Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2018-028
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Kristol De StefaniDominique Boutet, Poétiques médiévales de l’entre-deux, ou le désir d’ambiguïté, Paris ( Honoré Champion) 2017, 486 p.
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Gerardo Larghi
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343 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 exacte et la plus proche de la grammaire du ms.: «La traduction aurait pu être plus littéraire … Elle se veut avant tout exacte et, autant que faire se peut, respectueuse de la syntaxe médiévale» (cxlv). Naturellement, la richesse et la précision de la documentation réunie par GH aboutit à un système de notes et de renvois complexe, à plusieurs niveaux, avec lequel le lecteur doit se familiariser. L’apparat du texte présente les variae lectiones du texte français et latin, et les notes de bas de page ne concernent que le texte latin. La longueur des commentaires relatifs au texte français (la note du v. 482 s’étale sur près de quatre pages) impose de les placer en fin d’ouvrage. Et parmi ces notes figurent également les commentaires propres au texte latin (dont les notes peuvent atteindre une dizaine de pages, cf. la note 1f) qui sont indiqués par un système de notes alphabétiques attachées à la traduction. L’édition ne propose pas de glossaire, GH préférant proposer, dans la lignée d’A. Henry 1 , un index lexical renvoyant aux notes et à l’introduction. Nous retiendrons de cette publication du Jeu d’Adam une édition érudite d’une impressionnante précision documentaire. Les notes abondent d’hypothèses relatives à la mise en scène et aux décors. Les études lexicales contribuent non seulement à asseoir la localisation du texte (par exemple la note au v. 561, haschée), mais aussi à renseigner le lecteur sur le contexte historique et technologique (p. 240 N855a au sujet de rotulum carte et de l’utilisation du papier où GH profite d’ailleurs pour corriger et actualiser des propos tenus dans une étude précédente 2 ). Enfin cette étude renseigne le lecteur, par l’ampleur des sources consultées, sur le contexte liturgique du XIII e siècle et fournit une réflexion parfois proche de l’exégèse biblique ou du commentaire théologique: la très longue N1f concernant l’interprétation de figura 3 est à ce sujet très emblématique. Enfin, l’exigence d’une traduction précise, le choix de rompre avec la tradition conservatrice de ses derniers prédécesseurs, et la rigueur scientifique avec laquelle GH s’applique pour «tenter de récupérer le texte primitif» tout en maintenant l’accès au texte du ms., font de cet ouvrage une édition précieuse tant pour le philologue que pour le linguiste. Olivier Spenler https: / / orcid.org/ 0000-0001-9084-7034 ★ Dominique Boutet, Poétiques médiévales de l’entre-deux, ou le désir d’ambiguïté, Paris (Honoré Champion) 2017, 486 p. Per comodità, per abitudine, ci siamo sempre accomodati a inserire le opere medievali entro una precisa griglia interpretativa, il cui perimetro era il genere letterario di appartenenza, ed i cui contenuti dovevano comunque, nella grande maggioranza dei casi, rientrare in canoni, estetici o filologici poco importa, che a loro volta confermavano la scelta di origine. 1 Cf. Index lexicologique et grammatical, in A. Henry, Les Œuvres d’Adenet le Roi, Buevon de Conmarchis, vol. 2, Bruges 1953: 211-15. 2 Rapport paru dans le Livret-Annuaire de l’E.P.H.E. Section des sciences historiques et philologiques, vol. 17 (2001-2002), 169-72. 3 GH complète sa réflexion dans une note récemment publiée. Cf. G. Hasenohr, «Figura: note à propos d’un appellatif du Jeu d’Adam», R 135 (2017): 432-33. 343 347 028 344 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.8357/ VOX-2018-028 Eppure quasi da subito ci si è anche accorti che tali griglie in numerosi casi erano assimilabili a vere e proprie gabbie: non è per nulla scontato che i testi medievali abbiano un unico tono o registro interpretativo, né che al genere letterario che noi gli attribuiamo, corrisponda, sempre e comunque, un preciso stile. Al contrario proprio dell’uomo medievale, per nulla monodimensionale o tetragono ad ogni esplorazione e ricerca, fu l’indagine dei confini, delle zone di contatto tra diversi. Se noi poi siamo, romanticamente, abituati a equivalere la sorpresa con la novità, l’uomo dei secoli di mezzo collocava l’inedito entro i confini di quel che egli già conosceva. Il suo mondo era sì chiuso ma non per questo meno denso di meraviglia. Non pochi testi, infatti, scelsero di giocare con le aspettative del proprio pubblico, di stimolarne la memoria intrecciando più piani stilistici, contenutistici, linguistici: è qui, in queste zone laterali, che D. Boutet, docente alla Sorbona e autore di un considerevole numero di pubblicazioni, colloca quella che lui chiama le «stratégies d’entre-deux». In quelle terre si tentò lo stupore dell’uditorio. Laddove infatti il mondo classico, e le poetiche che ne furono il frutto e il riflesso, cercava chiarezza di definizioni, di confini, di lingua e contenuti, laddove cioè l’unità era data dalla unitarietà e dalla unicità, il medioevo colse tutta la multidimensionalità di una realtà che gli appariva perfettamente ambigua: incrociando gli strumenti di cui disponeva e mettendoli al servizio di un mondo nuovo, di una nuova antropologia, costruì una letteratura volgare, e non solo, di grande fascino, ma verso la quale noi mostriamo ancora troppe fragilità ermeneutiche. Alla fin fine cerchiamo chiarezza dove invece essi usarono incroci e intrecci. Tali incroci, deliberatamente pensati e voluti, influiscono sull’estetica, ma anche sul registro comunicativo, rendendo meno esplicito, ai nostri occhi, il senso complessivo delle opere; ci siamo così rifugiati nelle categorie del satirico, del ludico e provocatorio: senza negarne la presenza, ci sarebbe da chiedersi quanto la presenza del beffardo corrisponda davvero a una precisa percezione della realtà. Boutet in questo libro, si sforza di far emergere tali punti di tangenza in testi appartenenti a una pluralità di generi: dalle canzoni di gesta ai canzonieri lirici, dal Roman de la Rose al Testamento di Villon, dalla storiografia alla produzione religiosa, su un arco cronologico che va dalle origini fino al XV secolo. Apre il volume una breve ma interessante analisi della canzone di Guglielmo IX, il più antico trovatore, Farai un vers de dreit nien (BdT 183.7): sono versi che rappresentano la bandiera di quella «ambiguità» che Boutet esplora. A cavallo tra un senso volutamente nebuloso e un linguaggio tanto comprensibile (al netto di una serie di varianti testuali sulle quale si è molto discusso e molto si discuterà), quanto criptico nel suo significato complessivo; tra la presenza alle origini stesse della letteratura in lingua volgare e la sua appartenenza a quella ideologia della fin’amor che proprio lui contribuirà a generare; il componimento non si lascia facilmente spiegare. Dopo una rapida, ma esaustiva, panoramica delle principali interpretazioni che su di esso sono state fornite dagli studiosi (e forse qui ci saremmo attesi una maggiore presenza dei lavori di E. Köhler) 1 , Boutet avanza una sua proposta: non di un «poème sur le rien, le pur 1 Ma non sarebbe stato errato tenere in considerazione anche i più recenti apporti di F. Gambino, «Sur quelques expressions du vers de dreit nien de Guilhem de Poitiers (183.7)», in RLaR 116 (2012): 439-60; e quello, più a largo spettro, di W. Meliga, «Spazio dell’interiorità nei primi trovatori», in: 345 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 néant» si tratterebbe, quanto invece di un «poème sur rien, fondé sur le principe de la négation et définissant une tentative de poésie sans objet, d’une poésie qui évacue l’objet, c’est-à-dire la matière thématique, au profit de la seule forme» (38). In questa chiave le famose citazioni di Normanni e Francesi sarebbero da intendersi in chiave letteraria, in quanto gli uni e gli altri avevano fin lì prodotto solo testi con un contenuto, ed entrambi sarebbero stati nella impossibilità stessa di comprendere un testo senza contenuto (39). Non ci sembra una interpretazione che raccoglierà l’unanimità dei consensi, e in ogni caso continuiamo a preferirgli la soluzione proposta da M. Stanesco che nei versi intravede un poema ontologico che narra un’esperienza del nulla, in una dimensione quasi mistica. Il libro si divide in quattro grandi parti, a loro volta suddivise in capitoli. Ogni parte affronta l’«ambiguïté» da un diverso punto di vista, e ogni capitolo è dedicato ad uno, o più, dei grandi generi letterari medievali. Il risultato è un affascinante e innovativo quadro della produzione artistica lungo quasi 500 anni. La prima parte (titolata «Le rire et l’épique: entre ambivalence et ambiguïté») ruota intorno al genere epico, e specificamente al ciclo guglielmino («Guillaume et le carnaval épique»), ed a quello carolingio («Le Pèlerinage (ou Voyage) de Charlemagne»). Specialista riconosciuto di questo tema, Boutet non ha difficoltà a mostrare, anche grazie agli esempi opportunamente scelti, come l’epopea, pur proverbialmente seriosa, abbia saputo fondere epica e carnevale, riso e seriosità. Boutet si pone domande più che affrettarsi a dare risposte. Ne emerge un quadro, ad esempio, del Pellegrinaggio di Carlomagno come di un precursore, forse perfino il fondatore, di una poetica ludica, fondata sul desiderio di ambiguità. Senza però confonderci: non si trattò tanto di andare oltre schemi e contenuti narrativi che sarebbero stati sentiti come sorpassati, quanto invece della deliberata apertura di un secondo fronte, della costituzione di un fronte interno, fatto di alternative agli schemi classici, non di parodie di questi (95-96). La seconda parte affronta invece i generi propriamente religiosi secondo la prospettiva delle «Parodies religieuses ou écritures de l’entre-deux? ». Si passa qui dalla ambiguità del genere alla ambiguità del senso: certo anche Boutet parte dalla lezione di Baktin, dalla sua polarizzazione tra un serio ufficiale, autoritario, fatto di divieti e limiti, opposto a un carnevalesco popolare, fatto di riso, di parodico. La materia religiosa si presta dunque particolarmente bene a questa analisi, giacché in essa l’incontro tra sacro e profano, o se meglio vogliamo dire, tra ufficiale e parodico, diviene un vero choc, produce (o vorrebbe produrre) un contrasto. La scrittura parodica prende a proprio oggetto testi liturgici (inni, preghiere, messe) che vengono deformati nella loro struttura, sia attraverso procedimenti linguistici, sia attraverso la trasposizione in dimensione profana di quanto in essi è invece religioso e divino (il vino della messa che diviene liquido ubriacante; la dimensione tabernaria che si impossessa di momenti solenni, Homo interior. Presenze dell’anima nelle letterature del Medioevo, a cura di F. Mosetti Casaretto, Alessandria 2017: 237-52. Si segnala, perché apportatore di alcuni elementi interessanti, anche il contributo di B. Barbiellini Amidei, «Guglielmo IX. Farai un vers de dreit nien e l’immaginazione melanconica», in Studi Mediolatini e Volgari 56 (2010): 27-54, nel quale si ipotizza che la lirica descriva un accesso di furor malinconico e che le amigas chiamate in causa da Guglielmo siano rispettivamente Mort (amica molto desiderata e mai vista) e Amor («più nobile e bella» della prima amica), come dimostrerebbero le rarissime rime anomale e imperfette (in ort e in or) della VI stanza. 346 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.8357/ VOX-2018-028 ecc.). Ma poi vi è la pratica, glossatoria, delle farciture testuali, mono o plurilinguistiche. Appoggiandosi in parte sui materiali accolti in un vecchio lavoro di Eero Ilvonen, nel quale furono pubblicati un gruppo di testi accomunati dalla dimensione parodica, Boutet mette a confronto due coppie di testi. La prima è composta dal Patrenostre d’Amour di Paris B.N.F.fr. 837, e dal Martyre de Saint Bacus, cioè da un’opera nella quale la lirica religiosa segue schemi propri della lirica cortese, la quale a sua volta, però (e forse su questo l’autore non insiste abbastanza) segue schemi retorici e epistolografici ben definiti. Nella prima opera i linguaggi confinano l’uno con l’altro ma senza mai sovrapporsi, né il religioso è oggetto di contestualizzazione ironica: entrambi gli argomenti sono affrontati con uno stilus gravis. Nella seconda la parodia è insita già nel nome del protagonista (Baccus, compagno di San Sergio e come questi martirizzato, non potendo non richiamare la dimensione enologica, e enolofila di tanto medioevo): composta nel 1313, la poesia ricorre ai procedimenti della personificazione e della allegoria, sia per quanto attiene a Baccus stesso che alla sua dimensione enologica, la vigna. Il vero nesso unificante, però, non è il procedimento retorico in sé quanto la pianta della vite, intesa nella sua bidimensionalità di luogo nel quale l’uva arriva a maturazione, ma anche come doppio del martire. A giusta ragione Boutet si chiede se vi sia parodia in questo procedimento, o se invece esso non si ponga entro una ben definita tradizione religiosa che ebbe al centro proprio la vigna, il tralcio e l’uva (immagini indubbiamente evangeliche), e se il contesto nel quale l’opera trovò vita non corrisponda a quella devozione del sangue di Cristo suscitata e sancita con il dogma della presenza reale di Cristo nella Eucarestia da Urbano IV nel 1264. Allargando poi lo sguardo su altre vite di santi, Boutet vi identifica non tanto una componente parodica quanto una pluralità di registri: ne conclude che la molteplicità di legami simbolici (una pluralità di significati, potremmo dire), insita nel testo stesso consente a questi di unire, nella ricezione del lettore uditore, tema sacro e tema profano (122-23). Alla poetica medievale stava davvero stretto l’abito dei generi classici. Il secondo capitolo di questa sezione pone a confronto una terna di testi: il Credo au ribaut (anch’esso conservato solo in quel mirabile deposito di pezzi unici che è il B.N.F.fr. 837); Le Pet au vilain di Rutebeuf, e Le fabliau des Trois Dames de Paris. Il primo naviga tra serio e faceto ma soprattutto il riso fa da prologo alla salveza dell’anima del protagonista (un ribaldo conclamato); nel secondo il genio di Rutebeuf si esercita nel dare alla bruttezza una dimensione poetica e a fare del riso l’espressione di tale ricerca: una lettura stratigrafica vi evidenzia però la presenza di riferimenti analogicamente pregnanti (il gracidare delle rane come vanitas, certo, secondo il ben noto suggerimento di Rosanna Brusegan, ma anche come espressione delle false dottrine che vorrebbero evincere la verità dall’animo degli uomini), tali da rendere questo fabliau un testo nel quale temi seri sono affrontati con linguaggio e toni di registro «basso». Un orientamento allegorico sembra anche caratterizzare il terzo testo messo a frutto da Boutet, il fabliau sulle Trois dames de Paris, se non fosse che esso si inserisce perfettamente nell’alveo di quella letteratura erede del Libro di Giobbe biblico che annovera capolavori come il De miseria humane conditionis e i poemi sui Trois morts et les trois vifs (152). La terza parte (che ruota intorno a «Brouillages intergénériques et ambiguïtés du sens») mette a frutto dapprima un lungo lavoro sul Roman de Renart (un complesso multiforme di tessere legate fondamentalmente tra esse solo dal non avere nessuna comune ideologia, e invece dal loro essere tutte una «parodia di se stesse», un lungo discorso nel quale cortesia e 347 Besprechungen - Comptes rendus Vox Romanica 77 (2018): 343-347 DOI 10.2357/ VOX-2018-028 epica vengono ricondotte al nulla, un lungo romanzo nel quale senso e gioco si contendono la palma senza che vi sia tra le due un vero vincitore), e quella storiografia medievale nella quale sembrano (e in effetti lo sono) trovare posto tutti gli elementi agiografici. Esaminando due vite esemplari, redatte a quasi un secolo di distanza l’una dall’altra (la Vie de saint Thomas le martyr di Guernes de Pont-Sainte-Maxence, e la Vie de Saint Louis di Joinville), Boutet vi individua la presenza degli elementi strutturali propri delle vite dei santi o meglio degli Acta Martyrum. Per contro il raffronto tra il Roman de Brut e il trecentesco Myreur des histors diviene l’occasione per esplorare il confine tra storia e romanzo nella prospettiva medievale, prospettiva, come noto, secondo la quale nulla distingueva l’un dall’altro (257-78), mentre il terzo e ultimo capitolo di questa sezione è dedicato al teatro, e specificamente al Jeu de saint Nicolas nel quale la fonte agiografica è coperta da strutture e contenuti epici ma anche di fabliaux, e al Jeu de la Feuillée (279-320). Chiude il volume una quarta sezione («Brouiller le sens ou faire le sens? ») nel quale l’autore esplora ambiguità e ambivalenze del Roman de la Rose («Ambiguïtés courtoises: le leurre de Guillaume»), del mondo arturiano («Ambiguïtés arthuriennes»), di Chrétien de Troyes e del ciclo arturiano e tristaniano (349-439), e infine del mondo villanoviano. Chiudono questo bel volume una ampia bibliografia e un indice degli autori e dei luoghi citati. Ben scritto, chiaro, con pochissime mende tipografiche e, secondo consuetudine dell’editrice Honoré Champion, curato nella parte tipografica. Non ci sono dubbi che esso apra spazi di ricerca e terreni di indagine, ma a nostro giudizio, l’autore avrebbe potuto scandagliare più a fondo altre piste di indagine che non quella poetica, così da ricorrere a più strumenti ermeneutici. In particolare, come si accennava prima a proposito di testi fabliolistici in cui sacro/ serio e profano/ carnevalesco sembrano convivere, quegli accostamenti che alla nostra mente ordinata e razionale, in qualche modo figlia (o nipote) della pensée géometrique pascaliana, appaiono stridenti, allo sguardo dell’uditore/ lettore medievale dovevano sembrare assai meno confliggenti. Ciò, tanto più se noi consideriamo che nella poetica dei secoli di mezzo era sempre l’intera storia ad essere figurale, in parallelo col fatto che nel Medioevo nulla era pensato fuori da un disegno ordinario e completo, che a tutto era assegnato un ruolo e un compito, e dunque un significato e che per tale motivo ogni evento storico, ogni narrazione non faceva altro che trasporre nel passato (o nel futuro, o in un futuro che è già stato, secondo la teologia cristiana), ciò che si raccontava nel presente 2 . Diviene quasi piano concluderne che anche per gli «entre-deux» identificati da Boutet vale la presunzione che i collegamenti tra i diversi piani, tra i registri, non siano da cercare sempre e solo in una dimensione retorico-letteraria, ma che la loro origine possa trovarsi anche (non solo, ma anche), in quei piani analogici che fondarono il ragionamento di quella cultura così complessa. Gerardo Larghi ★ 2 E. Auerbach, «Figura» in: Id., Studi su Dante, Milano 1982, specialmente alle p. 208-09.
