris (Champion) 2017, 278 p. (Bibliothèque du XV e siècle) Avec ses points de suspension suggérant l’infini d’une liste où se mêlent verbes affectifs et actes de parole, le titre intrigue. Les dix-neuf articles réunis par J. Härmä et E. Suomela-Härmä brassent en effet large, étudiant les manifestations des émotions de l’amour à la haine. Plus précisément, ils abordent les «représentations linguistiques, littéraires, voire iconographiques de ces sentiments» (Préface, 7) entre Moyen Âge et Renaissance. La distinction entre Études littéraires (8 articles) et Études philologiques et linguistiques (11 articles) paraît quelque peu arbitraire: les uns comme les autres interrogent, pour l’essentiel, l’inscription de l’affectivité dans le vocabulaire, les métaphores ou la syntaxe, se réclamant à plusieurs reprises de la théorie des actes de langage élaborée par J. L. Austin et J. Searle. Presque tous utilisent ce bel instrument de travail qu’est le Dictionnaire du moyen français (Atilf) en ligne, mais dont G. Roques rappelle qu’il faut l’utiliser à bon escient, comme tout bon dictionnaire d’ailleurs. Au-delà des louanges que mérite cette vaste entreprise, G. Roques dégage quelques limites d’une entrée aussi fournie que «félon» en la soumettant à une analyse rigoureuse (229-40) qui, par sa démarche, se démarque des autres contributions. Une différence d’orientation émerge néanmoins entre les deux parties du volume. Les linguistes s’intéressent volontiers au théâtre - farces, moralités, mystères (S. Hakulinen, G. Parussa) - et à la nouvelle (D. Lagorgette), abordée notamment sous l’angle de ses adaptations françaises, de Laurent de Premierfait aux imprimés d’Antoine Vérard (M. Helkkula, O. Delsaux). Ils jugent que ces genres sont plus proches du langage parlé de l’époque, offrant aux chercheurs ce que S. Hakulinen appelle un «oral graphisé» (195), vu la place accordée aux interjections, injures, insultes, apostrophes, etc., parfois aussi à une syntaxe brisée. On trouve bien chez les littéraires l’une ou l’autre allusion au théâtre et à la nouvelle ainsi qu’un intérêt marqué pour la traduction (voir les articles de de P. Cifarelli et S. Vigali consacrés à Dante au XVI e siècle). Mais, pour le reste, ils tirent leurs exemples de textes aussi variés que le Tristan en prose, Artus de Bretagne, le Roman de Troie (Prose 5) et se réfèrent à des auteurs qui vont de Guillaume de Machaut, Christine de Pizan et Alain Chartier à René d’Anjou, François Villon ou Jean Lemaire de Belges pour ne citer que les plus connus. Il suffit d’ailleurs de parcourir l’Index des noms propres (269-76) pour mesurer la richesse du corpus étudié. Relevons que certains articles se penchent sur des œuvres ou des écrivains qui ont moins connu les faveurs de la critique: voici Simon de Courcy, confesseur de Marie de Berry, et Nicolas Finet, guide spirituel de Marguerite d’York (M. Boulton); voilà les jugements portés sur le monde musulman dans des récits de pèlerins (C. Herbert). Ces contributions, mais aussi les articles dus à D. Demartini («Mesdire dans le Livre du duc des vrais amants»), A. Schoysman («Une invective en prosimètre contre le pape Jules II») et M. Marchal («Amour de seigneur change tost en ire») rappellent que la frontière entre ce qui, pour nous, relève de la «littérature» (les belles lettres), l’histoire et la politique est perméable en ce Moyen Âge finissant. Comment, en effet, parler de la médisance, de la flatterie - vices curiaux par excellence - ou de la colère sans évoquer l’autorité de Jean de Salisbury (étonnamment absent de l’Index des noms! ) ou, plus généralement, sans se référer aux miroirs des princes, voire aux sermons? 348 351 029 349 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 348-351 DOI 10.2357/ VOX-2018-029 En fin de compte, ces contributions disent implicitement la nécessité d’ouvrir le dialogue aussi avec les historiens. On pensera à J. Tolan (Le Saint chez le sultan, 2007) qui, depuis plusieurs années, étudie les rapports entre les mondes chrétien et musulman. Dans le domaine des émotions, les travaux de P. Nagy (Le don des larmes au Moyen Âge, 2000), D. Boquet (L’ordre de l’affect au Moyen Âge, 2005) et B. Rosenwein (Emotional communities in the Early Middle Ages, 2007), puis l’ouvrage collectif Sensible Moyen Âge, paru en 2015, ont largement balisé le terrain. Significativement, aucune de ces études ne figure dans la Bibliographie générale (267-68), dans laquelle se reflète la volonté (tout à fait légitime) des responsables scientifiques de s’en tenir aux aspects littéraires et linguistiques de la question. Dans une telle perspective, les émotions représentent en quelque sorte le substrat dont se nourrit la langue, car il s’agit, comme le note G. Parussa, d’analyser «dans le corpus textuel les éléments que les grammairiens ont, depuis toujours, mis en relation avec l’expression de l’émotion» (205). Pourtant, D. Lagorgette (dont les travaux sont cités dans plusieurs contributions), puis S. Hakulinen (193-94) rappellent opportunément qu’on ne saurait faire abstraction du contexte socio-historique. Il est en effet admis que «l’expression des émotions appartient aux rituels sociaux codés» (113), qu’il s’agisse de la tendresse ou de la violence. D’autres contributeurs sont amenés par l’auteur qu’ils étudient à préciser la source de certains actes de parole transgressifs: ainsi, selon Christine de Pizan, la médisance trouve son origine dans la haine, l’envie et l’opinion (D. Demartini, 48). Dans L’Histoire des seigneurs de Gavre, la colère, l’orgueil et l’envie instillent leur poison dans la parole, sapant à la base le bon gouvernement (M. Marchal, 247). Sur ce point, il aurait été opportun de s’interroger sur le fait que certaines émotions, comme la colère, appartiennent au septénaire des péchés: C. Casagrande et S. Vecchio lui consacrent un chapitre éclairant dans leur Histoire des péchés capitaux au Moyen Âge (Paris 2003). Nous ne saurions commenter ici en détail les contributions de ce volume foisonnant et nous contenterons de quelques observations ponctuelles. Des deux premiers articles émerge la conviction d’une «dégradation» (S. Lefèvre, 35) inéluctable de l’idéal courtois au XV e siècle, dont Villon serait le «véritable aboutissement» (J. Cerquiglini, 24). Ce tableau, partiel et partial, est tributaire d’une conception trop linéaire de l’histoire littéraire. Il demanderait à nos yeux d’être nuancé, car la littérature ne suit pas une courbe «biologique» (essor - épanouissement - décadence); elle évolue au rythme de transformations rampantes, de ruptures parfois, mais aussi de retours et de regrets. Au mouvement de dégradation - indéniable - s’opposent les défenses et les tentatives de restauration de la courtoisie tout au long du XV e siècle, de certaines réponses suscitées par le scandale de la Belle Dame sans mercy à la Chasse et le Départ d’Amour, recueil publié par Antoine Vérard en 1509. Une dernière remarque concernant la fine étude que S. Lefèvre consacre à la métaphore de l’Amour pêcheur (avec des pages suggestives sur l’origine du poisson d’avril): il vaut la peine de la compléter par la lecture d’un article de C. Méla («L’hameçon. À propos du Sophiste: mimétique et pêche à la ligne», Recherches et rencontres, 12 (1999), 37-45), qui a échappé à la vigilance de notre collègue. L’étude de D. Demartini sur la médisance dans l’œuvre de Christine de Pizan débouche sur le constat que ce péché de la langue ne sévit pas seulement parmi les courtisans et les (faux) amants, mais se retrouve chez les clercs qui, d’Ovide à Jean de Meun (51), ont écrit mal des 350 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 348-351 DOI 10.8357/ VOX-2018-029 dames. En explicitant le lien entre la crise de la courtoisie et les médisances cautionnées par les auctoritates, D. Demartini ajoute un trait intéressant au tableau de la condamnation, bien connue, des œuvres misogynes par Christine de Pizan. Tel n’est pas vraiment le cas de l’étude de M. Kane, consacrée au roi Marc: on souhaiterait que l’auteur précise ce que son investigation - intégrant le témoignage d’un manuscrit tardif, le B.N.F.fr. 103 - ajoute aux conclusions auxquelles était parvenue la regrettée E. Baumgartner (Le «Tristan en prose», Genève, 1975, 224-30), étude qu’il cite mais sans jamais se référer aux pages en question. Tout chercheur concerné par le problème des émotions trouvera, en fonction de ses intérêts, des remarques propres à stimuler sa réflexion dans l’un ou l’autre article du volume. En voici quelques-unes, glanées au fil des pages. En étudiant l’épisode de Paolo et Francesca (Enfer, chant V), S. Vignali constate que le traducteur réussit à rendre l’«état émotionnel intense» (105) auquel succombe le voyageur d’outre-tombe en écoutant la plainte des malheureux amants. Cette contagion par l’émotion ouvre, nous semble-t-il, une piste à explorer, car elle a des implications métapoétiques, suggérant l’effet que cherche à obtenir notamment la littérature courtoise sur ses lecteurs. Un autre pic émotionnel se trouve dans la Vie de sainte Marguerite, mystère caractérisé par un crescendo dans la violence verbale et physique finement analysé par M. Spacagno. Mais pourquoi se contenter de relever que des termes alimentaires peuvent servir de métaphores pour des coups? Il serait, en effet, intéressant de savoir «quelle est la fonction de ces expressions» (264). Rappelons, à tout hasard, que Villon dit avoir mangé «d’angoisse mainte poire» (Test., v. 740) en prison: serait-ce l’association sous-jacente au v. 956 («machez celle poire») de la Vie de sainte Marguerite? D’autre part, un oignon (un gnon) désigne en français populaire la marque laissée par un coup et, encore aujourd’hui, «mettre un pain» (fam.), c’est donner un coup de poing. Ces usages pourraient-ils, sinon éclairer rétrospectivement le passage du mystère, du moins suggérer des pistes de recherche? On méditera avec profit l’observation de D. Lagorgette, selon laquelle «le contexte peut rendre insultant ou caressant n’importe quel terme d’adresse» (127). Elle dit toute la difficulté qu’il y a de saisir surtout les manifestations de l’ironie, quand on cherche à «ridiculiser» (M. Helkkula, 148) l’adversaire. Ainsi, dans, vassal, preudon seraient utilisés de manière antiphrastique, donc dévalorisante, dans Artus de Bretagne (C. Ferlampin, 185-87). Mais comment le prouver de manière concluante et définitive? … Si le statut des mots change selon le contexte d’énonciation, injures et insultes sont largement tributaires des changements sociétaux: Vérard, par exemple, introduit des «insultes récentes» comme paillart (O. Delsaux, 161), quand il édite la traduction du Décaméron, cherchant à adapter la version de Laurent de Premierfait «aux usages de son époque et de son public» (164). De même, coilvert - vieilli, comme l’incompréhensible tarterés (C. Ferlampin, 189) - est remplacé dans des manuscrits tardifs du Roman de Troie en prose par «cuer faux», particulièrement bien venu dans le discours que Médée adresse à l’infidèle Jason (A. Rochebouet, 175). Les termes d’adresse, plus mouvants, seraient-ils un domaine privilégié où se manifeste l’actualisation des textes? Enfin, il y a ces monosyllabes, tels que he, ho, ha ou hou, dont la valence émotionnelle est évidente, mais difficile à cerner puisqu’elle peut aller de la souffrance au soulagement (G. Parussa, 208-10). Souvent, ils se trouvent en début d’énoncé où l’on rencontre également cet et qui, loin de servir de connecteur, est utilisé comme un marqueur d’émotion (S. Hakulinen, 351 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 351-353 DOI 10.2357/ VOX-2018-030 198). Voilà des indications utiles au spécialiste en train d’établir le glossaire d’une édition critique ou au collègue chargé de traduire en français moderne un texte du Moyen Âge finissant. Bref, même si les contributions ne sont pas toutes d’égale valeur scientifique, l’utilité du volume est indéniable. Par sa foisonnante richesse, il offre de multiples stimuli au chercheur qui prend le temps de parcourir l’ensemble plutôt que de s’en tenir à une seule étude, celle dédiée à l’œuvre ou l’auteur sur lesquels il est en train de travailler. Jean-Claude Mühlethaler ★ Philippe Walter, Ma mère l’Oie. Mythologie et folklore dans les contes de fées, Paris (Imago), 2017, 300 p. Pourquoi un médiéviste se plongerait-il dans une étude qui s’ouvre et se clôt sur les Contes de ma mère l’Oie de Perrault? Le titre, en tout cas, ne l’y incite guère. Mais P. Walter précise d’emblée qu’il poussera «l’enquête jusqu’au Moyen Âge, voire avant» (7). Dans le sillage des travaux de Gilbert Durand et de Georges Dumézil, on nous offre ici une «étude croisée de la littérature médiévale et des contes» (11), autrement dit une lecture «verticale» (255) des textes, laquelle tient compte des différentes versions d’un récit, de manière à en dégager la richesse mythologique, souvent occultée sous un vernis chrétien et/ ou courtois. Philippe Walter travaille sur la longue durée, rapprochant des œuvres distantes dans le temps, mais aussi des œuvres issues d’aires culturelles éloignées; à l’horizon se profile l’espace indoeuropéen, même si les traditions celtiques - dont on ne saurait nier l’influence sur la littérature médiévale (surtout à ses débuts) - jouent un rôle particulièrement important dans la démonstration. L’oie est une créature mythique polymorphe, fée ordonnatrice des destinées (233-34): on en trouve certains traits chez Morgane, la Blonde Esmérée du Bel Inconnu ainsi que chez Pénélope dont le nom renvoie à l’oie et qui possède vingt de ces oiseaux (188). Le rite des vœux, que l’on connaît de la Belle au bois dormant, remonterait aux mythes gaulois dont les Enfances Renier, le Roman d’Aubéron et les Otia imperialia de Gervais de Tilbury ont gardé la trace (98s.); y fait encore écho le repas des fées dans le Jeu de la Feuillée du trouvère arrageois Adam de la Halle. Le médiéviste trouvera donc dans l’étude de Philippe Walter de quoi nourrir sa propre réflexion. Reste à savoir s’il le suivra toujours dans sa pensée foisonnante, car les littéraires s’intéressent volontiers à ce qui distingue un texte des autres plutôt qu’ils ne se penchent sur les éléments qui les apparentent au-delà d’une intentionnalité et d’une figurativité divergentes. En plus, Philippe Walter esquisse parfois des pistes dont il ne semble pas vraiment convaincu. Ainsi, évoquant la célèbre scène du Chevalier de la charrette de Chrétien de Troyes, quand Lancelot trouve le peigne de la reine près d’une fontaine, il se demande: «Serait-ce le signe de sa soudaine métamorphose en oiseau? » (48). La réflexion, au conditionnel, reste au stade de l’hypothèse et son apport à une meilleure compréhension du texte demanderait à être étayé: quelle est la fonction de l’élément mythique (implicite) au sein du récit? Autre exemple: Biatris (dans le Cycle des Lorrains) «a sans doute (nous soulignons) été une femme-oiseau» (143), émule de la reine Berthe (au grand pied), célèbre fileuse comme l’est 351 353 030 352 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 351-353 DOI 10.8357/ VOX-2018-030 Philomèle métamorphosée en oiseau. Si certaines associations peuvent aller de soi pour un fin connaisseur du folklore et des mythes, le littéraire moins versé en la matière aurait peut-être besoin qu’on lui rappelle (même s’il peut relire Ph. Walter, Arthur, l’Ours et le Roi, 2002) pourquoi Uterpendragon «n’est autre que l’ours de la Chandeleur» (218) engendrant Arthur avec Ygerne, l’oie sauvage (comme l’indique son nom). Heureusement, le lien que Philippe Walter tisse entre Ygerne et Badebec (= bec perpétuellement ouvert), mère d’un fils velu comme un ours (Pantagruel), permet de mieux saisir l’enracinement des deux textes dans «une ancienne conception mythique» (183), de comprendre la présence de certains éléments figuratifs qui risqueraient de rester lettre morte. La démarche comparative paraît particulièrement féconde, quand Philippe Walter s’attarde sur un texte. Dans la célèbre Ballade des dames du temps jadis de Villon, les indices convergent, qui lui permettent de conclure que Berthe (au grand pied), Bietris et Alis sont des variations sur une seule et même figure, celle de la fileuse (161). Grâce à ce «socle mythique» (190), le temps jadis acquiert une profondeur que «les neiges d’antan» (de l’année passée) ne laissent qu’entrevoir. Bien plus que le souvenir de statues qu’on aurait façonnées à Paris pendant un hiver très rigoureux (Verhuyck 1993), la ballade véhicule un message de portée universelle qui transcende l’anecdotique. Un tel enrichissement de la lecture est moins perceptible ailleurs, ainsi quand nous sommes invités à passer d’une œuvre à une autre dans un jeu d’associations rapides. Confronté à des remarques trop allusives, le lecteur peine parfois à suivre le cheminement de la pensée critique. Quelles sont, par exemple, les données concrètes qui, aux niveaux figuratif et structurel, justifient d’écrire que «le bestiaire mythique que Gauvain affronte (dans la Mule sans frein) n’est pas sans rappeler le chaudron décoré de Gundestrup, autre chef-d’œuvre de l’artisanat celtique» (136)? On aimerait en savoir plus … Villon, mais surtout Rabelais sont des exemples privilégiés, quand il s’agit de retracer l’affleurement d’éléments mythiques dans une œuvre. Pour d’autres textes, il faut une érudition peu commune pour les déceler au sein d’un récit arthurien ou d’une chanson de geste. En refermant le livre de P. Walter, certains se demanderont si le public du Moyen Âge était en mesure de reconnaître par exemple le socle mythique des trois gouttes de sang sur la neige qui, dans le Conte du graal, plongent Perceval dans une rêverie amoureuse. Autrement dit: faudrait-il réunir dans une étude les témoignages de la «sensibilité mythique» (c’est-à-dire définir l’horizon d’attente) des lecteurs/ auditeurs médiévaux pour convaincre les adeptes de «l’histoire littéraire ou celle des idées» (12), cantonnés dans leur spécialité, qu’une approche «pluridisciplinaire d’inspiration anthropologique» (11) ne se réduit pas à un «jeu de hasard» (11) générant des associations en liberté? … Le prologue du Roman de Mélusine de Jean d’Arras (évoqué pour la scène de l’envol et le statut de fée de Présine) offre l’exemple parlant d’une telle conscience folklorique, bien analysée par F. Wolfzettel, mais dont les travaux - surtout son Conte en palimpseste (2005), qui rejoint sur plusieurs points les réflexions de P. Walter - sont étonnamment absents de la bibliographie. D’autres témoignages (comme les condamnations des croyances populaires par les clercs) confirment la possibilité d’implications mythiques dans les récits médiévaux, des Lais de Marie de France au Perceforest de David Aubert. La légitimité de l’approche mythocritique ne fait pas de doute; seulement, le chercheur se doit de prouver qu’il ne cède pas au vertige de 353 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 353-356 DOI 10.2357/ VOX-2018-031 son érudition en analysant chaque fois les effets de sens liés à la présence d’un élément mythique dans un texte, surtout si celui-ci reste isolé. Jean-Claude Mühlethaler ★ Jean Thomas, Jules Ronjat entre linguistique et Félibrige (1864-1925). Contribution à l’histoire de la linguistique occitane d’après des sources inédites, Valence d’Albigeois (Vent Terral) 2017, 393 p. Consacrée à la vie et à l’œuvre de Jules Ronjat, la présente étude est l’aboutissement d’une décennie de patientes recherches poursuivies par J. Thomas dans la foulée de son travail sur la linguistique et le mouvement de la Renaissance occitane 1 . Grâce à la perspective prosopographique adoptée, le lecteur y découvrira qu’au-delà de son œuvre majeure, la monumentale Grammaire Istorique des Parlers Provençaux Modernes bien connue des romanistes, Ronjat est un personnage fascinant, possédant des aptitudes et des connaissances d’une étonnante variété. C’est avec enthousiasme que Thomas a souhaité rendre hommage à cette diversité tout en insistant sur les deux centres d’intérêt majeurs du Dauphinois: d’une part son apport à la linguistique occitane, de l’autre son action au sein du mouvement félibrige. Plus généralement, la volumineuse correspondance éditée dans ce livre permettra au lecteur de glaner ça et là de nombreuses informations sur cette époque charnière dans laquelle vécut Ronjat et, plus particulièrement, sur les réseaux de circulation du savoir. Le volume comporte deux volets: le premier (13-103) est formé de trois parties informatives agrémentées de portraits de famille, le second est entièrement consacré à l’édition annotée de la correspondance (quatrième partie, 105-347). Ces deux volets sont encadrés par une brève introduction (7-12) et d’une cinquième et dernière partie rendant hommage à l’œuvre poétique de Ronjat par la reproduction de quatorze poèmes en provençal (349-68). Une conclusion (369-72), une bibliographie (373-82) et un index onomastique (385-93) bouclent ce volume. Précédée d’une introduction explicitant la méthode historiographique utilisée (7-12), la première partie intitulée Une vie et une œuvre. Jules Ronjat (1864-1925) (13-47) souligne l’importance du milieu viennois pour ce fils de notable et neveu d’un auteur d’un lexique patois francoprovençal. Né à Vienne, Ronjat grandira et fera des études de droit à Paris qu’il quittera à la fin du siècle pour s’installer dans sa ville natale, où il réside jusqu’à son exil à Genève en 1914. Républicain et fédéraliste, son engagement pour la cause publique ne se manifeste pas seulement par son action au sein du Félibrige, mais aussi par la participation à de nombreuses associations locales. Voyageur infatigable (il a parcouru l’Europe à bicyclette), musicien accompli, alpiniste, poète à ses heures, Ronjat est le type même de l’explorateur, linguiste de terrain à l’ouïe fine et ethnographe, esprit encyclopédique et observateur, autant d’orientations qui se reflètent du reste dans sa bibliographie. La deuxième partie, Jules Ronjat, fondateur de la linguistique occitane offre un bref aperçu (49-75) de ses publications linguistiques. Il y a d’abord son ouvrage posthume, la GIPPM 1 J. Thomas, Linguistica e renaissentisme occitan, Toulouse 2006. 353 356 031 354 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 353-356 DOI 10.8357/ VOX-2018-031 dédiée à M. Grammont et à Charles Bally et publiée grâce au concours de W. von Wartburg, d’E. Wiblé et de G. Millardet 2 . Cette description des parlers de la langue d’oc 3 reste à ce jour un ouvrage de référence, ce qui légitime le qualificatif de «fondateur de la linguistique occitane» attribué à son auteur par Thomas. Partisan de la réforme de l’orthographe, comme nombre de ses confrères de l’époque, Ronjat applique de façon systématique l’orthographe de Léon Clédat en français. En provençal, il utilise le choix graphique adopté par Mistral et le défend dans un petit traité d’orthographe félibréenne 4 . Enfin sa thèse complémentaire sur l’acquisition précoce du bilinguisme 5 a été récemment remise à l’honneur dans le cadre des recherches sur l’intercompréhension 6 . Toujours dans le cadre de son apport à la linguistique, il faut compter les contributions à la publication d’ouvrages, ainsi que les collaborations ponctuelles au GPSR et au FEW. Et, ce n’est pas là son moindre titre de gloire, le nom de Ronjat figure dans la préface du Cours de linguistique générale de F. de Saussure, dont il a entièrement relu le manuscrit. La troisième partie, Une écriture multiple, une bibliographie éclectique (77-103), tente d’établir une bibliographie complète de ses publications. Tentative délicate et semée de nombreuses embûches liées tant à la dispersion des écrits de Ronjat dans des revues ou des journaux français et étrangers difficiles d’accès qu’à l’utilisation des nombreux pseudonymes. Sont énumérées, mis à part ses propres ouvrages et ses contributions, les nombreuses revues dans lesquelles Ronjat a publié: parmi les revues de linguistique figurent le Bulletin de la Société de linguistique de Paris, la Romania, la Revue celtique, la Revue de philologie française et de littérature, le Bulletin de dialectologie romane et, last but not least, la Revue des langues romanes, dont il a été, avec Maurice Grammont, la cheville ouvrière, en fournissant des centaines de comptes rendus dans l’espace d’une vingtaine d’années (1905-1925) 7 . 2 La GIPPM a été publiée en 4 tomes. 1: Voyelles et diftongues, 2: Consonnes et fénomènes généraux, 3: Morphologie et formation des mots et notes de syntaxe, 4: Appendice: Les dialectes, Index. Montpellier 1930, 1932, 1937, 1941. 3 Dans la liste des abréviations utilisées, Ronjat précise l’utilisation du terme provençal: «Prov. = provençal stricto sensu (parlers de la Provence proprement dite, i compris la marche nîmoise» et «Provençal, en toutes lettres, désigne le provençal lato sensu» (xi). Sujet de prédilection pour les historiographes, le cas de la dénomination des langues d’oc est exemplaire. Le terme occitan, devenu le terme générique en usage pour désigner l’ensemble des parlers d’oc, est lié à la fondation de l’Institut d’Estudis Occitans ou IEO en 1945. On se gardera cependant de confondre la dénomination linguistique avec la délimitation géographique: depuis le redécoupage administratif de 2015, l’occitan est parlé dans quatre des dix-huit régions françaises (1. Occitanie Pyrénées/ Méditerranée, 2. Provence-Côte d’Azur, 3. Nouvelle Aquitaine, 4. Auvergne Rhône-Alpes) ainsi que dans un certain nombre de territoires au-delà des frontières de la France. 4 L’ourtougràfi prouvençalo. Pichot tratat a l’usage di Prouvençau, Avignoun 1908. 5 Le développement du langage observé chez un enfant bilingue, Paris 1913. On consultera avec profit l’excellente réédition du livre, enrichie de commentaires et d’annotations de P. Escudé, Frankfurt am Main 2014. 6 P. Escudé a édité les actes d’un colloque consacré à ce sujet. Autour des travaux de Jules Ronjat (1913-2013). Unité et diversité des langues. Théorie et pratique de l’intercompréhension, Paris 2016. 7 Pour une analyse du rôle de Ronjat dans la RLaR, cf. l’article de J.-C. Bouvier, «Jules Ronjat et la Revue des Langues Romanes», RLaR 105 (2001): 491-502. 355 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 353-356 DOI 10.2357/ VOX-2018-031 Dans le domaine du Félibrige, Thomas dénombre une dizaine de revues félibréennes qui comportent des notices de Ronjat, signées sous divers pseudonymes (Felibre di Lauseto, Bousoun de Vergno ou encore Guigue Talavernai) dans une période allant de 1894 à 1914. Il assure par exemple la rubrique «Crounico felibrenco» de l’Armana prouvençau (1903-1909) et contribue régulièrement à Vivo Prouvenço! jusqu’à son départ pour la Suisse en 1914. C’est dans cette dernière revue qu’il s’expliquera sur son éloignement du Félibrige en août 1910 8 . Sa passion du voyage quant à elle l’amènera à consigner ses impressions dans le Bulletin de la Société géographique de Lille, dans l’Annuaire du Club alpin français, dans l’Annuaire de la Société des touristes du Dauphiné ou encore dans la Revue alpine. Enfin le Journal de Vienne et le Bulletin des amis de Vienne sont autant de témoignages de son inlassable engagement pour sa ville natale, ancienne capitale des Allobroges, comme il l’écrit à Charles Bally en 1917 9 . Le second volet du volume contient l’édition de la correspondance 10 (105-347) annotée et commentée avec onze félibres (107-279) et avec six linguistes et philologues (280-347). Plus de la moitié de la correspondance avec des félibres est adressée à Mistral: les 95 lettres (1893- 1910) conservées au Musée Mistral à Maillane contiennent une foule de renseignements sur l’organisation et la vie du mouvement félibréen dans lequel Ronjat s’est investi corps et âme pendant vingt ans, d’abord au sein de l’Escolo parisenco dóu Felibrige (1892-1899) dont, une fois président (1896), il évincera Charles Maurras, puis comme baile (de 1902 à 1909) aux côtés de son ami le capoulié Pierre Devoluy. On apprend par exemple que, dès 1896, le Dauphinois est en contact avec August Bertuch (l’oncle de sa future épouse et traducteur de Mirèio en allemand) et que, suite à la publication dans l’Aiòli (17. 5. 1896) de sa traduction en provençal du poème sursilvan Il pur suveran de Gian Antoni Huonder 11 , Ronjat sert de messager de Caspar Decurtins auprès de Mistral. À partir de 1897 (lettre 27 à Mistral), il est question du chansonnier provençal dont Ronjat, soumettant régulièrement les textes et même la partition au Mèstre (cf. lettres 33, 34, 40, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 53, 55) s’occupe dès 1893 et qui paraîtra finalement en 1903 12 . On trouvera dans la correspondance avec les linguistes la confirmation que Ronjat était un savant reconnu et apprécié de ses pairs: ses destinataires sont Antoine Meillet et Mario Roques 8 P. Martel, Les félibres et leur temps. Renaissance d’oc et opinion (1950-1914), Pessac 2010: 525 reproduit le réquisitoire que Ronjat adresse aux adhérents du Félibrige, dont l’inaction l’exaspère. Dans Vivo Prouvenço! juillet-octobre 1913 «Souveni d’i a vint an», Ronjat reviendra une dernière fois sur son engagement félibréen. 9 Cf. A.-M. Fryba-Reber/ J.-P. Chambon, «Lettres et fragments inédits de Jules Ronjat adressés à Charles Bally (1912-1918)», CFS 49 (1995-96): 48. 10 Dans les cas suivants, il s’agit de rééditions: cinq lettres à Valère Bernard (1908-1909), sept à Prosper Estieu (1901-1908) et seize à Arsène Vermenouze (de 1894 à 1908) ont été éditées une première fois dans la RLaR 110 (2006): 473-506. Les treize lettres à Léon Teissier (1911-1921) se trouvent dans la RLaR 119 (2015): 463-81. Quant aux cinq lettres à Hugo Schuchardt, elles ont paru dans la RLiR 75 (2011): 191-201. 11 On consultera à ce propos le mémoire de licence inédit de B. Berther, L’Idée latine du Félibrige et la Renaissance romanche 1854-1914. La fonction des traductions entre l’occitan et le romanche, Université de Zurich, et son résumé in: id, «Gl’interess dils Romontschs sper la mar per ils Romontschs sin las alps», AnSR 123 (2010): 47-79 (https: / / www.e-periodica.ch/ cntmng? pid=ann-001: 2010: 123: : 409). 12 Lou cansounié provenço adouba pèr l’Escolo parisenco dóu Felibrige, Avignoun 1903. 356 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 356-358 DOI 10.8357/ VOX-2018-032 à Paris, Edouard Naville, Eugène Ritter et Albert Sechehaye à Genève, enfin Hugo Schuchardt à Graz. Pourquoi alors le parcours universitaire de Ronjat s’est-il limité à un «cours libre» à Lyon (1913-1914) 13 et à des charges de cours à Genève de 1915 à 1925 14 ? La question reste pour l’instant en suspens, de même que l’énigme de sa formation linguistique, comme le remarque justement Thomas (50-51). Le long et patient travail de reconstitution à partir d’archives n’aurait pas dû dispenser l’auteur d’une relecture serrée de la rédaction et de la présentation. Tout en reconnaissant l’importance du travail accompli par Thomas, on regrettera la présence d’innombrables coquilles (que nous renonçons à énumérer), de redites (par ex. à propos de l’excursion dans les Grisons, p. 29 et 49), de simples inadvertances (par ex. «Cours général de linguistique» p. 51 ou «Hugo von Schuchardt» p. 82 et suivantes, «Institut des patois de la Suisse romande» p. 198 N466) ainsi qu’un style narratif qui pèche trop souvent par l’absence de précision: impossible, par exemple, de connaître la date de son «entrée en Félibrige» (18) sans avoir sous la main le numéro de Vivo Prouvenço! de 1907 dans lequel Ronjat se souvient du moment décisif de sa lecture de Calendal à Cassis. On ignore si cette découverte a eu lieu la même année que sa rencontre avec Mistral (1893). C’est trop souvent au lecteur de débrouiller les fils de l’écheveau chronologique (ce que nous nous sommes efforcée de faire dans ce compte rendu). Signalons enfin l’omission surprenante dans la bibliographie du nom de P. Escudé, auteur de la réédition du Bilingue de Ronjat. En conclusion, on reconnaîtra à J. Thomas le mérite de nous faciliter l’accès à une importante partie de la correspondance de cette personnalité originale et aux intérêts multiples, qui s’est tout particulièrement passionnée pour les dialectes méridionaux et le fonctionnement de la langue en général. On souhaite aux études ronjatiennes un bel avenir. Anne-Marguerite Fryba-Reber ★ Bernhard Pöll, Französisch ausserhalb Frankreichs. Geschichte, Status und Profil regionaler und nationaler Varietäten, Berlin (de Gruyter) 2017, 170 p. Nach fast 20 Jahren (1998-2017) erscheint das Standardwerk von Bernhard Pöll Französisch ausserhalb Frankreichs in aktualisierter Form in der 2. Auflage, wieder in der Reihe der Romanistischen Arbeitshefte bei de Gruyter. Es richtet sich speziell an deutschsprachige und 13 Le Journal de Vienne n° 98 du 6 décembre 1913 annonce un cours sur les parlers de la région lyonnaise et leur littérature. «Ce cours comprendra une dizaine de leçons. Voici un résumé du programme: Caractères essentiels des parlers de la région lyonnaise; explication historique de leur formation; raisons de leur faible productivité littéraire; Serments de Strasbourg, le plus ancien monument écrit de nos parlers; XIII e siècle, œuvres de Marguerite d’Oin; abandon des patois par les classes de la population considérées comme supérieures; la littérature à l’époque moderne; intérêt de l’étude des parlers populaires pour la linguistique générale. Le cours de M. Ronjat sera public; aucune formalité préalable n’est requise pour y assister. La première leçon aura lieu le mercredi 10 décembre à 4 heures ¼, amphithéâtre Quinet (entrée à la tête du pont de l’Université)». 14 Les cours sont répertoriés dans Fryba-Reber/ Chambon (1995-96): 55-56. 356 358 032 357 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 356-358 DOI 10.2357/ VOX-2018-032 deutsch verstehende Studierende, welche sich für «Geschichte, Status und Profil regionaler und nationaler Varietäten» (so der Untertitel) des Französischen interessieren. Auf 174 Seiten wird dazu eine übersichtliche und gleichzeitig ausführliche Dokumentation geboten, welche sich auf die klassischen Publikationen der romanistischen Forschung, aber auch auf eine reiche rezente Bibliografie sowie Angaben zu empfehlenswerten digitalen Quellen stützt. In Arbeitsaufträgen können die Kapitelinhalte dann jeweils noch vertieft werden. Der Autor hat sich bewusst auf zentrale und überschaubare Bereiche der Frankophonie (aus sprachwissenschaftlicher und nicht aus literaturwissenschaftlicher Sicht) beschränkt, ohne den Anspruch auf ein all umfassendes Werk und die Behandlung aller geografischer Zonen weltweit zu erheben. Dies ist seinem Zielpublikum geschuldet, denn er wendet sich hauptsächlich an Leser, die sich zum ersten Mal mit dem Thema befassen. Dennoch räumt er auch der Darstellung von Dynamik und Komplexität von sprachlicher Entwicklung ganz dezidiert Platz ein, z.B. bei der Beschreibung von Situationen des Sprachkontakts in Afrika, wo sich «die Überlagerung immer wieder neu vollzieht» (14). Nach einem Einstiegskapitel, in welchem die sprachlichen und sozialen Veränderungen rund um die französische Sprache und ihre Sprecher der letzten beiden Jahrzehnte besonders herausgestellt werden, befassen sich die darauf folgenden mit der Definition der Begriffe Frankophonie und frankophon, der Erklärung der Problematik im Bereich des regionalen Französisch und einer Typologie der frankophonen Gebiete, letzteres mit einer kritischen Endbemerkung, welche darauf hinweist, dass in den meisten Veröffentlichungen immer noch die europäische Standardvariante als normative Ausgangsbasis angesehen wird und den anderen Ausprägungen nicht genug Autonomie zugesprochen bzw. Anerkennung zuteil wird. Das 5. Kapitel behandelt dann die Schweiz, das Aostatal, Belgien und Luxemburg als Beispiele für die europäische Frankophonie ausserhalb Frankreichs. Die Darstellung ist im Allgemeinen sehr präzise und einfühlsam (so Zitate mit Beibehaltung der regionalen Schreibweise für die Schweiz auf p. 29). Zahlreiche Beispiele illustrieren die Sachlage, bei einigen könnten die etymologischen Angaben noch vertieft werden: bancomat könnte z.B. auch auf einen Germanismus zurückzuführen sein (39) und die Angabe von pruneau als Regionalismus der ebenfalls sehr regional begrenzten quetsche ist nicht unbedingt einsichtig. Septante und nonante sind bei bestimmten Berufsgruppen in Frankreich weiterhin auch in der Aktualität im Einsatz, so z.B. bei den Holzfällern, die dadurch lebenswichtige Verständnisfunktionen unterstützen. Für das Aostatal hätte eine Angabe zu den Veröffentlichungen von M. Cavalli eine weitere Bereicherung dargestellt, da sie sich ausgiebig mit den edukativen Aspekten der dortigen Mehr- und Vielsprachigkeit beschäftigt hat. Die sehr komplexe Sprachökologie von Luxemburg wird nur teilweise erfasst, gerade in Bezug auf die jüngsten Entwicklungen im Erziehungssystem und in der Gesellschaft. Das Sprachengesetz von 1984 vermeidet bewusst die Verwendung des Begriffs der Amtssprachen oder langues officielles, auch wenn dies manchmal in Quellen so zitiert wird. Auch die Beispiele aus dem lexikalischen Bereich sind nicht unbedingt repräsentativ oder stellen wiederum Kombinationen von Regionalismuspaaren dar: salade de blé - ‘doucette’ anstelle des wohl etwas weiter verbreiteten Begriffs der mâche für den Feldsalat. Die amerikanische Frankophonie in ihren diversen Ausprägungen wird im 6. Kapitel dargestellt, mit Schwergewicht auf Québec, gefolgt von einer kurzen Darstellung Acadiens und Ontarios (hier unter besonderer Berücksichtigung der Kontaktsprachen, welche sich dort ent- 358 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 358-362 DOI 10.8357/ VOX-2018-033 wickelt haben wie chiac oder michif). Louisiana und die Neu-England-Staaten werden vor allem wegen ihrer historischen Bedeutung erwähnt, auch wenn sich die Position des Französischen dort immer stärker abschwächt. Auch hier sind vor allem die vielfältigen Sprachkontaktphänome für den Beobachter sehr interessant. Das 7. Kapitel schliesslich befasst sich mit dem Französischen in Afrika und behandelt Schwarzafrika und den Maghreb als zwei zentrale Teilbereiche davon. Andere Gebiete wie das insuläre Afrika mit Madagaskar oder den Seychellen und Mauritius sowie La Réunion, das ja politisch zu Frankreich gehört (wie auf p. 3 erwähnt), aber sicherlich geografisch auch Bezüge zu seiner direkten Umgebung aufweist, sind auf dem begrenzten Raum des Buches verständlicherweise nicht aufgenommen worden, ebenso wenig wie ehemals frankophone Gebiete auf dem asiatischen Kontinent oder in Ozeanien. In der kurzen Erwähnung des 5. Kontinents (3) könnte man polynesisch durch austronesisch oder polynesisch und melanesisch ersetzen, denn die polynesischen und die melanesischen Zweige der austronesischen Sprachfamilie sind im Pazifikraum in gleicher Stärke dem Sprachkontakt mit dem Französischen ausgesetzt. In bewundernswerter alleiniger Autorschaft und unter Berufung auf zahlreiche lokale, regionale und internationale Quellen hat B. Pöll wieder ein sehr lesenswertes Werk geschaffen, welches sicher zahlreichen zukünftigen Generationen von Studenten und Forschern als Ausgangsbasis dienen wird. Sabine Ehrhart https: / / orcid.org/ 0000-0001-9296-8016 ★ Marie-Madeleine Bertucci (ed.), Les français régionaux dans l’espace francophone, Frankfurt (Lang) 2016, 251 p. (Sprache, Mehrsprachigkeit und sozialer Wandel 25) Der Sammelband umfasst Studien zum Thema «français régional», die auf ein 2012 in Paris abgehaltenes Kolloquium zurückgehen. Eingeleitet wird er durch ein Vorwort von H. Walter (9-10) und die Präsentation durch die Herausgeberin (11-13). Die eigentlichen Beiträge sind drei Themenbereichen zugeordnet worden: «Les français régionaux: un statut problématique» (15-114), «Quelle place pour les formes régionales dans un contexte mondialisé? » (115-69) und «Vers une didactique contextualisée en situations plurilingues» (171-220). Ein Nachwort von R. Chaudenson (223-32), die Kurzbiographien der Beiträger (233-37) sowie ein Autoren- (239-44) und terminologischer Index (245-51) beschließen den Band. Ein Großteil der 14 Aufsätze befasst sich mit Varietäten außerhalb von Frankreich, im Vordergrund steht eher die theoretische Reflexion über Regiolekte als deren konkrete Beschreibung. P. Blanchet (17-30) steuert einen wissenschaftshistorisch orientierten Aufriss der Betrachtung der Regiolekte bei, der den Bogen von der normativen Sicht des 19. Jahrhunderts über die dialektologisch und strukturell inspirierte Herangehensweise schlägt und vor allem die Relevanz der neueren soziolinguistischen Theoriebildung hervorhebt. Die im Titel angesprochenen Auswirkungen auf eine «didactique de la pluralité des pratiques du français» bleibt mit zwei Seiten allerdings recht wenig konkret und begrenzt sich neben einigen bibliographischen Verweisen auf die von polemisierenden Elementen nicht freie Kritik an der normorientierten, monozentrischen Praxis des Sprachunterrichts. 358 362 033
