eJournals Vox Romanica 81/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
10.2357/VOX-2022-002
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2022
811 Kristol De Stefani

Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589)

121
2022
Carlo Ziano
Der Aufsatz befasst sich mit einigen Aspekten des Textes und der Sprache von Rabisch (1589), einer Gedichtsammlung, die in verschiedenen Dialekten verfasst ist. Darunter befindet sich auch ein Dialekt, der auf die Varietät des Bleniotals zurückgeführt werden kann. 1993 veröffentlichte Dante Isella diese Gedichte in einer Ausgabe, die neue Forschungswege erschloss. In diesem Artikel revidiere ich einige Interventionen dieser Edition kritisch, um die ursprüngliche Sprache der Gedichte auf der phonetischen (§2.1), morphologischen (§2.2), syntaktischen (§2.3) und lexikalischen (§2.4) Ebene wieder sichtbar zu machen. Die beiden letzten Abschnitte sind der Analyse von Isellas philologischem Kommentar (§3) und des einzigen Sonetts auf Genuesisch, das der zeitgenössischen Dialektliteratur stark verpflichtet ist (§4), gewidmet.
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31 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) Carlo Ziano (Scuola Normale Superiore / HU Berlin) Zusammenfassung: Der Aufsatz befasst sich mit einigen Aspekten des Textes und der Sprache von Rabisch (1589), einer Gedichtsammlung, die in verschiedenen Dialekten verfasst ist. Darunter befindet sich auch ein Dialekt, der auf die Varietät des Bleniotals zurückgeführt werden kann. 1993 veröffentlichte Dante Isella diese Gedichte in einer Ausgabe, die neue Forschungswege erschloss. In diesem Artikel revidiere ich einige Interventionen dieser Edition kritisch, um die ursprüngliche Sprache der Gedichte auf der phonetischen (§2.1), morphologischen (§2.2), syntaktischen (§2.3) und lexikalischen (§2.4) Ebene wieder sichtbar zu machen. Die beiden letzten Abschnitte sind der Analyse von Isellas philologischem Kommentar (§3) und des einzigen Sonetts auf Genuesisch, das der zeitgenössischen Dialektliteratur stark verpflichtet ist (§4), gewidmet. Parole chiave: Dialetti, Letteratura dialettale riflessa, Filologia, Svizzera italiana, Dialetto genovese, Dante Isella 1. Premessa 1 L’articolo consiste in una serie numerata di schede che affrontano alcuni aspetti della lingua e del testo dei Rabisch (1589), una raccolta eterogenea nata dalla collaborazione di molti poeti riuniti in un’accademia e autori di componimenti scritti in diverse varietà linguistiche. Tra queste spicca un dialetto asseritamente ispirato a quello della Valle di Blenio, ma corrispondente in sostanza al «milanese, […] con una forte placcatura rustica e con grafie particolari che ne sono il connotato più manifesto» (Isella 1993: xxxvi ). L’opera si legge dal 1993 in un’edizione curata da Dante Isella (1993), i cui meriti travalicano i confini della letteratura e della linguistica: il recupero critico dei Rabisch , prodotto di un’operosa officina impegnata nella ricostruzione della cosiddetta «linea lombarda», ha fatto riemergere «una fonte importante rimasta per ragioni linguistiche sino a quel momento pressoché inaccessibile, [che] ha innescato, con funzione davvero propulsiva, una nuova stagione di studi sulla cultura figurativa lombarda di secondo Cinquecento» (Agosti 2004: 162). 1 Desidero ringraziare Luca D’Onghia e Lorenzo Filipponio, per aver letto una versione di questo articolo e averla migliorata con molti suggerimenti. 32 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 In anni più recenti sono usciti alcuni contributi di taglio storico-letterario che hanno illuminato diverse zone dell’opera in lingua e in dialetto di Lomazzo (1538- 1592), l’autore senz’altro più importante della raccolta (cf. i Grotteschi ed. Ruffino 2006; Pezzini 2020a, 2020b); in questa sede si tornerà invece a discutere alcuni aspetti problematici del testo dei Rabisch fissato dall’edizione Isella, che alterano la fisionomia linguistica originaria dell’opera, dal punto di vista fonetico (§2.1), morfologico (§2.2), sintattico (§2.3) e lessicale (§2.4). Alcuni altri rilievi sono emersi dalla spigolatura del commento a piè di pagina (§3) e dell’unico sonetto in dialetto genovese della raccolta (§4). Anche se le schede trattano di questioni diverse e in certa misura irrelate, credo che la somma dei problemi discussi sia sufficiente a segnalare l’esigenza di una nuova edizione critica: questi appunti possono valere come auspicio di uno studio sistematico 2 . 2. Il testo e la lingua L’edizione di Isella non è dotata di una vera e propria nota filologica: alcune osservazioni testuali sono inserite nella prefazione, dove si espone il metodo con cui si è trattata la resa grafica delle vocali toniche velari e delle consonanti affricate e occlusive (Isella 1993: xli xliii ). Gli altri interventi dell’editore sul testo originale sono segnalati nelle note a piè di pagina del commento (cf. ad es. 87.2, 137.10, 147.10, 149.9, 211.67, 230.40) o compaiono nella tavola delle «lezioni corrette», un elenco inserito alla fine del testo critico che registra gli errori del testo senza commenti. Alcune di queste correzioni possono apparire poco persuasive o non necessarie (cf. ad es. schede nn. xvi, xvii), ma sono molto più insidiose le emendazioni tacitamente introdotte dall’editore, perché di queste ci si accorge solo se si ricorre direttamente al testo originale. Come si è già accennato, le lezioni della stampa originale di cui si propone il restauro verranno ripartite nei quattro macro-settori di fonetica, morfologia, sintassi e lessico. A sinistra di ] c’è il riferimento alla pagina e al verso (o alla riga) dell’ed. Isella 3 ; a destra di ] quello alla pagina della princeps : ad es. 129.10 siençiglia ] 68 siglienciglia . 2 Del compito si è incaricato recentemente Enea Pezzini. 3 Quando si tratta di una parola inserita nel titolo, si scriverà il numero della pagina seguito dalla dicitura «titolo», ad es. 140.titolo Raglinòld ] 71 Raglnold . 33 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 2.1 Fonetica i. 108.11, 177.50 mai ] 62, 86 magl ; 129.10 siençiglia ] 68 siglienciglia ; 134.4 ai so penciur ] 70 agl’ su penchiur ; 138.6 gl’ poietich ] 71 igl’ poglietich ; 138.8 a i òmen ] 71 agli humen ; 149.10 i òper ] 73 gli uper ; 163.57 ai verteg ] 78 agl’ verteg ; 196.75 fiûra ] 97 figliura ; 245.48 ai torment ] 120 agl’ torment , etc. Secondo Brenno Bertoni, la scrizione <gl> «corrisponde ad un’antica e scomparsa fonetica, di cui ho ancora raccolto le tracce dai vecchi di Lottigna, e devesi pronunciare académllia , ricénzllia , col suono dell’ l mouillé del francese grammaticale» (Bertoni 1900: 45; cf. anche Ascoli 1873: 268; Salvioni 1907: 161). Quale che sia la precisa realizzazione fonetica di questa grafia, non c’è dubbio che essa alluda a un elemento semiconsonantico, ed è quindi secondo me illegittimo il tacito inserimento di <i> in questi casi: 13.7 appaglirada ] 9 appaglrada ‘messa alla pari’; 49.9-10, 51.55 superiglior ] 31, 32 superglior ; 140.titolo Raglinòld ] 71 Raglnold , che possono essere letti alla stregua di maglnera ‘maniera’ 160.8, 166.102, 196.79 etc., quaglgherugn 203.83, 215.230, magldè 241.57 - lezioni da Isella giustamente accettate. È già stato notato da Isella (1993: 7 N9) che il minimizzatore mia ‘mica’ ogni volta che è bisillabo è scritto miglia : se seguita da <i>, la scrizione <gl> implica solitamente l’addizione di una sillaba. La tacita omissione di <gl> ha quindi una ricaduta diretta sulla scansione metrica di almeno due versi dell’ed. Isella, visto che (1a) è ipometro e (1b) richiede una aspra dialefe tra fiûra e ed (o una dieresi in fïûra , che però l’editore avrebbe segnalato graficamente). In entrambi i casi il ritorno alla lezione della stampa ripristina il computo corretto delle sillabe (2a-b): 1. ed. Isella 2. stampa a. «Ch’ar sa tanta siençiglia che pù» (129.10) «Ch’ar sa tanta siglienciglia che pù» (68) b. «Ch’o diga, Ra fiûra ed Gliacomign» (196.75) «Ch’o diga, ra figliura ed Gliacomign» (97) ii. 50.12, 96.18, 108.14, 203.91 la ] 31, 59, 62, 100 ra ; 148.4 valent ] 73 varent ; 266.13 lettera ] 131 retera , etc. La rotacizzazione «non è per nulla un tratto esclusivo del facchinesco», ma gli «è esclusiva la sistematicità con cui ricorre» (Isella 1993: xxxviii ), commentata anche nella difinicione («tutti i l vanno cangiati in tanti r », ivi: 316). In particolare, sono estranee al milanese le forme dell’articolo femminile singolare ra (Bertoletti 2006: 8) e i casi, come quello di retera , in cui il rotacismo interessa l -/ ll -. 34 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 iii. 63.57 òmen ] 40 humegn ; 186.94 ben ] 91 begn ; 245.43 gran ] 120 gragn Nel dialetto bleniese -n finale si evolve in una consonante che «non risulta mai all’ascolto perfettamente una palatale, anche se certamente non è già più una schietta velare», la cui «pronuncia sembra oscillare fra questi due estremi assumendo l’effetto ora di una prevelare, ora di una postpalatale» (Moretti 1988: 35). Questo fenomeno, «attestato sul versante destro della media e bassa Ble., di cui si trovano indizi occasionali nell’alta Valle» (Vicari 1992-1995/ 1: 46), dipende dalla presenza di una vocale palatale precedente. Come si vede da stagn , gragn e dal commento nella difinicione («pigliarai li vocaboli […] primamente che finiscono in queste cadenzie, cioè in an , en , in , on , un , a’ quali in questa nostra lingua gli farai all’ultimo un g e un n » in Isella 1993: 316), i letterati dei Rabisch estendono l’allofono ben al di là dei suoi contesti odierni di applicazione 4 . Questi tre fenomeni (i-iii) sono impiegati dagli scrittori dei Rabisch come indicatori del dialetto bleniese: essi sono commentati nella difinicione e trovano nel testo «una smodata e artificiale applicazione» (Ascoli 1873: 268). Molte tacite emendazioni di Isella sembrano dipendere dall’assunto, illegittimo, che questi tratti linguistici, presentati dagli autori come caratteristici del dialetto che vogliono imitare, siano presenti in maniera sistematica in tutto il testo. Vediamo quindi che tutti e tre i fenomeni sono applicati dall’editore anche a termini che nel testo originale ne sono privi: (i) 68.21 degl’ straducc ] 43 dei straducch ; 97.28 cogl’ pugn ] 59 coi pugn ; 140.2 Raglinòld ] 71 Rainuld ; 200.37 memòriglia ] 99 memuria ; 221.231 invidiglia , rabbiglia ] 109 invidia , rabbia ; 107.7 siglia ] 62 sia ; 221.231 rabbiglia ] 109 rabbia ; 227.55 abbigliè ] 112 habbiè ; 243.3 pagl’ ] 119 pai ; 76.84 ponciglia ] 48 ponchia ; 77.95 ponciglia ] 48 gonchia (ii) 109.8 ar Maver ] 63 al Mauer ; 169.158 or Traver ] 81 ol Traver ; 170.1 dor mè cûr ] 82 dol me cur ; 176.20 cor Sporett ] 85 col Sporett (iii) 221.246 stagn ] 110 stan È simile anche il caso della prostesi di v -, un fenomeno tipico del milanese odierno, che compare solo «timidamente» (Bertolini 1985: 17) alla fine del Quattrocento nei sonetti di Lancino Curzio ed è invece saldamente attestato nel Varon e nel Prissian , nei primi del ’600. Ci aspettiamo quindi che i Rabisch presentino una situazione intermedia: voltra 15.36 ‘oltre’, vòlta vos ‘alta voce’ 59.46, vugn 4.7, 144.3, 166.104, 166. 119, 196.82 etc. convivono con molte altre forme prive di prostesi. Non sembrano quindi accettabili due tacite inserzioni di Isella: 7.7, 93.7 vun ] 6, 58 un . 4 Farra sostiene invece che questo avviene perché la distribuzione di -gn rispecchia quella del bleniese antico, in cui tutte le vocali avrebbero innescato la palatalizzazione di -n (Farra 1951: 300). 35 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 iv. nn115.4 fagand stupì par figna cogl’ de Bregn ] 64 par fign a ; 189.156 senza fà rid par figna ’gl pregl’ di mur ] 93 par fign a Perfino , fino e sino nel significato di ‘perfino’ possono reggere un sintagma preposizionale la cui testa è a , secondo una tendenza diffusa nell’italiano antico e in testi più o meno coevi ai Rabisch (vd. Visconti 2004: 445-63 e 448 e D’Onghia 2015: 161- 62). Di fronte a una stringa grafica come <fina agl> o <fignal>, come deve comportarsi l’editore? È la fonetica che gli indica in che modo segmentare il testo della stampa: se l’avverbio presenta -gn , sapremo che la <a> dovrà essere assegnata alla preposizione, perché, come si è appena visto, la palatalizzazione nell’idioletto dei Rabisch riguarda -n finale, non interna di parola. Diversamente, la <a> dovrà essere assegnata all’avverbio, come in questi casi: «par fina agl’ sbagg» ‘fino agli sbadigli’ (103.8), «fina agl’ ugg» ‘fino agli occhi’ (122.7), «par fina agl’ stell» ‘fino alle stelle’ (122.11). In questi tre ess. fina e parfina hanno il significato di ‘fino’, che richiede la preposizione anche in italiano: forse perché confortato dalla norma contemporanea, l’editore non ha difficoltà a mantenere il testo immutato. Isella però non fa lo stesso nel caso del v. «vedet che chilò piansc par fina ’gl fòss» ‘vedi che qui piangono perfino i fossi’ (168.147). La stampa presenta infatti «par fina agl fuss» (81), ma Isella omette la a della preposizione articolata: in forza dell’uso appena ricordato, il testo deve essere mantenuto. v. 222.221 Cosmografigl ] 110 Cosmograffigl’ ; 222.251 degl’ortografigl ] 110 del Ortograffigl’ ; 222.253 mettì ] 110 metì ; 222.254 gratà ] 110 grattà ; 225.30, 232.13, etc. quòl ] 112, 114, etc. quoll ; 226.32 dònn ] 112 dun ; 226.35 mettù ] 112. metù ; 226.44 combattiment ] 112 combatiment ; 228.3 escusamm ] 113 escusam ; 229.17 abbiglié ] 113 abiglié ; 230.39 veggia ] 114 vegia ; 230.40 seggia ] 114 segia ; 230.42 abben ] 114 haben ; 230.47 abbiem ] 114 habiem ; 244.16 strascinamm ] 119 strascinam ; 239.25 vûss ] 118 vus ; 239.26 bordell ] 118 bordel ; 247.3 ligònn ] 121 ligon ; 249.4 ciappusc ] 122 chiapusc ; 249.10 vaccascia ] 122 vacascia , etc. Come si vede da questi esempi la resa delle consonanti scempie e geminate è stata modificata secondo due principi ricostruibili così: (a) eliminare quelle geminate all’interno di parola (p. es. 222.221 Cosmografigl ] 110 Cosmograffigl’ ); (b) raddoppiare quelle scempie in fine di parola, se seguano una vocale breve (p. es. 226.32 dònn ] 112 dun ). Questi due principi non sono discussi e non sono applicati in maniera uniforme (p. es. 222.253 mettì ] 110 metì , 229.17 abbiglié ] 113 abiglié ), né, d’altra parte, a essi dovrà per forza attenersi il futuro editore dei Rabisch . Ciononostante, l’operazione di Isella non è del tutto priva di senso linguistico: essa trae conforto (a) dal fatto che la degeminazione, conosciuta da Milano e da quasi tutto il Nord-Italia, rende superflua e irregolare la rappresentazione scritta delle consonanti geminate; (b) dall’ipotesi che, in fine di parola, le doppie «accenn ino solo all’estrema brevità 36 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 della precedente tonica» (e che cioè bordell alluda non alla lunghezza di -lma alla brevità di è ) 5 . 2.2 Morfologia vi. 243.2 a ‘s bugl’ ] 119 es bugl’ ; 246.49 a ’s ved ] 121 es ved Questi due passi sono citati da Pezzini perché riportano a’ come clitico atono impersonale (Pezzini 2020a: 200); si tratta in realtà di lezioni non originali, ma emendate da Isella. L’unica altra occorrenza di a’ come clitico espletivo in un sonetto bleniese è di nuovo il frutto di un’emendazione dell’editore, all’interno di un passo che quanto meno può definirsi problematico 6 . In funzione di clitico espletivo a’ compare nei Rabisch solo in componimenti scritti in varietà non bleniesi: (i) «ch’a ’s dis» (271.35), «a’s bali» (280.193) etc. in componimenti scritti in dialetto milanese, la cui documentazione presenta a’ a partire dal Tre-Quattrocento (Vai 2014). (ii) «a’ s’ fa minzion» (42.1), «a s’ può veder» (43.10), in due sonetti in «lingua grazianesca». Nel dialetto bolognese di quegli anni, il termine di paragone più vicino a questa varietà in larga parte artificiale (cf. §4), a’ è allofono di al di fronte a i non semiconsonantico. Nella Rossa dal Vergato di Giulio Cesare Croce, un componimento in bolognese la cui princeps fu pubblicata nel 1590, si trova «al s’ ballava» (cf. Foresti 1999: v. 45), «al n’ s’ psea truvar» (v. 126), «Al m’ dsea la Fior» (v. 130), «al n’iè nsuna» (v. 140), «al n’ s’ pseva za vder» (v. 184), «al m’ casca zo la panza» (v. 196), «s’al iè fus qui un patron» (v. 204), contro a «a’ ’i zova / a bastunarla ben» (v. 274). Chiarito che non si tratta di <as> ma di <es>, bisogna capire se la scrizione univerbata del testo alluda a un elemento monomorfemico, e quindi a un pronome che si 5 L’ipotesi (resa nota in Bertolini 1985: 14 N6) è formulata su una copia della Fonetica del dialetto milanese appuntata da Salvioni stesso e conservata tuttora nella Biblioteca di Antichistica dell’Università di Pisa. L’ipotesi di Salvioni è stata richiamata per spiegare le grafie di alcuni documenti lombardi antichi da Colombo (2016: 151) (e quindi da Ventura 2020: 372), che in riferimento a scrizioni come cello ‘cielo’ e vello ‘velo’ afferma che «l’ipotesi di Bertolini è ammissibile solo a condizione di non ritenere meramente grafica la scrizione della vocale finale e della consonante precedente, il che comporterebbe una vocale lunga». Colombo si riferisce qua a un’altra ipotesi di Salvioni, secondo la quale la lunghezza vocalica sarebbe innescata dall’apocope della vocale finale (Salvioni 1884: 159). Anche se ripresa e riformulata all’interno di complessi modelli teorici, questa ipotesi non ha retto all’ultima esaustiva indagine sul tema (Loporcaro 2015). Le scrizioni commentate da Colombo andranno piuttosto spiegate richiamando la nota tendenza, di valore solo grafico, a raddoppiare le lettere che consistono di una sola asta (Stussi 1965: xxx). 6 Il testo di Isella legge: «che quanto più la mente si assottiglia / quand più ra scierca a fond, tant più a s’è degn» (94.13). Ma la stampa riporta: «che quanto più la mente si assotiglia / quant più ra scierca a fond, tant più assè degn» (58). 37 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 sillabifica tramite una vocale prostetica, o a uno bimorfemico, e quindi a un clitico espletivo e seguito dall’impersonale s . Tutto ciò ha ovviamente una ricaduta filologica sull’edizione, perché si tratta di decidere se scrivere <es> o <e’ s’>. Anzitutto bisogna verificare se la forma dell’espletivo sia la stessa in altre costruzioni impersonali. In questa funzione, non troviamo nei Rabisch nessuna occorrenza di e’ , ma di: (i) a’ : cf. sopra (ii) ar : «fòrza a r’è begn ch’o’ ’s mangia in ògni viglia» (91.2). (iii) or : «or zògna» (89.2), «o r’è forza» (90.13), «or ’m creppa or cûr» (147.13), «or me pariva» (212.85), etc. (iv) o : «ch’o’s vûglia dì» (50.15, 50.30), «ch’o’ s’ pò fà» (51.38), «ch’o’ s’ pò pensà» (51.41- 42), «più onorada ch’o’ gh siglia» (50.20), «o’s convegn» (54.97), «o ’gh zognarà» (60.17), «com o’s ved» (63.54), «in dor qual sigill o gh’è scavad on Bacch» (65.94-95), «o’n var mia contra cost scufigl e pairû» (161.25), etc. Meritano una considerazione a parte due occorrenze di er come clitico soggetto atono di 3 a persona e come articolo determinativo (1a-b). In entrambi i versi la forma è il frutto di un’emendazione di Isella (nel secondo caso di una sua tacita emendazione), visto che il testo originale riporta una lezione diversa (2a-b). 1. ed. Isella 2. stampa a. «Còsm er vûr dì mond» (143.13) <Cusm & vuur di mond> (72) b. «o ventrasc or più bell c’ha er nòst valogn» (173.62) <o ventrasc or più bel ch’ar nust valogn> (84) Il testo di (2b) è accettabile pensando che in fonosintassi si elida la vocale dell’articolo: bisognerà mettere a testo «o ventrasc or più bel ch’ha ’r nust valogn», sull’esempio di «in quant siglienz ha ’r cosm» (142.4), «da pû che ’r nòst Gandign i pé ha tirad? » (122.4), etc. Nel caso di (2a), la <&> sembra alludere a un clitico soggetto, che (1) può essere e’ ; (2) può essere ricavato attraverso un’emendazione, sulla scorta di Isella, che riconosce in <&> un errore. Nel caso di (2), poiché er sarebbe nei Rabisch un unicum , l’emendazione di Isella è da rigettare; e se anche l’ipotesi (1) fosse vera, non ci ritroveremmo di fronte a e’ clitico espletivo. Non si tratta quindi di un contesto utile per l’analisi della sequenza <es>. Appurato che nei Rabisch non c’è nessuna occorrenza di e’ come clitico espletivo, bisogna poi notare che non tutti i costrutti impersonali richiedono un clitico: «qui s’ pò dì» (6.49), «se savigl’ gh’è tra nugn» (91.5), «perchè se ved e se comprend» (115.5), «fòrza è semper ch’o pensa in dor facc tò» (117.2), «forza m’è» (131.15), «no ’s pò trovà» (175.8) etc. 38 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 Come si vede, nei Rabisch non tutte le costruzioni impersonali richiedono un clitico, e, qualora lo esigano, esse presentano a’ , ar , or e o , mai e’ . È quindi possibile considerare l’ipotesi che e sia una vocale prostetica. Effettivamente troviamo che lo stesso fenomeno riguarda la preposizione semplice ‘di’: (i) ed Bacch 13.9, ed ti 15.29, ed cogl’ antigh Gregh ò Romagn 137.13, ed colla schiera 162.35 ‘di quella schiera’, ed col Bordel 164.74, ed trà di sloff 187.112, ed còl Orsogn 200.37 etc. (ii) od mud 162.32 ‘di modo’, od sòrt 221.231 ‘con la conseguenza che’, etc. I casi appena riportati sono però diversi per più aspetti da quelli da cui siamo partiti. Nei v. «a ra stasogn dra stà che ’d cold es bugl’» (243.2); «ma quando scì bell es ved e inscì begn facc» (246.49), la prostesi riguarda infatti non la preposizione semplice ma il pronome impersonale ed è inserita in un contesto fonosintattico diverso: la e facilita l’articolazione di una sequenza consonantica complessa a livello sovralessicale. Nel Prissian (1606), occorrono alcuni altri ess. dello stesso fenomeno, che tende a manifestarsi in contesti fonosintattici simili: es compare se contorniato da due consonanti (i) o da una sola, che lo segue (ii). Simile il comportamento di em ‘mi’ (iii) 7 : (i) «on pochin com’ es fa ona sposa» (185.27), «com’ es fa adess? » (189.101), «b. es parnonzia come fava i Latin» (190.123), «quand al è consonant es proferiss nomà d’ona sileba» (194-195.194-195). (ii) «parciò es met» (195.194), «alora es segna» (198.253), «come vu , in Toscan voi , es met l’ascent» (199.269-270). (iii) «quant a mì em par» (197.246), «senz’ i ? Em parenn» (200.287-288). Che es sia un elemento monomorfemico è provato inoltre da tre forme dell’imperativo con pronome riflessivo enclitico, anch’esse presenti in una poesia di Rainoldi: togliemes ‘prendiamoci’ (247.9), mes’ciemes ‘mescoliamoci’ (247.11) e cordemes ‘accordiamoci’ (247.13), cui va accostata batendes ‘battendosi’ (144.4), in un componimento di Lomazzo. Poiché in enclisi a forme dell’imperativo ( -èm ) o del gerundio ( -ènd ), non può occorrere un clitico soggetto, la -edeve essere analizzata come vocale prostetica del pronome riflessivo, che insorge normalmente nel dialetto milanese nel caso in cui una voce verbale uscente con consonante si accoppi con un pronome enclitico (cf. Salvioni 1975: 359). Per concludere, sembra quindi più appropriato ipotizzare che la e sia una vocale prostetica: nei due casi da cui siamo partiti propongo di restaurare <es>. 7 Il testo è quello approntato da Dante Isella in Lepschy (1965): qui si adegua all’uso moderno la distribuzione di h , di u e v e si accompagnano le forme con il numero di pagina e il numero di riga, separati da un punto fermo (ad es. 180.30). 39 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 vii. 249.13 illuc ] 122 illu Isella emenda il testo per ottenere il lat. illuc ‘là’, che costituisce nelle poesie dei Rabisch una macchia isolata e vistosa: è vero che negli statuti in prosa ( straducch ) si parodia il linguaggio notarile ricorrendo a formule come « sed come pacifica gens » (55.113), « vel scirca» (71.11), ma nei componimenti in poesia non c’è il latino (se non si considera quello di Graziano, cf. §4). Anche il lat. recipe ‘ricetta medicinale’ è adattato al contesto volgare e si presenta come rezipé (248.13), e il lat. requiem è travestito in requigliam (227.59). La lezione originale è difendibile se si richiama il succedaneo volgare ilò ( LSI , s.), ben diffuso nella Svizzera italiana (Giubiasco, Verscio, Cavigliano, Brissago, Poschiavo, etc.). viii. 129.11 no n’hagn mostrad ] 68 ne n’hagn mostrad La negazione preverbale è ne a Breno ( AIS 1669, punto 71) e ricorre altrove anche negli stessi Rabisch : «s’te ne vû briga» 98.42; «te ne me pias» 105.7; «te ne’n vû bricca» 105.10; «tass parchè ne so» 145.10; «te ne ’m cognoss» 162.46, «ne vûn» 275.101. Questa forma, derivata per riduzione proclitica da no (Salvioni 1894: 317), compare nelle opere milanesi di Maggi e Tanzi (Vai 1996: 82) ed è impiegata come stigma di un registro linguistico rusticale nella letteratura dialettale riflessa di area trevigiana, bellunese (Formentin 2010: 218) e genovese (Ziano 2021: 897). ix. 296.2 e no sté mo gno ] 140 e ste mo gno L’inserzione (tacita) di no non è giustificata dal metro, visto che la frottola contiene versi di misura diseguale. Si tratta di capire se sia giustificata dalla grammatica: è vero che nei Rabisch la negazione è quasi sempre espressa mediante un negatore preverbale, ma è anche attestato un caso di negazione discontinua («no abbia pagura no» 5.38), costruzione che secondo Vai compare per la prima volta nel Prissian , 1606 («no farò da corù nò» ‘non farò come lui’, cf. Vai 1996: 72) 8 . A Milano il ciclo si evolve tra Otto e Novecento con la scomparsa del negatore preverbale (Salvioni 1919: 203-04) 9 . Che la costruzione attestata nel passo in analisi si sia imposta nel dialetto urbano solo recentemente non sembra un argomento sufficiente a giustificare un’emenda- 8 Nei Rabisch sono inoltre attestate alcune occorrenze di negazione discontinua no e mia ‘mica’: «che n’ho mia tant insciegn» (47.15), «no mancaran mia» (54.94), «no se’n spantega mia» (71.8), «o ’n gh’avaraven mia spezzad gl’oss» (109.3); «ch’o’ n’ign mia degn» (126.9); «o’n var mia contra cost» (161.25); «o ’n gnossè mia onzugn» (162.37); «o ’n pensè mia» (163.61, e cf. anche 168.148, 175.6, 176.14, 176.30, 177.48, 193.20, etc.). 9 Oltre che ne , no e gno , nei Rabisch è anche attestato non , che non è il caso di segmentare in due unità grafiche distinte, come fa Isella: «s’or no n’è virtuglios in qualcòssa» ‘se non è dotto in qualcosa’ (67.15-16). Inoltre il v. «che na ’r lo toccarav gnanch or Digliaver» (87.4), secondo me da segmentare n’ar , visto che la negazione non è espressa mai con na e ar ritorna come clitico soggetto in 7.6, 14.20, 15.45, 15.46, 66.113, 77.91, 125.12, 129.10, 137.12, 141.9, 142.6, 147.6, 211.69. 40 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 zione. Similmente, l’affermazione nel dialetto milanese della desinenza tegnom ‘teniamo’ 119.13 (invece che -em ) è ancora più recente (solo nel Novecento perde il suo stigma sociolinguistico), eppure la forma è giustamente mantenuta a testo da Isella stesso. La lingua fortemente caratterizzata dei Rabisch può spiegare la presenza di questo e altri fenomeni che emergono nella documentazione milanese solo più tardi, come ne ‘non’ e la palatalizzazione di -a- . x. 102.14 fa ] 61 sa ; 249.2 fa ] 122 sa In questi due casi Isella scambia f per s , due aste verticali che anche sulla carta stampata sono facilmente confondibili (cf. Stussi 1994). Il significato dei versi in parte cambia: «ch’o ’n sa (fa) gnanch magl’ astant squas de parlà» (249.2) sarà traducibile con ‘che quasi non sa parlare neanche a stenti’ e non con ‘che quasi stenta a far vista di parlare’. «A nòm dor nòst Ciabòcch ch’o sa (fa) ’d rettrascia» (102.14) equivarrà a ‘in nome del nostro Ciabocco che conosce la grande letteratura’ non ‘in nome del nostro Ciabòcch che la fa da gran letterato’, anche perché rettrascia , essendo un alterato di ‘lettera’, non può essere «scherz. per ‘gran letterato’ (nel Maggi, letterasciù )» (come commenta Isella ad loc.), che è invece un derivato, ancorché scherzoso. xi. 150.4 «ra scïent cogl’ penigl’ a r’improvis»] 74 «ra scient cogl’ so penigl’ a r’improvis» La tacita omissione dell’aggettivo possessivo obbliga l’editore a inserire un’aspra dieresi su scient per ottenere che il verso rientri nella misura dell’endecasillabo. xii. 57.15 «ch’o’n tira fûra dor scur»] 36 fur Anche altrove l’avverbio è privo di -a : cf. «andà fûr’ a incaparai» (298.48); «e no pòss portà fûr’ ol cù» (299.65); «andava com’ fa i matt fûr de perpòst» (229.12), etc. xiii. 71.13 pò portà ] 45 pò portò ; 104.14 raspagl’ ] 61 raspogl’ ; 178.73 sciscià ] 86 sciciò In questi tre casi, Isella emenda tacitamente la terminazione dell’infinito, che nell’idioletto dei Rabisch può essere -ò . L’origine di questa forma è stata individuata nella confusione originatasi nella testa degli scrittori milanesi tra l’infinito e il participio passato, che in bleniese è effettivamente in ò , «stante la quasi identità delle due voci nel dialetto che veramente era il loro (mil. cantà inf., cantàa ptcp.)» (Ascoli 1873: 268 N3). xiv. 201.47 arav ] 99 haruv ; 202.62 araven ] 99 haruven ; 239.24, 240.27 saravv ] 117, 118 saruv ; 296.11 arav ] 140 haruv Le lezioni originali, sistematicamente emendate da Isella, sono difendibili se si pensa che le stesse forme sono documentate a Poschiavo, anche se in documenti più tardi: 41 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 dalla versione della parabola del figliuol prodigo di Monti 1845: 415 ( aròf ), dall’antologia di Papanti 1875: 633 ( darovi , perdarov ), dall’ AIS 1630 (punto 58, sarov ), da un informatore autoctono di Salvioni 1902-1905: 658 ( cantarof ) e da alcuni componimenti dialettali del poeta primonovecentesco Achille Bassi (Zendralli 1953-1954: 4; Isella 1993: xlvi ). xv. 51.48 fagand ] 32 fagend Questa emendazione è inserita nella tavola delle lezioni corrette ma non è corredata di un commento che la giustifichi: è possibile che Isella abbia messo a testo -apensando all’estensione analogica di -ando , molto comune nei dialetti settentrionali. Anche il milanese ha conosciuto lo stesso fenomeno, ma la distinzione tra classi flessive è stata reintrodotta nel «dialetto moderno», forse anche per influsso dell’italiano, visto che «il vernacolo genuino esprime il gerundio perifrasticamente» (Salvioni 1884: 13). I Rabisch condividono questo tratto con quello che Salvioni chiama il «dialetto moderno», perché nell’opera troviamo effettivamente ripristinata la «primitiva differenza» (ibid.) tra drovand , abbrasciand , stand , scortegand etc. da una parte e avend , disend , cresend , volend , etc. dall’altra. L’unico residuo di variazione riguarda i verbi in -g- : digand 185.59, 268.7 a lato di disend 233.16; fagand (115.4, 229.20, 229.30 etc.) a lato di faghendel 14.27, faghendet 107.4. In un solo caso, Isella mette a testo faghænd 180.118 invece che <faghend> della stampa, attribuendo la -ealla palatalizzazione di -atonica, un fenomeno di cui si trovano molti ess. nella letteratura dialettale sei e settecentesca (Salvioni 1919: 188-95): «nella stampa andevigl ( devigl ), come altrove cier , me , te , faghend etc., sono casi sporadici di presenza di æ (cioè e lunga e aperta), in corrispondenza di un’ a lunga tonica, quale che sia la sua origine» (Isella 1993: 95). Proprio perché questo fenomeno si applica su -atonica lunga, la palatalizzazione non avrebbe potuto riguardare fagand : la -èdi faghend andrà spiegata alla luce della partizione morfologica che si è illustrata. Similmente, per spiegare bandind 227.57, Isella rimanda a Salvioni (1884: §5), che tratta di é > i : ma qui si parla di basi neolatine ( sira ) o di metaplasmi nelle voci verbali dell’infinito ( remanir ) e dell’imperfetto ( ridiva ). Mi pare invece che la -itonica di bandind vada spiegata alla luce di un fatto morfologico, non fonetico: i verbi della IV coniugazione estendono la vocale tematica -ianche alle voci del gerundio, come succede in due casi nella passione trivulziana milanese ( dormindo e ferindesso , cf. Colombo 2016: 189) e ancora oggi in Piemonte meridionale e in alcune zone del Veneto (Rohlfs 1966-1969: §618). xvi. «che quogl’ dar’ospedà te tegn a magn» 236.2] 116 «che quogl’ dar hospedà te tegnen a magn» Per rimediare all’ipermetria del verso, Isella propone l’emendazione tegnen > tegn , che creerebbe però un caso anomalo in cui la III persona equivale alla VI. Nei Rabisch c’è sincretismo tra queste due persone se il verbo è anteposto al soggetto (a) o se il 42 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 soggetto è un pronome relativo (b), in linea col comportamento del milanese (Salvioni 1975: 364): (a) «andægh adré criand tucc i tosogn» (129.8), «ra merda ch’o squitòrgna i vesp» (171.18), «de zucc che pera i donn» (226.32), «ven adrè dù fradei del Panza ’d Pegora» (257.92), «che credì com’ vûia fa / sti smorbiòtt» (283.254-255), «n’è mo anca recaton / quij che venden ol pess» (303.162-163), etc. (b) «par color che fa i pianell» (273.75), «quij che ten / spendascià fû de perpost» (276.106- 107), «de sti omen da Milan, / ch’a i comporta ona fantesca» (290.55-56), «sti gogò / che ne vegna a lavorà» (301.105-106), etc. Il verso in analisi non ricade in nessuno dei due gruppi di esempi. È vero che in precedenza si è difesa la legittimità di alcune lezioni linguisticamente isolate, ma esse erano effettivamente attestate dalla stampa, non derivavano dall’emendazione dell’editore. Credo invece che per rimediare all’ipermetria del verso sia più appropriato modificare dar’ in dr’ , che per altro rispetterebbe la traduzione già offerta da Isella: ‘quelli dell’ospedale’. xvii. 268.8 sid [ e ]] 182 sï [ a ] d Anche qui non si tratta di difendere la stampa, ma di proporre un’emendazione alternativa a fronte di una lezione originale scorretta, dato che al verso «o sid benedet e vu e mi» manca una sillaba perché arrivi alla misura dell’endecasillabo. Per evitare di creare una forma fantasma come side , priva di attestazioni nei Rabisch o altrove, proporrei l’emendazione siad < *( es ) seatis . Questa forma compare in un altro componimento in dialetto bleniese, ma con la scrizione <gl> propria di quell’idioletto: «oh sigliad benedett a sogn de piva» (184.43). Poiché la voce in analisi si trova all’interno di un componimento in dialetto milanese, proporrei di privare la forma sigliad della grafia tipicamente bleniese <gl>; all’ipometria del verso si potrebbe rimediare ponendo una dieresi su siad , che risulterebbe in tal modo bisillabo al pari di sigliad : «o sïad benedet e vu e mi». 2.3 Sintassi xviii. 296.8 che no ’m posseva partì da cà ] 140 che nom poseva partim da cà La tacita emendazione di Isella non è giustificabile alla luce del metro, poiché il pronome enclitico -m non determina l’addizione di una sillaba (e d’altra parte il componimento è una frottola anisosillabica); la lezione è difendibile se si pensa che la ripetizione del pronome personale con i verbi a ristrutturazione è un fatto noto ad alcuni dialetti italo-romanzi (cf. Manzini/ Savoia 2005/ 3: 385) e all’italiano popolare 43 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 (cf. Beretta 1986: 73). All’interno dei Rabisch sono attestate un paio di costruzioni simili: «per podis pû ben brazas» (289.22), «da podis accompagnas» (289.32), «e pû ’s meten a brazas» (290.38). xix. 231.64 de renovò ] 114 da renovò Il verbo sper del v. precedente («sper, se più ca prest no tir i pé, / de [ma in realtà da C.Z.] renovò or Valogn tutt quant o r’è» 231.63-64) richiede la preposizione da , come in quest’altro caso: «sper, inanz ch’o siglia vegg, / da scrivv» (103.7-8). 2.4 Lessico xx. 53.79 animava ] 33 avinava La stampa riporta in realtà «ra volontà de Bacch ch’o gl’avinava» (33): è chiaro che Bacco non anima ma inebria i membri della Accademia bleniese. Lo stesso termine, attestato fin dall’Anonimo Genovese ( TLIO , s.) col significato di ‘bere una gran quantità di vino, ubriacarsi’, torna anche altrove nei Rabisch : «e fa avisad or nòst compà Vinasc / che avina or Galigliogn» (84.13-14); «infrascad, infrisad e begn avinad» (53.83-84); «viva viva or Galigliogn / quant ch’o r’è begn avinad » (175.1-2); «da mì, quand ch’o saró begn avinad» (184.44); «e da portagh descolz or galigliogn / avinad de bogn vign inscì sur cò» (230.51-52). xxi. 58.21 versarigl ] 36 sversarigl ; 75.64 brisiga ] 47 sbrisiga Anche altrove compare sversarigl 171.17, 208.5, dotato di una s- , come spervegnì 63.69, sversa 112.7, scomenzegn 160.2, sconfondarà 186.75, sgrafigl 199.20, snarà 256.76. Gli autori dei Rabisch sono da inserire tra i vari scrittori dialettali che hanno sfruttato la prostesi di s- , ben diffusa nell’italo-romanzo settentrionale (Rohlfs 1966- 1969, §1012), a fini espressivi (Ruzante, Folengo, Testori). xxii. 172.47-48 «o gavasc moresign più ca ra seglia, / quant ve poròglia on bòtt leccò tutt quant / o armanch basav on tracc par maraveglia? »] 83 «o gavasc moresign più ca ra seglia, / quant te poroglia un butt leccò tutt quant / o armanc basat un tracch par maraveglia» In questi versi l’innamorato Zavargna si rivolge al gavasc della sua amata Rosetta e si chiede quando finalmente potrà baciarlo. Isella, come spiega nella nota, deduce il significato e il numero del sostantivo dal pronome del verso successivo: « gavasc : 44 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 plur. (cf. 47 ve ), ‘guance’». Ma nel testo si legge te , non ve , e al verso successivo c’è basat ‘baciarti’, non basav . Gavasc < * gaBa ‘gozzo’ ( REW , PIREW 3623) + il suffisso aceus significa infatti (1) ‘boccaccia, muso’ e quindi (2) ‘musone, brutta faccia’. La «tavola della lingua di Bregno» glossa il termine con ‘faccia, bocca’ (cf. Isella 1993: 312), e a questo significato, duraturo nella storia del milanese (Salvioni 1919: 192 N2), sono da ricondurre le seguenti occorrenze: «a te 10 romparò ol gavasc» (294.90) ‘ti romperò il muso’, «ra virtud ch’o t’ ven fû dor gavascion» (101.4) ‘la virtù che ti viene fuori dalla bocca’, «i gavasc da mangiò ganga» ‘bocche da cesso’ (186.91), «gavasc da gavasciogn» ‘boccacce da mangioni’ (187.106), etc. xxiii. 195.66 romanzina ] 97 Romacina Con Romacina (o più spesso ramacina , romancina , ramansina , ramanzina , romanzina , etc.) si indicava una canzone diffusissima tra XV e XVI secolo (cf. Pannella 1961, 1962). Sull’etimologia del termine è tornato recentemente D’Onghia (c.d.s.): « dare o fare la romancina […] sarà valso […] da principio ‘cantare la canzone della Ramacina’ (forse usata per rimproverare o compiangere l’amata assente o recalcitrante), e solo in un secondo momento avrà poi assunto l’accezione corrente e più generica di ‘rimproverare’, con una degradazione semantica che colpisce vari altri nomi di danze ( sarabanda , tresca )». Come dice D’Onghia, il nome deriva probabilmente da quello dell’amata a cui la canzone si dedicava: è preferibile mettere a stampa la maiuscola. Inoltre, la stessa variante fonetica attestata nei Rabisch , con -c- , si rintraccia nel Capitulo d’un vilano (conservato a Venezia, Biblioteca Marciana, misc. 2175.4, cc. 2v-3v), stampato «ad instantia de Felice Bergamasco», forse nei primi anni del ’500: «che star possuta aresti al parangone di quella romacina sì forbitta, / per cui fu fata già quella canzone» (Novati 1918: 918). xxiv. 201.49 rencress ] 99 recress ‘rincresce’ Anche questa emendazione non sembra legittima, poiché il tipo recress , « recomposto direttamente con cresser » (Salvioni 1897: 128), è ben presente nei testi antichi lombardi: «q’el recres ad ogn’om» (Patecchio, ed. Meneghetti 2019: v. 74); «no ve recresca de l’odire» (Barsegapè, ed. Keller 1901: v. 2160), etc. Infine, faccio seguire senza commentarli altri risultati della collazione: 58.35 Imemegl’] 37 Imenegl’; 63.54 come] 45. com; 73.35 ch’o siglia] 46 ch’or siglia; 76.71 come] 47 comè; 77.93 atracad] 48 attacad; 97.34 su ligliam] 59 sur ligliam; 99.titolo dicc or Ramòzza] 60 dicch or compà Ramuzza; 105.14 rasp e strigg] 61 od strig; 117.9 se pariss] 65 se ’t paris; 119.26 serviglió] 66 sarvigliò; 132.3 brasc gamb] 69 gamb brasch; 158.11 tutt i onó] 76 tutt r’onò; 160.1 10 Isella scrive «re romparò» ma il testo presenta «te romparò» (139). 45 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 Ar temp] 77 Ner temp; 166.104 Tabara] 80 Trabara 11 ; 173.56 più] 84 pù; 177.5 di ventur] 86 de ventur; 195.54 che] 96 ch’o’; 201.53 manz] 99 manzù; 203.90 quigl’ augurigl] 100 cogl’ augurigl; 215.137 compà] 107 compagn; 217.175 Metrodòr] 108 Metrodutt; 219.207 par quòst] 109 par cost; 215.144, 300.79 per] 141, 107 par; 222.252 regordev] 110 recordev; 225.28 e foss ch’o no] 112 e foss che no; 230.33 che’a] 114. ch’a; 230.35, 236.3 gagliard] 114, 116 galiard; 230.41 pò] 114 può; 232.2 zenta] 115 centa; 234.8 Scipigliogn] 116 Sipigliogn; 240.30 Sant] 118 San; 235.11 n’abbia or] 116 n’habbiglia; 249.9 Me] 122 Ma; 298.38 che staghé] 140 ch’egh staghè; 299.73 potta da scià e da là] 141 potta e da scià e da là; 299.84 a quest e a quel] 141 a quest e quel. 3. Osservazioni sul commento xxv. Il v. «ch’o mangiarav ’ch’or fè, ch’o n’è magl’ stracch» (14.10) è accompagnato dal commento «da noi interpretato come riduzione di anch or fegn » (Isella 1993: 14) ed è quindi tradotto ‘mangerebbe anche il fieno’. Ma una simile riduzione di anch non occorre altrove nei Rabisch ; inoltre, nell’idioletto bleniese usato dagli autori -n in fine di parola non cade ma si palatalizza (vd. sopra). Un’interpretazione che faccia giustizia della forma e del senso del verso è ‘mangerebbe chi lo fece’, un’espressione proverbiale con cui si indica una fame insaziabile, registrata da Cherubini (1839- 1843), s. Mangià («el mangiarav anca chi l’ha faa»), da Boerio (1856), s. Magnar («el magnaria chi l’ha fato») e da varie fonti italiane, anche più vicine ai Rabisch (cf. ad es. «e’ mangerebbe chi l’ha fatto» in Pescetti 1603: 110). xxvi. Il v. «o scient dra vall d’ Bregn resciuda dagl’ gran savigl e consiglié» (57.4-5) è tradotto ‘o gente delle [ sic ] Valle di Blenio, siate i benvenuti presso i grandi savi e consiglieri’. Ma resciù è inserito nel glossario finale con il significato di ‘retti’ (participio debole di reggere , cf. lesciuda 69.4 ‘letta’, mettù 226.35, mettud 233.14, impromettud 230.49, etc.) e con questa accezione si ritrova anche altrove: «tucc i còrp da bass fussen resciud da cogl’ de sora» ‘tutti i corpi di sotto fossero retti da quelli di sopra’ (50.6). Il verso in analisi è quindi traducibile con ‘o gente della valle di Bregno, governata dai grandi saggi e consiglieri’ (cf. poco dopo «besògna ch’or Nabad con l’agliutt dor Consegl’ governa e rescia tutta ra vall con resogn» (61.25)). xxvii. «studigliem donca ogn’ora» (92.18): Isella in nota dice che si deve leggere studìgliem , «con il consueto arretramento d’accento». Questa ritrazione nel dialetto milanese riguarda però solo le voci dell’indicativo e del congiuntivo, non quelle dell’imperativo (o congiuntivo esortativo), che continuano a recare l’accento sull’ultima sillaba (vd. Salvioni 1975: 363, 365): al verso spetta quindi un ictus sulla terza, come nell’unico altro settenario del componimento («par possè megl’ pû fa» 92.15). 11 Isella rimanda in nota a p. «80 r. 66a dove Trabara della stampa è stato da noi corretto su questo passo». In realtà qui c’è Trabara e quindi anche l’altra occorrenza (a p. 50 della stampa) andrà mantenuta. 46 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 xxviii. Il v. «con sto asnogn ve imbarboglié» (98.46) viene tradotto da Isella con ‘vi impacciate con questo asinaccio’ con questo commento: «da imbarboiass , non però nel senso vivo ancor oggi di ‘incepparsi nel parlare’, ma piuttosto di ‘impasticciarsi’, ‘mettersi in cose poco chiare’ ( ingarbuiass ). Non attestato altrimenti». Al contrario, il verbo imbarbugliarsi ‘immischiarsi’ è ben attestato, dal 1536 (< * BrB , cf. LEI , 7.259.20). xxix. Il v. «et in Fiorenza, ove o ’n mangiè magl’ quagl’ / penciò che megl’ pensciess in quadr’ ò in mur» (134.7-8) è tradotto ‘e in Firenze, dove non mangiò mai quaglie pittore che dipingesse meglio di lui in quadro o su muro’. In riferimento all’espressione ‘mangiare quaglie’ Isella commenta seccamente «burlesco per ‘visse’». Visto che per questa espressione burlesca mancano riscontri, proporrei di tradurre più semplicemente quagl’ ‘qualche’, come indica tra l’altro la tavola della lingua di Bregno (313). xxx. Circa la forma aregord 173.58 Isella parla di « apronominale agglutinata al verbo»; nel commento ad arasà 180.121, si dice che la voce «presenta una sorta di a irrazionale che si riscontra in molte altre parole» (cf. arann 250.8, aplasì 268.4, arich 271.37, apiasè 277.133, atrovà 291.4, apenelat 292.21 etc.). Si tratta invece di una aprostetica o prefissale, del tipo che si incontra nel dialetto milanese preseicentesco (cf. Angelini 2021: 304). Invece che «ma recomand» (303.159, 304.182), il testo deve quindi essere segmentato: <m’arecomand>. 4. Il sonetto genovese e la mimesi degli altri dialetti L’unico sonetto genovese dei Rabisch contiene parecchi errori di trascrizione e non è accompagnato da nessuna nota di commento, luogo in cui sarebbe stato opportuno evidenziare i numerosi debiti del componimento nei confronti dell’opera di Paolo Foglietta, il più grande poeta dialettale del Cinquecento genovese, per altro esplicitamente citato nel sonetto («bon come ro signó Poro Fogietta» 37.20). Si propongono di seguito alcuni restauri di lezioni qui giudicate corrette, perché contenute nelle Rime diverse (= RD ), un’antologia stampata per la prima volta nel 1575 composta in larga parte da componimenti dialettali di Foglietta (cf. Navone 2020), che è, tra l’altro, la fonte più importante per la conoscenza del dialetto genovese cinquecentesco. xxxi. 36.13 vuoeugio ] 21 vuoegio : è da ripristinare la scrizione uoe per la vocale anteriore arrotondata, ricorrente nei Rabisch solo nelle parole-rima orofuoegio , muoegio e vuoegio , ricavate con ogni evidenza dal seguente passo delle RD: 47 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 «che una ghirlanda fetta d’oro fuoegio Me mettereiva come ro Petrarca Se in r’egua d’Eliconia stessi a muoegio, e de sonetti n’enchieria una barca. In lode dro Zavargna pur dì vuoegio» (Isella 1993: 36) «a beive stghe com un oca a muoegio, dent ra fontanna d’Elicona, o truoegio, […] E mi Foggietta, fuoeggie chiù no voeggio Ma vorreiva oro in cangio d’orofuoegio» (RD 75) xxxii. Similmente, non appare condivisibile la trascrizione 37.22 nótte ] 22 nutte : <ó> nel sistema di trascrizione di Isella corrisponde a [u], mentre la <u> dei Rabisch alluderà [œ], legittimo esito genovese di nocteM . xxxiii. Ancora, non si può accettare (1) l’aggiunta di -rin 37.16 contentarme ] 21 contentame ‘contentarmi’, poiché l’apocope della sillaba finale è normale nell’infinito accoppiato con un’enclitica (cf. ad es. contentave RD 60); (2) l’eliminazione di -iin 37.19 caprisso ] 21 caprissio (vd. Aprosio 2002, s. caPriçio , caPrisiu ); (3) l’eliminazione di una -tin 37.17 vita ] 21 vitta , visto che questa scrizione è ben rappresentata nelle RD (cf. vitta ivi: 14 quattro volte, 77 due volte, 84 due volte, 103, 133); (4) l’emendazione 37.17 mia ] 21 me , che è la forma legittima dell’aggettivo possessivo femminile singolare (ad es. «me vitta» in RD 14) e non richiede la sinizesi di cui bisogna dotare mia se si vuole ricondurre alla misura dell’endecasillabo il verso «con tegnì dra mia vita longo r’ stame» (37.17); (5) la normalizzazione 37.26 ancor ] 22 ancon , che è la forma genovese per ‘ancora’ (Aprosio 2002, s.), ben diffusa nelle RD 11, 20, 26 etc. xxxiv. 37.28 o ] 22 (r)o : il mancato scioglimento del compendio creerebbe la prima attestazione scritta del dileguo di rnell’articolo determinativo genovese, fenomeno che sembra invece imporsi tra Sette e Ottocento (Ziano 2021: 894-96). Negli «avvertimenti» premessi al travestimento genovese della Gerusalemme Liberata (1755), si scriveva: «gli articoli ro , ra , ri , re avanti i sostantivi vagliono per il , lo , la , li , le , e la r si fa appena sentire nella pronunzia» ( Gerusalemme : [1] degli «avvertimenti» non numerati). Poco prima, nel 1745, nelle «regole d’ortografia» premesse alla ristampa settecentesca della Cittara zeneize di Cavalli, si ripeteva la stessa informazione (Cavalli 1745: c. 9v), ripresa di nuovo nel 1772 nelle «regole dell’ortografia zeneize» che introducevano il Chittarrin di Stefano De Franchi: « r semplice in corpo della dizione, quando non accompagnata da altra consonante, precede ad una vocale e negli articoli ro ‘lo’, ra ‘la’, ri ‘li’, re ‘le’ non si pronuncia, o pure si pronuncia sì dolce che appena se ne oda una leggier mormorio» (De Franchi 1772: iv v ). Questo giudizio è stato esteso retroattivamente a tutte le occorrenze di -r in posizione intervocalica dai curatori di un’edizione moderna delle RD , che nella nota al testo affermano: «la r caratteristica del rotacismo è segnata in corsivo in modo che il lettore possa non pronunciarla ‹o pronunciarla sì dolce che appena se ne oda un leggiero mormorio› come è scritto nelle Regole dell’ortografia zeneize , in prefazione al Ro Chittarrin , di Steva De Franchi (Genova 1772)» (Villa/ Petrucci 1983: 39). Poiché non c’è ragione di credere che il giudizio sia valido anche per i due secoli precedenti, non credo sia legittimo segnalare -rin corsivo (Villa/ Petrucci), né tantomeno ometterla (Isella). 48 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 xxxv. Infine, la traduzione a piè di pagina di Isella riporta con tre punti interrogativi le parole incisame chie (36.6). Chìe (< eccuM + hic con l’epitesi di -e ) significa semplicemente ‘qui’ (Aprosio 2002, s.v.) e Rainoldi ricava le parole-rima dalle RD : «che m’intendo se non de re garie se poesse avè de ro incisame chie dr’ortigiò de parnaso e dr’egua assie» (Isella 1993: 36) «se goardava lè mesma fuora e chie, ma tutte re cittè dri crestien e ro ma comandava e terra assie, aura per poco amò dri so citten chi per goardara chiù no fan garie» (RD 22) «d’Italia, Franza e Spagna re garie Noi zeneixi per atri comandemo, perché sì boin pilotti e patroin semo, che quelli dri paghen ghemo assie Ma per noi mesmi duri chiù ca prie Armà garie infin ohiu no voggiemo E inzegno e forza a gran signoi prestemo Daposcia un corso ne sconcaga chìe» (RD 31) Incisame è invece da ricondurre all’«antico vocabolo genovese, morto oggidì» insisame ‘insalata’, «probabilmente da inciso ‘tagliato, tagliuzzato’, come p. e. nello stesso genovese fritamme da frito , it. frittume da fritto » (Flechia 1882-1885: 362, cf. anche Aprosio 2002, s.v. incizame ) 12 . Anche il termine incizame è ripreso con ogni evidenza delle RD , in cui esso si trova a pochi versi di distanza da ortigiò ‘orticciolo’. Questo passo è la fonte per quello di Rainoldi (36.6-7), che andrà emendato aggiungendo un accento sull’ultima sillaba di ortigiò ( hortus + iceus + ulus ) 13 : «se poesse avè de ro incisame chie dr’ortigiò de parnaso e dr’egua assie» (Isella 1993: 36) «bella sei voi, si avei bell’ortigiò, che de man vostra lavorà vorrei, per passatempo, e beiveghe depò, sì che bell’incizame ghe cuggiei» ( RD 81) Circa l’uso riflesso di dialetti non lombardi all’interno della raccolta è stato detto che «le varie lingue in cui [scil. Bernardo Rainoldi] si compiacque di scrivere sono, quindi, salvo la sua propria, lingue approssimative che caratterizzano le parlate delle diverse regioni con pochi elementi macroscopici sentiti come tratti vistosamente tipici, alla stregua della maschera o del rispettivo blasone gastronomico» (Isella 2005: 124); e similmente Pezzini scrive che «più che di rimeria pluridialettale in bolognese, 12 Già Stella (1996: 46 N44) notava che «del genovese Rainoldi espone […] un vocabolo bandiera, ro incisame ‘l’insalata’». 13 Se ci si vuole attenere al sistema grafico di Isella, bisognerebbe accentare ortigiù . 49 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 bergamasco, genovese si dovrebbe parlare di simil-bolognese, simil-bergamasco, etc., visto che si tratta piuttosto di patinature linguistiche estese in maniera irregolare che di dialetti veri e propri» (Pezzini 2020a: 193). A mio parere le tre varietà richiedono trattazioni distinte. Quando i Rabisch vennero pubblicati, il bergamasco godeva già di una cospicua fortuna letteraria a cui avevano contribuito in larga parte parlanti non nativi, che erano ricorsi a pochi e ben riconoscibili indicatori linguistici (D’Onghia 2009). I sonetti in «simil-bolognese» inseriti nei Rabisch (cf. I 8, I 17, I 21) sono tra i primi documenti che testimoniano la fortuna letteraria del personaggio Graziano, nativo non di Bologna ma di Francolino, dove si trovava l’imbarcadero per i viandanti ferraresi diretti a Venezia (cf. «Bernardo Rainoldo transformato nel dottor Graziano da Francolino, in sua lengua» 34.titolo). In questo idioma non si trovano elementi riconducibili esclusivamente al dialetto bolognese, ma abbondano fenomeni che ad esso non sono mai appartenuti (come i dittonghi abnormi, di cui uno è da restaurare: 42.2. present ] 27 presient ), varie tracce di latino ( idest , hoc est ) e infinite freddure ( Arost ‘Ariosto’). Più tardi si dovette credere che Graziano venisse da Bologna per via della cultura accademica che amava esibire; ma contro questa notizia propagata da «ciert plebei mal infurmà», il bolognese Adriano Banchieri (1568-1634) riaffermava che «sti tal Gratian universalment s’ chiamin da Franculin, qual è una villa a fuoza d’ terra grossa, cinqu miia d’ là da Frara, dov s’imbarca i passazier e i currier p’r Venetia» (Banchieri 1629: 45-46, cit. in Zanello 2008: 116). Questo attacco non fu sufficiente a scindere il nodo che ormai stringeva la lingua grazianesca e il dialetto bolognese, tanto che di lì a poco Giovan Francesco Negri (1593-1659) dichiarò di aver scritto il suo travestimento della Gerusalemme Liberata in «lingua bolognese popolare» con l’intenzione di distruggere «l’abuso concetto nelle menti di molti che offuscati da’ pazzi gesti di certi personaggi ridicoli, i quali con nome di Gratiani sopra de’ publici banchi e scene compariscono, si dano a credere che il loro sgangherato modo di favellare sia il medesimo che usano i figli della dotta madre degli studii», di modo che i lettori si accorgessero che «neanco la più imperfetta e roza dicitura può avere originato il grazianesco stile» 14 . Il genovese non ha mai conosciuto una fortuna paragonabile agli altri due dialetti: per scrivere un sonetto in quella varietà, Bernardo Rainoldi ha dovuto saccheggiare un testo dialettale riflesso, che garantisce tutto sommato la genuinità della patina linguistica (solo in parte oscurata da una trascrizione perfettibile) 15 . 14 Giovan Francesco Negri, Della tradottione della Gierusalemme Liberata del Tasso in lingua bolognese popolare , s.d. ma ante 1628, cc. 3r-3v [es. consultato: Bologna, Biblioteca Universitaria, AV BBIII 16, parzialmente ms.]. 15 La stessa genuinità mi pare da ascrivere a due altre testimonianze del dialetto genovese in terra lombarda: le battute del venditore di limoni nel Barone di Birbanza di Carlo Maria Maggi (1696) (cf. i sella 1964: 340-42) e il sonetto in genovese «dro poeta Balin de Zena» (inserito ne La Borlanda impasticciata , in Milano, nella stamperia ed a spese di Antonio Agnelli, 1751, p. XXV). Tra le poche imprecisioni del testo in genovese di Rainoldi è da inserire anche l’uso del complementatore doppiamente riempito («quando che ra Parca» 36.15), una costruzione sconosciuta al genovese cin- 50 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 L’influenza delle RD sulla poesia di Rainoldi non è circoscritta ai punti di contatto appena segnalati. Il nome stesso che Rainoldi adotta quando scrive il sonetto genovese («del medesimo Rainoldi trasformato in Bussote genovese in sua lengua» 36) appare ricalcato sul nome di un autore che compare nelle RD : «Buxoto hoste de Reco», cui è attribuito un sonetto caudato destinato a Paolo Foglietta ( RD 107). Circa l’incipit del sonetto Quol frascheta d’Amor (a), Isella (ad loc.) e quindi Pezzini (2020a: 204) ricordano giustamente l’appellativo folenghiano «fraschetta Cupido»; ma una fonte ancora più vicina si trova nelle RD - il sonetto di Bernardo Schenone Questa frasca d’Amò (b), che viene ripreso nei Rabisch quasi in tutto: (a) «Quòl frascheta d’Amor, quòl tà pisusc, ch’o’ n’ sa gnanc magl’ astant squas de parlà, me gh’ha ciappò e m’ha tòlt a ruinà par Antognûra e a fam tutt in ciapusc. O’ tira sciert bolzogn, sto tà chigusc, Da tosign, com a’ l’è, senza pensà, ch’o’ m’ porav fos de un quagl’ dì amazzà, mo ch’o’ m’ha in ra soa red com fuss un lusc. Ma se un quagl’ dì sto forca o’ m’ vegn pagl’ magn, figlù d’ona vacascia mardelarigl’, o’ gh’ vugl’ fa cantò ’r Vesper Cicigliagn. Sugl’ genûcc m’el vugl’ mett cor cù al’arigl’, e illu scuratal begn con tut dò i magn e dor canogn di frizz fa un neçessarigl’» (Isella 1993: 249) (b) «Questa frasca d’Amò, questo pissè, chi no sa marelede ancon parlà, m’ha pigiaou de ta sorte a consumà che no posso aura chiù vive per lè. O’ tira certe frecche esto caghè da figiuò, come l’è, senza pensà ch’o’ me porreiva un dì fossa amazà e fame restà morto in su doi pè. Ma se un giorno o’ me capita intre moen questo frascatta, questo papachiè, che si ghe dago tenti berlendoen, ch’o butterà lì rotti e pestumè, e ro carcasso e l’erco, que tutti en zevoggi chi me fan stà sempre in gue» 16 ( RD 122) Inoltre, un’intera canzone scritta da Rainoldi in dialetto bleniese (a), per cui Isella (ad loc.) richiama alcuni modelli petrarcheschi, non è altro che una riscrittura (o traduzione) di un componimento genovese di Barnaba Cigala Casero, anch’esso contenuto nelle RD (b). Casero elenca gli sforzi dell’io che, posto di fronte a diversi stati della natura, non riesce a non tornare al pensiero dell’amata. Rainoldi sceglie solo sette delle diciotto stanze della canzone genovese, che ricombina talvolta con un ordine diverso 17 : quecentesco ma ben attestata nei Rabisch : perchè ch’ 103.7, parchè ch’ 108.12, se begn ch’ 183.25, quand che 193.22, se begn ch’ 218.193. 16 «Amore, questa fraschetta, questo piscialetto, / che non sa ancora parlare un poco, / ha cominciato a logorarmi in tal modo, / che ora a causa sua non posso ora più vivere. / Questo cacasotto tira certe frecce, / come un bambino, quale è, senza pensare, / che mi potrebbe un giorno forse ammazzare / e farmi restare morto su due piedi. / Ma se un giorno mi capita fra le mani / questa fraschetta, questo coglione, / gli do tanti ceffoni / che butterà lì rotti e frantumati / il feretro e l’arco, che sono tutti / arnesi che mi fanno sempre stare nei guai». 17 Sulla colonna di destra riporto solo le stanze di Casero riprese da Rainoldi. 51 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 (a) I. «Quand or suav freschett e quòl bogn vent a ra stasogn dra stà, ch’ed culd es bugl’, a sbatt su pai frasch sent, amò ’r cur m’ingarbugl’, ch’o’ m’ regòrd d’Antognûra, ch’è inscì bella figliûra quand or vent i cavigl’ in coró ’d paglia sù e sciò pagl’ spal sì crisp o’ ghe sparpaglia. II. Quagl’ vûlta pû ch’o sent cantò gli orcigl’, com’ sarav lusignûl e ravarign, in capiglia o franquigl’, o’ v’ giur da ver fachign, ch’o’ m’ par sentì cantò Antognûra, o parlò con quigl’ paròll ch’o’ m’ passen par gl’intragl’ a strascinamm or cur com tanc tenagl’ (b) I. «Quando un fresco, suave, doce vento ara saxon chiù bella, ara megiò, trepà intre fogie sento, e pà ch’o’ spire Amò, me ven in mente quella no Donna zà ma Stella, quando ro ventixò ghe sta a trepà dent ri cavelli e ghe ri fa mescià 18 . II. quarche vota che sento i oxeletti, como sareiva a dì ri rosignò cantà sui erboretti ri vaghi versi sò: l’accorto raxonà e ro gentì parlà me ven de quella ingrata dent ro cò, ch’è atro ca sentì ro rosignò» 19 ( RD 94) III. Quando ch’or Só va ara sira pagl’ facch su e che drent ar slavagg ar se va a scond, scura nòcc lassa pû a nugn chirò a sto mond, inscì Tognûra fa s’è ’m piazza e vala a cà, che ar sangu ch’o ne vugl’ dì de me Padregn, scura vegn comè or limb ra Vall de Bregn XI. «Quando ro so ra seira se ne va e ro giorno con seigo se ne porta, nuoete assè presto fa, e ogni corò s’amorta, se ro me so va in cà como l’è dent ra porta, tutta ra terra, nonché ra contrà un afforozo limbo sì me pà» 20 ( RD 94) 18 «Quando un vento fresco, soave e dolce / alla stagione più bella, a quella migliore, / sento giocare tra le foglie, / e pare che soffi Amore, / mi viene in mente quella non già donna, ma stella, / quando il venticello le gioca / nei capelli e glieli fa mescolare». 19 «A volte quando sento gli uccelletti, / cioè gli usignoli, / cantare sugli alberelli / i loro vaghi versi, / il ragionare accorto / e il nobile eloquio / di quella ingrata mi viene dentro il cuore, / che è altro che sentire l’usignolo». 20 «Quando di sera il sole se ne va / e porta con sé il giorno, / si fa presto la notte, / e ogni colore si spegne. / Se il mio sole va in casa, / come è dietro la porta, / tutta la terra e la contrada / mi paiono un limbo spaventoso». 52 Carlo Ziano DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 IV. Ma quand pû ra matina o ’r vegh levad ch’o’ suga la rosà su gli arborign, e or Sciè tutt quand sgurad, senza on sol nuvorign, o’ m’ par de ghè ra ciera d’Antognûra, davera ch’o’ vegna fû de cà con quòl voltogn, ch’alegra l’airo e ’d Bregn tucc i cantogn XIV. «E quando vego po ro so levaou chi sciuga ra rozà ch’è su l’erbetta, ro cè netto e spassaou senza unna nuveretta, ra chiera vei me pà de quella dexirà, chi esce de casa inseme con so moere e fa luxì ro mà, ra terra e i ere» 21 ( RD 98) V. Quand m’inbatt a passò par quagl’ bosc grand e de fò spess e d’olm e de castagn e d’arbor ch’o’ fan giand. oh, pover Slurigliagn, ch’o’ ’l pòss assomiglià ar mè cûr che piantà gh’ha drent Amor un bosc de varettogn par Antognûra, e ’d frizz e de bolzogn IV. «quando mi vego quarche bosco grande d’ormori e de supressi, erexi e pin con i erbori dre giande, re sorbe e i ermorin, a ro me cò me pà de poeiro asomegià, che ro me cò un bosco sì s’è feto, tente re frecchie son che Amò gh’ha treto» 22 ( RD 95) VI. quand or mar è più gruss e scorasciò, ch’o’ batt e pû rebatt aduss agl’ scûgl’, e un gragn pezz stà alterò par dagh, só pû, quagl’ dugl’, inscì Antognûra fa, par fam pur desperà, con mi, ma comè i scûgl’ sogn paçiglient, agl’ ingiurigl’, ai turt, anch agl’ torment» VI. «quando ro ma è grosso e scorrosaou, contra ri scogi ri maroxi o’ batte, e de longo è alteraou fin che con lò o’ combatte, così, se l’è astrià, quella Nerona pà, e mi ri scogi fermi e pacienti Ari torti, ai ingiurie, ari tormenti» 23 ( RD 95) 21 «E quando poi vedo il sole levato / che asciuga la rugiada che è sull’erbetta, / il cielo pulito e terso, / senza una piccola nuvola, / mi pare di vedere la faccia / di quella desiderata, / che esce di casa con sua madre, / e fa splendere il mare, la terra e i cieli». 22 «Quando vedo qualche bosco grande, / di olmi, di cipressi, di lecci e pini, / con gli alberi di ghiande, / le sorbe e i corbezzoli, / mi pare di poterlo / paragonare al mio cuore, / poiché il mio cuore si è fatto come un bosco, / tante sono le frecce che Amore gli ha tirato». 23 «Quando il mare è agitato e tempestoso / sbatte le onde contro gli scogli, / e a lungo è furioso, / fino a quando combatte con loro, / così, se è adirata, / sembra quella Nerona, / e io gli scogli che stanno fermi e sopportano / i torti, le ingiurie e i tormenti». 53 Trentacinque schede sul testo e la lingua dei Rabisch (1589) DOI 10.2357/ VOX-2022-002 Vox Romanica 81 (2022): 31-56 VII. ma quand scì bell es ved e inscì begn facc, a list de tanc coró, quòl Arch dor Sciè» (Isella 1993: 243-246) X. «Quando sì bello e così vago apà, l’erco celeste, de coroi listaou» 24 ( RD 97) Ci si trova di fronte a un raro caso di circolazione sovraregionale della letteratura dialettale riflessa, che può ricordare il riuso spregiudicato che Lotto Lotti fece della letteratura in dialetto milanese di Carlo Maria Maggi (Accorsi 1978), e che - ancor prima - Giulio Cesare Croce fece di quella in dialetto bresciano della Massera da bé 25 . 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The aim of this article is to discuss some problematic aspects of this edition, which alter the poems’ original linguistic physiognomy, from a phonetic (§2.1), morphological (§2.2), syntactic (§2.3) and lexical (§2.4) point of view. Some other remarks emerged from the inspection of the comment (§3) and of the only sonnet in Genoese, which is deeply indebted to contemporaneous dialectal literature (§4). Keywords: Dialects, Literature, Philology, Italian Switzerland, Genoese dialect, Dante Isella 56 Carlo Ziano Carlo Ziano