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Il mostro dagli occhi verdi

Studi sulla gelosia nel teatro antico (e moderno)

0530
2022
978-3-8233-9548-5
978-3-8233-8548-6
Gunter Narr Verlag 
Mattia De Poli
Pietro Vesentin
10.24053/9783823395485

I personaggi di molte tragedie e commedie antiche, greche e latine (Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca, Menandro, Plauto), ma anche di drammi moderni ispirati al mondo classico (Lorenzo il Magnifico, Antonio Somma) agiscono in preda alla gelosia. Spesso nell'antichità questa emozione non è stata identificata da una parola specifica, ma la situazione permette comunque di riconoscerla. Dee e dei, donne e uomini ne possono essere affetti e agiscono di conseguenza: l'esito delle loro azioni è spesso catastrofico per sé e per gli altri e non sempre è possibile simpatizzare con le persone gelose. Dodici studi, organizzati in ordine cronologico all'interno di tre sezioni tematiche ("Il lessico della gelosia", "La divina gelosia", "Donne vs. uomini: sesso, sangue e gelosia"), indagano questa comune emozione umana attraverso l'opera teatrale.

<?page no="0"?> Mattia De Poli / Pietro Vesentin (a cura di) Il mostro dagli occhi verdi Studi sulla gelosia nel teatro antico (e moderno) DRAMA 22 Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Bernhard Zimmermann (Hrsg.) <?page no="1"?> Il mostro dagli occhi verdi <?page no="2"?> Herausgegeben von Bernhard Zimmermann Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption DRAMA Neue Serie · Band 22 <?page no="3"?> Mattia De Poli / Pietro Vesentin (a cura di) Il mostro dagli occhi verdi Studi sulla gelosia nel teatro antico (e moderno) <?page no="4"?> © 2022 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Überset‐ zungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. 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Internet: www.narr.de eMail: info@narr.de CPI books GmbH, Leck ISSN 1862-7005 ISBN 978-3-8233-8548-6 (Print) ISBN 978-3-8233-9548-5 (ePDF) ISBN 978-3-8233-0372-5 (ePub) Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http: / / dnb.dnb.de abrufbar. www.fsc.org MIX Papier aus verantwortungsvollen Quellen FSC ® C083411 ® www.fsc.org MIX Papier aus verantwortungsvollen Quellen FSC ® C083411 ® <?page no="5"?> 7 11 21 55 87 115 147 175 201 In dice Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . INTRODUZIONE Mattia De Poli Gelosia vs. Invidia. Per una definizione delle emozioni . . . . . . . . . . . . . . . . . IL LESSICO DELLA GELOSIA Enrico Cerroni La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia . . . . . . . . . . Sara Di Paolo Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. . . . . Roberta G. Leotta Saevit infelix amor: aspetti lessicali e immagini metaforiche della gelosia nella Medea di Seneca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . LA DIVINA GELOSIA Pietro Berardi Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt Pietro Vesentin Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ilaria Ottria Dal mito alla scena. Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . DONNE vs. UOMINI: SESSO, SANGUE E GELOSIA Isabella Nova Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . <?page no="6"?> 219 243 271 289 335 Vasiliki Kousoulini Heroines, Other Women, and Female Choruses: Performing ‘Sympathetic’ Sexual Jealousy in Ancient Greek Tragedy? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Sonia Pertsinidis Jealousy in Menandrean Comedy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Chiara Battistella La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Francesco Puccio La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 Indice <?page no="7"?> Prefazione In principio era la gelosia. Agli albori della letteratura occidentale, l’Iliade, la cui misteriosa origine si smarrisce negli abissi insondabili della storia, ha il suo inizio prima che la schiava Briseide sia rivendicata da Agamennone e la bella Elena rapita da Paride, poiché insignificanti sono le stirpi degli uomini e sulle loro aristíai incombe sempre l’ombra fatale dei superni. Gialla è la mela che Eris, nei tempi del mito, ha fatto rotolare sulle mense divine condizionando con un singolo gesto la sorte del mondo. L’oro delle sue polpe riflette sguardi di vanità e di apprensione: trionfare, per le tre contendenti, non significa imporre una gerarchia estetica nelle case celesti, ma far brillare il proprio nome di una gloria fulgida e perpetua, catalizzare ogni attenzione di celesti e mortali. Ecco che la collera delle sconfitte, flagrante come un’onda d’urto, si diparte dalle cime dell’Olimpo, scende nel mondo e fa di Troia il teatro della vendetta, il luogo dell’eterno rancore. Ma la gelosia sopravvive ai fuochi e alle ceneri della città, continuando a intridere di veleno le pagine della letteratura classica. Con i suoi riflessi aurati incupisce gli occhi dei numi e degli umani, corrompe i corpi vigorosi degli eroi e le carni sode delle eroine, guasta i freschi palpiti dei fanciulli e accompagna i vecchi nei loro ultimi spasimi. Corre e vola fuori dal mondo antico risalendo i diverticoli della tradizione letteraria; distende le sue mille braccia nelle direzioni più diverse, porta con sé orrori e sofferenze, facendo emergere incontrollatamente gli istinti dell’uomo e della donna, ora mossi da una collera rovinosa, ora dal languore di una pulsione sensuale. Se vi è un’occasione per riflettere sulla natura problematica dell’umano e del divino, essa è offerta, come sempre, da quel «momento archetipico» che è l’esperienza teatrale, la cui (im)permanenza e polifonia nasce per catturare il conflitto interiore e i moti dell’anima. Non è un caso che sia proprio l’Otello a prestare l’inquietante immagine che dà il titolo al libro: la gelosia è - e rimane -, anche nelle parole di Shakespeare, un orrido mostro. Non perde il suo diabolico sembiante, ma muta il colore degli occhi: scintillanti come stelle fredde, verdi come quelli di un demone. Questo volume - dedicato alla letteratura drammatica - integra l’appuntamento tradizionale con “Il teatro delle emozioni”. Spetta alla gelosia, dopo la paura, la gioia e l’ira, farsi centro di riflessione, thema portante con cui sono chiamati a <?page no="8"?> confrontarsi studiosi italiani e stranieri in diversi momenti della loro formazione e carriera. La dimensione teatrale, varia nelle sue soluzioni di scrittura (in greco, in latino, ma anche in italiano), multiforme nelle sue cronologie (principalmente teatro classico, ma anche rinascimentale e ottocentesco), nei suoi generi (comico e tragico) e, almeno in un caso, nella forma letteraria (del resto la vicinanza tra romanzo antico e teatro è attestata già presso gli antiqui auctores), viene qui indagata con molteplici prospettive - narrativa, espressiva, simbolica, antropologica, performativa, generazionale, di genere - che si integrano e si avvicendano le une alle altre; tutte parimenti valide nell’illuminare una condizione esistenziale, quella della donna e dell’uomo gelosi, che incoraggia a interrogarsi e a proporre nuove modalità di analisi da applicare al vaglio dei testi. Tre sono le sezioni in cui, senza pretese definitorie, abbiamo scelto di organizzare i contributi: la prima dedicata al lessico della gelosia, alle sue immagini e alla sua semantica; le altre due riservate ai suoi attanti, le dee e gli dei, gli uomini e le donne, nei quali la gelosia diviene Erlebnis, esperienza vissuta e sofferta. È certamente impossibile tracciare una storia completa di questa emozione attraverso il tempo, attraverso le civiltà e le letterature, ma il libro pone al suo lettore una essenziale domanda: quale ruolo ha avuto la gelosia nella letteratura drammatica e quanto tale produzione ha contribuito allo strutturarsi dell’archetipo del/ della geloso/ a? Se riesce anche a rispondervi è unicamente merito delle studiose e degli studiosi che hanno generosamente offerto i loro contributi, e del prof. Bernhard Zimmermann, al quale Mattia De Poli ed io rivolgiamo il nostro più sentito ringraziamento, poiché, senza il suo aiuto prezioso, questo volume non avrebbe visto la luce. Va a lui la nostra riconoscenza, oltre che, naturalmente, ai membri del comitato scientifico, cui si deve a monte la selezione delle proposte. Padova, 13 ottobre 2021 Pietro Vesentin 8 Prefazione <?page no="9"?> INTRODUZIONE <?page no="11"?> 1. Gelosia vs. Invidia. Per una definizione delle emozioni Mattia De Poli Abstract: The Greek novel Chereas and Callirhoe by Chariton attests that in the age of the Roman Empire the ideas of jealousy and envy were clearly distinct and corresponded to two Greek words. Nevertheless, we may assume that jealousy already had an important role in the plots of dramatic plays in the Classical age, and the Greek drama was a model for the Greek novel also in the emotional description of the characters. Keywords: Greek novel - Greek drama - jealousy - anger - envy. 1. Caritone, Le avventure di Cherea e Calliroe: trame di invidia e gelosia Cherea e Calliroe, i protagonisti del romanzo di Caritone, sono due giovani siracusani. La ragazza, figlia del generale Ermocrate, è di una bellezza divina e in molti affluiscono in città per chiederla in sposa: figli di re e di tiranni, provenienti dalla Sicilia e da tutto il mondo greco. Ma Eros, il dio capriccioso che ama giocare con le vite degli uomini in modo imprevedibile, decide diversamente e fa innamorare Calliroe - a sua volta riamata - di Cherea. Come in diverse commedie di Menandro, i due giovani si incontrano in occasione di una festa pubblica in onore di Afrodite, a cui Calliroe prende parte per la prima volta, accompagnata dalla madre come si conviene ad una ragazza perbene: basta un incrocio accidentale di sguardi perché entrambi restino trafitti da Eros. Cherea è un bel giovane, appartenente ad una famiglia nobile ma avversa a quella di Calliroe. Si profila così una situazione potenzialmente tragica, come quella degli shakespeariani Romeo e Giulietta. In realtà Cherea, controparte maschile della Fedra euripidea, si logora nel chiuso della sua casa, consumato da un amore impossibile che confessa solo ai propri genitori. Quando anche il popolo siracusano viene informato della situazione, intercede per il giovane innamorato presso Ermocrate, il quale cede alla volontà dell’assemblea cittadina. <?page no="12"?> Finalmente, nell’entusiasmo generale i due giovani coronano il loro desiderio d’amore e si sposano. In poche pagine il romanzo di Caritone condensa e risolve diversi spunti drammatici, tragici e comici, approdando agevolmente ad un lieto fine, in apparenza rassicurante, e la vicenda potrebbe concludersi semplicemente così. Ma, come nel matrimonio di Teti e Peleo, la gioia della festa è incrinata dalla presenza di una figura malevola: nel mito celebrato dai poeti era la dea Eris, la Discordia; nel romanzo l’Invidia (1.2.1 ὁ Φθόνος), che agita gli animi dei numerosi pretendenti delusi di Calliroe. Questi non si rassegnano, accantonano l’odio che nutrivano l’uno per l’altro quando tutti aspiravano alla mano della bella giovane e, tormentati da un misto di rabbia e dolore (1.2.1 λύπην ἐλάμβανον μετ’ ὀργῆς), decidono di coalizzarsi contro Cherea. “Se a sposarla fosse stato uno di noi, non mi sarei adirato” (1.2.2 εἰ μέν τις ἐξ ἡμῶν ἔγημεν, οὐκ ἂν ὠργίσθην), assicura a posteriori il figlio del tiranno di Reggio, che vorrebbe punire e uccidere lo sposo, trasformando il suo matrimonio in ‘nozze di sangue’ quasi come nel dramma di Garcia Lorca. Ma anche questo sviluppo tragico rimane abortito: il tiranno di Agrigento, infatti, di fronte al prestigio di cui gode il padre della sposa, invita tutti ad agire non scopertamente ma con l’arte dell’inganno. Il suo obiettivo è chiaro: sciogliere il matrimonio fra Cherea e Calliroe. A questo scopo “armerò contro di lui la Gelosia che, avendo come alleato Eros, compirà un grave malanno” (1.2.5 ἐφοπλιῶ γὰρ αὐτῷ Ζηλοτυπίαν, ἥτις σύμμαχον λαβοῦσα τὸν Ἔρωτα μέγα τι κακὸν διαπράξεται): così promette l’Agrigentino. Se Calliroe si profila come un baluardo inespugnabile, il novello sposo appare più incline agli errori di gioventù e più vulnerabile: “Cherea può facilmente nutrire sospetti e cadere preda della gelosia degli innamorati” (1.2.6 ὁ δὲ Χαιρέας […] δύναται ῥᾳδίως ὑποπτεύσας ἐμπεσεῖν εἰς ἐρωτικὴν ζηλοτυπίαν). Un primo tentativo viene messo in atto subito dopo la celebrazione delle nozze: alla sera il giovane, informato che suo padre è caduto in campagna ed è in pericolo di vita, è costretto a lasciare la moglie per recarsi al suo capezzale. Durante quella notte, in assenza dello sposo, nessuno ha voglia di fare festa, ma è qui che interviene la malizia dei pretendenti delusi: di nascosto, spargono intorno alla casa i segni di festeggiamenti notturni, appendendo corone alla porta, spargendo unguenti profumati, spandendo vino e gettando a terra torce semibruciate. Al sorgere del nuovo giorno tutti i passanti si fermano a guardare “a causa di un vizio comune, la curiosità” (1.3.3 κοινῷ τινι πολυπραγμοσύνης πάθει). Il padre di Cherea guarisce inaspettatamente e il figlio si affretta a tornare dalla moglie: vedendo quella folla di fronte alla porta di casa sua, dapprima rimane stupito ma poi si precipita dentro “furente” (1.3.3 12 Mattia De Poli <?page no="13"?> ἐνθουσιῶν). Alla vista di Calliroe, tuttavia, “mutò la sua ira in dolore” (1.3.3 τὴν ὀργὴν μετέβαλεν εἰς λύπην). Il suo cuore è tormentato, incapace di non credere a quello che i suoi occhi hanno visto e, al contempo, di credere a quello che non vuole credere: allora piange, si strappa le vesti, si chiude in un ostinato silenzio, trema, finché di fronte alle insistenti domande della moglie, “con gli occhi iniettati di sangue e la voce grossa” (1.3.5 ὑφαίμοις τοῖς ὀφθαλμοῖς καὶ παχεῖ τῷ φθέγματι) le rivela “la causa della sua rabbia” (1.3.5 τὴν αἰτίαν τοῦ χόλου). Ma ‘chiodo scaccia chiodo’ e l’ira di Cherea viene placata dalla reazione adirata di Calliroe (cf. 1.3.6 παρωξύνθη) che si sente ingiustamente accusata e protesta la propria innocenza. La coppia allora si riconcilia e tra marito e moglie torna a regnare l’armonia. Ancora una volta la vicenda potrebbe ricomporsi e il racconto chiudersi serenamente, dopo appena poche ma dense pagine. Tuttavia, il perfido tiranno agrigentino non si arrende e si affida all’arte raffinata di un parassita del suo seguito. Simile ad un personaggio tipico della ‘commedia nuova’, egli agisce da consumato “drammaturgo” (1.4.2 ὁ δημιουργὸς τοῦ δράματος): da principio, recitando in prima persona come si dice che facessero gli antichi tragediografi, seduce l’ancella prediletta di Calliroe e poi coinvolge un “secondo attore” (1.4.2 ὑποκριτὴν ἕτερον). Questo ha il compito di entrare in confidenza con Cherea e, raggiunto l’obiettivo, mette in scena il suo dramma: manifestamente addolorato, informa il giovane sposo che la moglie lo tradisce e che il fatto è risaputo e la gente ride di lui senza alcun ritegno. Per descrivere il dolore del giovane, Caritone cita i versi dell’Iliade (18.22-24) in cui viene presentata la reazione di Achille alla notizia della morte di Patroclo, ma a differenza dell’eroe omerico Cherea non si strappa i capelli, non grida e non si agita prostrato a terra nella polvere: il protagonista del romanzo, come un personaggio delle tragedie di Eschilo, rimane per lungo tempo muto e con lo sguardo basso. Quando finalmente trova il fiato per dire poche parole, la voce non sembra più la sua e chiede di poter cogliere sul fatto la moglie con l’amante prima di togliersi la vita. Il falso amico allora allestisce una messinscena (1.4.7 συνέταττε τὴν σκηνήν) che ha per protagonisti il parassita del tiranno di Agrigento, vistosamente agghindato, e l’inconsapevole serva preferita di Calliroe che gli apre la porta in piena notte. Cherea, credendo di vedere l’amante che entra nella sua casa per recarsi da Calliroe, fa per scagliarsi contro di lui, ma questo si allontana prontamente. Allertata dal trambusto, Calliroe si rende conto che il marito è ritornato e con gioia gli va incontro, ma questi è furibondo: “Non trovò la voce per rimproverarla e, sopraffatto dall’ira, la colpì con un calcio mentre gli veniva incontro” (1.4.12 ὁ δὲ φωνὴν μὲν οὐκ ἔσχεν ὥστε λοιδορήσασθαι, κρατούμενος δὲ ὑπὸ τῆς ὀργῆς ἐλάκτισε προσιοῦσαν). Calliroe cade a terra, senza fiato, e 13 Gelosia vs. Invidia. Per una definizione delle emozioni <?page no="14"?> tutti la credono morta; nonostante ciò, Cherea continua a ribollire nell’animo (1.5.1 ἔτι τῷ θυμῷ ζέων), finché viene informato della verità, e allora cade nello sconforto e nella disperazione. 2. La gelosia, una costellazione di emozioni Nelle pagine iniziali del romanzo di Caritone invidia e gelosia vengono entrambe personificate (Φθόνος e Ζηλοτυπία), ma sono chiaramente distinte fra loro: a due diverse parole corrispondono diversi concetti. L’invidia è l’emozione che i pretendenti di Calliroe, delusi, provano nei confronti di Cherea, perché questi ha ottenuto quello che loro avrebbero voluto per sé, ovvero il matrimonio con Calliroe. La gelosia è l’emozione che il marito prova nei confronti della moglie, quando pensa che lei si sia sollazzata con altri in sua assenza o che lo tradisca con un amante. L’invidia presuppone l’avversione di un soggetto nei confronti di un altro, di solito in relazione ad un oggetto che consiste in un risultato conseguito, in una condizione raggiunta, in uno stato in cui il primo soggetto avrebbe voluto trovarsi al posto dell’altro. La gelosia, invece, presuppone una relazione triangolare e contrappone un soggetto alla persona amata a causa di un terzo soggetto, a cui la persona amata rivolge (o sembra rivolgere) quelle attenzioni che la persona gelosa vorrebbe ricevere. Gelosia e invidia, però, spesso vengono confuse perché, oltre alle differenze, hanno anche alcune affinità, a partire da una originaria forma di desiderio: i pretendenti, infatti, aspirano a sposare Calliroe, mentre Cherea è perdutamente innomorato della bella giovane. Tuttavia, desiderio e invidia procedono in dire‐ zioni diverse, perché l’oggetto desiderato e il soggetto invidiato sono nettamente distinti: i pretendenti che si recano a Siracusa desiderano il matrimonio con Calliroe, ma invidiano Cherea che lo ha ottenuto al posto loro; al contrario, desiderio e gelosia seguono la stessa direzione: Cherea è innamorato di Calliroe e Cherea è geloso di Calliroe. Descrivendo l’invidia dei pretendenti, Caritone evoca altre due emozioni, dolore ed ira, che sono caratteristiche anche della gelosia di Cherea: nel primo sono compresenti, quasi in una miscela esplosiva; nel secondo l’ira si smorza nel dolore alla sola vista della donna amata. In ogni caso, tanto l’invidia quanto la gelosia appaiono come emozioni complesse, ovvero una costellazione di altre emozioni semplici, quali il desiderio, il dolore e l’ira. 14 Mattia De Poli <?page no="15"?> 3. Vedere, credere, ribollire. Per una fenomenologia della gelosia In entrambi gli accessi di gelosia di Cherea, la vista - quella propria e quella altrui - ha un’importanza fondamentale. Vedere gli indizi artefatti dei festeggiamenti notturni o vedere un uomo che entra di notte in casa propria mentre lui ha detto alla moglie che sarebbe andato in campagna è la miccia che accende la gelosia, ma ad alimentare il fuoco contribuiscono sicuramente gli sguardi e le voci della gente: sono i curiosi che si fermano davanti a casa sua sorpresi e attratti dai segni dei bagordi, sono tutte quelle persone che hanno saputo del tradimento di sua moglie e si fanno beffe di lui senza alcun riguardo. Eppure, vedere non garantisce la comprensione della verità, anzi: in ambedue gli episodi, infatti, la messinscena architettata dai pretendenti induce Cherea in errore, nutrendo la sua immaginazione, la sua fantasia. Solo nel primo caso la vista di Calliroe - quasi incarnazione della verità - ha un effetto parzialmente metabolico, perché il marito placa la propria ira trasformandola in dolore, ma Cherea resterà combattuto fra due alternative - non credere a quello che ha visto o credere ad una cosa che non vuole credere - finché la moglie non respingerà con sdegno le sue accuse. Non pago di questo primo errore, nel secondo episodio è lo stesso Cherea a chiedere di vedere le prove della sua disgrazia per credere alla notizia che gli è stata riferita e agire di conseguenza. E nuovamente l’inganno ordito ai suoi danni viene confuso con la verità e, solo dopo aver interrogato le serve di Calliroe, scopre il proprio sbaglio. Cherea è un marito geloso dal temperamento sanguigno. Vedendo i segni dei bagordi notturni e la folla di curiosi davanti a casa sua, è sopraffatto dal furore e dalla frenesia, che poi si sciolgono in pianto e tremore mentre si straccia le vesti, ma gli occhi restano iniettati di sangue e la voce è rude. I sintomi della gelosia sono ancora più radicali nel secondo episodio: disperazione, afasia e sguardo basso, voce alterata e desiderio di morte, fino alla violenza incontrollata di un animo che si scalda fino a far ribollire gli umori interni. Gelosia è anche volubilità: appena viene informato del tradimento della moglie, Cherea afferma di volersi togliere la vita risparmiando quella di Calliroe, ma dopo aver visto il presunto amante intrufolarsi in casa sua la furia omicida si sfoga proprio sulla donna. Solo quando scopre la verità, torna al proposito iniziale di uccidersi, da cui lo trattiene l’intervento di un amico. 4. À rebours: dal romanzo al teatro Per Caritone la gelosia non solo è concettualmente distinta dall’invidia, ma ha anche un nome specifico che la identifica: ζηλοτυπία. Di questo romanziere 15 Gelosia vs. Invidia. Per una definizione delle emozioni <?page no="16"?> 1 K O N S T A N 2006, p. 220: “If it is right, then we may be witness the birth of an emotion that had hitherto gone unrecognized in the Greco-Roman world”. 2 S I S S A 2015, p. 3. 3 S I S S A 2015, p. 3. 4 A L L A N 2021, p. 31. greco non sappiamo quasi nulla ma solitamente viene datato al I-II secolo d.C., e non stupisce che egli abbia potuto fare uso in maniera appropriata di un termine che, insieme alla sua famiglia lessicale, in epoca arcaica non è attestato e nel IV secolo a.C. è documentato con significati che, secondo David Konstan, non coincidono esattamente con il nostro concetto di gelosia. Inoltre, questa emozione è del tutto assente nella classificazione tratteggiata da Aristotele nella Retorica e nell’Etica a Nicomaco. Lo stesso Konstan ha quindi cercato di sostenere che la cultura greco-latina non ha conosciuto l’idea di gelosia almeno fino all’età di Augusto, immaginando di poter datare in quel momento la nascita di un’emozione fino ad allora misconosciuta 1 . Al contrario, l’invidia insieme allo sdegno ha sia un nome che una definizione nell’opera di Aristotele e può essere più facilmente identificabile. Ne consegue che nella tragedia e nella commedia greca e latina è possibile rintracciare l’invidia ma non la gelosia. Eppure, obietta Giulia Sissa, gli “Antichi” conoscevano molto bene l’emozione (o il complesso di emozioni) suscitata della volubilità sessuale di una persona molto amata. Non bisogna cercare i termini che possono essere tradotti con ‘ge‐ losia’: “il problema non è di ‘tradurre’, bensì di ‘comprendere’”. Si scoprirà allora che la gelosia è “uno dei motori narrativi più potenti”, dall’epica al teatro 2 . Ancora leggendo le pagine iniziali del romanzo di Caritone, si nota che spesso la gelosia viene descritta come una forma d’ira, di ὀργή, ma per i Greci è sempre stato così: “in Grecia - prosegue Sissa - la gelosia, quella seria, non è nient’altro che collera. Una collera in cui eros, l’amore sensuale, ha un ruolo cruciale. Una collera erotica” 3 . Questa chiave di lettura permette di riconoscere il ruolo fondamentale della gelosia, ad esempio, nella trama della Medea di Euripide, come è stato recentemente ribadito anche da William Allan 4 , oppure nel personaggio di Deianira nelle Trachinie di Sofocle. Come ira viene presentata anche la violenta gelosia di Polemone nella Perikeiromene di Menandro in seguito alla notizia del bacio che Glicera ha ricevuto da Moschione (v. 163). Un’ira che - come quella di Cherea nel romanzo di Caritone - viene ispirata da Agnoia, la personificazione dell’ignoranza dei fatti: Polemone non conosce la verità e per questo si adira con la donna che ama. Poco dopo averle tagliato i capelli in segno di spregio, però, è prostrato in lacrime a casa di un amico (v. 174) e, quando scopre che Glicera ha abbandonato la sua casa, dapprima pensa di riprendersela con la forza ma poi manifesta più volte 16 Mattia De Poli <?page no="17"?> l’intenzione di togliersi la vita (vv. 505, 975). Quando l’equivoco viene chiarito e l’intreccio volge ad una lieta soluzione, Polemone constata che Moschione non era l’amante di Glicera ma suo fratello, e riconosce di essersi comportato da “uomo violento e geloso” (vv. 986-987 ὁ δ’ ἀλάστωρ ἐγὼ / καὶ ζηλότυπος ἄνθρωπος). E la donna, che ha ingiustamente subito i suoi maltrattamenti, gli accorderà alla fine il suo perdono solo perché dallo sfogo di gelosia del soldato è scaturita una serie di fortunati eventi (vv. 1021-1022). Ζηλότυπος, infine, è anche il titolo del quinto mimiambo di Eronda e designa una donna che, gelosa dello schiavo di cui è innamorata, vuole punirlo e umiliarlo per un sospetto tradimento. Dapprima Gastrone la implora di perdonare la sua colpa, protestando di aver commesso un errore a causa della sua natura umana (vv. 26-27). Poi, però, la implora di voler accertare se l’accusa che gli ha rivolto corrisponde al vero o meno (vv. 35-36) e ridimensiona quelle parole che Bitinna aveva interpretato come un’ammissione di colpa, dicendo che con tali parole intendeva placare la sua collera (v. 39 τήν σευ χολὴν γὰρ ἤθελον κατασβῶσαι). Anche in questo caso, dunque, la gelosia viene descritta come una forma d’ira, che infiamma l’animo e surriscalda gli umori, e a fatica si cerca di spegnere quel fuoco ardente. Alla fine, per intercessione di Cidilla, il perdono verrà provvisoriamente accordato a Gastrone: la serva personale di Bitinna agisce come Pateco nella Perikeiromene di Menandro, smorzando gli slanci di gelosia della padrona. I romanzi greci, compreso quello di Caritone, hanno subito un’influenza significativa del teatro classico, tragico e comico, e anche la caratterizzazione emotiva dei personaggi ne risente. La gelosia funziona effettivamente da motore dell’azione drammatica in molte opere sceniche del V e del IV secolo a.C., e forse già Menandro ed Eronda iniziano ad identificarla con un nome specifico, lo stesso che qualifica il comportamento di Cherea e la sua relazione con l’amata Calliroe. Bibliografia A L L A N 2021 W. Allan, “The virtuous emotions of Euripides’ Medea”, Greece & Rome 68.1, 2021, pp. 27- 44. A N D E R S O N 2014 G. Anderson, “Chariton: Individuality and Stereotype”, in E. P. Cueva, S. N. Byrne, A Companion to the Ancient Novel, Malden 2014, pp. 13-25. 17 Gelosia vs. Invidia. Per una definizione delle emozioni <?page no="18"?> K O N S T A N 2006 D. Konstan, The Emotions of the Ancient Greeks. Studies in Aristotle and Classical Literature, Toronto, Buffalo, London 2006. L É T O U B L O N , G E N R E 2014 F. Létoublon, M. Genre, “‘Respect these Breasts and Pity Me’: Greek Novel and Theater”, in E. P. Cueva, S. N. Byrne, A Companion to the Ancient Novel, Malden 2014, pp. 352- 370. M A R T I N A 2016 A. Martina, Menandrea. Elementi e struttura nella commedia di Menandro, 3 voll., Pisa, Roma 2016. S I S S A 2015 G. Sissa, La gelosia. Una passione inconfessabile, Roma, Bari, 2015. Z A N K E R 2009 G. Zanker, Herodas. Mimiambs, Oxford 2009. 18 Mattia De Poli <?page no="19"?> IL LESSICO DELLA GELOSIA <?page no="21"?> 1 È più che lecito, piuttosto, cogliere le diverse sfumature sia pur all’interno di campi semantici affini, nella consapevolezza che eventuali assenze possano essere dovute a tabù sociali o essere compensate da perifrasi o dalla rete sinonimica. «La mancanza di 2. La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia Enrico Cerroni Abstract: In this paper, I try to reconstruct the semantic range of the noun ζῆλος, meaning “eager rivalry, zealous imitation, jealousy” (LSJ), and its derivatives in classical tragedy. Not being attested in the Homeric epics, perhaps because of a degree of censure toward a base feeling, it can be found circulating in archaic and classical literature, starting with Hesiod. Methodical research reveals that ζῆλος continues to be an infrequent lexical choice in tragedy (6x), and it is reasonable to suspect that there is often a margin of stylistic markedness. On a semantic level, it seems to center more around the idea of admiration, affective desire, and attainment of a good, rather than of irascibility, underlying the Homeric use of ζηλήμων (Od. 5.118) and δύσζηλος (Od. 7.307). In general, tragic poets found it easy to shift the verb ζηλόω into the ambit of the ideal and the pathetic μακαρισμός, and it appears difficult to assign the modern sense of jealousy to any term from this lexical family. Keywords: emotion studies - semantics - tragic language - ζῆλος - jealousy. 1. Introduzione Grazie al fiorire recente di studi sulle emozioni degli antichi e sulla loro traducibilità con corrispettivi moderni, in modo più o meno esplicito si tende in genere a riconoscere che, al netto di alcuni universali, non si può sempre postulare una perfetta equivalenza dei sentimenti e delle passioni umane in civiltà ed epoche diverse 1 . Questo vale a maggior ragione per le cosiddette <?page no="22"?> un segno per nozioni generali di cose non implica necessariamente la mancanza delle nozioni medesime» (P A G L I A R O 1957, p. 243). Sulla stessa linea, vd. G E N T I L I 1969, p. 20; P I Z Z O C A R O 1994, pp. 147-149; C A I R N S 2008, p. 58. In ambito filosofico e sociologico, il medesimo concetto è stato declinato da E L S T E R 1999, p. 412: «If a person is unaware of his emotion, it may be because he lives in a society that does not provide a unifying cognitive label for the behavioral and physiological expressions of that particular emotion». 2 Una definizione esemplare è quella data da Freud, che ben descriveva il coacervo di impulsi implicito nella gelosia (in ted. Eifersucht). Quella competitiva «è essenzialmente composta dall’afflizione, il dolore provocato dalla convinzione di aver perduto l’oggetto d’amore, e dalla ferita narcisistica […]; infine, da sentimenti ostili verso il fortunato rivale, e da una dose più o meno grande di autocritica che tende ad attribuire al proprio Io la responsabilità della perdita amorosa» (F R E U D 1978, pp. 283-285); vd. anche P I Z Z O C A R O 1994, pp. 13-14. Nella moderna gelosia la compresenza di rabbia, tristezza e paura della perdita è sottolineata anche da P L A N A L P 1999, p. 174: «Jealousy […] is a complex emotion blended primarily from anger-, sadness-, and fear-like feelings». Nella postfazione a un’edizione del noto saggio di Darwin The Expression of the Emotions in Man and Animals, Paul E K M A N 1998, pp. 363-393, aggiunge il disgusto di sé stessi nel provare gelosia. Tale quarta componente di insicurezza e carenza di autostima è riconosciuta ormai dalla maggior parte degli psicologi (K O N S T A N 2003, p. 11). Per un prospetto delle possibili definizioni e descrizioni della gelosia negli studi recenti, rimando a S A N D E R S 2014, pp. 27-28. 3 In proposito, vd. anche C A I R N S 2008, pp. 49-50; per una definizione dell’invidia, degli scenari in cui si presenta, anche in rapporto alla gelosia, rimando a S A N D E R S 2014, pp. 14-25 e pp. 28-32. 4 Sul motivo archetipico del malocchio, di origine indoeuropea, vd. anche E R N O U T , M E I L L E T 1932, s.v. invideo. Per il momento della vista nella definizione dell’invidia, vd. anche C A I R N S 2011. emozioni complesse, come la gelosia, che è perlopiù definita dall’interazione di almeno tre componenti: rabbia, tristezza e paura per la perdita di un affetto 2 , ma anche l’invidia, per la quale pure si chiama in causa una molteplicità di affezioni cooccorrenti: emulazione, ferita narcisistica, avidità, rabbia 3 . Prima ancora di considerare le sottili implicazioni psicologiche e filosofiche offerte dalla ricerca contemporanea nell’ambito delle scienze umane, tuttavia, alcune indicazioni utili a cogliere delle differenze e a ricostruire una storia di queste emozioni nel mondo greco sono offerte dalla linguistica storica, dalla semantica e dalla stilistica. Una differenza significativa, per esempio, attinge anzitutto alla sfera percet‐ tiva. Alla base dell’invidia si trova spesso una componente visiva, che rimanda alla base latina del verbo invideo ed è corroborata in molte lingue da una nutrita serie di espressioni metaforiche relative all’area semantica della vista. Lo spettacolo della fortuna altrui, infatti, è così insopportabile che il locutore non riesce a guardare l’altro direttamente, in modo trasparente e benevolo, e si fa piuttosto notare per uno sguardo obliquo e ambiguo 4 . In greco si potrebbe 22 Enrico Cerroni <?page no="23"?> 5 Come spesso accade per termini del lessico magico, è difficile ricostruirne l’etimologia; vd. anche DELG e B E E K E S 2010, s.v. In generale su βασκανία, vd. anche S A N D E R S 2014, p. 56, con rimandi a ulteriore bibliografia. 6 «Homer uses the verb φθονέω in seven passages, but with one exception it never bears the meaning it usually does in Greek, ‘to envy’, but instead always signifies ‘to wish to forbid’» (M O S T 2003, p. 129). L’eccezione è in Od. 18.18, quando il mendicante Iro cerca di scacciare Odisseo dal palazzo e l’eroe, sotto mentite spoglie di un viandante, risponde che non è necessario che abbia invidia per la roba degli altri (οὐδέ τί σε χρὴ / ἀλλοτρίων φθονέειν). Per l’etimologia dibattuta di φθόνος, vd. anche DELG e B E E K E S 2010, s.v., e H E R M A N N 2003, p. 80. 7 S O L M S E N 1903, p. 433, ha ricondotto ζῆλος, il presente raddoppiato δίζημαι, insieme a ζητέω, ζημία, ζητρός, ζάλη a una unica radice indo-europea significante «Streben nach etwas, eilen»; vd. anche S O M M E R 1905, p. 157, e B E E K E S 2010, s.v.; DELG, s.v., interpreta «envie […], mais le sens est en réalité plus génèral ‘emulation rivalité’». Alcuni problemi posti a livello semantico sono delucidati da C H A D W I C K 1996, pp. 119- 123. Secondo Aristotele (Rhet. 1388a), che ce ne offre la più antica definizione, lo ζῆλος sarebbe determinato da uno schema triangolare, in cui qualcuno cerca costruttivamente di emulare un altro per il conseguimento di un bene. 8 Nell’ambito degli Emotion Studies la gelosia degli antichi Greci è al centro di un proficuo dibattito, scaturito dalla tesi estrema di K O N S T A N 2006, pp. 219-243, sostenitore dell’impossibilità di applicare al mondo greco la categoria moderna per via dell’assenza di una parola corrispondente. Uno sguardo più equilibrato è, per esempio, in P I Z Z O C A R O 1994; M O S T 2003, p. 127; C A I R N S 2008, pp. 53-56. In generale su invidia e gelosia per i Greci, rimando a M I L O B E N S K Y 1964 e W A L C O T 1978 e, in particolare, ai recenti studi di S A N D E R S 2013, S A N D E R S 2014 e S I S S A 2015, che considerano la questione da una prospettiva contestuale, più complessa di quella meramente lessicale. 9 Nel primo caso (Od. 5.118) si tratta di Calipso che rimprovera agli dèi di essere “gelosi” (ζηλήμονες) perché invidiano alle dèe di giacere con uomini (οἵ τε θεαῖσ’ ἀγάασθε παρ’ ἀνδράσιν εὐνάζεσθαι). Nel secondo caso (Od. 7.307) Odisseo spiega che non ha voluto seguire da vicino Nausicaa insieme alle ancelle per timore e ritegno, perché gli uomini sono “gelosi”: δύσζηλοι γάρ τ’ εἰμὲν ἐπὶ χθονὶ φῦλ’ ἀνθρώπων. Prevale in entrambi i individuare un parallelo semantico in ἐπιβλέπω, che a un significato originario di ‘guardare con attenzione’, richiesto dalla valenza neutra di ἐπί, aggiunge una nuance emotiva, tendenzialmente negativa, forse già in un passo controverso di Sofocle (OT 1526, riportato più avanti). Ma è soprattutto βασκαίνω, corradicale di βάσκανος, il verbo deputato a significare lo sguardo non innocente di chi vede nell’altro un avversario cui lanciare il malocchio 5 . Tuttavia, il corrispettivo greco più comune della nostra invidia, deprivato di componente magica, è l’omerico φθονέω, la cui originaria valenza semantica è piuttosto riconducibile all’idea di ‘impedire’ e sembra non avere un collega‐ mento etimologico dimostrabile con la dimensione visiva 6 . Il discorso si complica se chiamiamo in causa la famiglia lessicale di ζῆλος 7 , pure titolata a esprimere un significato compatibile con la nostra gelosia 8 , e che in Omero è attestata in due soli contesti odissiaci 9 . Di là da inevitabili e 23 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="24"?> contesti un riferimento all’irascibilità, precondizione della gelosia. Sul secondo passo, vd. anche G A R V I E 1994, pp. 227-228; su entrambi i testi, vd. anche S A N D E R S 2014, p. 48. 10 Il silenzio omerico rispetto ai concetti di invidia e gelosia, disvalori inadatti al codice aristocratico dell’epos e al suo pubblico, è stato ben spiegato da M O S T 2003, pp. 131-132, secondo il quale «it will not surprise us that Homer himself chose programmatically to banish envy from the world of his heroes as being too vulgar, too easily recognizable, too ‘menschlich, allzu menschlich’». 11 Nella Teogonia (v. 384) la figura mitologica di Zelos è introdotta come figlio di Stige e Pallas e fratello di Nike, il che è probabilmente indicativo dell’originaria valenza positiva di ‘emulazione’, legata alla vittoria. In Op. 23-24, poi, è dato trovare una formulazione quasi proverbiale: ζηλοῖ δέ τε γείτονα γείτων / εἰς ἄφενος σπεύδοντα, “il vicino emula il vicino che si affretta ad arricchirsi” [trad. Cassanmagnago]. Si inscrive nella lunga serie di pene che affliggono l’età del ferro anche lo ζῆλος, definito δυσκέλαδος (‘dal linguaggio malevolo’), κακόχαρτος (‘che gode del male’) e στυγερώπης (‘dallo sguardo sinistro’; v. 195). Sulle occorrenze esiodee (in aggiunta a quelle citate, Op. 312), anche alla luce della Begriffspaltung cui erano sottoposti i concetti etici, rimando a D E S A N C T I S 2011; S A N D E R S 2014, pp. 47-48, che discute anche Hymn. Hom. Dem. 168, 223, Hymn. Hom. Ap. 100; e a V E R G A D O S 2020, pp. 151-160. Rispetto al problema della presunta censura di ζῆλος nell’epica omerica, mi permetto di rimandare a C E R R O N I 2022. 12 Dobbiamo a D E L A R O C H E F O U C A U L D 1986, p. 447, una lettura interiorizzata: «il y a dans la jalousie plus d’amour propre que d’amour». 13 Anche per descrivere la rabbia di Efesto alla scoperta del tradimento di Afrodite Omero descrive un χόλος ἄγριος (Od. 8.304). Nel caso di Achille, che si vede sottratta l’amata Briseide (Il. 9.336-343), la reazione è improntata, invece, alla μῆνις: dolore e rabbia sono i due poli emotivi di riferimento, ma non si va oltre. P I Z Z O C A R O 1994, pp. 21-50, discute approfonditamente i possibili triangoli amorosi nell’epos omerico per arrivare alla conclusione, in assenza di un significante univoco, «che il sentimento della gelosia non era certamente sconosciuto ai Greci durante l’età arcaica; ma esso non assumeva perlopiù indistricabili problemi di cronologia relativa, infatti, è difficile stabilire se e in che misura l’epica omerica ignorasse o ‘censurasse’ lo ζῆλος 10 , che invece è attestato più generosamente, insieme ai corradicali, in Esiodo e negli inni omerici 11 . Si può, tuttavia, con buona probabilità ipotizzare che nell’universo di valori eroici dell’epica omerica il sentimento espresso dall’ambiguo ζῆλος non dovesse godere di buona considerazione: ammirare e poi emulare qualcuno avrebbe significato un implicito riconoscimento di quella condizione di difetto e di inferiorità nel confronto con un altro che è alla base della gelosia. Se poi cercassimo nell’epica arcaica sentimenti dichiarati di gelosia affini ai nostri, forse incorreremmo in un errore di prospettiva: la confessione della gelosia amorosa, infatti, costituisce un serio ostacolo anche per noi moderni, a differenza degli antichi abituati ormai dalla psicoanalisi e non solo all’indagine della fragilità dell’io 12 . Presupporre in un personaggio come Menelao e in un poeta di età arcaica una simile capacità di analisi e, soprattutto, una disposizione alla confessione, sarebbe anacronistico. Il suo sentimento nei riguardi di Elena e di Paride è semmai qualificato come un’offesa o un più generico ἄλγος (Il. 3.97) 13 . 24 Enrico Cerroni <?page no="25"?> un ruolo centrale nella cultura e nell’ideologia espresse e tramandate dai poemi epici. Non si riteneva opportuno accentuare questo tipo di sentimento, se non in contesti comici o semi-comici come quello dell’episodio cantato da Demodoco. Evidentemente la sofferenza della gelosia erotica non si addice all’eroe epico» (P I Z Z O C A R O 1994, p. 50). Più propensa a sottolineare la tonalità soggettiva del dolore di Achille, invece, e a vedere nell’Iliade «il primo esempio della passione che si scatena dopo una delusione d’amore», è S I S S A 2015, p. 4. 14 Per una interpretazione di quella che nel fr. 19 W. 2 è, significativamente, la rivendica‐ zione orgogliosa del rifiuto di ogni ζῆλος, rimando a V O X 1998; riguardo al fr. 23 W. 2 , vd. S W I F T 2019, pp. 248-251. Nella lirica eolica si segnala solo il discusso ζαλλευόντο]ν al v. 10 del fr. 5 L.-P. di Alceo, con l’integrazione suggerita dagli scolii; vd. anche H A M M 1957, p. 138. È da aggiungere ζηλωτός, già in Teognide (1.455), che esprimeva la visione positiva del cittadino invitato a diventare motivo di esempio per gli altri. È il caso di citare, infine, un noto frammento di Simonide (fr. 584 PMG), contenente la fortunata iunctura ζηλωτὸς αἰών, “tempo beato”. Pindaro, infine, usa una sola volta la variante dorica ζαλωτός (Ol. 7.6). 15 Pindaro impiega anche, una sola volta (Ol. 2.55), l’aggettivo omerico e poi poetico ἀρίζηλος, forma epica per ἀρίδηλος ‘risplendente’, ‘chiaro’, etimologicamente irrelato (S H I P P 1954, p. 51; DELG, s.v.). L’affinità fonetica e la vicinanza semantica, dovuta al fatto che colui che è ἀρίζηλος è anche ζηλωτός, agevolarono la precoce confusione: una prova è data dal meraviglioso conio aristofaneo ἀριζήλωτος, ‘molto invidiato’, ‘fortu‐ nato’, declinato in riferimento alla città di Atene in Eq. 1329, in un verso che faceva parodia di un famoso ditirambo pindarico (fr. 76 Sn.-M.). Solo nell’epica tarda un poeta come Quinto di Smirne (6.33-37) poté ascrivere apertis verbis all’eroe acheo l’inconfessabile gelosia, non senza lasciarsi andare a una massima che ha tutto il sapore di una bonaria comprensione e di una riduzione di responsabilità: οὐ γάρ τι ζήλοιο πέλει στυγερώτερον ἄλλο, “non c’è nulla di più tremendo della gelosia”. Piuttosto sicuro è anche un altro dato: lungi da una genesi legata al momento visivo, lo ζῆλος ha originariamente una forte valenza emotiva in virtù del legame etimologico con l’idea del desiderio, quale è espressa da corradicali come ζητέω (‘chiedere’) e ζητήρ (‘vendicatore’). Eppure, anche dopo Esiodo, ζῆλος continuò a costituire una scelta lessicale non troppo frequente. La lirica arcaica, fatta eccezione per due frammenti di Archiloco, quello che cita Gige (fr. 19.2 W. 2 ) e il discorso di elogio rivolto alla regina che avvertirà lo ζῆλος di molti per la sua gloria dopo la conquista di una città (fr. 23.21 W. 2 ), delude ogni aspettativa 14 . La documentazione diventa più ricca nel V secolo a.C., sia pur con signifi‐ cative scelte individuali. Pindaro, che esprime una prospettiva aristocratica, propria di chi difende una differenza originaria riconducibile alla φύσις, di là da inattingibili motivazioni stilistiche, sembra non concedere spazio né all’emulazione né a una prototipica gelosia 15 . Solo in Bacchilide abbondano composti come ἐπίζηλος, πολύζηλος, πολυζήλωτος: nell’epinicio di Ierone, per 25 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="26"?> 16 Alcuni di questi avrebbero avuto fortuna come antroponimi: è il caso di Ἐπίζηλος e soprattutto di Πολύζηλος, nome del famoso tiranno di Gela, fratello di Gelone e Ierone. «Bacchylides, unlike Pindar, tends strongly to split off ζῆλος from the generally negative evalutation applied to envy and instead to treat it consistently as something thoroughly positive, ‘admiration’ or ‘acclaim’» (M O S T 2003, pp. 136-137). Una esauriente ricognizione dell’uso dei composti in -ζηλος in Bacchilide si trova in D O L F I 2010, p. 155. 17 Un breve sommario degli usi e della semantica di ζῆλος si trova anche in S A N D E R S 2014, pp. 46-49, che richiameremo più avanti. Da quest’ultimo e dalla recente produzione anglosassone traggo il metodo basato sullo studio degli scripts, che valorizza i contesti narrativi legati alle emozioni più che le astratte etichette lessicali. «A script is a mini-narrative that will usually encompass (at least) the conditions in which emotion X occurs, the perceptions and appraisals of those conditions, and the responses (whether symptomatic, expressive, or pragmatic) that result» (C A I R N S 2008, p. 46). 18 Mentre la ricerca di P I Z Z O C A R O 1994 si è concentrata sul cosiddetto ‘triangolo amoroso’ - coessenziale alla definizione di gelosia erotica - nella cultura arcaica, S A N D E R S 2014 si è dedicato all’invidia e alla gelosia sessuale nell’Atene classica. esempio, il poeta sottolinea l’ἐπίζηλος τύχα del tiranno (ep. 5.52 Maehler) 16 . Erodoto, invece, a ζῆλος e derivati non fa mai ricorso, mentre in Tucidide si contano appena 4 casi di ζηλόω, perlopiù nell’accezione di ‘emulare’ (2.37, 43, 64; 5.105), e l’astratto ζήλωσις (‘emulazione’; 1.132). Ammesso che, a differenza di Esiodo, Omero e più in generale la poesia epica tendessero naturaliter a bandire nozioni iperrealistiche e sentimenti considerati poco eroici come la gelosia, è lecito chiedersi in che misura il precedente omerico influisse sulle scelte stilistiche dei poeti tragici di età classica. In sostanza, al netto delle differenze semantiche tra la gelosia dei moderni e quella degli antichi, quale rappresentazione dello ζῆλος degli eroi, delle donne e degli uomini comuni, è dato trovare nella tragedia di V e IV sec. a.C.? Esiste uno ζῆλος degli dèi, in alternativa alla nozione più comune di φθόνος? A tali domande cercherò di rispondere nelle seguenti pagine, a partire da una prospettiva di semantica storica attenta alla polisemia acquisita dal termine ζῆλος e dai suoi corradicali più frequenti 17 . Eviterò, invece, nella misura del possibile, di avventurarmi nella ricerca di similitudini tra situazioni emotive antiche e moderne, come ho fatto provocatoriamente prima, alludendo alla presunta gelosia di Menelao, e come invece è stato fatto con profitto da Massimo Pizzocaro e da Ed Sanders, autori di studi dedicati in primis al significato, più che a uno specifico significante 18 . 26 Enrico Cerroni <?page no="27"?> 19 Un’indagine parziale in tale direzione, che tende a ridimensionare il ruolo delle rivalrous emotions come la gelosia, è stata compiuta da G O L D H I L L 2003, pp. 171-172: «The absence of ‘envy’, ‘spite’ and ‘jealousy’ and the obsessive focus on the grander, more violent emotions of anger, pity, hatred and heroic self-assertion, are mutually implicative perspectives which define tragedy’s expression of the limits and dangers of man’s subjectivity». Diversa è la prospettiva più conciliante di S A N D E R S 2014, p. 155. Ancor più propensa a una lettura attualizzante, che identifica la moderna gelosia con la collera erotica degli Antichi, è S I S S A 2015, p. 5: «Una varietà di parole - thymós, cholos, orghé - esprime la rabbia provocata dalla fierezza ingannata. Achille è in collera, Clitemnestra e Medea sono in collera. Il carattere erotico dell’oltraggio non modifica in nulla la struttura della passione». 2. La tragedia Il repertorio mitico cui attinge la tragedia classica offre una galleria ricchissima di vicende incardinate su casi di competizione, emulazione e di gelosia, sia pur implicita o espressa tramite il ricorso a passioni affini 19 . In rapporto alla vastità della materia, tuttavia, la frequenza di ζῆλος (6x) e corradicali non è altissima. 2.1. Eschilo Andiamo con ordine, partendo da Eschilo, in particolare dalle parole di Atossa al fantasma di Dario (Pers. 710-712), percorse da un forte senso di devota ammirazione nei confronti del re, ζηλωτός da vivo, e ancora oggetto di invidia da morto: Βα. ὦ βροτῶν πάντων ὑπερσχὼν ὄλβον εὐτυχεῖ πότμῳ, ὡς ἕως τ’ ἔλευσσες αὐγὰς ἡλίου ζηλωτὸς ὢν βίοτον εὐαίωνα Πέρσαις ὡς θεὸς διήγαγες, νῦν τέ σε ζηλῶ θανόντα πρὶν κακῶν ἰδεῖν βάθος· 710 Re. Tu svettasti dal mondo per la calma potenza che ti diedero casi benigni: finché t’abbagliava raggiare di sole - eri un idolo, allora, in mezzo ai Persiani - colmasti d’ore stupende la vita. Un Celeste, parevi. Anche oggi t’invidio: morto, senza scorgere il pozzo dei mali! [trad. Savino] Altro caso è nel Prometeo incatenato (v. 330), quando il Titano dichiara di ‘in‐ vidiare’ Oceano per essersi trovato fuori da ogni accusa, nonostante avesse partecipato insieme a lui a non meglio precisate imprese: Πρ. ζηλῶ σ’ ὁθούνεκ’ ἐκτὸς αἰτίας κυρεῖς πάντων †μετασχὼν καὶ† τετολμηκὼς ἐμοί 330 27 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="28"?> 20 La formula ζηλῶ σε è piuttosto ricorrente. «For example, it accounts for around a third of all instances of zêlos-words in Aeschylus (2 out of 9: Pers. 712, PV 330), Sophocles (4 out of 14: Aj. 552, El. 1027, fr. 584.1 Radt, fr. 703.1 Radt), Euripides (10 out of 33: Alc. 866, 882, Med. 60, IT 1117, Or. 1673, IA 16, 17, 19, 677, 1406) and Aristophanes (5 out of 12: Ach. 1008, Eq. 837, Vesp. 1450, Thesm. 175, 1118)» (S A N D E R S 2014, p. 47 n. 38). In realtà, in Eur. Alc. 866 e IT 1117 l’oggetto è diverso, mentre è da aggiungere all’elenco Eur. Or. 521. 21 «Emulative envy (“I envy you”) is excluded from φθόνος» (S A N D E R S 2014, p. 46). 22 La risposta dura di Agamennone, che rimprovera alla moglie di perseguire un fine non adatto a una donna (οὔτοι γυναικός ἐστιν ἱμείρειν μάχης), sostituisce ζῆλος con μάχη, non senza creare ambiguità (F R Ä N K E L 1950, p. 426). Sulla gelosia degli dèi in questo passo, vd. anche R A N U L F 1933, p. 71. 23 Nell’accezione di ‘non ammirato’, ‘triste’, ‘infelice’, è usato in riferimento alla vecchiaia: φθάνει δὲ τὸν μὲν γῆρας ἄζηλον λαβὸν / πρὶν τέρμ’ἵκηται (fr. 1 W. 2 ). Pr. Mi fa gola il tuo stato, davvero! Nessuno t’incrimina. Eppure, tutto hai spartito con me, hai osato con slancio costante. [trad. Savino] Le traduzioni moderne, invece di valorizzare il riferimento all’ammirazione e a una conseguente, sia pur virtuale, emulazione, tendono perlopiù a ricorrere al motivo dell’invidia, avvalorando la frequente sovrapposizione tra le due nozioni 20 . Tale confusione non sarebbe riproducibile in greco, nel quale il meno ambiguo φθόνος è privo di alcun richiamo al concetto di competizione positiva 21 . Un’ammirazione incondizionata verso un modello, anche se irraggiungibile, come nel caso di ζῆλος, non comporta necessariamente una nota negativa o malevola. A fugare ogni dubbio sulla valenza di φθόνος e ζῆλος in Eschilo è un passo dell’Agamennone (v. 939). Clitemnestra sta cercando di convincere il marito a deporre gli scrupoli moralistici e a camminare sul tappeto rosso con il quale intende celebrare il suo ritorno. Alle riserve del re rispetto alle possibili critiche degli uomini e al potere crescente della fama, Clitemnestra fa notare che un uomo non invidiato non suscita competizione: ὁ δ’ ἀφθόνητός γ’ οὐκ ἐπίζηλος πέλει 22 . Il verso è interessante per almeno due motivi: in primo luogo chiarisce il rapporto sincronico, che vede in sostanza lo φθόνος contestuale - se non preliminare - allo ζῆλος, in secondo luogo ci presenta da una prospettiva inedita i personaggi del mito, nell’epica refrattari a mettersi in discussione. Invece, ora sono oggetto di invidia e bramosi anch’essi di suscitare ζῆλος, sia pur nelle parole chiaramente tentatrici di Clitemnestra. A dimostrazione del valore sociale acquisito dallo ζῆλος, non manca, infine, il privativo ἄζηλος, ‘non invidiabile’ (Ch. 1017, Pr. 143), attestato già in Semo‐ nide 23 . 28 Enrico Cerroni <?page no="29"?> 24 Non è casuale che anche la diagnosi di invidia sia affidata alle parole del coro, che «throws light on the greatness of the object of envy» (H E A T H 1987, p. 175). 25 «The state of being admired, success, good fortune» (C H A D W I C K 1996, p. 120), dal punto di vista di chi è ammirato. 26 La contrapposizione tra la condizione miserevole di Tecmessa nel futuro e quella invidiabile nel passato è sottolineata anche dall’uso del raro ὁμευνέτις, attestato solo qui nel greco classico. «This distribution may suggest an elevated form, with the imaginary speaker emphasizing on a lexical level the contrast between Tecmessa’s former state and current misery» (F I N G L A S S 2011, pp. 283-284). 2.2. Sofocle Più ricco di implicazioni è l’uso linguistico di Sofocle, molto attento alle conseguenze dell’onore ferito e, in generale, al motivo della competizione del singolo eroe con il gruppo cui appartiene, secondo il Leitmotiv burckhardtiano dell’agonalità. Il caso dell’Aiace ne è un esempio illustre. Α una ricerca delle occorrenze di ζῆλος, tuttavia, ci si scontra con una casistica piuttosto scarsa e, probabilmente, non c’è da stupirsene. Lo ζῆλος mirava al ristabilimento di una condizione di parità con gli altri, di quel salutare equilibrio, privo di disuguaglianze troppo nette che avrebbero minato alla base la possibilità stessa dell’amicizia, fondata piuttosto sull’omogeneità di condizione dei contraenti. Sarebbe stato, dunque, troppo democratico per l’ideologia del primato perseguita da Aiace, e nel suo caso si trattava di un onore negato irrimediabilmente, che non poteva essere compensato, se non a costo di riscrivere l’intero mito. Non ci sarebbe stato alcun tipo di ζῆλος utile a salvarne l’onore, ad Aiace semmai rimaneva solo lo φθόνος (v. 157) 24 . È significativo, inoltre, che tale condizione sociale sia traguardata raramente al presente. Al v. 503 Tecmessa prospetta un futuro non lontano in cui non sarà più guardata con lo ζῆλος, ‘ammirazione’ 25 , cui è abituata, bensì con l’attenzione rivolta alla condizione di servitù (λατρεία) in cui vivrà da prigioniera: ἴδετε τὴν ὁμευνέτιν Αἴαντος, ὃς μέγιστον ἴσχυσε στρατοῦ, οἵας λατρείας ἀνθ’ ὅσου ζήλου τρέφει. 26 Guardate la donna di Aiace, l’uomo più forte dell’esercito: la servitù che vive ora, al posto di una sorte che destava invidia. [trad. Paduano] Poco dopo Tecmessa, invece, meno lirico e più franco, Aiace riconosce di avere un solo motivo di ζῆλος nei riguardi del figlio. In cuor suo, infatti, ha già escluso la possibilità che quest’ultimo possa un giorno essere migliore di lui, 29 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="30"?> 27 Il passo è stato giustamente accostato alla scena analoga nel sesto libro dell’Iliade tra Ettore e Astianatte (vv. 476-481, dove Ettore immagina di essere superato in valore dal figlio: v. 479 καί ποτέ τις εἴποι πατρός γ’ ὅδε πολλὸν ἀμείνων). «The one prays that his son may be better than he, the other that he may be his equal in everything but luck - a difference that speaks volumes of Ajax’s unbridled egotism» (B R O W N 1965, p. 120). Secondo M A R C H 1991, p. 16, la franchezza di Aiace è preferibile alla falsa modestia, ma vd. anche F I N G L A S S 2011, p. 297. 28 Il problema è tipico, in generale, di tutte le cosiddette rivalrous emotions, soggette a uno scambio che nella terminologia anglosassone è definito top-down e bottom-up. «Thus, more than envy, phthonos is a top-down as well as bottom-up emotion: the mass feel phthonos towards the wealthy and powerful, such as tyrants and kings (and in similar way, the gods) feel phthonos towards any inferior who gives the appearance of rivalry» (C A I R N S 2003, p. 239). 29 Per Platone il figlio imita il padre e non lo fa per artefatta mimesi, bensì con tutto l’impegno proprio di chi si è posto un modello e cerca con tutte le forze di eguagliarlo (Rp. 553a). derubricandola a un caso di miglior fortuna. Il padre gli riconosce il vantaggio, che vorrebbe condividere - se solo potesse - di non avere coscienza di queste sciagure. ὦ παῖ, γένοιο πατρὸς εὐτυχέστερος, τὰ δ’ ἄλλ’ ὁμοῖος· καὶ γένοι’ ἂν οὐ κακός. καίτοι σε καὶ νῦν τοῦτό γε ζηλοῦν ἔχω, ὁθούνεκ’ οὐδὲν τῶνδ’ ἐπαισθάνῃ κακῶν. 550 Figlio, possa tu essere più fortunato di tuo padre, e per il resto uguale a lui; non sarai un vile. Ora per una sola cosa ti posso invidiare, che non hai coscienza di queste sciagure. [trad. Paduano] Nel proiettare sull’avvenire di Eurisace sogni di grandezza e di orgoglio, Aiace è preciso nel delimitarne i limiti, rigorosamente circoscritti all’emulazione del padre 27 . Il testo esemplifica chiaramente il punto di arrivo dello ζῆλος, forse il motivo che lo aveva reso sgradito alle aristocrazie greche di età arcaica, cioè la reciprocità. L’ammirazione, infatti, per quanto provenga dal basso, implica un giudizio sul superiore e si trasforma inevitabilmente in emulazione e, poi, in competizione con il modello, chiamato in causa in una sorta di sfida 28 . In un discorso intergenerazionale, il rapporto padre-figlio è probabilmente il più adatto a essere descritto nei termini dello ζῆλος e non è solo il figlio a emulare il padre, bensì anche quest’ultimo a immaginare di essere un giorno raggiunto e superato dal proprio virgulto 29 . Aiace, invece, esclude orgogliosa‐ mente quest’ultima prospettiva e vorrebbe, piuttosto, condividere l’innocenza del piccolo Eurisace (τοῦτό γε ζηλοῦν ἔχω). Lo ζῆλος dal basso verso l’alto è 30 Enrico Cerroni <?page no="31"?> 30 È dato riscontrare una formulazione in parte simile solo in un altro testo epigrafico (IG II 2 310) anteriore alla metà del IV sec. a.C.: ἡδυγέλωτι χορῷ Διονύσια σ[ύ]μ ποτε ἐν[ίκων], / μνημόσυνον δὲ θεῷ νίκης τόδε δῶρον [ἔθηκα], / δήμῳ μὲν κόσμον, ζῆλον πατρὶ κισσοφο[ροῦντι]· / τοῦδε δὲ ἔτι πρότερος στεφανηφόρον [εἷλον ἀγῶνα]. In questo caso, sembra che ζῆλος effettivamente facesse riferimento a un contesto di emulazione competitiva tra padre e figlio, quest’ultimo vincitore agli agoni comici prima del padre. Sul contesto dell’epigramma, vd. anche W I L A M O W I T Z 1930, pp. 242-243. 31 Al v. 185, il messaggero annuncia a Deianira che presto Eracle, il suo sposo invidiato da tutti, sarà di ritorno: τάχ’ ἐς δόμους σοὺς τὸν πολύζηλον πόσιν / ἥξειν, φανέντα σὺν κράτει νικηφόρῳ. Secondo J E B B 1908, p. 32, l’accezione è «‘exciting much ζῆλος’, admired by all: though it could also mean merely ‘very prosperous’». 32 Al v. 284, si trova in riferimento alla vita infelice delle donne di Trachis; al v. 745, nella iunctura ἄζηλον ἔργον, indicante il fatto orribile che Deianira aveva inconsapevolmente compiuto a danno del marito. Una terza attestazione sofoclea dell’aggettivo è in El. 1455: ἄζηλος θεά designa la vista spiacevole, “priva di ammirazione” del cadavere di Clitemnestra all’interno del palazzo. 33 In tal senso, risulta forse unilaterale il giudizio di G O L D H I L L 2003, p. 167: «Yet for all that Erôs is thematized in this drama, and for all that erotically motivated revenge and intrigue are central to the plotting, it would be misplaced to describe the Trachiniae as a drama of jealousy or even spite. Deianira is carefully figured as especially generous of spirit particularly in relation to Iole, for whom she expresses sympathy and care. The così egoisticamente rovesciato e, a differenza di Ettore, l’eroe sofocleo non sa concepire la gloria futura del figlio né prefigurare da questa un ritorno di fama anche per sé. Un riscontro interessante in tal senso, per la rarità del lessico impiegato, proviene da una testimonianza epigrafica, l’epigramma per il defunto Clidemo (IG II 2 6859), premorto ai genitori. Ritrovato su una stele marmorea nel Ceramico e risalente a un periodo compreso tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a.C., recita: Κλείδημος Μελιτεὺς Κλειδημίδο ἐνθάδε κεῖται ζῆλος πατρὶ ποτ’ ὤν, μητ[έρι νῦν ὀ]δ̣ύ̣[νη] Con una formulazione assolutamente insolita, più vicina alla sensibilità di Ettore che a quella di Aiace, il giovane è definito ζῆλος, un tempo “oggetto di ammirazione e gelosia” da parte degli altri per il padre, e ora dolore per la madre 30 . Ma vediamo ora gli altri esempi sofoclei, non senza mettere preliminarmente in rilievo anche un’assenza significativa: chi cercasse traccia di ζῆλος nelle Tra‐ chinie, infatti, resterà deluso, fatta eccezione per un’attestazione di πολύζηλος 31 e due di ἄζηλος 32 . Tale mera constatazione lessicale non deve certo indurre a credere che sottotraccia la gelosia non sia presente, benché taciuta per ragioni di opportunità 33 . 31 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="32"?> tragedy of her doom-laden and disastrous expression of desire is set off by her very commitment to a nobility and propriety of character». 34 Ai vv. 380-382, Edipo si lanciava in una protesta contro la ricchezza, il potere e l’arte più grande di ogni altra nella lotta per la vita, in quanto causa di invidia (ὦ πλοῦτε καὶ τυραννὶ καὶ τέχνη τέχνης / ὑπερφέρουσα τῷ πολυζήλῳ βίῳ, / ὅσος παρ’ ὑμῖν ὁ φθόνος φυλάσσεται); vd. anche F I N G L A S S 2018, p. 292, per l’uso di πολύζηλος. 35 «Not envying the success and good fortune of the citizens» (C H A D W I C K 1996, p. 120); «who, not looking upon the envy of the citizens and fortunes» [trad. inglese Finglass]. «The text of 1526 does not make sense as transmitted. Taking ἐπιβλέπων as equivalent to φθονῶν, and ζήλῳ… καὶ τύχαις as hendiadys for ζηλωταῖς τύχαις (thus Korais [= Coray] in his edition of Theophrastus, pp. 261-262) does not help, since ἐπιβλέπω ‘envy’ takes an accusative in classical Greek, a dative only by the Imperial period; and even were the extraordinary hendiadys possible, it is the king’s fortunes that should induce envy in others, not the reverse» (F I N G L A S S 2018, p. 618). L’alternativa più frequente nelle edizioni è stata quella di emendare variamente, con congetture di Martin (οὗ τίς in luogo di ὅστίς), Canter (καί in luogo di ταῖς) e Musgrave (ἐπέβλεπε per ἐπιβλέπων), fino alla seguente riformulazione: οὗ τίς οὐ ζήλῳ πολιτῶν ταῖς τύχαις ἐπέβλεπεν, su cui si basa la traduzione di Paduano. Nonostante le molte obiezioni, resta interessante la possibilità di conservare καί in modo da avere l’endiadi suggerita da Koraìs e la valenza inedita di ἐπιβλέπω, ‘invidiare’. Per tornare all’uso frequente di ζηλῶ σε, invece, nell’Elettra la protagonista riconosce ironicamente alla sorella Crisotemide il dono della prudenza, ma le rimprovera la vigliaccheria perché si tira fuori dal suo piano di vendetta (v. 1027 ζηλῶ σε τοῦ νοῦ, τῆς δὲ δειλίας στυγῶ). La contrapposizione tra ζηλῶ e στυγῶ conferma la valenza positiva del primo verbo, rispetto alla carica malevola del secondo. Alla fine dell’Edipo re (v. 1526), in un passo filologicamente controverso, il coro si rivolge ai cittadini di Tebe per additare il caso di Edipo. Secondo la tradizione manoscritta, il senso del passo dovrebbe essere all’incirca il seguente: Edipo, proprio colui che prima non guardava allo ζῆλος e alle fortune dei concittadini, essendo semmai oggetto dell’ammirazione di tutti 34 , ora invece è precipitato in un vortice di sventure. Χο. ὦ πάτρας Θήβης ἔνοικοι, λεύσσετ’, Οἰδίπους ὅδε, ὃς τὰ κλείν’ αἰνίγματ’ ᾔδει καὶ κράτιστος ἦν ἀνήρ, ὅστίς οὐ ζήλῳ πολιτῶν καὶ τύχαις ἐπιβλέπων, εἰς ὅσον κλύδωνα δεινῆς συμφορᾶς ἐλήλυθεν. 1525 Co. Questi è quell’Edipo che sapeva risolvere gli enigmi famosi ed era uomo potente. Chi non avrebbe guardato con invidia alle sue fortune? Ora è precipitato in un tremendo vortice di sventure. [trad. Paduano] 35 32 Enrico Cerroni <?page no="33"?> 36 Infatti, D A W E 1982, p. 247, considera i versi spuri, anche sulla scorta di studi precedenti, per es. T E U F F E L 1874. Facendo nostra l’interpretazione di Chadwick e Finglass, non coincidente con la traduzione di Paduano, Edipo risulterebbe essere colui che dall’alto della sua condizione di re si può permettere di non guardare allo ζῆλος e alle τύχαι dei sudditi. Anche in questo caso ζῆλος si può rendere con ‘invidia’. L’inversione dei ruoli, corretta invece dall’emendamento, riesce tuttavia controversa: è la condizione iniziale di Edipo che dovrebbe suscitare lo ζῆλος dei concittadini, non viceversa 36 . Volendo dare credito alla tradizione manoscritta e accettare la reggenza di ἐπιβλέπω (‘invidio’) al dativo, si dovrebbe, invece, valorizzare una prospettiva rovesciata. Se secondo Aristotele (Rhet. 1388a) lo φθόνος è tipico dei “pigri” (φαῦλοι) e lo ζῆλος degli uomini “capaci” (ἐπιεικεῖς), allora forse si può intendere perché agli occhi di Sofocle e del coro della tragedia Edipo possa essere descritto come innocentemente disinteressato all’ambizione dei sudditi, desiderosi di essere come lui. È sottesa, come sempre con ζῆλος, una sfida alla competizione, a maggior ragione compatibile con la raffigurazione sofoclea di Edipo come miglior cittadino di Tebe, colui che risolveva persino gli enigmi della Sfinge (v. 1525). Molto interessante è anche il caso che ci offre l’Edipo a Colono. Al v. 943 Creonte si meraviglia che gli Ateniesi abbiano sviluppato un tale imprevisto ζῆλος per i suoi consanguinei, Edipo e le figlie, al punto da concedere loro ospitalità contro la sua volontà: ὦ τέκνον Αἰγέως, οὔτ’ ἄβουλον, ὡς σὺ φής, τοὔργον τόδ’ ἐξέπραξα, γιγνώσκων δ’ ὅτι οὐδείς ποτ’ αὐτοῖς τῶν ἐμῶν ἂν ἐμπέσοι ζῆλος ξυναίμων, ὥστ’ ἐμοῦ τρέφειν βίᾳ. ᾔδη δ’ ὁθούνεκ’ ἄνδρα καὶ πατροκτόνον κἄναγνον οὐ δεξοίατ’, οὐδ’ ὅτῳ γάμοι ξυνόντες ηὑρέθησαν ἀνοσιώτατοι. 940 945 Io, figlio di Egeo, non perché ritenga deserta questa città, o priva di senno, come tu dici, ho fatto quello che ho fatto, ma perché ero convinto che mai li avrebbe presi per i miei parenti un tale amore da ospitarli contro il mio volere. Ero certo che non avrebbero accolto un uomo parricida e impuro, invischiato in nozze che si sono svelate indegne di prole. [trad. Cerri] 33 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="34"?> 37 Così anche nell’edizione di Christopher Collard e James Morwood: «I envy you Greece, and Greece you». Nella sua dissertazione sull’Ifigenia in Aulide, H E N N I G 1870, p. 162, traduceva: «Ich beneide Hellas um dich und dich um Hellas». Come si è visto, nelle lingue moderne la nozione di ammirazione espressa da ζηλόω è perlopiù trasferita all’area semantica dell’invidia (emulative envy). Per evitare tale attualizzazione non sono mancate traduzioni di segno diverso: pur di mantenere la valenza positiva del verbo greco, E N G L A N D 1891, p. 140, parafrasava «Hellas is happy in having such a daughter, and you are happy in being a daughter of such a country as Hellas», secondo una linea seguita anche da S T O C K E R T 1992, p. 592 («Ich preise Hellas ob solch einer Tochter glücklich und dich, Tochter eines solchen Landes zu sein»). La valenza di ζῆλος anche qui è decisamente lontana dall’ambito dell’invidia, ma si lascia ricondurre piuttosto a quello del desiderio, dell’attaccamento affettivo ‘geloso’, in un certo senso dell’amore. La scelta della parola da parte di Sofocle sembra marcata: se Creonte brandisce l’argomento della ‘gelosia’, di un affetto sproporzionato, è perché evidentemente vuole criticare gli Ateniesi, tacciandoli di essere privi di senno, e lo fa con una parola espressiva. Anche per Sofocle, infine, ha senso che la persona o il bene che suscita desiderio di emulazione sia descritto come ζηλωτός: nell’Antigone (v. 1161) l’ag‐ gettivo verbale si riaffaccia in riferimento a Creonte, nelle parole del messaggero che riconosce la grandezza passata del personaggio che aveva salvato la terra di Cadmo. 2.3. Euripide Il tragediografo che offre il maggior numero di attestazioni della famiglia lessi‐ cale di ζῆλος - in particolare del verbo ζηλόω - è Euripide. Alcune di esse sono incardinate in ben note formulazioni a effetto come quella ‘romanticamente’ ispirata di Achille nell’Ifigenia in Aulide (v. 1406): Αχ. Ἀγαμέμνονος παῖ, μακάριόν μέ τις θεῶν ἔμελλε θήσειν, εἰ τύχοιμι σῶν γάμων. ζηλῶ δὲ σοῦ μὲν Ἑλλάδ’, Ἑλλάδος δὲ σέ. 1405 Ach. O figlia di Agamennone, gli dèi mi farebbero beato se ottenessi la tua mano. Invidio l’Ellade per te e te per l’Ellade. [trad. Ferrari] 37 Del resto, l’Ifigenia in Aulide offre altri esempi utili sin dai primi versi: ζηλῶ σέ, γέρον, 16 ζηλῶ δ’ ἀνδρῶν ὃς ἀκίνδυνον βίον ἐξεπέρασ’ ἀγνὼς ἀκλεής· τοὺς δ’ ἐν τιμαῖς ἧσσον ζηλῶ. 34 Enrico Cerroni <?page no="35"?> 38 È ben spiegato, peraltro, dalla lezione ἐπαινῶ restituita da Stobeo nell’ultimo verso, forse anche per un’esigenza di variatio lessicale: τοὺς δ’ ἐν τιμαῖς ἧσσον ἐπαινῶ (4.16.4 Wachs‐ muth-Hense). 39 P A G E 1938, p. 71. Come ti invidio, o vecchio, e come invidio gli uomini che ignoti e oscuri vivono fino al termine un’esistenza lontana dai pericoli! Assai meno invidio chi vive fra gli onori. [trad. Ferrari] Ancora una volta l’ambito di ζῆλος chiama in causa piuttosto un confronto con un termine considerato positivo e desiderabile: Agamennone vorrebbe stare al posto del vecchio, con il quale se potesse cambierebbe volentieri la propria posizione 38 . La medesima formula ζηλῶ σε, «Schlüsselwort» della tragedia secondo Walter Stockert, si ritrova al v. 677, dove a parlare è Agamennone, che riconosce alla figlia un motivo di felicità nel non comprendere che cosa le sta succedendo, secondo lo stilema introdotto da Aiace: Αγ. ζηλῶ σὲ μᾶλλον ἢ ‘μὲ τοῦ μηδὲν φρονεῖν. χώρει δὲ μελάθρων ἐντός - ὀφθῆναι κόραις πικρόν - φίλημα δοῦσα δεξιάν τέ μοι, μέλλουσα δαρὸν πατρὸς ἀποικήσειν χρόνον. Ag. Beata te che nulla intendi! Su, va’ dentro la tenda - non è il caso che una ragazza si faccia vedere in pubblico. Stringimi la mano, dammi un bacio, perché starai a lungo lontana da tuo padre. [trad. Ferrari] Un sondaggio dei rimanenti casi di ζηλῶ σε (in tutto 9) in Euripide ne conferma l’uso ormai stereotipico: Md. 60; Or. 521, 1673. Partiamo dalla Medea: Πα. Τρ. οὔπω γὰρ ἡ τάλαινα παύεται γόων; ζηλῶ σ’· ἐν ἀρχῇ πῆμα κοὐδέπω μεσοῖ. 60 Ped. Nu. Quell’infelice non smette ancora di piangere? Magari! Gli affanni sono al principio e nemmeno a metà. [trad. Cantarella] Nel dialogo tra la nutrice e il pedagogo, quest’ultimo, che è al corrente della recente decisione di Creonte di cacciare Medea da Corinto, chiede se la donna si stia ancora affliggendo o abbia finito. La nutrice replica con una battuta iniziale che ben si traduce con “beato te! ”, «happy in your ignorance» 39 . 35 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="36"?> 40 «Sarcastically implying οὐκ ἐπαινῶ» (W I L L I N K 1986, p. 171). 41 «The assonance with Ζηνός is probably fortuitous» (W I L L I N K 1986, p. 358). 42 Nel dialogo tra Creso e Solone (1.32.7), Erodoto aveva usato un lessico in parte paragonabile per definire l’uomo felice, ma senza far ricorso a ζηλόω (πρὶν δ’ ἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλ’εὐτυχέα). La medesima massima, definita da Sofocle λόγος ἀρχαῖος (Tr. 1-3), è variamente attestata anche in Eschilo (Ag. 928-929), Sofocle (OT 1528-1530, TrGF IV F 646.1-3), Euripide (Andr. 100-102, Tr. 509-510), Dionisio (TrGF I, 76 F 3); vd. anche F I N G L A S S 2018, p. 619. La formula consueta del μακαρισμός voleva l’uso del verbo ὀλβίζω oppure la perifrasi ὄλβιος (μακάριος) ὅστις (S N E L L 1931, p. 75). Per il lessico della felicità in Euripide, rimando a D E H E E R 1969 e M C D O N A L D 1978, che però considerano εὐδαίμων, εὐτυχής, μάκαρ, ὄλβιος e trascurano del tutto ζηλωτός. Simile, se non più grave, la valenza di ζηλῶ σε nella rhesis di Tindareo nell’Oreste (v. 521). Il re spartano esprime il proprio odio per le donne impure, in primo luogo per le figlie Clitemnestra ed Elena, e vi aggiunge la disistima verso Menelao, partito per la guerra di Troia a causa di una donna spregevole: οὐδὲ σὲ ζηλῶ κακῆς / γυναικὸς ἐλθόνθ’ οὕνεκ’ ἐς Τροίας πέδον 40 . Menelao rivolgerà un saluto analogo a Elena, assunta in cielo alla fine della tragedia (v. 1673), ma questa volta senza alcun sarcasmo: ὦ Ζηνὸς Ἑλένη χαῖρε παῖ· ζηλῶ δέ σε / θεῶν κατοικήσουσαν ὄλβιον δόμον 41 . Di là da questi esempi, il verbo ζηλόω in Euripide è coniugato anche con altri oggetti. Nell’Alcesti Admeto afferma di ritenere beati i morti e lo fa dicendo: ζηλῶ φθιμένους, κείνων ἔραμαι, / κεῖν’ ἐπιθυμῶ δώματα ναίειν (vv. 866-867) per poi aggiungere al novero anche i mortali che non hanno moglie e figli: ζηλῶ δ’ ἀγάμους ἀτέκνους τε βροτῶν· / μία γὰρ ψυχή, τῆς ὑπεραλγεῖν / μέτριον ἄχθος. Negli Eraclidi (v. 865) ritorna la massima arcaica dell’imprevedibilità della sorte che determina l’impossibilità di considerare un uomo beato prima della fine della vita. Il messaggero, che annuncia che Euristeo è stato fatto prigioniero, riferisce il tradizionale monito a non considerare eterna la prosperità dei mortali: τῇ δὲ νῦν τύχῃ βροτοῖς ἅπασι λαμπρὰ κηρύσσει μαθεῖν, τὸν εὐτυχεῖν δοκοῦντα μὴ ζηλοῦν πρὶν ἂν θανόντ’ ἴδῃ τις· ὡς ἐφήμεροι τύχαι. 865 Dalla sua sorte attuale si leva un chiaro insegnamento per tutti i mortali: non si guardi con invidia chi pare fortunato, prima di averlo visto morto; perché il favore della sorte è caduco come il giorno. [trad. Russello] 42 Similmente un caso di ζηλόω si trova nell’Ifigenia in Tauride (v. 1117), all’interno di una formulazione comune relativa alla caduta in disgrazia di chi ha prima 36 Enrico Cerroni <?page no="37"?> 43 Nella stessa tragedia, è dato riscontrare due volte ἄζηλος nell’accezione di ‘non invidiabile’ (vv. 619 e 650). Una terza attestazione in Euripide è in un frammento dell’Issipile (fr. 758 K.). 44 In questa costruzione, con l’accusativo τιμάς riferito agli onori pubblici, l’impiego di ζηλόω costituisce un hapax. Una traduzione italiana con il verbo ‘bramare’, etimologi‐ camente legato al desiderio erotico, potrebbe rendere meglio la componente passionale insita nella radice greca del nome ζῆλος. Diversa è la situazione descritta nel passo già citato dell’Ifigenia in Aulide (v. 19), in cui pure sono chiamati in causa quanti si trovano ἐν τιμαῖς. goduto di buona sorte. Il coro di prigioniere greche scioglie un lamento sulla triste condizione di schiave: ζηλοῦσα τὸν διὰ παντὸς δυσδαίμον’· ἐν γὰρ ἀνάγκαις οὐ κάμνει σύντροφος ὤν. Invidio chi è infelice da sempre: non si accascia nella stretta dei mali poiché insieme ad essi è cresciuto. [trad. Ferrari] 43 Fin qui abbiamo considerato usi riconducibili all’area semantica di un’ammira‐ zione priva di istanze emulative. Un testo esemplare in tal senso, invece, anche in rapporto alla rappresentazione della democrazia ateniese e dei suoi politici, è la dura rhesis di Ecuba rivolta a Odisseo in Hec. 251-195, dopo che l’eroe ha comunicato alla regina troiana la decisione presa dagli Achei di sacrificare Polissena: ἀχάριστον ὑμῶν σπέρμ’, ὅσοι δημηγόρους ζηλοῦτε τιμάς· μηδὲ γιγνώσκοισθέ μοι, οἳ τοὺς φίλους βλάπτοντες οὐ φροντίζετε, ἢν τοῖσι πολλοῖς πρὸς χάριν λέγητέ τι. 255 Voi che cercate gli onori dati a chi parla alle folle - quanto è ingrata la vostra razza, demagoghi. Ah, se io potessi non conoscervi! A voi non importa di far male a degli amici, se soltanto riuscite a dire qualcosa per far piacere alle masse. [trad. Battezzato] La critica mossa ai capi Greci, considerati demagoghi per aver accondisceso alla volontà della massa, porta allo scoperto il particolare rapporto che lega i leader agli onori pubblici (τιμαί), rapporto che Euripide definisce ricorrendo al verbo ζηλόω, in un insolito uso in una persona diversa dalla prima singolare 44 . Siamo 37 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="38"?> 45 È stato osservato che la critica della competizione dei politici ateniesi per le cariche e il favore popolare proviene da una regina straniera e asiatica. K O V A C S 1987, p. 81, ha valorizzato il contrasto «between dynastic figures like the Trojan queen and princess and members of a democratically run commonwealth like Odysseus and Agamemnon». Così anche M O R W O O D 2014, p. 194: «it does not take much insight to observe that the denunciations of the democratic process in the play fall exclusively from Asian lips». La contrapposizione tra «Dynasten und Demokraten» è, invece, ridimensionata da M A T T H I E S S E N 2010, pp. 36-37. 46 «176-9 state the higher moral principle or superior rule which he hopes will guide Theseus’ reaction to his particular case» (C O L L A R D 1975, p. 154). Non è sembrato fuori luogo vedere una riformulazione della massima già esiodea (Op. 23-24) e la topica dell’epitafio pericleo in Tucidide (2.40.1). L’emblematica iunctura χρημάτων ἔρως è, invece, attestata per la prima volta in Euripide. evidentemente nell’area semantica del desiderio e dell’ambizione, connotata di una nota passionale qual è quella che caratterizza la ricerca di consenso da parte dei demagoghi ateniesi 45 . Il movente socio-economico, alla base di una emulazione capace di spronare all’azione, e non privo di un riferimento alla ricchezza materiale, si affaccia invece nelle Supplici (v. 178), nelle parole del re di Argo, Adrasto, che supplica l’aiuto di Teseo facendo leva su considerazioni di valenza universale: σοφὸν δὲ πενίαν τ’ εἰσορᾶν τὸν ὄλβιον πένητά τ’ ἐς τοὺς πλουσίους ἀποβλέπειν ζηλοῦνθ’, ἵν’ αὐτὸν χρημάτων ἔρως ἔχῃ È bene che il ricco guardi alla povertà e che, a sua volta, il povero volga uno sguardo ambizioso al ricco, quando lo assalga il desiderio di denaro. [trad. Fabbri] 46 Fin qui si è considerato il verbo ζηλόω, di gran lunga più frequente del nome ζῆλος, attestato solo tre volte in Euripide. Nell’Oreste (v. 973) se ne dà un caso nella valenza di ‘prosperità’ e viene singolarmente contrapposto allo φθόνος degli dèi nelle parole che Elena rivolge alla corifea a proposito della rovina della casa di Pelope: 38 Enrico Cerroni <?page no="39"?> 47 Il testo in questa forma è frutto degli emendamenti di Musgrave, a fronte della lezione tràdita ζηλωτὸς οἶκος (vd. anche W I L L I N K 1986, p. 244, che rende icasticamente il senso di ζῆλος: «the emotion felt by man who says to another ‘lucky fellow’»). 48 N E S T L E 1901 individuava una sola attestazione della iunctura φθόνος θεῶν nell’opera di Euripide, quando Eracle riconduce Alcesti in vita e la restituisce ad Admeto dicendo ἔχεις· φθόνος δὲ μὴ γένοιτό τις θεῶν (Alc. 1135). È evidente che è opportuno annoverare anche forme variate, come quella del passo citato dell’Oreste e gli altri casi recensiti da R A N U L F 1933, pp. 74-79. «Thus it must for the present be left uncertain whether any of the three great Athenian playwrights shared the belief of their people in the jealousy of the gods. But whatever the personal attitude of the poets may have been, the constant references in their works to the jealousy of the gods are decisive proofs that this belief was known to all and held by many of their contemporaries» (R A N U L F 1993, pp. 79-80). βέβακε γὰρ βέβακεν, οἴχεται τέκνων πρόπασα γέννα Πέλοπος ὅ τ’ ἐπὶ μακαρίοις ζῆλος ὤν ποτ’ οἴκοις 47 · φθόνος νιν εἷλε θεόθεν ἅ τε δυσμενὴς φοινία ψῆφος ἐν πολίταις 975 È scomparsa, è scomparsa, se n’è andata l’intera stirpe di Pelope, e l’ammirazione che destava un tempo quella casa beata; l’ha distrutta l’invidia degli dèi e l’ostile voto di morte fra i cittadini. [trad. Medda] In questo contesto all’ammirazione si mescolano il desiderio e la sua frustra‐ zione. Dalla studiata contrapposizione sembra che Euripide volesse sottolineare la polarità antonimica tra lo ζῆλος umano e terreno, mirante all’emulazione, e lo φθόνος divino, sprezzante della felicità umana, diretto dall’alto verso il basso 48 . Più dibattuta è l’interpretazione di un passo dell’Ecuba (vv. 351ss.), in cui si può cogliere un’accezione vicina a quella di ‘competizione’, ‘rivalità’: ἔπειτ’ ἐθρέφθην ἐλπίδων καλῶν ὕπο βασιλεῦσι νύμφη, ζῆλον οὐ σμικρὸν γάμων ἔχουσ’, ὅτου δῶμ’ ἑστίαν τ’ ἀφίξομαι. 352 39 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="40"?> 49 Nella traduzione inglese, Battezzato esplicita ancora meglio la necessità di presupporre una nota interrogativa in ζῆλον: «after that, I was raised with the fair hope of becoming the wife of a king, causing no small rivalry for my wedding, <since I made people wonder> whose hearth and home I would go to» [trad. Battezzato]. Più difficile, invece, accogliere la proposta avanzata da C H A D W I C K 1996, p. 120, di interpretare ζῆλος nell’accezione di enthusiasm: «Then again I was brought up with high hopes of being a king’s bride, with no small enthusiasm for getting married, (to see), to whose home and hearth I should come». Secondo B A T T E Z Z A T O 2018, p. 122 «ζῆλον ‘rivalry’ implies that people were uncertain as to the outcome of the competition for marrying Polyxena»; vd. anche M A T T H I E S S E N 2010, p. 301. Resta, tuttavia, da segnalare la relativa rarità della costruzione di ἔχω con ζῆλον in età classica (vd. Dem. 6.6, 120.5; IG II 2 12393). 50 Il testo, citato da Stobeo all’inizio della sezione Περὶ Εἰρήνης (4.14.1) e da Polibio, che riprende un passo dei Sikelikà di Timeo (FgrHist 566 F 22 ap. Pol. 12.26.5), è tràdito anche da P.Köln 398. Per un commento dettagliato, rimando a H A R D E R 1985, pp. 102-110, e C O L L A R D , C R O P P , L E E 1995, pp. 132-135. 51 «Here the connotation of jealousy is justified by the addition ὡς χρονίζεις ‘because you linger so long’, i. e. somewhere else, whereas I want you to come to me» (H A R D E R 1985, p. 106). Poi sono stata cresciuta con splendide speranze: andare sposa a dei re. La rivalità per ottenere le mie nozze, per decidere quale uomo mi avrebbe accolta nella sua casa e nel suo focolare, non era una rivalità da poco. [trad. Battezzato] 49 Invece, decisamente più chiara è l’accezione sentimentale nel senso di ‘desi‐ derio’ in uno noto stasimo del Cresfonte contenente un inno alla Pace, invocata dal coro con forte intensità (fr. 453.1-3 K.) 50 : Εἰρήνα βαθύπλουτε καὶ καλλίστα μακάρων θεῶν, ζῆλός μοι σέθεν ὡς χρονίζεις Pace della profonda ricchezza e degli dèi beati la più bella, ho brama di te che ti attardi. L’uso insolito di ζῆλος nel contesto di un inno cletico come questo non ha suscitato particolare attenzione nei commenti 51 . In realtà, è chiaro che Euripide volesse rappresentare in modo quanto più espressivo il desiderio, la ‘gelosia’ 40 Enrico Cerroni <?page no="41"?> 52 L’invocazione della pace, espressa dalle prime forme di culto per la dea Εἰρήνη, è stata letta come una spia dell’aria che si doveva respirare ad Atene nell’ultimo scorcio della guerra archidamica. Rispetto alla cronologia, infatti, la ripresa dell’inno nei Contadini di Aristofane (fr. 111 K.-A.) ha fornito un terminus ante quem entro cui collocare la prima rappresentazione della tragedia, verosimilmente prima delle Dionisie del 424 a.C., quando fu probabilmente messa in scena la commedia aristofanea (N E R I 1994/ 1995, pp. 263-264). Per un ulteriore terminus ante quem del Cresfonte, ricavato dalla parodia aristofanea del monologo di Cresfonte (fr. 448a K.) nel monologo di Diceopoli negli Acarnesi (vv. 480-488), vd. M E D D A 2002, pp. 79-80. A T H A N A S S A K I 2018, pp. 2-4, invece, ritorna a una cronologia del Cresfonte al 424 a.C. 53 Già bacchilideo (ep. 1.184, 7.10, 9.45, 10.48 Maehler), è riferito ad Artemide nelle parole delle donne del coro, che avanzano l’ipotesi che Fedra sia incinta e ricordano la loro esperienza di parto, agevolata dalla dea πολυζήλωτος «causing me to be envied» (H A L L E R A N 1995, p. 165). 54 Il testo riportato è frutto dell’emendamento di Paleys, che corregge in modo brillante il tràdito ὑμέναιον Ἑλένης κἀμὸν (K A N N I C H T 1969, p. 371). verso la pace nutrita dal coro di Messeni, probabilmente secondo un’attitudine diffusa ad Atene già dopo i primi anni della guerra del Peloponneso 52 . Infine, a Euripide piaceva molto anche l’aggettivo verbale ζηλωτός (8x), tanto da concedersi persino il ricercato πολυζήλωτος (Hipp. 168) 53 . Nella ben nota rhesis di Medea alle donne di Corinto (Med. 243) il poeta recupera il citato motivo simonideo ed eschileo dello ζηλωτὸς αἰών, che si realizza quando funziona la convivenza con il marito. Sentimentalmente connotata nelle parole di Medea è la descrizione della sorte felice del genitore, aiutato nella sua vecchiaia dai figli e da questi sepolto (Med. 1035 ζηλωτὸν ἀνθρώποισι, “sorte degna di invidia”). Ancora: all’inizio dell’Andromaca (v. 5), la moglie di Ettore, finita prigioniera dei Greci, lamenta la propria sorte, di lei che un tempo era ζηλωτὸς ἔν γε τῷ πρὶν Ἀνδρομάχη χρόνῳ, / νῦν δ’, εἴ τις ἄλλη, δυστυχεστάτη γυνή. Nell’Elena (v. 1435) è un Teoclimeno euforico, in procinto di sposare Elena, a chiedere di riferire agli attendenti di portare nei suoi appartamenti gli arredi nuziali: si devono sentire in tutto il paese gli inni di festa per il suo matrimonio con la donna che era stata sposa di Menelao, in modo che tale unione sia “invidiabile” (ὡς ζηλωτὸς ᾖ): πᾶσαν δὲ χρὴ γαῖαν βοᾶσθαι μακαρίαις ὑμνῳδίαις, ὑμέναιος Ἑλένης κἀμὸς ὡς ζηλωτὸς ᾖ 54 In tutto il paese devono sentirsi gli inni di festa per il mio matrimonio con Elena: tutti me lo devono invidiare. [trad. Fusillo] Le parole del re, ignaro dell’inganno che la coppia, già pronta a lasciare l’Egitto, stava consumando a suo danno, dovevano suscitare il compatimento 41 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="42"?> 55 «A low-key, neutral observation, in which the Chorus-leader simply generalizes Tyndareus’ concluding sentiment» (W I L L I N K 1986, p. 173). È da notare, inoltre, che Euripide ricorre a ζηλωτός come sinonimo di μακάριος poco prima impiegato da Tindareo stesso (v. 540). 56 Per l’età classica, il prospetto realizzato da S A N D E R S 2014, pp. 46-47, contempla i seguenti script: «(i) admiration, which has no action tendency; (ii) emulation, implying someone is far ahead of you and you are inspired to improve; (iii) emulative rivalry, implying someone is not too far ahead of you and you inspired to catch up; (iv) imitation, implying a copying which takes little effort; (v) zeal, implying strong effort but not necessarily a comparandus». Non sfugge l’acribia a tratti eccessiva nella specificazione dei significati, per es. tra le voci (ii) e (iii). La sovrapposizione più chiara con l’ambito dell’invidia si produrrebbe nell’espressione stereotipica ζηλῶ σε, di fatto traducibile I envy you, “ti invidio”. del pubblico, non senza una certa ilarità. Il fatuo e intempestivo desiderio di essere persino invidiato per il matrimonio con Elena, infatti, sarebbe sfumato nella contrita constatazione del raggiro. Infine, nell’Oreste, tragedia permeata di negatività assoluta e caratterizzata dalla ricerca di una felicità impossibile, Menelao è definito dal protagonista del dramma ζηλωτός (v. 247) solo nel caso si fosse salvato solo, venendo da Troia senza la moglie. Nello stesso dramma, in una sorta di breve μακαρισμός, il coro qualificherà come ζηλωτός chi ha avuto buona prole senza conoscere sciagura dei propri figli (v. 542) 55 , in risposta alla dichiarazione di Tindareo, che protesta di essere stato fortunato in tutto, ma non nelle figlie (vv. 540-541). Altre due attestazioni di ζηλωτός si trovano in tragedie frammentarie, la Stenebea nelle parole sconsolate di Bellerofonte (fr. 661.25 K.) e l’Ipsipile (fr. 757 K. = P.Oxy. 852, col. XVI fr. 60 ii, 936). 3. Un possibile spettro semantico A questo punto è possibile tracciare un bilancio e tentare di definire usi e significati di ζῆλος e corradicali in tragedia 56 . Rispetto al precedente omerico, anzitutto, le presunte remore dell’epica rispetto all’emulazione e quel coacervo di sentimenti precursori della gelosia - passione inconfessabile e innominabile - sembrano superate, sia pur non senza riserve. Le occorrenze della parola non sono numerose (6x) e si lasciano ricondurre alle seguenti accezioni, tra loro legate da un rapporto di causalità: a) ‘ammira‐ zione’, ‘onore’ (Soph. Ai. 503, OT 1526; Eur. Or. 973); b) ‘forte desiderio’ (Soph. OC 943; Eur. fr. 453.3 K., Hec. 352). Rispetto all’età arcaica, invece, sembra che 42 Enrico Cerroni <?page no="43"?> 57 «It also seems to be the case that in the early Archaic period zêlos was more ambiguous, and could cover more invidious, destructive situations» (S A N D E R S 2014, p. 47). In realtà, non si può del tutto escludere che si tratti di una casualità dovuta al tema e al genere letterario: l’accezione meno positiva, infatti, è in Esiodo, che doveva evidentemente aver capito molto delle conseguenze di questa emozione, quando ne diede una rappresentazione spietata in Op. 195. nel passaggio all’età classica la nozione di ζῆλος perse la valenza più negativa e distruttiva (‘invidia’), ancora implicita negli usi ambivalenti di Esiodo 57 . Fondandosi su un rapporto triangolare, in cui due rivali si contendono un bene - e più tardi una persona -, lo ζῆλος acquistò anche un’implicazione sociale, chiamando in causa l’apprezzamento di quel terzo attore rappresentato dalla massa indistinta che giudica della felicità altrui. Così doveva risuonare amaramente nelle parole di Tecmessa (Soph. Ai. 503), presaga della sorte infelice cui sarebbe andata incontro, lei che prima suscitava tanta ‘ammirazione’ (se non ‘invidia’). Forse non è un caso che tale ambita condizione sociale sia perlopiù evocata al passato: lo ζῆλος di cui godeva un tempo la stirpe dei Pelopidi (Eur. Or. 973), così come l’iscrizione per il defunto Clidemo (IG II 2 6859), per il padre motivo dell’ammirazione di altri, dipingono un tempo felice trascorso, testimoniando lo slittamento da un significato puramente verbale (‘il processo di ammirare’) a un uso causativo o transitivo (‘motivo o oggetto di ammirazione’). Sembra una novità della tragedia anche la reggenza del genitivo oggettivo, che implica un’accezione b) ‘desiderio’, anche nel senso di ‘rivalità’, visto che il desiderio è condiviso e si traduce in una competizione, come nel caso delle nozze di Polissena (Eur. Hec. 352 ζῆλον οὐ σμικρὸν γάμων). Se l’oggetto, invece, è una persona, come nelle parole sprezzanti di Creonte che nell’Edipo a Colono (v. 943) arriva a definire l’attaccamento degli Ateniesi ai suoi consanguinei come una forma di ζῆλος, l’accezione sentimentale è più spiccata e diventa quasi una sorta di ‘amore’. È significativo, poi, che la diagnosi sprezzante di ζῆλος provenga da Creonte e sia rivolta, non senza una sferzante critica, agli Ateniesi che tanto a cuore hanno preso le sorti di un incestuoso parricida come Edipo. Anche nell’accorata invocazione della Pace del Cresfonte euripideo (fr. 453.3 K.) si lascia cogliere una valenza sentimentale, nel senso di un desiderio molto intenso e non privo di una componente ‘gelosa’. La Pace è tanto più invocata quanto più si fa attendere (ὡς χρονίζεις), secondo uno schema classico dei rapporti che si reggono sulla scintilla del desiderio affettivo. Passione menschlich, allzu menschlich, lo ζῆλος in tragedia non è mai attribuito agli dèi, che nella loro perfezione non hanno bisogno di emulare altri, essendo piuttosto portati, all’occorrenza, a provare φθόνος nei confronti degli umani. Rispetto alla gelosia moderna, inoltre, lo ζῆλος tragico insiste 43 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="44"?> 58 La voce ζῆλος del GLNT di K I T T E L , F R I E D R I C H 1965-1992, coll. 1486-1489, curata da Stumpff, infatti, annotava l’assenza dell’accezione di gelosia «riguardante il rapporto tra coniugi». Anche P I Z Z O C A R O 1994, p. 153, esclude che ζῆλος in epoca arcaica faccia riferimento all’area semantica della gelosia erotica. «Jealousy and its cognates in the Romance languages derive ultimately from Greek ζῆλος, but this word is almost never sexual in reference» (F A N T H A M 1986, p. 45). 59 «Sed apud Atticos demum scriptores verbum ζηλῶ plane abit in notionem beatum praedicandi» (L E J E U N E D I R I C H L E T 1914, p. 12). maggiormente sull’ammirazione e sul desiderio - l’uno presupposto dall’altro -, quindi sulla competizione implicata dalla presenza di un modello o rivale, meno sul senso ossessivo della perdita, possibile o reale, che è invece dominante nella nostra percezione di gelosia, soprattutto erotica 58 . Quanto al verbo ζηλόω, infine, che in tragedia significa comunemente ‘sti‐ mare felice’, banalmente ‘invidiare’, il quadro sin qui descritto conferma la specializzazione in un’accezione positiva, coerente con quella di ζῆλος. Il miglior interpretamentum viene dal lessicografo atticista Meride, che alla voce ζηλῶ annota Ἀττικοί· μακαρίζω Ἕλληνες (ζ 5 Hansen) 59 . Infatti, ai poeti tragici risultava facile trasferire l’ammirazione e l’emulazione nella sfera ideale, all’occorrenza patetica, ma priva di invidia malevola, del μακαρισμός. Il voler essere al posto di qualcuno o come qualcun altro, la cui sorte sia considerata felice, è del resto un ingrediente eterno della poesia: di qui la fortuna della formula stereotipica ζηλῶ σε. Minor spazio c’era per una considerazione più concreta di ζηλόω in rapporto all’emulazione fattiva e all’impegno, sia pur al netto di possibili eccezioni, come il passo euripideo delle Supplici che raffigura lo sguardo ambizioso del povero nei confronti del ricco. Un uso transitivo con oggetto inanimato, poi, è documentabile nell’Ecuba euripidea nelle parole pregnanti rivolte dalla regina troiana a Odisseo: il verbo, nell’accezione di ‘desi‐ derare intensamente’, ‘bramare’, serve a descrivere il particolare rapporto di ricerca degli onori e delle cariche da parte dei demagoghi ateniesi. Rispetto alla questione della scarsa frequenza di ζῆλος, invece, alla luce delle precedenti osservazioni non è da escludere che sia dovuta al fatto che il termine, ignorato da Omero, conservasse in tragedia una certa marcatezza stilistica, riconducibile a una maggiore affettività, coerentemente con la constatazione che alcune passioni anche nel mondo della tragedia restavano difficilmente nominabili o confessabili. Si può dunque escludere, almeno in riferimento alla tragedia attica di età classica, la possibilità di affidare a un termine corradicale di ζῆλος la descrizione o la confessione di un attacco di gelosia. Per quest’ultima, laddove sentiamo di poter individuare contesti antichi compatibili ai nostri, il lessico tragico rimane invece legato a una pluralità di concetti affini, per esempio quelli di ὀδύνη e λύπη, secondo un orientamento talvolta simile a 44 Enrico Cerroni <?page no="45"?> 60 F A N T H A M 1986, p. 50 n. 14. 61 Mi limito qui a ricordare il detto arcaico attribuito a Talete, per cui è sempre meglio essere invidiati che compatiti, che F R Ä N K E L 1960, p. 67 n. 3, ha ricondotto a cerchie aristocratiche di epoca arcaica, e che trova riformulazione in diversi autori (Pind. Pyth. 1.85; Hdt. 3.52.5). In un frammento del Fenice euripideo (fr. 814 K.), per esempio, è dato leggere φθόνον οὐ σέβω, φθονεῖσθαι δὲ θέλοιμ’ ἂν ἐπ’ ἐσθλοῖς. 62 Il solo, grave, svantaggio è di tipo oggettivo, e riguarda la condizione di straniera. «L’u‐ nica cosa che manca in Medea, rispetto alla gelosia freudiana, è l’autocritica» (S I S S A 2015, p. 9). Similmente, P A R R O T T 1991, p. 6: «it is easy to imagine situations in which an envious or jealous person is the last person to know that envy or jealousy motivates his or her actions». 63 «Tutta presa dal suo kleos, dalla sua reputazione e dalla speranza di risultare vincente, Medea è furiosa» (S I S S A 2015, p. 11). 64 «Indeed Medea has the highest number of bed words (at thirty-six) of any extant tragedy. In Greek the bed can be a euphemism for sex (and again Medea has by far the highest number with this meaning), or marriage» (S A N D E R S 2014, p. 132). Diversamente, secondo Konstan e una diversa tradizione di studi, la tragedia ruota piuttosto attorno alla vendetta per il bando dalla città. «Her primary motive in seeking revenge is not jealousy, but anger at Jason’s violation of his oaths and his want of gratitude for her services» (K O N S T A N 2006, p. 233). Anche per G O L D H I L L 2003, pp. 166-167, i sentimenti che dominano Medea sono piuttosto «revenge, heroic self-justification and consuming hatred». Più equilibrata è la lettura di C A I R N S 2021, p. 25: «If we accept that ‘anger’ in English can be used as a description of a jealous reaction, in a scenario that satisfies the conditions for jealousy, then we should also accept it in Greek». quello dell’epica omerica 60 , oppure, come ha sottolineato Giulia Sissa, ἔρως, φθόνος, μῖσος e ὀργή. Probabilmente una ragione di ciò non è troppo lontana. Nonostante l’inevitabile vento di novità portato dall’età classica, la tragedia in fin dei conti continuava a riprodurre sulla scena, problematizzandoli, paradigmi epici arcaici. Anche a teatro i personaggi aristocratici del mito conservavano il loro ethos inflessibile, restio a mutamenti e compromessi, a ogni forma di ζῆλος verso un modello altro da sé, ma anche a indignitose e troppo intimistiche confessioni 61 . In tal senso, Medea non può esplicitamente dichiararsi gelosa della figlia del re di Corinto, almeno non nel senso moderno, perché non prova alcun sentimento di inferiorità nei suoi riguardi e il suo orgoglio glielo impedirebbe in ogni caso 62 . Una confessione in questi termini sarebbe stata poco dignitosa per una donna del suo rango 63 . Piuttosto, le riesce preferibile ricorrere con insistenza al tema più concreto dell’intimità coniugale (vv. 1367-1368), che è toccato anche da Giasone (vv. 555-556, 568-575) 64 . Nell’esperienza prototipica della gelosia vissuta da Medea prevalgono, invece, termini come ἔρως, φθόνος, μῖσος, ὀργή, a dimostrazione del fatto che i Greci esprimevano soprattutto una reattività fisica 45 La gelosia impossibile: per una semantica di ζῆλος in tragedia <?page no="46"?> 65 «It is possible that the status-conscious Greeks were more sensitive to these aspects of the jealousy complex than we, and therefore their vocabulary was better adapted to express these rather than the complex as a whole» (S A N D E R S 2014, p. 142). 66 «Frappé par l’envie» (DELG, s.v. ζῆλος). Gli aggettivi in -τυπος sono comuni a partire dal V sec. a.C. e possono essere proparossitoni e semanticamente passivi oppure parossitoni e attivi. I primi sono comuni in poesia e sembrano più antichi dei secondi; vd. anche F A N T H A M 1986, pp. 46-47. Difficile postulare un’origine più antica del neologismo, ascrivendo a Ferecide di Siro (VI sec. a.C.) l’uso dell’astratto derivato ζηλοτυπία, sulla base di uno scolio alle Argonautiche di Apollonio Rodio relativo all’amore di Zeus per Elara di Orcomeno (1.761). In proposito, vd. anche K O N S T A N 2006, pp. 228-229. 67 Sui due passi, vd. anche S A N D E R S 2014, p. 164. 68 «The badinage and verbal horse-play of Symposium marks the surfacing in literature of what must have been an established spoken idiom - the language of lovers which the fifth century would have found indecorous outside the private party or the comic stage. The fourth century with its new concentration on personal relationships, as opposed to a man’s traditional relationship with oikos and polis, brings to light both language and behaviour not previously thought worthy of public mention» (F A N T H A M 1986, p. 50). Difficile seguire K O N S T A N 2006, p. 223 quando propone di interpretare ζηλότυπος nel passo aristofaneo con l’accezione di niggardly o grudging. S A N D E R S 2014, pp. 139-149, invece, preferisce mantenersi prudente rispetto alla cronologia della parola: «So how might Medea’s jealousy be labeled in Greek? As I mentioned above, zêlotupia is the word typically translated as jealousy from the 380s, but when Medea was written in 431 the word had not yet been coined». e collerica, ignorando la dimensione introspettiva e analitica caratteristica della modernità 65 . Del resto, lo spettatore ateniese, e lo stesso Euripide, dovevano avere presente un repertorio lessicale ben più colorito, ma non adatto al genere tragico, per indicare la gelosia erotica e sessuale. All’inizio del IV sec. a.C. risalgono le più antiche attestazioni del neologismo espressivo ζηλότυπος, ‘colpito da gelosia’, ‘geloso’ 66 . Si tratta di un passo del Simposio di Platone (213d) e un verso del Pluto aristofaneo (v. 1016). Nel dialogo platonico Socrate lamenta la possessiva gelosia di Alcibiade, appena aggiuntosi alla compagnia: da quando è innamorato di lui, non gli è più permesso guardare un bello, altrimenti Alcibiade, ζηλοτυπῶν, gli lancia insulti e quasi alza le mani. Nella commedia aristofanea, invece, la vecchia chiama ζηλότυπος il suo giovane amante, ingelosito dalle attenzioni che un altro uomo le aveva riservato (οὕτω σφόδρα ζηλότυπος ὁ νεανίσκος ἦν) 67 . Elaine Fantham si è chiesta quanto un termine così espressivo, legato a manifestazioni di violenza fisica, dovesse circolare anche nel V sec. a.C. prima di trovare qualche autore che si degnasse di ammetterlo nel recinto salonfähig della letteratura 68 . Probabilmente molto, ma sarebbe stato eccessivo anche per la Medea di Euripide. 46 Enrico Cerroni <?page no="47"?> 69 È un dato interessante che si trattasse soprattutto di uomini, che invece erano stati perlopiù esclusi dalla casistica di personaggi gelosi in tragedia, fatte debite eccezioni come l’Oreste dell’Andromaca euripidea (S A N D E R S 2014, p. 155). La vexata quaestio dell’assenza di un termine greco corrispondente alla nostra gelosia, dunque, da un lato si scontra con le regole del πρέπον, dall’altro, forse, anche con un problema di ordine più generale. La diagnosi di gelosia, almeno della gelosia moderna, infatti, richiede una riflessione secondaria a livello intellettuale, in grado di associare eziologicamente una pluralità di sintomi fisici e di condizioni psicologiche a un’unica causa scatenante. Tale necessità fu avvertita solo episodicamente in greco, come forse dimostrano gli sfortunati hapax ζηλοσύνη in Hymn Hom. Ap. 100 e ζηλημοσύνη in Quinto di Smirne (13.388), ma si ha ragione di credere che ciò non corrispondesse a una diffusa esigenza terminologica e, soprattutto, nel primo caso non si può escludere la comodità metrica di una Augenblicksbildung. In tragedia il ‘complesso della gelosia’, invece, continuò a lungo a esprimersi attraverso le singole componenti emotive (amore, odio, rabbia, dolore), ancora troppo forti e individualizzate per ‘spegnersi’ in un astratto iperonimo: il lessico di Medea è probabilmente un buon esempio di tale situazione. E quando si creò l’espressivo ζηλότυπος e si preparò così il terreno per il conio dell’astratto ζηλοτυπία, attestato a partire dal IV sec. a.C., ciò avvenne per riempire un altro vacuum lessicale, probabilmente ben più grave agli occhi degli Antichi di quanto non sia per noi la definizione di sottili sfumature sentimentali. Nell’Atene di V e IV sec. a.C. doveva essere più utile indicare in modo univoco le reazioni intemperanti e violente degli amanti possessivi o traditi, capaci di violenza fisica ai danni dei loro partner 69 . Fu così che il primo referente utile a indicare univocamente una prototipica gelosia, a differenza del polisemico ζῆλος, fu legato a un ambito realistico e volgare, solo in parte coincidente con il nostro intendimento comune. La più modesta ζηλοτυπία avrebbe lasciato il segno nella commedia, nella prosa e nei generi realistici dell’età ellenistica, ma era rimasta esclusa dal solenne palcoscenico della tragedia di età classica e dal suo repertorio paradigmatico di grandezza. Bibliografia A T H A N A S S A K I 2018 L. 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Secondly, I want to investigate an example of human jealousy through the character of Deianira in Sophocles’ Women of Trachis, to identify similarities and differences with Hera. Keywords: Attic tragedy - jealousy - gods - Hera - Deianira. 1. Introduzione Una delle prime espressioni letterarie della gelosia è costituita dalla figura divina di Era, il cui temperamento frequentemente collerico e incline a ingegnose forme di vendetta appare determinato, sin dalla poesia epica, dagli innumerevoli, e miticamente altrettanto necessari, ‘tradimenti’ dello sposo. Proprio in queste vesti di moglie gelosa, la dea Era sembra essersi per lo più radicata nel nostro immaginario, in contrapposizione e in modo complementare ai miti dei molteplici amori di Zeus, andando a costituire un ripetuto modello narrativo. Un modello che emerge in modo chiaro, senza essere per questo del tutto <?page no="56"?> 1 Si vedano, come esempio dell’agire dettato dalla gelosia della dea, alcuni riferimenti all’odio di Era nei confronti di Eracle e agli inganni orditi per colpirlo: Hom. Il. 14.249-266, 15.24-33, 18.117-119, 19.95-133. In questi passi si può osservare come il comportamento della dea sia costantemente associato all’architettare inganni e alla collera: Hom. Il. 14.160 ὅππως ἐξαπάφοιτο Διὸς νόον αἰγιόχοιο, 14.253 σὺ δέ οἱ κακὰ μήσαο θυμῷ, 15.14 ἦ μάλα δὴ κακότεχνος, ἀμήχανε, σὸς δόλος, Ἥρη, 15.33 […] καί μ’ ἀπάτησας, 18.119 […] ἀργαλέος χόλος Ἥρης, 19.97 Ἥρη θῆλυς ἐοῦσα δολοφροσύνῃς ἀπάτησεν. Per i numerosi amori di Zeus si veda Hom. Il. 14.315-328. 2 Sulla relazione fra Zeus ed Era nell’Iliade, come caratterizzata da forte tensione e rivalità di natura politica, più che da vera e propria gelosia (che appare evocata come esempio in episodi passati, ma mai agita), si veda P U C C I 2018, pp. 171-190. trasparente, sfuggendo a letture di tipo esclusivamente psicologico. Nell’Iliade  1 quella che chiameremmo gelosia è solo uno dei fattori che si inscrivono nella complessa relazione fra Era e Zeus, a cui si possono aggiungere soprattutto una tensione e una rivalità di natura politica 2 , e si presta a momenti dalla sfumatura sia comica e domestica sia tragica, quando si traduce in intenso odio e collera vendicativa. Il teatro tragico esplora quest’ultima strada, quella degli esiti violenti e luttuosi della gelosia, presentandoci Era più volte agire questa passione verso diverse vittime, le donne amate o i figli di Zeus, e diventare così l’artefice di situazioni tragiche che costituiscono snodi importanti dei drammi. Alla luce di ciò, il mio obiettivo è quello, in primo luogo, di evidenziare se e in che modo la tragedia attica contribuisca alla caratterizzazione di Era in termini di gelosia e in che cosa consista tale emozione/ sentimento in questo ambito. Si vogliono quindi mettere in luce il linguaggio adottato, tenendo conto del fatto che non è individuabile una terminologia univoca che esprima questo stato emotivo più complesso, il quale quindi è da desumere da più elementi, le azioni cui la gelosia dà luogo e quale significato essa assuma nell’intreccio dell’opera e nella rappresentazione di Era stessa. A tal fine si passeranno in rassegna i passaggi che riguardano la dea nei seguenti drammi: Supplici e Prometeo incatenato di Eschilo, Eracle, Eraclidi, Baccanti ed Elena di Euripide. In secondo luogo, si vuole osservare se i modi con cui la gelosia viene espressa in riferimento alla dea possano essere rintracciati nella caratterizzazione di altre spose gelose, e umane, della tragedia, che agiscono guidate dalla medesima passione. In particolare, ci si vuole soffermare su alcuni passi relativi al personaggio di Deianira, nelle Trachinie sofoclee (vv. 436-597 circa). 2. Eschilo, Supplici In questo dramma il gruppo corale, composto da fanciulle provenienti dall’E‐ gitto, è protagonista e si impone immediatamente con la parodo. Durante il 56 Sara Di Paolo <?page no="57"?> 3 Sul rapporto fra il presente delle Danaidi e il racconto passato dello loro antenata Io, si veda ad esempio E L L I S 2021, pp. 1-44. 4 Vd. S O M M E R S T E I N 2019, p. 136. 5 Vd. LSJ, s.v. ἄγη, II: «envy, malice, jealousy (of the gods)». Cf. Aesch. Ag. 131, fr. 85; Hdt. 6.61.1. 6 Cf. Hom. Il. 18.117-119 οὐδὲ γὰρ οὐδὲ βίη Ἡρακλῆος φύγε κῆρα, / ὅς περ φίλτατος ἔσκε Διὶ Κρονίωνι ἄνακτι, / ἀλλά ἑ μοῖρ’ ἐδάμασσε καὶ ἀργαλέος χόλος Ἥρης, 19.96-97 […] ·ἀλλ’ ἄρα καὶ τόν / Ἥρη θῆλυς ἐοῦσα δολοφροσύνῃς ἀπάτησεν. canto di ingresso si identifica, spiega le proprie origini e presenta la propria richiesta di aiuto rivolgendosi a Zeus ἀφίκτωρ (v. 1). La preghiera a Zeus, che costituisce una divinità centrale, benché con tratti ambivalenti, nel corso del dramma, non è solo dovuta alla generica funzione di difesa dei supplici svolta dal dio, ma anche ad un legame diretto con le giovani. Queste sono giunte alla città di Argo che un tempo fu patria di Io 3 , loro lontana antenata e oggetto della passione di Zeus: dall’unione con il dio era infatti nato Epafo, fondatore della stirpe a cui appartengono (vv. 5-18, 40-50). È proprio in riferimento a questo mito che emerge inevitabilmente anche la figura di Era, a sua volta connessa alla città argiva. Un accenno alla dea e al suo ruolo nella vicenda di Io compare alla conclusione del canto, che si snoda fra diverse invocazioni a Zeus e ad altre divinità per ottenere protezione. L’ultima coppia strofica (vv. 154ss.) mette invece in luce le conseguenze negative di un mancato aiuto da parte degli dèi: se la preghiera non fosse stata ascoltata, quelle si sarebbero rivolte ad Ade dandosi la morte sugli stessi simulacri divini. Nella prospettiva del canto corale, in un passo però incerto (vv. 161-162), tale possibilità sembra costituire l’avverarsi dell’ira vendicativa degli dèi, la quale viene intrecciata e fatta risalire alla storia di Io. In tale contesto troviamo il primo breve, ma significativo riferimento al ruolo di Era: l’esito negativo della loro richiesta e quindi l’attuarsi della rovina sarebbero il segno evidente dell’avversione della dea 4 . Ponendo in relazione il mito lontano e il presente drammatico, il coro riconosce che la sventura che si sarebbe scatenata su di loro, se private dell’aiuto, è fortemente legata a quella della loro antenata. A differenza di quest’ultima però, il mancato intervento da parte di Zeus avrebbe impedito loro di ottenere una finale salvezza e determinato una completa vittoria per Era, che sembra così aver modo di vendicare l’oltraggio subito in passato. Ciò avrebbe riversato il biasimo su Zeus, incapace di proteggere interamente e dare onore alla sua stessa discendenza (v. 169). La dea Era emerge quindi nel dramma in termini negativi, come artefice della sofferenza di Io nel passato mitico e come potenziale nemica delle fanciulle nel presente scenico. Al sentimento che la domina è attribuito il termine ἄγη 5 , che indica un insieme di gelosia, invidia e rancore in grado di vincere 6 anche Zeus. Le conseguenze rovinose di questo implacabile sentimento 57 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="58"?> 7 Cf. [Apollod.] 2.6.1. Sul rapporto fra Era e Io si veda P E T R I D O U 2015, p. 49, che rileva come nel passo possa emergere il tema dell’identificazione rituale fra sacerdotessa e dea. 8 Vd. S O M M E R S T E I N 2019, pp. 176-177, che sottolinea la novità della trasformazione da parte di Era, poiché in molte fonti questa venne attuata da Zeus, proprio per sfuggire alla dea (cf. [Apollod.] 2.1; Ov. Met. 1.588). Riguardo la questione della metamorfosi di Io, sia nelle fonti letterarie che iconografiche, si veda K O N S T A N T I N O U 2015, pp. 35-53. Sulle fonti del mito di Io si veda anche S U S A N E T T I 2010b, p. 200. divino vengono esemplificate da una metafora che si accosta al contesto marino della navigazione: gli effetti della gelosia sono infatti simili ad una tempesta che segue ad un violento vento premonitore. Xo. […] κοννῶ δ’ ἄγαν γαμετᾶς οὐρανὸνικον· χαλεποῦ γὰρ ἐκ πνεύματος εἶσι χειμών. 165 Co. […] Riconosco la gelosia che trionfa in cielo della tua sposa; infatti, dopo un vento violento giunge la tempesta. Un secondo momento in cui l’attenzione è ricondotta sulla dea è il dialogo con il sovrano di Argo, Pelasgo, arrivato sulla scena per conoscere le origini e le intenzioni del gruppo di supplici. Nell’identificarsi e nel sostenere la propria richiesta di aiuto, le giovani riarticolano il mito fondativo della loro stirpe, affermando di essere originarie di Argo in virtù della loro discendenza da Epafo e da Io (vv. 274-275 […] Ἀργεῖαι γένος / ἐξευχόμεσθα, σπέρματ’ εὐτέκνου βοός). Su richiesta del re, danno prova della verità di quanto detto, rievocando l’intera vicenda mitica, in cui ha spazio anche l’azione ostile di Era. Rispetto al breve cenno nella parodo, in questo racconto vengono esposti i diversi stratagemmi messi in atto dalla divinità a danno di Io, nei quali trova forma il forte sentimento di avversione. Nella complessa rete di relazioni delineata si può rilevare inoltre un originario legame fra Io ed Era stessa, poiché la fanciulla fu sacerdotessa 7 della dea. Secondo la medesima tradizione, tale rapporto venne spezzato da Zeus che si unì alla ragazza determinando la vendetta di Era, venuta a conoscenza di ciò. Il primo espediente messo in atto dalla divinità, segno della sua rabbia e gelosia, è quello della trasformazione 8 : la giovane perde il suo aspetto umano e viene tramutata in giovenca (v. 299). Poiché ciò non arresta il sovrano degli dèi, il quale a sua volta assume le sembianze della ragazza, la dea decide un secondo stratagemma: come ulteriore ostacolo, Era pone a guardia di Io il mostruoso Argo, il quale si caratterizza per poter vedere ogni cosa, sottoponendo la giovane ad un costante controllo. L’espediente viene aggirato con l’uccisione del mostro 58 Sara Di Paolo <?page no="59"?> 9 In questo caso il termine οἶστρος, oltre ad avere un significato concreto, assume anche un senso metaforico in riferimento alla passione che insegue e tormenta la fanciulla conducendola alla follia. Cf. Eur. Hipp. 1300, HF 862, Ba. 665; Soph. Tr. 1254. da parte di Ermes; eppure ancora una volta la collera di Era non si placa e dà vita ad un terzo piano di vendetta: un tafano che avrebbe inseguito e stravolto Io, forzandola ad una fuga senza riposo e conducendola infine in Egitto, dove, in seguito al tocco salvifico di Zeus, sarebbe nato Epafo. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. Χο. Βα. κλῃδοῦχον Ἥρας φασὶ δωμάτων ποτὲ Ἰὼ γενέσθαι τῇδ’ ἐν Ἀργείᾳ χθονί. ἦν ὡς μάλιστα, καὶ φάτις πολλὴ κρατεῖ. μὴ καὶ λόγος τις Ζῆνα μειχθῆναι βροτῷ; κἄκρυπτά γ’ Ἥρας ταῦτα τἀμπαλάγματ’ ἦν. πῶς οὖν τελευτᾷ βασιλέῳν νείκη τάδε; βοῦν τὴν γυναῖκ’ ἔθηκεν Ἀργεία θεός. οὔκουν πελάζει Ζεὺς ἔτ’ εὐκραίρῳ βοΐ; φασίν, πρέποντα βουθόρῳ ταύρῳ δέμας. τί δῆτα πρὸς ταῦτ’ ἄλοχος ἰσχυρὰ Διός; τὸν πάνθ’ ὁρῶντα φύλακ’ ἐπέστησεν βοΐ. ποῖον πανόπτην οἰοβουκόλον λέγεις; Ἄργον, τὸν Ἑρμῆς παῖδα γῆς κατέκτανεν. τί οὖν ἔτευξ’ ἔτ’ ἄλλο δυσπότμῳ βοΐ; βοηλάτην μύωπα κινητήριον. οἶστρον 9 καλοῦσιν αὐτὸν οἱ Νείλου πέλας. τῇ γάρ νιν ἐκ γῆς ἤλασεν μακρῷ δρόμῳ. 295 298 300 305 Co. Pel. Co. Pel. Co. Pel. Co. Pel. Co. Pel. Co. Pel. Si dice che un tempo Io fu sacerdotessa del tempio di Era in questa terra argiva. Certo, è così ed è la voce che prevale. E non c’è anche un racconto secondo cui Zeus si unì ad una mortale? Senza dubbio quest’unione non rimase nascosta ad Era. Quindi come si concluse questa lite fra i sovrani celesti? La dea di Argo trasformò la donna in una giovenca. Zeus allora non si avvicinò più alla vacca dalle belle corna? Dicono di sì, mutando il proprio aspetto in quello di un toro che monta le giovenche. Dunque che cosa fece la potente sposa di Zeus di fronte a ciò? Pose come guardiano della giovenca colui che vede ogni cosa. Un pastore onniveggente di una sola giovenca? Chi intendi? Argo, il figlio della Terra che Ermes uccise. 59 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="60"?> 10 Vd. LSJ, s.v. θυιάς; cf. Aesch. Th. 498, 836. Vd. S O M M E R S T E I N 2019, p. 247. Co. Pel. Co. Pel. Quindi che cos’altro ancora escogitò Era contro l’infelice giovenca? Un tafano che tormenta i buoi. Coloro che abitano presso il Nilo lo chiamano Estro. Infatti, la spinse con una lunga corsa via da questa terra. Nel corso del primo stasimo (vv. 525ss.), le Danaidi rivolgono una nuova preghiera a Zeus per ricevere aiuto e perché il dio respinga l’assalto dei figli di Egitto, facendo ancora riferimento alla storia di Io e al ruolo di Era nella vicenda mitica. L’appello a Zeus è connesso al ricordo della donna amata e alla stretta relazione che di conseguenza il dio ha con le fanciulle, che si definiscono la sua stirpe (v. 536). In particolare, viene rievocata la disperata fuga che condusse la donna trasfigurata in Egitto: questa dovette vagare senza riposo, trafitta e sconvolta nella mente dal tafano impostole dalla sposa di Zeus. Proprio in rapporto a questo esilio carico di sofferenza, la giovane viene definita come “invasata” o “baccante” di Era (v. 564 θυιάς 10 ), un’espressione che mette in luce come sia in balia degli espedienti della dea, ma anche come permanga un forte legame di dipendenza con quella. L’avversione della divinità verso la ‘rivale’ si traduce in un morbo e in un dolore straziante, che comportano la perdita dell’identità attraverso la trasformazione della forma del corpo e la follia. Si può rilevare come la sofferenza di Io venga definita come immeritata (v. 562 ἀτίμοις): ciò suggerisce ancora un giudizio negativo di Era e del suo agire ostile. Xo. […] μαινομένα πόνοις ἀτίμοις ὀδύναις τε κεντροδαλήτισι θυιὰς Ἥρας. 563 Co. […] È in preda alla follia la menade di Era, per colpa di sofferenze indegne e per lo strazio pungente del tafano. Nel corso del medesimo canto viene ricordato anche il termine della sofferenza della donna grazie all’intervento di Zeus, il quale le restituì l’aspetto umano e permise la nascita di Epafo, frutto dell’unione (vv. 575ss.). Con una domanda retorica le fanciulle riconoscono che solo Zeus avrebbe potuto sanare il morbo scatenato da Era, mettendo fine alla sua persecuzione. L’azione della dea viene definita come una malattia subdola (v. 586 νόσους ἐπιβούλους), ancora in riferimento ai suoi espedienti ingannevoli, che solo il sommo degli dèi è stato in grado di curare. Si può osservare nuovamente il rapporto di analogia che era emerso nella parodo: Zeus, a cui le giovani si rivolgono, dovrebbe offrire loro 60 Sara Di Paolo <?page no="61"?> 11 Per una rassegna delle varie ipotesi riguardo quest’ultima sezione del dramma, si vedano S O M M E R S T E I N 2019, pp. 368-370; B E D N A R O W S K I 2011, pp. 552-578. 12 Per una lettura rituale del mito di Io, esempio mitico del periodo di transizione delle ragazze nel periodo puberale, si veda ad esempio K A T Z 1999, pp. 132-137, in cui la figura di Era esprimerebbe il pericolo insito in questa fase di passaggio. Per una considerazione delle peregrinazioni di Io, come momento di passaggio da una condizione all’altra, si veda anche W H I T E 2001, pp. 134-137. aiuto e far cessare la loro disperata fuga sotto l’assillo di un desiderio violento, come un tempo aveva fatto nei confronti di Io. Xo. […] τίς γὰρ ἂν κατέπαυσεν Ἥ- 585 ρας νόσους ἐπιβούλους; Διὸς τόδ’ ἔργον· καὶ τόδ’ ἂν γένος λέγων ἐξ Ἐπάφου κυρήσαις. Co. […] Chi infatti avrebbe potuto mettere fine al morbo insidioso di Era? Questa è opera di Zeus; e coglieresti nel segno dicendo che questa stirpe discende da Epafo. Si ripropone quindi implicitamente l’analogia fra l’ostilità passata della dea verso Io e quella presente verso le fanciulle, rispetto alla quale viene richiesto un uguale rimedio da parte di Zeus. Tale rapporto riguarda anche un altro aspetto che sembra emergere soprattutto nella sezione conclusiva della tragedia: Era infatti si pone a protezione del matrimonio che le giovani fuggono. Nell’esodo quindi si comprende come anche questo tema potesse avere spazio nella tensione con la dea, quando una parte del coro (o un altro gruppo) 11 , mutando prospettiva, si rivolge a Cipride come potenza a cui adeguarsi e insieme evoca la dea Era (v. 1035 σὺν Ἥρᾳ). 3. Eschilo, Prometeo incatenato La sezione centrale del dramma presenta qualche riferimento alla figura di Era e all’esplicarsi della sua gelosia in rapporto al personaggio di Io 12 , anche se con tratti diversi rispetto alle Supplici. Il mito dell’amore fra Io e Zeus e delle terribili conseguenze che ne derivarono per la fanciulla non è solo un racconto lontano e oggetto di rievocazione, ma viene agito nel presente drammatico. Infatti, proprio la fanciulla argiva si presenta di fronte a Prometeo, tormentata da sofferenze che nelle Supplici erano definite esplicitamente come opera di Era. Appena entrata in scena, mostra i segni della sua sventura: ha le sembianze di una giovenca (v. 588 τᾶς βούκερω παρθένου) ed è costretta ad una fuga senza sosta (vv. 61 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="62"?> 13 A Zeus viene attribuita la principale responsabilità della condizione in cui Io si trova. La fanciulla si rivolge a lui in una serie di domande disperate che chiedono ragione della sofferenza che le ha inflitto: vv. 577-584. 14 Cf. v. 163 ἐπικότως, riferito all’agire di Zeus sugli dèi dell’Olimpo. 576 τηλέπλαγκτοι πλάναι, 585 πολύπλανοι πλάναι), trafitta dall’ossessione del tafano e inseguita, come una preda di caccia, dall’allucinazione dello spettro di Argo dai mille occhi (vv. 567-573). La giovane si rivolge ripetutamente a Zeus, fra disperate richieste di spiegazione e preghiere: il dio appare il principale responsabile 13 del suo dolore, dal quale chiede di essere liberata anche con la morte (v. 580), mentre non è inizialmente presente alcun cenno all’azione di Era. L’attenzione è rivolta quindi soprattutto all’agire di Zeus, il quale è caratterizzato in termini prevalentemente sfavorevoli, in analogia con la sofferenza patita da Prometeo e con le nozioni di fondo presenti nel dramma. È Prometeo che fa riferimento alla responsabilità di Era, definendo la giovane come colei che ha suscitato l’amore di Zeus e quindi l’odio della dea. Proprio l’avversione di quest’ultima appare essere la causa del suo folle vagare e della violenza sul suo corpo e la sua mente. Πρ. πῶς δ’ οὐ κλύω τῆς οἰστροδινήτου κόρης τῆς Ἰναχείας, ἣ Διὸς θάλπει κέαρ ἔρωτι, καὶ νῦν τοὺς ὑπερμήκεις δρόμους Ἥρᾳ στυγητὸς πρὸς βίαν γυμνάζεται; 590 Pr. E come non potrei udire la fanciulla resa errabonda dal tafano, la figlia di Inaco? Colei che ha infiammato d’amore il cuore di Zeus e adesso odiata da Era è costretta a forza a una corsa infinita. Solo in risposta alle parole di Prometeo, Io sembra fare uno specifico riferi‐ mento alla persecuzione operata dalla collera della dea Era (vv. 601-602 […] <Ἥρας> / ἐπικότοισι 14 μήδεσι δαμεῖσα. […], “soggiogata dai piani ostili di Era”). Esaudendo la richiesta delle Oceanine, Io racconta la sua infelice vicenda, ripercorrendone le diverse tappe, dalla tempesta divina che stravolse la sua forma (v. 643 θεόσσυτον χειμῶνα) alle apparizioni notturne che la precedettero (v. 645), da Argo che la imprigionava con il suo sguardo fisso al tafano che la costrinse alla corsa stravolta di cui è ancora vittima (vv. 681-682 […] οἰστροπλὴξ δ’ ἐγὼ / μάστιγι θείᾳ γῆν πρὸ γῆς ἐλαύνομαι). Nel suo turbato resoconto, Io non fa riferimento al ruolo di Era: gli eventi che hanno sconvolto la sua esistenza appaiono improvvisi e inspiegabili (cf. v. 680) e l’unico dio, a cui è attribuita una qualche responsabilità e che è ossessivamente presente nelle sue parole, è Zeus (cf. v. 759). Come in precedenza, al termine del racconto della fanciulla, è 62 Sara Di Paolo <?page no="63"?> nuovamente Prometeo a sottolineare l’azione decisiva della sposa divina nella sua sorte. Egli infatti, avendo avuto prova delle sofferenze già patite dalla giovane, si appresta a rivelarle quelle che ancora l’attendono, mettendo in luce come vi siano la volontà e la decisione di Era dietro di esse (vv. 703-704). Πρ. […] τὰ λοιπὰ νῦν ἀκούσαθ’, οἷα χρὴ πάθη τλῆναι πρὸς Ἥρας τήνδε τὴν νεάνιδα. Pr. […] Ascoltate adesso le future sofferenze, che questa fanciulla dovrà patire per volere di Era. Una volta che Prometeo ha concluso la profezia sul suo destino, evocando anche la liberazione che avverrà per il tocco di Zeus e la nascita di Epafo (vv. 848-852), fino alla stirpe argiva delle Danaidi che ripeterà il suo destino di fuga (vv. 854-855), Io si allontana perché colpita nuovamente dalla follia (vv. 877ss.). Nel terzo stasimo (vv. 887ss.), il coro intona un canto in cui risuona l’effetto di quanto ha appena visto e il timore di incorrere in un destino simile a quello di Io. Da un lato infatti le Oceanine esprimono il desiderio di non suscitare mai il desiderio di Zeus (v. 895), o di un altro potente dio, e di avere quindi nozze equilibrate, dall’altro, in modo analogo a Prometeo, riconducono la sorte della fanciulla argiva alla volontà di Era. Il timore che provano osservando la vicenda di Io sembra scaturire da una duplice causa: in parte sono spaventate all’idea di poter suscitare la passione invincibile e prepotente di Zeus, da cui non potrebbero fuggire (v. 907), in parte temono la conseguente vendetta della gelosa sposa del dio, altrettanto crudele e indomita. Xo. […] ταρβῶ γὰρ ἀστεργάνορα παρθενίαν εἰσορῶσ’ Ἰοῦς ἀμαλαπτομέναν δυσπλάνοις Ἥρας ἀλατείαις πόνων. 900 Co. […] Tremo infatti a vedere la verginità che fugge gli uomini di Io distrutta da un misero vagare nella sofferenza per opera di Era. 4. Euripide, Eracle In questo dramma la gelosia e l’azione ostile di Era sono rivolte a Eracle, nato dall’unione fra Zeus e la mortale Alcmena, sebbene proprio la paternità 63 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="64"?> 15 Per la paternità di Zeus, si veda ad esempio M I R T O 2015, pp. 15-27. 16 Vd. LSJ, s.v. κέντρον, 1.b. 17 Sull’apparizione di Lyssa ed Iris si veda L E E 1982, pp. 44-53. In particolare, su Lyssa si veda invece D U C H E M I N 1967, pp. 130-139. divina 15 costituisca uno dei dati problematici, oggetto di discussione, dell’opera. I primi riferimenti al ruolo della dea nel destino dell’eroe sono presenti sin dal prologo, quando Anfitrione ripercorre la storia del figlio e si sofferma sull’ordine impartitogli da Euristeo di purificare la terra dai mostri (vv. 19-20). L’impulso a tale compito viene spiegato ricorrendo a due ordini di cause: da un lato una necessità astratta e inflessibile (v. 21), dall’altro la volontà ugualmente tenace di Era. L’azione di quest’ultima è espressa ricorrendo all’immagine del “pungolo” divino (κέντροις 16 ), che identifica un’azione di costrizione violenta e dolorosa e connota la dea come figura ostile. Αμ. […] συμφορὰς δὲ τὰς ἐμὰς ἐξευμαρίζων καὶ πάτραν οἰκεῖν θέλων, καθόδου δίδωσι μισθὸν Εὐρυσθεῖ μέγαν, ἐξημερῶσαι γαῖαν, εἴθ’ Ἥρας ὕπο κέντροις δαμασθεὶς εἴτε τοῦ χρεὼν μέτα. 20 An. […] Ma volendo alleviare le mie sventure e desiderando abitare in patria, pagò ad Euristeo un grande compenso per il ritorno: liberare la terra dai mostri, sia perché fosse soggiogato dal pungolo di Era sia per necessità. L’azione si svolge a Tebe e nella prima parte Eracle è assente, mentre sulla sua famiglia incombe la minaccia del proposito di vendetta di Lico, il sovrano del luogo. Questo è certo della morte dell’eroe che, da tempo lontano e impegnato nella sua ultima impresa nell’Ade, non potrà ostacolarlo. Già in questa sezione iniziale, in cui i figli dell’eroe sono in un pericolo apparentemente senza via d’uscita, si delinea il tema della problematica discendenza da Zeus, la quale in seguito riguarderà anche il rapporto con Era. Contro ogni previsione (vv. 514ss.), Eracle appare sulla scena, riuscendo a salvare la propria famiglia e a vincere Lico. È solo a questo punto, in seguito all’ulteriore vittoria dell’eroe, che emerge la minaccia rappresentata dalla dea Era. Questa non compare di persona per dare sfogo alla propria ostilità, ma al suo posto, a compiere quanto lei desidera, appaiono le dee Lyssa e Iris 17 (vv. 822ss.). Soprattutto quest’ultima conduce sulla scena l’astio di Era nei confronti di Eracle, mostrandosi particolarmente aggressiva e del tutto in linea con i propositi della dea. Iris afferma che Eracle non si trova più sotto la protezione del destino e di Zeus, come quando compiva 64 Sara Di Paolo <?page no="65"?> 18 Per la figura di Era nell’Eracle euripideo e per una generale discussione sulla presenza degli dèi in questo dramma, si veda anche L E F K O W I T Z 2016, pp. 49-76. le sue imprese, ma è ora pericolosamente esposto all’odio della nemica divina. Dopo le molte fatiche, la dea Era 18 desidera per lui una nuova crudele sofferenza, che giunga a contaminarsi con il sangue della sua famiglia, uccidendo i figli che lui stesso poco prima era riuscito fortuitamente a trarre in salvo dalla minaccia umana. Ιρ. […] πρὶν μὲν γὰρ ἄθλους ἐκτελευτῆσαι πικρούς, τὸ χρή νιν ἐξέσῳζεν, οὐδ’ εἴα πατὴρ Ζεύς νιν κακῶς δρᾶν οὔτ’ ἔμ’ οὔθ’ Ἥραν ποτέ· ἐπεὶ δὲ μόχθους διεπέρασ’ Εὐρυσθέως, Ἥρα προσάψαι καινὸν αἷμ’ αὐτῷ θέλει παῖδας κατακτείναντι, συνθέλω δ’ ἐγώ. 830 Ir. […] Prima infatti che avesse portato a termine le sue amare prove, il fato lo preservava, e il padre Zeus non permetteva che né io né Era potessimo mai fargli del male; ma poiché ha superato le fatiche volute da Euristeo, Era desidera che si contamini con nuovo sangue, uccidendo i figli, e con lei lo desidero anch’io. Nei versi successivi (vv. 838-843) Iris articola una prima spiegazione riguardo il motivo di tanto odio verso l’eroe: questo sembra aver varcato il limite che conduce ad un eccesso, essendo giunto vittoriosamente a termine di tutte le prove impostegli. Egli deve sperimentare la collera di Era, patendo la massima sofferenza possibile, la strage di sua mano dei figli, in modo da ricollocarsi nell’umano e distinguersi nettamente dalla superiore potenza divina. Una collera che dunque mira ad allontanare dal piano divino Eracle e che lo colpisce nell’ambito della paternità, che costituisce, d’altro canto, un oggetto di dibattito rispetto al rapporto con il padre Zeus. Ιρ. […] ὡς ἂν πορεύσας δι’ Ἀχερούσιον πόρον τὸν καλλίπαιδα στέφανον αὐθέντῃ φόνῳ γνῷ μὲν τὸν Ἥρας οἷός ἐστ’ αὐτῷ χόλος, μάθῃ δὲ τὸν ἐμόν· ἢ θεοὶ μὲν οὐδαμοῦ, τὰ θνητὰ δ’ ἔσται μεγάλα, μὴ δόντος δίκην. 840 65 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="66"?> 19 Vd. LSJ, s.v. μηχάνημα, II. Cf. Aesch. Pr. 469, 989, Ch. 981 τὸ μηχάνημα, δεσμὸν ἀθλίῳ πατρί (in riferimento al drappo preparato da Clitennestra per l’uccisione dello sposo); Soph. OC 762. Ir. […] Affinché, dopo aver condotto attraverso le acque dell’Acheronte la bella corona di figli che lo circonda, con una strage compiuta di propria mano, conosca qual è la collera di Era verso di lui e impari anche la mia; o gli dèi non varranno nulla e i mortali saranno grandi, se lui non sconta un castigo. Emerge però uno spunto di critica da parte di Lyssa verso tale proposito, il quale viene esplicitamente giudicato come ingiusto, poiché si rivolge contro un eroe valoroso e benefattore. Il tentativo di evitare l’immeritata sofferenza viene però brutalmente arrestato da Iris, che esorta la dea incaricata di infondere la follia omicida a non osare criticare il piano di vendetta (v. 855). L’azione di Era viene definita dal termine μηχάνημα 19 (v. 855), che individua un “espediente” o delle “trame”, un progettare quindi astuto e ingegnoso, ma moralmente ambiguo. Infatti, la negatività è evidenziata nel momento in cui il piano della dea viene detto essere un errore (v. 847 σφαλεῖσαν), qualcosa di malvagio (v. 856) e, indirettamente, frutto di un agire non saggio e meditato (v. 857). Λυ. […] παραινέσαι δέ, πρὶν σφαλεῖσαν εἰσιδεῖν, Ἥρᾳ θέλω σοί τ’, ἢν πίθησθ’ ἐμοῖς λόγοις. ἀνὴρ ὅδ’ οὐκ ἄσημος οὔτ’ ἐπὶ χθονὶ οὔτ’ ἐν θεοῖσιν, οὗ σύ μ’ ἐσπέμπεις δόμους· 850 Ly. […] Voglio esortare Era, prima di vederla sbagliare, e anche te, se ascoltate le mie parole. Quest’uomo, nella cui casa mi mandi, non è senza importanza né sulla terra né fra gli dèi. Ιρ. Λυ. Ιρ. μὴ σὺ νουθέτει τά θ’ Ἥρας κἀμὰ μηχανήματα. ἐς τὸ λῷον ἐμβιβάζω σ’ ἴχνος ἀντὶ τοῦ κακοῦ. οὐχὶ σωφρονεῖν γ’ ἔπεμψε δεῦρό σ’ ἡ Διὸς δάμαρ. 855 Ir. Ly. Ir. Tu non criticare le trame di Era e le mie. Ti sto guidando verso la strada migliore, al posto della peggiore. La sposa di Zeus di certo non ti ha mandato qui per essere saggia. Alla fine, però anche Lyssa deve cedere alla volontà inflessibile di Era e si appresta a scatenare la follia contro l’eroe, al posto e per ordine di quella. 66 Sara Di Paolo <?page no="67"?> Λυ. […] εἰ δὲ δή μ’ Ἥρᾳ θ’ ὑπουργεῖν σοί τ’ ἀναγκαίως ἔχει τάχος ἐπιρροίβδην θ’ ὁμαρτεῖν ὡς κυνηγέτῃ κύνας, εἶμί γ’· […] 860 Ly. […] Se però è necessario che io mi pieghi al volere di Era e al tuo e vi segua veloce ringhiando, come i cani seguono cacciatore, ebbene allora vado. […] Le due divinità che appaiono sulla scena hanno la funzione di esprimere l’odio della dea contro l’eroe e sono lo strumento attraverso cui questa implacabile ostilità trova attuazione. Solo il coro, che assiste all’apparizione, ha però modo di conoscere direttamente il piano divino e le intenzioni di Era, mentre gli altri personaggi possono solo ipotizzare quale divinità sia l’artefice della sventura in atto. In seguito al compimento della strage, si susseguono nel testo molteplici riferimenti che congetturano, e indovinano, l’azione della dea dietro la rovina dell’eroe. Anfitrione, trovandosi di fronte al doloroso compito di far conoscere la realtà dell’accaduto ad Eracle (vv. 1109ss.), una volta che questo è ritornato in sé dalla follia, rivolge un disperato appello a Zeus. Il dio viene giudicato a sua volta colpevole di essersi posto dalla parte di Era, cedendo al suo potere e al suo rancore vendicativo, non facendo nulla per salvare il figlio. Il dio infatti viene immaginato osservare le vicende dal trono su cui siede Era (v. 1127), espressione che allude criticamente ad una subalternità rispetto alla sposa. Allo stesso tempo però non emerge, in questo momento, la volontà di condannare Era come unica artefice della sventura, ma Eracle viene chiamato ad affrontare la sua personale responsabilità nell’uccisione. In questi versi, appare centrale la questione della paternità divina di Zeus, ambigua e sventurata, e a cui si lega inevitabilmente l’ostilità di Era, e di quella, ormai macchiata dal crimine, dell’eroe. Αμ. Ηρ. Αμ. ὦ Ζεῦ, παρ’ Ἥρας ἆρ’ ὁρᾷς θρόνων τάδε; ἀλλ’ ἦ τι κεῖθεν πολέμιον πεπόνθαμεν; τὴν θεὸν ἐάσας τὰ σὰ περιστέλλου κακά. 1127 An. Er. An. Zeus, dal trono di Era vedi queste cose? Ma è da laggiù che soffriamo un’ostilità? Lascia perdere la dea e addossati i tuoi mali. In seguito, la critica ad Era e la comprensione del suo ruolo nella situazione divengono sempre più espliciti. Teseo, una volta giunto in scena e avendo conosciuto da Anfitrione la strage che si è appena consumata, riconosce 67 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="68"?> prontamente che questa è parte della battaglia di Era (v. 1191 Θη. Ἥρας ὅδ’ ἁγών· […]). Compresa la gravità di quanto ha compiuto, anche Eracle, dialogando con Teseo e riflettendo su di sé, attribuisce più volte la responsabilità della sua condizione alla dea. Nonostante abbia combattuto a beneficio degli uomini, da questi egli non può ricevere aiuto, trovandosi in balia del potere di Era, che sembra non conoscere limiti o freni (v. 1253 Ηρ. οἱ δ’ οὐδὲν ὠφελοῦσί μ’, ἀλλ’ Ἥρα κρατεῖ). L’unico rimedio che l’eroe scorge, come molti altri personaggi vittime del sentimento di gelosia e dei piani di vendetta della sposa di Zeus, è la morte (vv. 1241, 1247). Nel rievocare la serie di sofferenze patite nel corso della sua vita, afferma che la sua stessa nascita è stata segnata dalla sventura: egli è infatti stato generato da Zeus solo come vittima dell’odio di Era (vv. 1263-1264). Il legame di discendenza dal sovrano degli dèi è messo in discussione e allo stesso tempo sembra acquisire significato solo alla luce della sventura che lo riguarda: Zeus non è un vero padre per la sofferenza a cui lo ha costretto e per l’assenza di aiuto, ma allo stesso tempo solo questo rapporto spiega la rovina in cui è precipitato. Quindi, nel dirsi figlio di Zeus, Eracle deve riconoscere che proprio ciò è la causa della sua rovina, per l’inevitabile rancore che la sua esistenza suscita nella sposa del dio. Tale persecuzione spietata sarebbe iniziata già durante la sua infanzia, quando la dea cercò di porre fine alla sua vita esponendolo a serpi mortali. Ηρ. […] Ζεὺς δ’ - ὅστις ὁ Ζεύς - πολέμιόν μ’ ἐγείνατο Ἥρᾳ - σὺ μέντοι μηδὲν ἀχθεσθῇς, γέρον· πατέρα γὰρ ἀντὶ Ζηνὸς ἡγοῦμαι σὲ ἐγώ· ἔτ’ ἐν γάλακτί τ’ ὄντι γοργωποὺς ὄφεις ἐπεισέφρησε σπαργάνοισι τοῖς ἐμοῖς ἡ τοῦ Διὸς σύλλεκτρος, ὡς ὀλοίμεθα. 1265 Er. […] Ma Zeus, chiunque sia Zeus, mi ha generato come nemico di Era (ma tu non affliggerti affatto, vecchio: io infatti considero te mio padre, invece di Zeus); quando ero ancora un lattante, la sposa di Zeus introdusse fra le mie fasce dei serpenti dallo sguardo di gorgone affinché morissi. La denuncia della dea emerge più chiaramente solo alla fine del suo discorso: in preda alla disperazione che gli impedisce di scorgere qualche speranza, si rivolge ostilmente ad Era accusandola ed individuando la ragione profonda del suo agire. Egli si riconosce come innocente e afferma di essere stato annientato solo per gelosia verso una mortale, uno dei tanti amori di Zeus. La dea viene dunque 68 Sara Di Paolo <?page no="69"?> 20 Vd. LSJ, s.v. φθονέω, 2. Cf. Eur. Ion 1025 Κρ. ὀρθῶς· φθονεῖν γάρ φασι μητρυιὰς τέκνοις, “Creusa Giusto. Dicono infatti che le matrigne siano gelose dei figliastri”. 21 Cf. v. 1191 Θη. Ἥρας ὅδ’ ἁγών […]. ritratta in preda ad un sentimento irrazionale, implicitamente percepito come indegno del suo ruolo divino, mentre esulta e danza per la vittoria conquistata. Le parole di Eracle ricalcano in parte quelle di Lyssa nell’evidenziare come sia stato distrutto senza avere colpa, ma individuano una causa differente al comportamento della dea: non tanto la volontà di ristabilire una netta distinzione fra dèi e mortali, quanto una personale avversione, definita dal verbo φθονέω 20 , verso un’altra donna oggetto del desiderio dello sposo. Ηρ. […] χορευέτω δὴ Ζηνὸς ἡ κλεινὴ δάμαρ † κρόουσ’ Ὀλυμπίου † Ζηνὸς ἀρβύλῃ πόδα. ἔπραξε γὰρ βούλησιν ἣν ἐβούλετο, ἄνδρ’ Ἑλλάδος τὸν πρῶτον αὐτοῖσιν βάθροις ἄνω κάτω στρέψασα. τοιαύτῃ θεῷ τίς ἂν προσεύχοιθ’; ἣ γυναικὸς οὕνεκα λέκτρων φθονοῦσα Ζηνὶ τοὺς εὐεργέτας Ἑλλάδος ἀπώλεσ’ οὐδὲν ὄντας αἰτίους. 1305 1310 Er. […] Danzi pure la nobile sposa di Zeus, battendo con il suo calzare il luminoso suolo dell’Olimpo. Infatti, ha ottenuto l’obiettivo che voleva, dopo aver sconvolto da capo a piedi, dalle stesse fondamenta, l’uomo che era il primo della Grecia. Chi potrebbe rivolgere preghiere ad una simile dea? Lei che, a causa di una donna, perché era gelosa di Zeus per i suoi amori, ha distrutto il benefattore della Grecia sebbene non avesse alcuna colpa. Il coro, consapevole della realtà delle accuse di Eracle, non può che concordare in merito all’avversione divina di cui l’eroe è vittima, esprimendo la propria solidarietà. Riarticolando anche le ipotesi formulate da Teseo in precedenza, tutta la sventura occorsa all’eroe è riconosciuta essere una lotta voluta dalla sposa di Zeus. Ancora una volta alla dea è associato un lessico proprio della competizione, attraverso l’uso del termine ἀγών 21 (v. 1311). Χο. οὐκ ἔστιν ἄλλου δαιμόνων ἀγὼν ὅδε ἢ τῆς Διὸς δάμαρτος· εὖ τόδ’ αἰσθάνῃ. 1311 Co. Questa lotta non è opera di nessun altro dio se non della sposa di Zeus: tu lo hai ben compreso. 69 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="70"?> 22 Su questo passo e, in generale, sulla figura di Euristeo nel dramma, si veda G U E R R I N I 1972, pp. 45-67. Pronunciando un ulteriore discorso, in cui cede alla preghiera di Teseo di non togliersi la vita, ma piuttosto cercare una via di purificazione ad Atene, ripercorre la strage avvenuta e si rivolge alle sue vittime. Conclude evidenziando ancora una volta la responsabilità di Era nella rovina presente (vv. 1392-1393 […] πάντες ἐξολώλαμεν / Ἥρας μιᾷ πληγέντες ἄθλιοι τύχῃ, “Siamo tutti distrutti, sventurati, colpiti da un solo destino voluto da Era”). 5. Euripide, Eraclidi Anche questo dramma euripideo si concentra sul destino della discendenza di Eracle, facendo solo qualche rapido cenno all’azione della dea Era, che appare però ugualmente, al termine dell’azione, l’artefice nascosta delle vicende che si susseguono sulla scena. Il bersaglio della nuova battaglia è rappresentato da altri figli dell’eroe, contro i quali la dea si è scagliata servendosi, ancora una volta, di Euristeo 22 . Alla fine del dramma quest’ultimo, dopo essere stato vinto e fermato nei suoi piani, afferma di non aver iniziato quella lotta di sua volontà, ma per un’affezione della mente (v. 990 νόσον) inflittagli dalla dea Era. Nella tragedia si individuano dunque elementi ricorrenti nella definizione del comportamento geloso della dea: di nuovo, Era non colpisce direttamente la propria vittima, ma si serve di altre figure, e inoltre la violenza del suo agire si accosta all’ambito semantico della malattia. La sposa di Zeus interviene in questo caso sul pensiero e sulla volontà di Euristeo, che appare conformarsi pienamente al suo desiderio: egli afferma di provare il medesimo intenso odio della dea verso Eracle e di essersi dedicato a progettare ogni tipo di tormento per sopraffarlo. Si può inoltre notare anche la ricorrenza di un lessico legato alla competizione e alla lotta (v. 992 ἀγῶνα τόνδ’ ἀγωνιούμενος), come nel caso dell’Eracle, a definire la sfida mortale che la dea propone alle sue vittime, riuscendone inevitabilmente vincitrice. Ευ. […] ἀλλ’ εἴτ’ ἔχρῃζον εἴτε μή - θεὸς γὰρ ἦν - Ἥρα με κάμνειν τήνδ’ ἔθηκε τὴν νόσον. ἐπεὶ δ’ ἐκείνῳ δυσμένειαν ἠράμην κἄγνων ἀγῶνα τόνδ’ ἀγωνιούμενος, πολλῶν σοφιστὴς πημάτων ἐγιγνόμην καὶ πόλλ’ ἔτικτον νυκτὶ συνθακῶν ἀεί, ὅπως διώσας καὶ κατακτείνας ἐμοὺς 990 995 70 Sara Di Paolo <?page no="71"?> 23 In riferimento a questo mito e alla figura di Semele, è possibile fare riferimento anche al fr. 168 Radt di Eschilo, come ulteriore testimonianza del complesso rapporto fra Zeus, Semele ed Era, e dell’azione vendicativa di quest’ultima. Il frammento si ritiene provenga da una tragedia perduta di Eschilo denominata Semele o Hydrophoroi, che doveva trattare probabilmente della relazione fra Zeus e la mortale, della nascita di Dioniso e insieme della morte della donna. Vi aveva spazio anche l’intervento di Era, la quale doveva apparire in prima persona per instillare nella donna il rovinoso desiderio di incontrare Zeus nella sua ‘vera’ forma. L’aspetto più significativo è che la dea appare sulla scena, un unicum nel teatro tragico, per attuare il suo piano, senza in questo caso, a differenza degli altri drammi, servirsi di altri personaggi divini o umani. Il frammento consta di due parti: la prima è affidata al coro, che sembra alludere all’unione di Semele e Zeus, la seconda vede l’intervento di Era che, nelle vesti di una sacerdotessa delle Muse, elabora un persuasivo discorso volto a catturare l’attenzione della figlia di Cadmo. Interessante osservare la ricorrenza del verbo μέμφομαι. Tale trasformazione è ἐχθροὺς τὸ λοιπὸν μὴ συνοικοίην φόβῳ, […] Eu. […] Ma, sia che lo volessi o meno, Era (si tratta di una dea infatti) fece in modo che io fossi afflitto da questo morbo. Quando iniziai a provare odio verso Eracle e compresi che dovevo sostenere questa lotta, divenni esperto di molti tormenti e molti ne produssi, vegliando sempre la notte, affinché, dopo aver respinto e ucciso i miei nemici, non convivessi il resto della mia vita con la paura. […] Una volta annientato Eracle, la stessa ostilità non poteva che rivolgersi, senza cambiare intensità, sui suoi figli, che si trovano a dover combattere la lotta del padre (v. 1001). Euristeo rivela infine le sue profezie sulla città di Tebe e mostra di essere stato a conoscenza fin dall’inizio anche della sua sconfitta e della presente sventura. Spiega dunque di non aver agito diversamente poiché confidava che la protezione della dea Era sarebbe stata più forte dell’oracolo e che quella non l’avrebbe tradito (vv. 1039-1040 Ἥραν νομίζων θεσφάτων κρείσσω πολὺ / κοὐκ ἂν προδοῦναί μ’, “Credevo che Era sarebbe stata di gran lunga più forte degli oracoli e che non mi avrebbe abbandonato”). Traspare implicitamente una critica al cinismo della dea, pronta a sfruttare senza compassione e giustizia il piano umano, pur di avere soddisfazione della sua irriducibile gelosia. 6. Euripide, Baccanti In questa tragedia l’ostilità di Era si rivolge contro un’altra delle donne amate da Zeus, Semele 23 , e di conseguenza anche contro Dioniso, nato dal legame fra il dio 71 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="72"?> aspramente criticata da Plat. Rp. 381d, per la funzione negativa che possiede. In merito al frammento, si vedano S O M M E R S T E I N 2008, pp. 224-231; H A D J I C O S T I 2006, pp. 291-301; D O D D S 1960, pp. xxviii-xxix. 24 Vd. S U S A N E T T I 2010a, p. 148, sul termine ὕβριν e la violenza reciproca fra dèi e mortali. e la mortale. Rispetto a questo segmento dell’antefatto mitico sono presenti nel testo solo rapide allusioni: il mito appare noto, ma allo stesso tempo oggetto di manipolazione e fraintendimenti. Tale vicenda passata è però fondamentale per il presente scenico del dramma, in cui Dioniso vuole essere riconosciuto nella città materna come figlio di Zeus e di natura divina. Anche sull’intervento di Era e sul suo agire contro il dio, non ancora nato, emergono nel testo differenti versioni, che concordano però in merito alla profonda avversione della dea. È il dio stesso che nei primi versi del prologo fa riferimento alla tomba della madre e a come questa porti ancora i segni della prossimità con gli dèi e della storia della sua origine. Dai resti si sprigiona una fiamma ancora miracolosamente viva, testimonianza sia dell’eccessiva vicinanza con Zeus esperita da Semele sia del conseguente odio inestinguibile di Era verso la donna (vv. 6-9). Il fuoco continua ad essere acceso costituendo l’indizio concreto della tenacia del sentimento della dea, il quale è definito con il termine ὕβριν 24 (v. 9), ad indicare anche la tangibile violenza derivante dalla gelosia e dalla collera. La parola presenta di per sé una sfumatura negativa, che evidenzia l’eccesso e quindi allude all’ingiustizia dell’azione della divinità nei confronti di Semele. Δι. […] ὁρῶ δὲ μητρὸς μνῆμα τῆς κεραυνίας τόδ’ ἐγγὺς οἴκων καὶ δόμων ἐρείπια τυφόμενα Δίου πυρὸς ἔτι ζῶσαν φλόγα, ἀθάνατον Ἥρας μητέρ’ εἰς ἐμὴν ὕβριν. 5 Di. […] Vedo la tomba di Semele uccisa dal fulmine, qui vicino alla casa, e le rovine fumanti del palazzo, che sprigionano la fiamma ancora viva del fulmine di Zeus, segno dell’oltraggio immortale di Era verso mia madre. In seguito, l’interesse si focalizza sull’ostilità della dea nei confronti di Dioniso, rispetto alla quale si giustappongono due narrazioni. La prima è oggetto della parodo (vv. 89ss.): il coro rievoca il momento in cui Semele dovette dare alla luce il figlio che portava in grembo prima del tempo, perché folgorata dal fulmine di Zeus. Il piccolo Dioniso venne quindi nascosto nella coscia del dio, in modo da completare la crescita e insieme rimanere celato allo sguardo di Era. L’odio della 72 Sara Di Paolo <?page no="73"?> 25 Cf. Hom. Hymni 1.7 πολλὸν ἀπ’ ἀνθρώπων κρύπτων λευκώλενον Ἥρην. dea verso il figlio di Zeus, analogo a quello per la madre, emerge indirettamente nella necessità di tenere nascosto il piccolo (vv. 96-98 καλύψας … κρυπτὸν) 25 . Xo. […] λοχίοις δ’ αὐτίκα νιν δέξατο θαλάμαις Κρονίδας Ζεύς, 95 κατὰ μηρῷ δὲ καλύψας χρυσέαισιν συνερείδει περόναις κρυπτὸν ἀφ’ Ἥρας. Co. […] E subito Zeus Cronide lo accolse in un ventre segreto, e dopo averlo celato nella sua coscia lo cucì dentro con fermagli d’oro, nascosto allo sguardo di Era. Nel corso del primo episodio, la storia della nascita del dio trova una differente articolazione nelle parole di Tiresia, volte a rendere verosimili gli aspetti più prodigiosi e, in particolare, a interpretare in modo razionale il mito della coscia di Zeus come ventre materno. Anche in questo racconto la dea Era viene ritratta in preda alla gelosia e alla collera, che però si esprimono in azioni differenti. Si dice infatti che Zeus non inventò un insolito grembo per il piccolo Dioniso, ma semplicemente volle condurlo in salvo sull’Olimpo. Qui dovette però celarlo alla dea Era, piena di rancore, la quale voleva gettare il neonato giù dal cielo (v. 290). In seguito, il dio decise di plasmare un simulacro di etere che potesse fungere da ostaggio e su cui la dea potesse rivolgere la sua ostilità. Τει. […] ἐπεί νιν ἥρπασ’ ἐκ πυρὸς κεραυνίου Ζεύς, ἐς δ’ Ὄλυμπον βρέφος ἀνήγαγεν θεόν, Ἥρα νιν ἤθελ’ ἐκβαλεῖν ἀπ’ οὐρανοῦ· Ζεὺς δ’ ἀντεμηχανήσαθ’ οἷα δὴ θεός. ῥήξας μέρος τι τοῦ χθόν’ ἐγκυκλουμένου αἰθέρος, ἔθηκε τόνδ’ ὅμηρον ἐκδιδούς, < > Διόνυσον Ἥρας νεικέων· χρόνῳ δέ νιν βροτοὶ ῥαφῆναί φασιν ἐν μηρῷ Διός, ὄνομα μεταστήσαντες, ὅτι θεᾷ θεὸς Ἥρᾳ ποθ’ ὡμήρευσε, συνθέντες λόγον. 290 293 295 Ti. […] Dopo che Zeus ebbe strappato il neonato divino dal fuoco del fulmine e condotto sull’Olimpo, Era lo voleva scagliare giù 73 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="74"?> 26 Vd. LSJ, s.v. μέμφομαι, 2. Cf. Eur. Hipp. 1402; Soph. Tr. 470, OT 337; Aesch. fr. 168 Radt. dal cielo. Ma Zeus contro di lei escogitò un piano degno di un dio. Dopo aver squarciato una parte di etere che circonda la terra, diede questa come ostaggio, ponendo Dioniso al riparo dalla collera di Era. Col tempo i mortali dissero che era stato cucito nella coscia di Zeus, avendo scambiato i nomi, poiché il dio era stato ostaggio della dea Era, creando così il racconto. Nel passo si può osservare come la collera vendicativa di Era, pronta a concre‐ tizzarsi in azioni violente contro la vittima, necessiti un ordire stratagemmi altrettanto astuti in riposta da parte di Zeus (v. 291 ἀντεμηχανήσαθ’). 7. Euripide, Elena Anche in questo dramma viene tematizzato il sentimento di gelosia della dea Era, che si rivela uno dei motori nascosti degli eventi sulla scena. In tale contesto però il rancore e la violenta ostilità non sono suscitati dallo sposo Zeus, ma da Paride, e hanno come oggetto Elena, ricoprendo un ruolo chiave nell’ambito dell’antefatto della guerra troiana. Nel prologo (vv. 22ss.) è la donna stessa a spiegare la funzione fondamentale svolta dalla sposa di Zeus nel determinare il suo destino, ma anche un intero conflitto. Era infatti non sopportò di non essere stata preferita dal figlio di Priamo nella contesa di bellezza fra le dee e che il favore di questo si fosse diretto verso Afrodite ed Elena; da questa delusione derivò quindi la decisione di attuare una crudele vendetta. La dea fece in modo che Paride non potesse realmente conquistare il premio promessogli: al posto del corpo di Elena, l’oggetto su cui si era rivolto colpevolmente il desiderio del giovane, plasmò un fantasma con le medesime fattezze della donna. Il sentimento che domina Era è individuato dal verbo μέμφομαι 26 e produce un’azione ingegnosa, ma ostile e ingannevole, che agisce sul desiderio da cui è stata esclusa. Ελ. […] Ἥρα δὲ μεμφθεῖσ’ οὕνεκ’ οὐ νικᾷ θεάς, ἐξηνέμωσε τἄμ’ Ἀλεξάνδρῳ λέχη, δίδωσι δ’ οὐκ ἔμ’, ἀλλ’ ὁμοιώσασ’ ἐμοὶ εἴδωλον ἔμπνουν οὐρανοῦ ξυνθεῖσ’ ἄπο, Πριάμου τυράννου παιδί· […] 35 74 Sara Di Paolo <?page no="75"?> 27 Sul rapporto fra Era ed Elena, attraverso la creazione dell’εἴδωλον, si vedano W O L F F 1973, pp. 79-80, che rileva il paradosso per cui solo grazie allo stratagemma della dea la donna ha potuto preservare la sua virtù e non costituire il motivo della distruzione operata dalla guerra; P U C C I 1997, pp. 15-29, che mette in luce come Elena nel dramma non solo imiti la dea, architettando a propria un piano per mettersi in salvo, ma rimanga anche sotto la sua protezione di dea delle nozze, collaborando implicitamente con lei. El. […] Ma Era, essendosi infuriata per non aver vinto le dee, rese illusorie le mie nozze con Alessandro, e al figlio del re Priamo non diede la mia persona, ma un simulacro dotato di respiro e fatto di cielo, dopo averlo plasmato simile a me. […] Si stabilì un’alleanza fra i due sovrani dell’Olimpo, poiché al piano di Era si unirono le decisioni di Zeus, volte a scatenare il conflitto fra Greci e Troiani (v. 37). L’infelice sorte di Elena 27 , diventata doppia e bersaglio di odio collettivo, e in parte la lunga guerra sembrano costituire solo un effetto della gelosia e del rancore vendicativo di Era a causa della scelta del figlio di Priamo. Ciò viene ribadito a più riprese da ulteriori narrazioni che si susseguono sulla scena. In primo luogo, la moglie di Menelao si trova a dover spiegare, questa volta di fronte allo sposo arrivato in Egitto, la sua incredibile vicenda: sottolinea con enfasi come sia stata la dea Era a sostituire la sua persona, per ostacolare il desiderio di Paride (v. 586 Ελ. Ἥρας, διάλλαγμ’, ὡς Πάρις με μὴ λάβοι, “Era ha compiuto lo scambio, affinché Paride non mi avesse”). In secondo luogo, anche il fantasma della donna, nel momento in cui si dissolve, narra l’accaduto, definendosi come parte degli espedienti di Era. Il termine usato è μηχανή, che spesso individua le “trame” e gli “espedienti” astuti della dea per raggiungere i propri obiettivi e che seguono ad un sentimento di gelosia, come pure ad una volontà di rivalsa. Αγγ. […] […] Ὦ ταλαίπωροι Φρύγες πάντες τ’ Ἀχαιοί, δι’ ἔμ’ ἐπὶ Σκαμανδρίοις ἀκταῖσιν Ἥρας μηχαναῖς ἐθνῄσκετε, δοκοῦντες Ἑλένην οὐκ ἔχοντ’ ἔχειν Πάριν. 610 Mess. […] Poveri Troiani e tutti i Greci! A causa mia, per mezzo degli intrighi di Era, siete morti presso le rive dello Scamandro, credendo che Paride avesse con sé un’Elena che non aveva. In un successivo dialogo con Menelao, Elena mette nuovamente in luce come la dea sia stata la causa della sua rovina, riformulando le vicende che hanno preceduto lo scoppio della guerra di Troia. Il lessico riferito ad Era è di carattere 75 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="76"?> negativo, venendo associato alla distruzione (v. 674 ὤλεσεν) e al compiere il male (vv. 675 προσθεῖναι κακόν, 679 ἔθηχ’ Ἥρα κακῶν). Ελ. Με. Ελ. Με. Ελ. κατεδάκρυσα καὶ βλέφαρον ὑγραίνω δάκρυσιν· ἁ Διός μ’ ἄλοχος ὤλεσεν. Ἥρα; τί νῷν χρῄζουσα προσθεῖναι κακόν; ὤμοι ἐμῶν δεινῶν, λουτρῶν καὶ κρηνῶν, ἵνα θεαὶ μορφὰν ἐφαίδρυναν, ἔνθεν ἔμολεν κρίσις. τὰ δ’ ἐς κρίσιν σοι τῶνδ’ ἔθηχ’ Ἥρα κακῶν; Πάριν ὡς ἀφέλοιτο … 675 Με. πῶς; αὔδα. 680 Ελ. Κύπρις ᾧ μ’ ἐπένευσεν … Με. ὦ τλᾶμον. Ελ. τλάμων, τλάμων· ὧδ’ ἐπέλασ’ Αἰγύπτῳ. El. Men. El. Men. El. Men. El. Men. El. Scoppio a piangere e le ciglia mi si inondano di lacrime: la sposa di Zeus mi ha distrutta. Era? Perché desiderava fare del male a noi due? Ah i miei mali! Quelle acque e quelle fonti, dove le dee abbellirono il loro corpo, da cui ebbe inizio il giudizio. Riguardo il giudizio, Era lo rese il motivo di questi tuoi mali? Per sottrarmi a Paride… In che modo? Parla. Cipride mi promise a lui… Che insolente! Sì, davvero insolente! Così mi portò in Egitto. Infine, è anche Menelao che, una volta compresa la realtà degli eventi, ripercorre la storia e la mostra al servo che lo accompagna: la sofferenza di aver combattuto per un vano spettro è causata da un inganno degli dèi (v. 704 πρὸς θεῶν δ’ ἦμεν ἠπατημένοι) e in particolare dall’opera di Era, nel contesto della lite fra le dee (v. 708 Με. Ἥρας τάδ’ ἔργα καὶ θεῶν τρισσῶν ἔρις). Nel procedere della tragedia è possibile poi osservare come l’agire di Era e il rilievo che assume nella spiegazione degli antefatti della guerra troiana e del destino di Elena si relazionino con il tema del matrimonio, di cui la dea è protettrice. Teonoe fa conoscere l’improvviso mutamento d’animo di Era nei confronti dei due sposi: se fino a quel momento si era mostrata ostile a Menelao ed Elena, separandoli nel corso della lunga guerra, ora ha deciso di porsi dalla loro parte. Un nuovo litigio scuote l’assemblea degli dèi (v. 878 ἔρις γὰρ ἐν θεοῖς), ma questa volta la posizione della sposa di Zeus è opposta rispetto al 76 Sara Di Paolo <?page no="77"?> 28 Cf. vv. 354-355, 368 εἴπερ ἐντεθέρμανται πόθῳ. 29 Cf. vv. 335 Οἴμοι τάλαινα, ποῦ ποτ’ εἰμὶ πράγματος; , 385-386 Τί χρὴ ποεῖν, γυναῖκες; ὡς ἐγὼ λόγοις / τοῖς νῦν παροῦσιν ἐκπεπληγμένη κυρῶ. passato: se prima era nemica, adesso vuole che i due sposi tornino insieme in patria, mostrando la falsità delle nozze di Paride. Tutto ciò appare funzionale alla sua vittoria, mentre i mortali appaiono ancora una volta pedine nel suo nuovo stratagemma per danneggiare la rivale divina, Afrodite, dietro quella umana. Θεο. […] Ἥρα μέν, ἥ σοι δυσμενὴς πάροιθεν ἦν, νῦν ἐστιν εὔνους κἀς πάτραν σῷσαι θέλει ξὺν τῇδ’, ἵν’ Ἑλλὰς τοὺς Ἀλεξάνδρου γάμους, δώρημα Κύπριδος, ψευδονυμφεύτους μάθῃ· 880 Teo. […] Era, che prima ti era ostile, adesso è benevola nei tuoi confronti e desidera salvarti portandoti in patria insieme a costei, affinché la Grecia sappia che le nozze di Alessandro, il dono di Cipride, erano false nozze. Il coro, nel canto successivo all’elaborazione del piano di fuga dei due sposi, riarticolando la tortuosa vicenda di Era farà un ultimo riferimento al doppio illusorio di Elena: questo viene definito come immagine sacra realizzata da Era, espressione che ribadisce lo stretto nesso di dipendenza creatosi fra la dea e la donna (v. 1136 εἴδωλον ἱερὸν Ἥρας). 8. Sofocle, Trachinie Nel dramma sofocleo è possibile osservare un esempio sottile e complesso di espressione della gelosia, nelle sue varie sfaccettature, che in questo caso affligge una sposa mortale, Deianira. La presenza scenica di questa è infatti determinata, in ogni momento, dal pensiero del marito Eracle, sebbene sia lontano da lei. L’inizio del dramma sembra finalmente rompere quell’attesa apparentemente senza fine in cui la donna era bloccata dal momento in cui Eracle si era allontanato per compiere una delle sue fatiche. La gioia per l’avvicinarsi del desiderato incontro viene però adombrata da cenni su una nuova passione che avrebbe coinvolto l’eroe 28 nel tempo della sua lontananza da casa, motivo reale della sua ultima impresa (vv. 335ss.). Deianira accoglie con sgomento 29 le nuove informazioni rivelate: Iole, il nuovo oggetto della passione di Eracle, è una sven‐ tura che sta entrando di nascosto nella sua casa (vv. 376-377 τίν’ εἰσδέδεγμαι πημονὴν ὑπόστεγον / λαθραῖον, ὤ, δύστηνος, “Ahimè, io infelice ho accolto 77 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="78"?> 30 Per una discussione sul discorso pronunciato dalla donna a Lica, si veda H E S T E R 1980, pp. 1-8. Per un’analisi dell’episodio, si veda anche M A T T I S O N 2015, pp. 12-24, che riflette sull’immagine del matrimonio e del ruolo della moglie che emerge dal dramma e sul rapporto con altre spose gelose e distruttive della tragedia come Clitennestra nell’Agamennone ed Ermione nell’Andromaca. 31 Cf. Eur. Ba. 96-98, Andr. 833-835; Aesch. Suppl. 297. 32 Si veda H O L T 1981, pp. 63-73. 33 Cf. Soph. Tr. 470; Eur. Hel. 31. 34 È presente la volontà da parte di Deianira di distinguersi da un immaginario negativo, audace e distruttivo, del femminile rappresentato in tragedia dalla Clitennestra eschilea. Si veda ad esempio W E B S T E R 1936, pp. 168-169, che rileva l’analogia tematica fra Trachinie e Agamennone eschileo e fra l’esito dell’azione delle due spose, ma anche la profonda differenza nell’articolazione della gelosia nelle due donne. in casa una sciagura occulta”). Nonostante la sofferenza e la prima reazione emotiva, la donna desidera sapere la verità della situazione e interroga l’araldo che poco prima le aveva mentito sull’identità della giovane. L’ostinazione di Lica nel coprire la verità e l’enfasi sulla necessità di tenere nascosta la passione di Eracle mostrano indirettamente il timore di una possibile reazione smodata dettata dalla gelosia e dal dolore. Proprio su questo punto, Deianira insisterà nel suo discorso 30 : afferma di voler sapere ogni cosa, e che nulla le sia nascosto (v. 437 Μή … ἐκκλέψῃς 31 λόγον), giustificando, e rendendo innocuo, il suo desiderio di conoscenza con una dimostrazione di razionalità ed equilibrio. La donna afferma di conoscere la natura umana e di non voler incolpare e biasimare lo sposo per quanto è accaduto: la responsabilità del tradimento è attribuita agli dèi, in particolare all’opera di Eros (vv. 441ss.), che ha agito soggiogando Eracle con un vero e proprio morbo 32 (vv. 445-446 Ὥστ’ εἴ τι τὠμῷ τ’ ἀνδρὶ τῇδε τῇ νόσῳ / ληφθέντι μεμπτός 33 εἰμι, κάρτα μαίνομαι). In questi ultimi versi, afferma chiaramente di non voler agire dominata dalla gelosia (μεμπτός εἰμι), poiché ciò equivarrebbe ad essere preda della follia (μαίνομαι), mostrando così un giudizio negativo di questa emozione e riconoscendone la pericolosa irrazionalità 34 . Allo stesso modo, dà mostra di non provare alcuna ostilità verso la rivale, anzi sembra animata da compassione e da un forte senso di immedesimazione (vv. 447-448, 463-467). Il suo coinvolgimento emotivo ha modo quindi di trapelare solo nel suo desiderio di conoscere tutta la vicenda e nell’insistente richiesta di sapere (vv. 436-437, 453, 469). Δη. […] Κεἰ μὲν δέδοικας, οὐ καλῶς ταρβεῖς, ἐπεὶ τὸ μὴ πυθέσθαι, τοῦτό μ’ ἀλγύνειεν ἄν· τὸ δ’ εἰδέναι τί δεινόν; οὐχὶ χἀτέρας πλείστας ἀνὴρ εἷς Ἡρακλῆς ἔγημε δή; 460 78 Sara Di Paolo <?page no="79"?> 35 Cf. vv. 596-597 Μόνον παρ’ ὑμῶν εὖ στεγοίμεθ’· ὡς σκότῳ / κἂν αἰσχρὰ πράσσῃς, οὔποτ’ αἰσχύνῃ πεσῇ. Anche questo verso rivela come agire ordendo piani per far fronte ai propri sentimenti sia giudicato negativamente e dunque esiga la segretezza e il silenzio complice delle fanciulle del coro. Cf. anche Eur. Med. 260-263, Hipp. 710-712; Soph. fr. 679 Radt. Sulla dimensione del nascosto nel dramma si veda anche A P R I L E 1995, pp. 42-47. κοὔπω τις αὐτῶν ἔκ γ’ ἐμοῦ λόγον κακὸν ἠνέγκατ’ οὐδ’ ὄνειδος ἥδε τ’ οὐδ’ ἂν εἰ κάρτ’ ἐντακείη τῷ φιλεῖν, […] De. […] E se hai paura, non temi giustamente, dal momento che il non sapere, questo è ciò che mi farebbe soffrire; il sapere invece, che cos’ha di terribile? Eracle, da solo, non ha forse avuto moltissime altre donne? E di certo nessuna di queste ha mai dovuto sopportare da parte mia un discorso aspro né un oltraggio e nemmeno lei, neppure se si sciogliesse per amore. […] Rassicurato dal discorso di Deianira, Lica è pronto a svelare tutta la verità (v. 474), il folle desiderio di Eracle per la giovane Iole, esplicitando il motivo della sua precedente reticenza. Ancora una volta si può cogliere la consapevolezza del dolore cui la gelosia può condurre, proprio nel timore di dire la verità (vv. 480-481 ἀλλ’ αὐτός, ὦ δέσποινα, δειμαίνων τὸ σὸν / μὴ στέρνον ἀλγύνοιμι τοῖσδε τοῖς λόγοις, “ Ma sono stato io [a mentire], mia signora, poiché temevo che avrei fatto soffrire il tuo cuore con questi discorsi”). Il lessico associato alla malattia torna nella risposta di Deianira, che conferma di non voler agire con collera verso la ragazza: una reazione smodata aggiungerebbe un altro morbo a quello dell’irrazionalità della passione di Eracle, ingaggiando una fallimentare lotta con gli dèi (vv. 491-492 κοὔτοι νόσον γ’ ἐπακτὸν ἐξαρούμεθα / θεοῖσι δυσμαχοῦντες […], “Di certo non ci attireremo un malanno provocato da noi stessi, combattendo una battaglia vana contro gli dèi”). La verità dei sentimenti di Deianira e la sua ferita emotiva emergono però poco dopo, quando la donna si confida con il coro. Vuole piangere la sofferenza effettiva che prova e allo stesso tempo spiegare con quale astuzia ha pensato di porvi rimedio: questo nuovo discorso, però, che così apertamente scava nel suo tormento di donna non più desiderata, esige la segretezza 35 . Si può notare come sia subito alluso lo stratagemma escogitato e messo in atto dalla donna 79 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="80"?> 36 Sulla gelosia di Deianira, si veda ad esempio S C O T T 1997, pp. 33-47, che mette in luce in particolar modo il meccanismo di negazione e repressione attuato dal personaggio rispetto ai propri sentimenti, che però hanno modo ugualmente di emergere. Proble‐ matica risulta la gestione della rabbia, che viene costantemente negata, come parte di un’immagine di donna, folle e audace, a cui Deianira non vuole essere sovrapposta. 37 Si veda S C O T T 1997, pp. 35-38, che riflette su come proprio l’identificazione di Deianira in Iole possa essere l’impulso per un sentimento di gelosia. (v. 534 ἁτεχνησάμην), che si impone come reazione inevitabile per affrontare il sentimento di gelosia 36 . Δη. […] τῆμος θυραῖος ἦλθον ὡς ὑμᾶς λάθρᾳ, τὰ μὲν φράσουσα χερσὶν ἁτεχνησάμην, τὰ δ’ οἷα πάσχω συγκατοικτιουμένη. 535 De. […] Sono venuta sulla porta per dirvi, di nascosto, le cose che ho ordito con le mie mani e per piangere insieme a voi le pene che soffro. Nelle sue parole si vedono emergere tutti i nodi di sofferenza negati nel suo discorso a Lica; proprio la necessità di accogliere con mitezza e comprensione la giovane appare essere la peggior ferita e il peso più grave da dover sostenere. L’espressione utilizzata traduce la dimensione fisica del dolore, qualcosa in grado di straziarle il cuore (v. 538 λωβητὸν ἐμπόλημα τῆς ἐμῆς φρενός). Un altro sintomo della gelosia è il susseguirsi di fantasie rispetto ciò che causa sofferenza e timore: da un lato la paura di dover condividere lo sposo (vv. 539-540), dall’altro quella, che è ormai consapevolezza, di non essere più oggetto del suo desiderio, ma di essere stata sostituita 37 (vv. 547-551). Le emozioni che sostanziano il sentimento di gelosia e che si inseguono nelle sue parole sono dunque la collera e la paura. Il timore, leitmotiv del personaggio di Deianira, ha modo di esprimersi apertamente: la donna teme che Eracle non la desideri più e non risponda alla reciprocità del suo amore (vv. 550-551 ταῦτ’ οὖν φοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν Ἡρακλῆς / ἐμὸς καλῆται, τῆς νεωτέρας δ’ ἀνήρ, “Questo dunque è ciò che temo, che Eracle sia detto mio sposo, ma sia l’uomo della più giovane”). La rabbia non emerge invece in modo esplicito, ma solo attraverso la negazione: se da un lato non può biasimare Eracle (v. 544), dall’altro dà voce ad un soffocato rancore nei suoi confronti per non aver ricambiato in ugual modo la sua fedeltà (vv. 540-542); anche riguardo Iole, ammette l’impossibilità di tollerare la sua presenza nella casa (vv. 545-546). Al mostrarsi in collera Deianira ha preferito mettere in atto uno stratagemma che la possa liberare dalla situazione (v. 554 80 Sara Di Paolo <?page no="81"?> 38 Cf. Aesch. Suppl. 563; Eur. HF 21. λυτήριον λώφημα). Eppure, sebbene non voglia identificarsi con l’immagine di donna malvagia, preda di una avversione che sfocia nella violenza senza freni, il lessico che utilizza la induce a ricalcare inconsapevolmente il ruolo della sposa gelosa pronta a tutto per vincere sulla rivale. Δη. […] Κακὰς δὲ τόλμας μήτ’ ἐπισταίμην ἐγὼ μήτ’ ἐκμάθοιμι, τάς τε τολμώσας στυγῶ. Φίλτροις δ’ ἐάν πως τήνδ’ ὑπερβαλώμεθα τὴν παῖδα καὶ θέλκτροισι τοῖς ἐφ’ Ἡρακλεῖ, μεμηχάνηται τοὔργον, […] 585 De. […] Io non vorrei né conoscere né imparare gesti malvagi e audaci e detesto le donne audaci. Ma qualora in qualche modo riesca a vincere su questa fanciulla, usando dei filtri e incantesimi su Eracle, per questo ho architettato quest’opera. […] Proprio il piano messo in atto sarà la causa della morte del marito: il filtro d’amore si rivela essere un terribile veleno che agirà come un mostro feroce sul corpo di Eracle (vv. 839-840 μελαγχαίτα τ’ ἄμμιγά νιν αἰκίζει / φόνια δολιόμυθα κέντρ’ 38 ἐπιζέσαντα; ). La gelosia finisce dunque con l’avere un esito violento e distruttivo, al di là della consapevolezza della donna, intrecciandosi al piano divino sul destino dell’eroe. Nel consegnare a Lica la veste, impregnata di mortale veleno, fa trasparire un’ultima volta, tra timore e desiderio, come la gelosia e la volontà di riconquistare lo sposo siano stati il motore della sua azione (vv. 630-632 […] δέδοικα γὰρ / μὴ πρῲ λέγοις ἂν τὸν πόθον τὸν ἐξ ἐμοῦ, / πρὶν εἰδέναι τἀκεῖθεν εἰ ποθούμεθα, “Ho paura che tu gli possa parlare troppo presto del mio desiderio per lui, prima di conoscere se da lui sono desiderata”). Nel personaggio di Deianira e nell’espressione della sua gelosia vi sono dunque elementi che possono richiamare l’agire della dea Era. In particolar modo, appare analoga la reazione concreta al sentimento, ovvero la macchinazione di piani ingegnosi (Soph. Tr. 534 ἁτεχνησάμην, 586 μεμηχάνηται; cf. Aesch. Suppl. 306 ἔτευξ’, Eur. HF 855 μηχανήματα, Her. 993 σοφιστὴς, Hel. 610 μηχαναῖς), che agiscono attraverso l’inganno e l’illusione, al fine di vincere chi emerge come rivale. Sono stratagemmi rovinosi per coloro cui si rivolgono, sebbene nel caso di Deianira l’intento non sia consapevolmente distruttivo. In ogni caso, la gelosia è il motore dell’azione nella donna ed elemento che consente l’espressione del proprio desiderio, colpendo alla fine l’oggetto della sua passione, Eracle. Inoltre, 81 Il prototipo della gelosia: la dea Era e il teatro tragico di V secolo a.C. <?page no="82"?> nel caso di Deianira il dispiegarsi di questo sentimento risulta più articolato e caratterizzato prevalentemente dal timore (vv. 550, 630) di perdere l’amato, più che dalla collera. La manifestazione di tale sentimento è, nel caso di entrambe le figure, associata all’ambito semantico della malattia e dell’intensa sofferenza, che può colpire il corpo e la mente (Soph. Tr. 482 στέρνον ἀλγύνοιμι, 491 νόσον γ’ ἐπακτὸν, 538 λωβητὸν ἐμπόλημα τῆς ἐμῆς φρενός; cf. Aesch. Suppl. 562-563 πόνοις … ὀδύναις, 586 νόσους ἐπιβούλους, Pr. 703 πάθη, 900 πόνων; Eur. Her. 990 νόσον); nel caso della figura divina, il morbo affligge però le vittime o i personaggi umani che entrano nella sfera della gelosia della dea. Si può infine rilevare come tale sentimento, per queste figure come per molte altre nella tragedia, nasca nel contesto del legame coniugale e sia esperita dal personaggio femminile, a partire proprio dalla dea Era, protettrice della sfera del matrimonio. La rassegna dei passi nei drammi eschilei ed euripidei permette di osservare come la figura di Era emerga però con caratteristiche negative, che insistono sulla sua ira e sui crudeli piani di vendetta architettati per sopraffare le donne mortali amate da Zeus: il lessico che la riguarda è spesso infatti associato al male e alla distruzione (Eur. HF 831, 847 σφαλεῖσαν, 856-857, 1268, 1310, 1392 ἐξολώλαμεν, Hel. 674-675, 679). Il suo operare si rivolge alle donne oggetto della passione dello sposo e ai figli nati da tali unioni, al fine però di danneggiare e primeggiare anche sullo stesso Zeus. Una dinamica analoga emerge anche nell’Elena, in cui la gelosia per Paride si traduce in un’azione su Elena, al fine di danneggiare anche Afrodite (cf. v. 883), nonché lo stesso figlio di Priamo. Nella caratterizzazione ed espressione della sua gelosia ha quindi chiaramente un ruolo centrale la sua natura divina e la volontà di manifestare il proprio potere e le proprie prerogative, attraverso il riuscire, inevitabilmente, vincitrice in ogni battaglia ingaggiata contro i mortali: da ciò la presenza di un lessico proprio del contesto agonistico (Aesch. Suppl. 298 νείκη; Eur. HF 1191 ἁγών, 1311, Her. 992). Non emergono in nessun modo cenni riguardanti il desiderio della dea verso lo sposo divino, mentre il lessico che esprime la dimensione rancorosa e ostile della gelosia risulta particolarmente vario (Aesch. Suppl. 164 ἄγαν, Pr. 591 Ἥρᾳ στυγητὸς; Eur. HF 840 χόλος, 1309 φθονοῦσα, Ba. 9 ὕβριν, Hel. 32 μεμφθεῖσ’, 880 δυσμενὴς). Bibliografia A L B I N I 2000 U. Albini, Euripide. Eraclidi, Supplici, Milano 2000. A P R I L E 1995 C. Aprile, “Deianira, ignara δέλτος nelle mani di Nesso”, Rudiae 7, 1995, pp. 35-52. 82 Sara Di Paolo <?page no="83"?> B E D N A R O W S K I 2011 K. P. Bednarowski, “When the Exodos is not the End: the Closing Song of Aeschylus’ Suppliants”, Greek, Roman and Byzantine Studies 51, 2011, pp. 552-578. D A I N , M A Z O N 1989 A. Dain, P. Mazon, Sophocle, I, Paris 1989. D I G G L E 1981 J. Diggle, Euripidis fabulae, II, Oxford 1981. D O D D S 1960 E. R. Dodds, Euripides. Bacchae, Oxford 1960. D U C H E M I N 1967 J. Duchemin, “Le personnage de Lyssa dans l’Héraclès Furieux d’Euripide”, Revue des Études Grecques 80, 1967, pp. 130-139. E A S T E R L I N G 1982 P. E. Easterling, Sophocles. Trachiniae, Cambridge 1982. E L L I S 2021 R. 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Saevit infelix amor: aspetti lessicali e immagini metaforiche della gelosia nella Medea di Seneca Roberta G. Leotta Abstract: This contribution aims to deepen the discussion on jealousy with a focus on Seneca’s Medea, one of the most significant texts for exploring this emotion in Latin literature. This study takes its cue from the surprising absence of abstract terms semantically related to the notion of jealousy in the whole tragedy. From this observation, this study inves‐ tigates not only the emotional terminology, in a lexical perspective, but especially the “metaphorical images”, in a semantic-cognitive perspective, in a context that we can describe as a context of jealousy. Specifically, the analysis of these metaphorical images is twofold: concerning, firstly, their pivotal function in the tragedy and, secondly, their connection with the metaphorical expressions of jealousy in other texts of Latin literature. Accordingly, this work intends to enlighten the central role of metaphorical images both in the Senecan theory of emotions and in a broader expression of the phenomenology of jealousy. Keywords: Jealousy - metaphor - embodiment - Medea - Seneca. 1. Introduzione Com’è noto, e testimoniato dagli studi raccolti nel presente volume, il tema della gelosia nel mondo antico, della sua natura e fenomenologia, è oggetto di ampio interesse. Negli studi sulla lingua e cultura greca, in particolare, la difficoltà di individuare un lessema il cui significato coincida “perfettamente” con il concetto moderno di gelosia ha contribuito all’idea di un’epoca before jealousy (K O N S TAN 2003; K O N S TAN 2006) e all’analisi di questa emozione nelle culture classiche non tanto attraverso la parola, ma all’interno di scenari che ne presentino le condizioni sufficienti (K A S T E R 2005; C AI R N S 2008; C AI R N S 2021; S AN D E R S 2014), ovvero all’interno di quadri fenomenologici (S I S S A 2018). A partire da tali presupposti, questo contributo intende approfondire la riflessione sulla <?page no="88"?> 1 Vd. S O L D E V I L A 2011, pp. 90, 160. Per l’uso del registro linguistico, nello specifico, di invidia e malevolentia (spesso nella forma verbale di invidere e malevolere) all’interno di contesti erotici, vd. N A N N A 2007, pp. 23-27. 2 Vd. H E L L E G O U A R C ’ H 1972, p. 199. Torneremo su questo punto nel § 5.1. 3 Vd. C A S T O N 2013, p. 5: «in the majority of cases, the early signs of jealousy are not indicated by a word or even cluster of words, which tend to appear only when jealousy is in full swing. Instead, we must rely at early stages on references to other emotions like fear and anger, which are a crucial part of the jealousy complex, the poetic context, and characters’ behavior. Terminology alone cannot detect jealousy». Per l’importanza costitutiva della gelosia nella dinamica amorosa di stampo elegiaco, vd. ad es. C A S T O N 2013, pp. 3-6, e R O S A T I 2008. 4 Per le nozioni di ‘emico’ ed ‘etico’ nello studio delle culture classiche, vd. B E T T I N I , S H O R T 2014, pp. 13-19. gelosia nel mondo romano, focalizzandosi su un testo altamente significativo per osservare la fenomenologia di questa emozione nella letteratura latina: la Medea di Seneca. Nello specifico, la mia riflessione prende le mosse da una osservazione preliminare assai sorprendente: aver constatato in questo testo l’assenza di termini astratti legati semanticamente alla nozione di gelosia. Tale assenza si può comprendere se si considera che, pur contemplando contesti di tipo erotico 1 , la maggior parte di questi termini astratti viene usata più frequentemente in scenari con un contenuto politico o sociale 2 - a tal proposito, infatti, neanche nell’elegia latina se ne trova un uso quantitativamente significativo, pur essendo un genere che struttura la narrazione amorosa prevalentemente su una dinamica di tipo triangolare, per la presenza o il sospetto di un rivale in amore 3 . Ciò porta a chiedersi: possiamo dunque a buon diritto definire Medea gelosa? Ella prova questo sentimento, senza dubbio: ma, in assenza di una parola per “gelosia” nel testo, quali espressioni linguistiche e quali immagini metaforiche sostanziano questa esperienza emotiva? Per rispondere a questa domanda, proponiamo in questa sede un’analisi che tenga conto di una duplice visione, etica ed emica  4 . In primo luogo, metteremo in evidenza le caratteristiche sufficienti per riconoscere in un testo di una cultura altra uno scenario che, in un’ottica etica, chiameremmo di ‘gelosia’; secondo un’ottica quanto più emica possibile, invece, osserveremo attraverso quali lessemi e immagini metaforiche questo scenario emotivo sia stato espresso e rappresentato nei testi della cultura di riferimento. L’oggetto di analisi di questo studio, pertanto, non è costituito soltanto dai singoli termini, in prospettiva les‐ sicale, quanto dalle immagini metaforiche, in prospettiva semantico-cognitiva, usati per esprimere il fenomeno indagato. Il lavoro dunque sarà strutturato come segue. Prima di affrontare l’analisi dei dati, forniremo nel § 2 un inquadramento filosofico della visione senecana sulle emozioni e nel § 3 una discussione sulle problematiche teoriche e metodologiche 88 Roberta G. Leotta <?page no="89"?> riguardanti lo studio della gelosia di Medea. Nel § 4 presentiamo un’analisi qualitativa dei lessemi usati nella tragedia in riferimento alle emozioni che intessono il quadro fenomenologico entro cui riconosciamo qualcosa di simile alla nostra gelosia: esaminiamo i campi semantici del dolor, ira, e amor e osserviamo come essi co-occorrano nella costruzione di scenari salienti della tragedia. Successivamente, nel § 5 ci interesseremo degli schemi metaforici con cui tale fenomeno viene descritto. Le emozioni sopracitate, ingredienti costitutivi della gelosia di Medea, sono spesso concettualizzate metaforicamente attraverso immagini più concrete. Vedremo in primis (§ 5.1) come questi schemi metaforici corroborino alcuni nuclei narrativi della tragedia, come quello del fuoco (Medea è figlia del Sole, il fuoco è strumento di vedetta) o della bestialità dell’animo furens. Secondariamente, nel § 5.2 contestualizzeremo le metafore attestate in questa tragedia nel quadro più ampio della concettualizzazione figu‐ rata della gelosia e dell’invidia che ho delineato tramite un’analisi corpus-based su lessemi semanticamente affini, anche se non sempre attestati in scenari di gelosia erotica (invidia, livor, obtrectatio, malevolentia, rivalitas), esaminando il corpus della letteratura latina Brepols LLT-A. Inserita nella prospettiva teorica della Classical Cognitive Linguistics, questa indagine consentirà di approfondire secondo quali modalità le immagini che Seneca impiega nella Medea facciano parte di un sistema concettuale coerente su cui i Romani si basavano per pensare, categorizzare ed esprimere la gelosia. 2. Medea e la filosofia senecana Nelle sue tragedie Seneca mette in scena i contenuti che, in modo ben più sistematico e didascalico, affronta nelle opere filosofiche in prosa, rispetto alle quali non è presente un rapporto di gerarchia, ma di bidirezionale continuità (S C HI E S A R O 2003, p. 13): gli stoici, infatti, riconoscevano il valore epistemico della tragedia e Seneca, in particolare, concepiva il testo drammatico come strumento di visualizzazione dell’esperienza umana, tale per cui fulcro delle sue opere non è tanto la parola ma l’immagine (S TAL E Y 2010, pp. 54-56). Convinto del fatto che «the soul must be made manifest» (S TAL E Y 2010, p. 97), Seneca rende plastico il suo pensiero sulle emozioni, rendendo queste ultime visibili mediante i diversi elementi che il testo tragico offre, fra cui, corpi, dinamiche relazionali e (rilevante per questo lavoro) immagini metaforiche. Inoltre la storia di Medea, nello specifico, è stata oggetto di interesse fra gli stoici (G R AV E R 2007, pp. 70-72; N U S S B AU M 1994, p. 698), diventando anche para‐ digmatico esempio all’interno del dibattito sulla teoria della personalità (G IL L 1983). La versione di Seneca, d’altra parte, è stata ampiamente commentata e 89 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="90"?> 5 Per la lettura della Medea senecana come personaggio ‘a una dimensione’, votato all’ira, vd. P U C C I 2017, pp. 105-115. In particolare lo studioso afferma: «[i]l filosofo stoico esibisce in questa tragedia uno straordinario repertorio di tale passione funesta che offusca la mente e spinge ad azioni incontrollate, ed è perciò equiparabile al furor e alla follia. La sua Medea è quasi una prosopopea dell’ira» (p. 110). Vd. anche S A N D E R S 2021, p. 2: «in Seneca’s Medea, anger, too, has traditionally been explored as the overwhelming emotional motivation». 6 Sulle diverse posizioni della critica intorno alla relazione fra la teoria delle passioni senecana e il modello stoico di riferimento, vd. I N W O O D 2005, pp. 2-364; G R A V E R 2007, pp. 85-108; K O N S T A N 2015, p. 174. 7 In particolare Crisippo: cf. D.L. 7.111, e vd. G R A V E R 2007, pp. 39-41, 92. 8 Per simili riflessioni inerenti alla Medea di Euripide, vd. C A I R N S 2021, p. 21 e n 32; e in Seneca, vd. G R A V E R 2007, pp. 71, 92-101; I N W O O D 2005, pp. 23-64. Per approfondire tale questione all’interno dello stoicismo ‘ortodosso’, vd. G I L L 1983; G I L L 2006; G R A V E R 2007, pp. 92, 102-108. interpretata dalla critica moderna alla luce delle sue opere filosofiche. Da una parte, alcuni studiosi hanno sottolineato lo stretto legame fra la tragedia e le riflessioni sull’ira proposte nel De ira (B R AI C O VI C H 2017; B O Y L E 2014, pp. iv-viii; K O N S TAN 2015, p. 182) 5 ; altri, invece, hanno avanzato una lettura non monolitica del vissuto emotivo di Medea, mettendo in luce la pluralità di emozioni di cui la trama si compone (N U S S B A U M 1994, pp. 706-711; S AN D E R S 2021, pp. 1-7). Al di là di quali siano le emozioni esplorate nello specifico all’interno del testo, sembra condivisa l’idea secondo cui Seneca metta in scena in questa tragedia alcuni dei nuclei filosofici legati alla sua teoria delle passioni; tema su cui nuovamente il dibattito della critica non è né scarno, né risolto 6 . Tuttavia, perno teorico del pensiero senecano in merito alle passioni sembra essere piuttosto in linea con quanto già sostenuto all’interno del modello stoico: ovvero non può esserci emozione senza consenso 7 . È stato, infatti, evidenziato come per lo stoicismo ortodosso il conflitto emotivo non si consumi fra due componenti contrapposte, ‘passione’ versus ‘ragione’, che agiscono come parti della stessa persona (dualistic psychology), ma fra diversi tipi di giudizi che possono competere e confliggere creando una crasi fra due possibili e integri sé (holistic psychology) che agiscono in base a simili, per natura, ma antitetiche opinioni (G IL L 1983; G IL L 2006) 8 . Parallelamente, secondo il filosofo latino, gli animali non possono provare emozioni, ma unicamente proto-emozioni, ovvero risposte fisiologiche come i brividi e le vertigini, che prescindono dalla nostra possibilità di scelta (De ira 1.3.1-6). Il processo emotivo, infatti, è costituito da tre diversi movimenti (De ira 2.4.1-2): il primo è un movimento involontario, una sorta di “preparazione per l’emozione” (quasi praeparatio adfectus); il secondo è un giudizio ancora non del tutto pieno e intenzionale (alter cum voluntate non contumaci); infine il terzo è quello in cui l’emozione prende il sopravvento 90 Roberta G. Leotta <?page no="91"?> 9 Vd. il commento a questo passo in G R A V E R 2007, pp. 125-133; anche K O N S T A N 2015, p. 177. 10 Sul tema della brutalità nella teoria delle emozioni senecana, vd. G R A V E R 2007, pp. 125- 132. (qui rationem evicit) 9 . Dunque, perché possa insorgere la passione, che vince la ragione, è necessario che la ragione stessa dia il consenso. Di questo meccanismo sembra essere un esempio proprio Medea, come messo in luce da N U S S B A U M (1994, pp. 700-701): «the identity of emotion with belief or judgment is in fact prominently stressed. Medea’s passions are not shown as coming from some part of her character to which the rational judging part is opposed. They are inclinations of her thought or judgment itself-of her whole personality, conceived of as housed in the rational part». La principessa della Colchide, dunque, rappresenta in modo paradigmatico l’agire di chi decide di assecondare le passioni, per poi esserne “brutalmente” assalita 10 . L’analisi del testo che qui proponiamo tenterà di offrire un ulteriore contri‐ buito alla nostra comprensione di come Seneca configuri ed esprima il suo pensiero intorno alle emozioni nel testo tragico e, in particolare, del ruolo cruciale in tale rappresentazione delle immagini metaforiche, come strumento di visualizzazione dei moti dell’anima. Facendo questo, avvaloreremo, parallel‐ amente, l’interpretazione secondo la quale la tragedia non metta in scena, nello specifico, la fenomenologia di una emozione soltanto (ovvero quella dell’ira), ma piuttosto la complessa interazione di una pluralità di emozioni, fra cui quelle che (amore, ira, dolore) partecipano in modo integrato a uno stesso scenario che noi potremmo definire di ‘gelosia’. 3. Medea è gelosa. Questioni teoriche e metodologiche Medea è stata riconosciuta come «la più grande delle donne gelose» (S I S S A 2018, p. 6): il testo senecano che ne veicola il mito può quindi fornire spunti rilevanti per comprendere alcuni aspetti del fenomeno in questione. Tuttavia, prima di proseguire nell’analisi, bisogna stabilire perché Medea possa dirsi gelosa: una simile affermazione, infatti, sembra essere tutt’altro che scontata. Tenendo in considerazione un’altra Medea, quella di Euripide, K O N S TAN (2006, pp. 230-234) ha infatti affermato che essa non si possa definire tale secondo l’accezione moderna del termine. Il focus della Medea euripidea, secondo lo studioso, non è tanto sulla sua gelosia, quanto sulla rabbia nei confronti del tradimento di Giasone, come anche il frequente uso di termini legati semanti‐ camente alla nozione di ira sembrano dimostrare. La sua preoccupazione è legata 91 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="92"?> 11 Per una critica a queste posizioni, vd. C A I R N S 2008, pp. 53-56; C A I R N S 2021, pp. 22-26; S A N D E R S 2014, pp. 130-142, 154-155, 233-234. 12 Cf. supra, § 2, e n. 5. alla sua condizione di benessere sociale ed economico più che al suo interesse per l’amore di Giasone 11 . Prendendo spunto da questa linea interpretativa, si potrebbe giungere a simili conclusioni anche per il testo senecano: in primo luogo, in tutta la tragedia non compare nessuno dei termini astratti che afferiscono all’area semantica della gelosia in latino, mentre protagoniste indiscusse dell’esperienza emotiva di Medea sono le emozioni di ira, amore e dolore veicolate dalle parole ira, furor, amor, dolor. Inoltre, alcuni studiosi sostengono che sarebbe proprio l’ira il motore principale dell’azione tragica, sottolineando, oltre l’uso frequente di lessemi connessi al campo semantico di questa emozione, la rappresentazione della sintomatologia di Medea (vv. 382-396) che ricorda quella di una persona in preda dell’ira descritta nel De ira (1.1.3-4; 2.35.1-4; 3.4.1-3) 12 . Da queste prime considerazioni, il ritratto che ne viene fuori sembrerebbe essere quello di una Medea furiosa, arrabbiata, ma non ‘esplicitamente’ gelosa. Tuttavia, questa argomentazione dipende dalla nostra valutazione e inter‐ pretazione di un dato fenomeno emotivo, ovvero dai presupposti teorici e metodologici con cui portiamo avanti l’analisi, in questo caso, della gelosia all’interno di testi di una data cultura. In primo luogo, come diversi studiosi, tra cui lo stesso K O N S TAN (2006, p. 232), hanno fatto notare, l’analisi e la comprensione dei fenomeni emotivi può non essere circoscritta unicamente a una evidenza linguistica, ovvero alla possibilità di individuare tale fenomeno in base alla presenza o l’assenza dei termini emotivi che lo etichettano. Secondariamente, la gelosia, anche ‘nell’accezione moderna’, è un fenomeno che non può essere ridotto a una sola variabile o componente (ovvero la perdita dell’esclusività affettiva da parte dell’amato), ma può manifestarsi attraverso una pluralità di forme ed elementi compenetranti. Studi come quello di S T E A R N S (1989) confermano una visione comune secondo la quale in diverse culture situazioni di gelosia possono generare un amalgama di diverse emozioni come ira, tristezza e imbarazzo. Alla luce di simili considerazioni, ne consegue che per comprendere se Medea possa dirsi gelosa o meno non potremo basarci esclusivamente su strette equivalenze lessicali, né su approcci che tengano in considerazione scenari prototipici eccessivamente riduttivi. Altre emozioni, dunque, come rabbia e tristezza, possono essere chiamate ‘gelosia’ se presenti in contesti che ne prevedono le condizioni sufficienti. In altre parole, considerare la rabbia come 92 Roberta G. Leotta <?page no="93"?> 13 Fra i poeti della letteratura latina che si sono occupati di questo mito, Ovidio riveste una posizione sicuramente degna di nota, avendo dedicato a questo personaggio ampio spazio all’interno di diverse opere (Her. 12.6, Met. 7.1-424), fra cui una tragedia andata perduta. Altri poeti però hanno realizzato una tragedia in latino su questo personaggio: cf. Ennio (Medea Exul; Medea), Pacuvio (Medus), Accio (Medea sive Argonautae), Osidio Geta (Medea). una forma di gelosia è - per noi - possibile se avviene in un dato scenario che ne presenti gli elementi sufficienti. Come afferma C AI R N S (2021, p. 25): what makes Medea’s anger, in this case, a form of jealousy (and what distingui‐ shes anger from jealousy in other, different cases) is not primarily a matter of how the experiences are labelled. […] It may, partly, be a matter of the way in which the agent appraises the situation; but a difference in appraisal between anger that counts as jealousy and anger that does not is above all a consequence of the difference in the eliciting conditions, in the scenario that the appraisal construes: that is, in the context. Per simili ragioni S I S S A (2018, p. 8) sostiene che «Medea è furibonda di collera. Il che vuol dire che è gelosa. […] La sua è una collera erotica, provocata dal grande eros che Giasone prova per la nuova donna». Nel prossimo paragrafo cercheremo di dimostrare come non soltanto nel testo euripideo, ma anche in quello senecano emergano le condizioni contestuali tali per cui Medea possa essere considerata ‘la più grande fra le donne gelose’. Parallelamente vedremo come in tale scenario una simile fenomenologia venga rappresentata e linguisticamente espressa nel testo latino. 4. Ira, dolor, infelix amor: gli ingredienti della gelosia di Medea La versione senecana del mito di Medea dialoga con le precedenti della lettera‐ tura greca e latina, in particolare con quella euripidea 13 . In linea con il modello greco, il testo senecano propone simili interrogativi sulla possibile gelosia di Medea, o meglio sulle possibilità che noi lettori abbiamo di riconoscere in Medea una donna gelosa. Nel testo, infatti, sono frequenti i riferimenti al lessico dell’ira e la stessa viene spesso descritta come una Furia: Medea è una donna ferita nell’orgoglio, che vede violate le promesse fatte e che, per questo, viene costretta all’esilio. Contestualmente, però, Medea è anche gelosa, la questione dell’eros è infatti assolutamente presente. Come nella tragedia euripidea, desidera possedere Gia‐ sone in modo esclusivo (vv. 141-142 si potest, vivat meus / ut fuit, Iason; ma anche 93 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="94"?> 14 Il testo e le traduzioni della tragedia senecana sono a cura di T R A I N A 2018. 15 Vd. P U C C I 2017, p. 113. 16 Parallelamente, in merito alla Medea euripidea, vd. C A I R N S 2021, p. 24. v. 22 me coniugem optet) 14 e vuole addirittura la morte della sua rivale (vv. 17-18 coniugi letum novae / letumque socero et regiae stirpi date). I riferimenti al talamo nuziale e al lessico del matrimonio, posti in modo significativo ad apertura della tragedia, inoltre, rendono il tema dell’esclusività sessuale una sorta di cornice interpretativa, ‘preambolo’ e sfondo dell’intero dramma (vv. 16 thalamis, 17 coniugi novae, 19 sponso, 22 coniugem); ella subirà, infatti, il ripudium, termine latino con cui i Romani chiamavano qualcosa di simile al nostro divorzio (vv. 53-54 paria narrentur tua/ repudia thalamis) 15 . Medea è dunque accecata dall’ira per il torto subito, ma questa rabbia è strettamente connessa alla dimensione erotica di cui questa offesa si sostanzia. La sua ira è diversa, per esempio, dall’ira superba del re Creonte, adirato perché il suo volere non viene rispettato. Se è vero che non potremmo chiamare ‘gelosia’ l’irremovibile ira del re, descritta metaforicamente come un oggetto durissimo, che non si può piegare (v. 203 difficile quam sit animum ab ira flectere), potremmo, invece, riconoscere nell’ira di Medea anche una forma di gelosia, perché essa viene esperita in uno scenario che ne presenta le condizioni sufficienti: - fine della relazione e rifiuto dell’amante - presenza di rivale amoroso - desiderio di esclusività erotica. Nel confronto fra i due ex coniugi, quando Giasone chiede a Medea se gli sta rinfacciando l’amore (v. 496 Medea amores obicit? ), lei risponde: et caedem et dolos (v. 496). Medea gli rinfaccia dunque l’amore e anche (come quel et incipitario mette in risalto) tutti i delitti e gli inganni che lei ha commesso per lui. Medea è sofferente e desiderosa di vendetta perché non ricambiata nell’amore, così come nei diritti e nei doni fatti al marito. La rabbia che prova, dunque, è legata ad almeno due dimensioni fra loro fortemente concatenate: (i) la perdita della persona amata a vantaggio di una terza persona e (ii) la violazione dei propri diritti e delle promesse fatte. In altre parole, Medea è arrabbiata sia perché gelosa, sia perché offesa nell’orgoglio: tale condizione collabora nel conferire all’ira una specifica salienza nello scenario di dinamica triangolare in cui al vertice immaginiamo Giasone e ai due lati l’amata tradita Medea e la rivale Creusa 16 . Come detto precedentemente, infatti, la fenomenologia della gelosia può assumere diverse forme: il tipo di soggettività, dinamica e relazioni significative all’interno di un triangolo erotico possono dare maggiore spazio a una piuttosto che un’altra componente dello stesso fenomeno - ad esempio, 94 Roberta G. Leotta <?page no="95"?> rabbia, tristezza, disperazione, oppure frustrazione. Il fatto che Medea venga ferita nell’orgoglio e privata dei suoi diritti contribuisce a dare maggiore spazio e salienza alla componente emotiva dell’ira, piuttosto che a quella, per esempio, della tristezza, all’interno di uno scenario che noi potremmo chiamare ‘gelosia’. Prima di proseguire, dunque, sembra necessario chiarire secondo quali prospettive - etica ed emica - ci proponiamo di leggere e interpretare il vissuto emotivo del personaggio senecano. Dal punto di vista etico, noi lettori possiamo riconoscere nel testo qualcosa di simile al fenomeno emotivo della nostra moderna gelosia. Sempre dal punto di vista etico riconosciamo che questa gelosia prende principalmente le forme della collera erotica e si accompagna alla rabbia per la violazione dei patti e delle promesse strette dagli ex amanti. Volgendo adesso la nostra attenzione ad una prospettiva quanto più emica possibile, cercheremo di comprendere come ciò che noi chiameremmo ‘gelosia’ viene espresso e rappresentato all’interno del testo di riferimento. Ingredienti di tale fenomenologia emotiva sono veicolati da una serie di termini diversi che vengono usati in connessione fra di loro, ovvero ira, furor, dolor, odium e infelix amor, di cui particolarmente saliente risulta la correlazione fra ira e amor. Osserviamo innanzitutto come si esprime Medea una volta compiute le nozze fra Giasone e Creusa, immaginando la sua vendetta e desiderando, contemporaneamente, l’esclusività della persona da lei amata (vv. 134-142): […] Funestum impie quam saepe fudi sanguinem et nullum scelus irata feci: saevit infelix amor. Quid tamen Iason potuit, alieni arbitri iurisque factus? debuit ferro obuium offerre pectus - melius, a melius, dolor furiose, loquere. Si potest, vivat meus, ut fuit, Iason; si minus, uiuat tamen memorque nostri muneri parcat meo. Quante volte questa empia mano ha sparso sangue e morte! E non ho commesso alcun delitto in preda all’ira: ma ora sento la furia di un amore infelice. Ma che poteva Giasone, schiavo dell’altrui volere? Doveva offrire il petto al ferro… Ah! Non dire così, folle dolore! Se può viva mio, viva comunque e si ricordi il dono che gli ho fatto. I delitti che Medea ha commesso da giovane non erano stati compiuti a causa dell’ira (vv. 135-136 nullum scelus / irata), ma per un amore infelice che 95 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="96"?> 17 Per l’ambiguità temporale del perfetto saevit con valore di presente, vd. B O Y L E 2014, pp. 160-161. continua a infuriare (v. 137 infelix amor saevit), così come infuriava l’amore della infelice Didone di Virgilio (Verg. Aen. 4.68 infelix Dido, 4.532 amor saevit) 17 . Altra componente emotiva citata qui è il dolor, anch’esso connotato, molto significativamente, come furiosus. Il vissuto emotivo di Medea sembra quindi presentarsi come un amalgama di diversi ingredienti che si collocano lungo un continuum emotivo: la sua disposizione verso il delitto partecipa di una fenomenologia che si compenetra con altri elementi, talvolta chiamati ira, dolor o amor, che spesso si palesano nello stesso contesto in modo integrato, come dimostra in questo passo l’espressione infelix amor saevit (v. 137 “un amore infelice che infuria come infuria l’ira”). Ma già prima, alla fine del prologo, in uno dei primi momenti in cui Medea prefigura la sua vendetta, sia il dolor (vv. 49-50 […] gravior exurgat dolor / maiora iam me scelera post partus decent) che l’ira e il furor (vv. 51-52 accingere ira teque in exitium para / furore toto) venivano chiamati a raccolta per partorire la sua delittuosa vendetta (v. 25 parta iam, parta ultio est). Questo compenetrarsi di diversi elementi emotivi all’interno dello stesso scenario può anche estrinsecarsi nella percezione che altri personaggi hanno di Medea, dando adito a un complesso gioco di specchi e rifrazioni. La nutrice (vv. 387-389), per esempio, descrive Medea come una donna capace di assumere la forma (specimen) di ciascuno stato d’animo (omnis affectus): ha la faccia in fiamme (flammata facies), il respiro affannoso (spiritum ex alto citat), grida (proclamat), piange (oculos uberi fletu rigat), ma ride anche (renidet). Tutte queste diverse ‘forme del corpo’ in combinazione fra di loro in un dato contesto possono essere interpretate, come sembra faccia la nutrice, come parti di un unico fenomeno emotivo, e cioè quello denominato attraverso il lessema latino ira (v. 394 irae novimus … notas). Questo passo restituisce una magistrale rappresentazione della mente ‘incarnata’, dell’emozione che si fa corpo: in altre parole, queste manifestazioni sono un ottimo esempio di embodiment, certamente ispirato da un approccio olistico all’esperienza emotiva. Il fatto che questo tipo di ira possa essere interpretata in termini di ‘collera erotica’ viene reso esplicito in un altro passo. Nei versi che precedono la morte di Creusa e di Creonte, infatti, il coro descrive Medea come segue (vv. 849-851, 858-869): Quonam cruenta maenas praeceps amore saevo rapitur? […] 96 Roberta G. Leotta <?page no="97"?> Flagrant genae rubentes, pallor fugat ruborem. nullum vagante forma servat diu colorem. huc fert pedes et illuc, ut tigris orba natis cursu furente lustrat Gangeticum nemus. Frenare nescit iras Medea, non amores; nunc ira amorque causam iunxere: quid sequetur? Dove trascina un forsennato amore la menade cruenta? […]. Ora le guance sono tutte fuoco, ora il pallore scaccia via il rossore: cambia continuamente di colore e di aspetto. S’aggira come una tigre che cerca furibonda i figli per la foresta del Gange. Medea è incapace di dominare sia l’ira sia l’amore; ira e amore sono adesso alleati: che ne seguirà? Il saevus amor (v. 850, che richiama la precedente espressione infelix amor saevit, v. 136) trascina (v. 851 rapitur) Medea; contestualmente, ella viene nuovamente descritta in un continuo mutare delle forme del corpo e, in particolare, le sue emozioni vengono riflesse nel repentino cambiamento del colore del viso (v. 859 pallor fugat ruborem; vv. 860-861 nullum vagante forma / servat diu colorem, espressione che richiama il flammata facies di cui parla la nutrice, v. 387), incapace, come è, a dominare non soltanto l’ira ma anche l’amore. Risulta dunque chiaro che l’ira non è l’unica protagonista di questa dinamica emotiva: l’amore infelice contribuisce a determinare questa mutevole sintomatologia, o meglio: è proprio l’unione di queste due componenti a risultare significativa, come ben enfatizzato ai vv. 868-869. Ecco, dunque, gli ingredienti principali del fenomeno emotivo che noi chiamiamo ‘gelosia’: non soltanto ira, dolor e amor infelix, ma una combinazione fortemente integrata degli stessi, insieme al vissuto incarnato nel corpo di chi li sperimenta. Dopo aver individuato gli ingredienti emotivi che contribuiscono a dar forma a ciò che noi chiameremmo ‘gelosia’ all’interno del testo senecano, cerchiamo di osservare adesso come gli stessi vengano concettualizzati ed espressi. Nel prossimo paragrafo descriveremo quali siano le metafore più ricorrenti nella rappresentazione della gelosia di Medea, mostrando come queste immagini 97 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="98"?> contribuiscano in modo sostanziale alla definizione e allo sviluppo dei nuclei narrativi centrali della tragedia. 5. Le immagini metaforiche della gelosia di Medea Dall’analisi esposta sin qui abbiamo costatato come parole chiave dell’esperi‐ enza emotiva di Medea non siano quelle che in latino appartengono all’area semantica della nostra invidia o gelosia, ossia invidia, livor, obtrectatio, malevo‐ lentia e rivalitas. Nessuno dei personaggi definisce la protagonista invidiosa o malevolens. Nel dipanarsi della trama senecana, il vissuto emotivo di Medea assume, invece, nomi diversi: innanzitutto ira (ben 17 volte, considerando in questo caso anche il participio latino iratus), poi dolor e furor (12 e 10 volte ciascuno), amor (8 occorrenze, fra cui le espressioni amor infelix, v. 136, e amor saevus, v. 850), odium (4 volte), pudor (2 volte), infine voluptas (1 volta). Facendo una ricerca manuale di ciascuno di questi lessemi all’interno della tragedia ho potuto rilevare che su 64 occorrenze totali soltanto 10 non si riferiscono direttamente a Medea: in sei casi si parla di un soggetto generico che può alludere anche alla protagonista (vv. 151-155), e in quattro casi di altri personaggi, come il re (vv. 463, 494), Poseidone (v. 602) e la madre di Meleagro (v. 646). In 54 casi su 64, dunque, i termini sopraccitati sono impiegati da Seneca per descrivere la sfera emotiva della protagonista. Vediamo ora nello specifico come gli elementi compartecipi della fenomeno‐ logia di qualcosa simile alla nostra gelosia (ovvero amor, ira, odium e dolor) siano concettualizzati nel testo senecano e come diano adito a immagini metaforiche di indubbia efficacia. Tali lessemi, infatti, descrivono nozioni astratte (target domain) che spesso sono concettualizzate ed espresse attraverso immagini metaforiche che si riferiscono a domini più concreti della realtà (source domain) (L AK O F F , J O NH S O N 1980 hanno mostrato, ad esempio, come in inglese si parli sistematicamente dell’amore nei termini di un viaggio). Per esemplificare questo punto, si considerino le seguenti espressioni: 1. saevit infelix amor (v. 136) 2. gravior exurgat dolor (v. 49). In questi passi, i due concetti astratti di amor e dolor sono categorizzati e linguisticamente codificati attraverso un’immagine metaforica, cioè in termini di un’esperienza più concreta e percepibile attraverso i sensi: una bestia feroce che imperversa (in 1) o un’entità pesante che sale da dentro verso l’esterno (in 2). In questo caso, la concettualizzazione metaforica delle emozioni è innescata 98 Roberta G. Leotta <?page no="99"?> 18 Vd. OLD, s.v. saevio 2: il verbo possiede un significato specifico riferito all’infuriare delle bestie. dall’associazione contestuale con il verbo saevere e con l’aggettivo gravior, che attivano un’interpretazione figurata 18 . Nell’analisi delle 54 occorrenze di termini emotivi che si riferiscono a Medea ho potuto riscontrare che in almeno 39 casi i concetti da essi denotati vengono espressi linguisticamente attraverso immagini metaforiche. Nello specifico, amor, dolor, furor e ira sono di frequente concettualizzati come esseri viventi che possono, per esempio, condurre l’esperiente (vv. 938-939 nunc huc ira, nunc illuc amor / diducit? ) o esprimersi verbalmente (vv. 139-140 melius, a melius, dolor / furiose, loquere), o, più specificatamente, come delle bestie che rapiscono l’esperiente (vv. 850-851 amore saevo rapitur). Secondariamente dolor, furor, ira, odium e voluptas possono essere concettualizzati come delle entità concrete inanimate: per esempio, il dolore è talvolta rappresentato come una entità concreta che sale da dentro verso l’esterno (v. 49 gravior exurgat dolor), l’ira e il furore sono delle armi o un’armatura (vv. 51-52 accingere ira, teque in exitium para / furore toto), il furor viene pensato come un liquido che straborda e inonda (v. 392 exundat furor), e similmente la voluptas della vendetta come una sostanza liquida che invade l’esperiente (v. 991 voluptas magna me invitam subit). All’interno di queste due più generiche categorizzazioni dell’emozione come entità animate e inanimate, che sono esiti dei due processi di personificazione e reificazione, rispettivamente, ci soffermeremo su due immagini particolarmente rilevanti, ovvero quella del fuoco (ad es. vv. 951-952 rurus increscit dolor / et fervet odium) e dell’animale selvaggio (ad es. vv. 850-851 amore saevo rapitur). Di queste metafore discuteremo esempi significativi e proporremo un’analisi linguistico-testuale secondo una duplice prospettiva: da una parte, ne metteremo in evidenza la salienza strategica rispetto ai temi narrativi portanti della tragedia; dall’altra istaureremo un confronto con le metafore usate per esprimere linguisticamente la nozione di gelosia, benché non specificatamente erotica, ma più genericamente politico-sociale, in altri testi della letteratura latina. Infine, discuteremo perché queste immagini metaforiche possono svolgere un ruolo cruciale nell’espressione di una fenomenologia emotiva. 5.1. Il fuoco e la bestia: immagini significative nell’opera senecana Vediamo innanzitutto come diversi elementi che sostanziano l’esperienza emo‐ tiva di Medea siano concettualizzati come fuoco. Propongo alcuni esempi significativi: 99 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="100"?> 19 Per un parallelo senecano, cf. l’immagine del fuoco nella rappresentazione drammatica dell’amore di Fedra messa in luce da C A I R N S 2017, pp. 256-257. - ignis stimulatus ira (v. 591): la passione viene definita ignis, un fuoco che è stimolato dall’ira; - immane quantum augescit et semet dolor / accendit ipse vimque praeteritam integrat (vv. 671-672): il dolor cresce a dismisura e si infiamma da sé, autoalimentandosi; - rursus increscit dolor / et feruet odium (vv. 951-952): l’odio ribolle e arde accanto al dolor, che prima si infiammava e adesso increscit, ovvero prende nuovo vigore. Il fatto che ira, dolor e odium siano concettualizzati ed espressi linguisticamente attraverso lo stesso source domain sembra essere un’ulteriore spia del fatto che tali componenti emotive siano in qualche misura interconnesse, percepite come indissolubili e interagenti: come fiamme che si alimentano a vicenda. A questo punto, è dunque necessario interrogarsi sul significato dell’immagine del fuoco in primo luogo nella tragedia e, in secondo luogo, nella più ampia e generale concettualizzazione dell’emozione della gelosia nella letteratura latina. L’immagine del fuoco per diversi motivi risulta estremamente pervasiva in tutta la vicenda di Medea rappresentata da Seneca. Innanzitutto ha una funzione identitaria, in quanto ella è nipote del Sole; secondariamente ha una funzione narrativa, poiché è lo strumento della vendetta con cui Medea ucciderà Creusa e Creonte, e con cui Giasone vorrebbe, a sua volta, distruggerla. La metafora del fuoco ha dunque una chiara funzione strutturante, oltre che simbolica, poiché contribuisce a costruire, in modo coerente e sistematico, l’intera azione della protagonista lungo gli snodi cruciali della sua parabola emotiva. A tali considerazioni si può inoltre aggiungere che in questo contesto il fuoco è anche un’esperienza percepibile attraverso il corpo stesso di Medea, in un processo di embodiment che è narrativo, simbolico e psicologico insieme: in più momenti il suo viso è in fiamme, sia secondo le parole della nutrice (v. 387 flammata facies) che del Coro (v. 858 flagrant genae rubentes). Inoltre, il fuoco sembra essere un elemento strategico per rappresentare la fenomenologia emotiva di una moglie abbandonata dal proprio marito: il Coro afferma che niente è più temibile di una moglie privata delle fiaccole nuziali (coniunx … taedis) che ardet et odit (vv. 581-582) 19 . Non a caso sembra calzante l’interpretazione di questo verso, proposta da Traina (2018), che nella sua traduzione sceglie proprio la parola gelosia - la grande assente di tutta la tragedia, potremmo dire - per rendere in italiano questo passo: “la gelosia di una moglie abbandonata”. 100 Roberta G. Leotta <?page no="101"?> 20 In merito alla salienza di questo testo per la rappresentazione di un sentimento simile a quello della nostra gelosia in latino, vd. K O N S T A N 2006, p. 237: «[…] a remarkable poem by Horace […] yield[s] the image of a passion very like modern jealousy». Allargando lo sguardo al più ampio contesto della letteratura latina, spunti interessanti per valorizzare l’importanza del fuoco e del calore all’interno di una simile dinamica erotica si ritrovano nel famoso carme 1.13 di Orazio, nel quale, alludendo a due noti precedenti (Sapph. fr. 31 L.-P. / V.; Catul. 51), il poeta descrive la fenomenologia della sua gelosia per la relazione amorosa fra Lidia e Telefo 20 . L’uso di uror a inizio verso e periodo enfatizza che anche in questo contesto il calore è un concetto chiave dell’intera esperienza: il poeta ‘brucia’ per le contusioni sulle bianche spalle dell’amata (vv. 9-10 uror, seu tibi candidos / turparunt umeros), testimonianza degli smodati litigi d’amore fra i due amanti. Un altro riferimento intertestuale rende ancora più esplicito il legame fra l’ardimento indotto dal fuoco interiore e il contesto di gelosia in cui esso si manifesta. Ovidio, in Ars amatoria 2.378, usa il verbo ardet parlando proprio di una donna che trova nel suo letto una rivale. In tale sezione dell’opera il poeta affronta il tema del tradimento, consigliando, fra le altre cose, di concedersi più amanti purché lo si faccia di nascosto. Ben nota è infatti la furia delle donne tradite, tra cui esemplare risulta Medea, chiamata qui “straniera del fiume Phasis”, fiume della Colchide (2.373-382): sed neque fulvus aper media tam saevus in ira est, fulmineo rabidos cum rotat ore canes, nec lea, cum catulis lactentibus ubera praebet, nec brevis ignaro vipera laesa pede, femina quam socii deprensa paelice lecti: ardet et in vultu pignora mentis habet. in ferrum flammasque ruit, positoque decore fertur, ut Aonii cornibus icta dei. coniugis admissum violataque iura marita est barbara per natos Phasias ulta suos. Ma neppure un fulvo cinghiale è così feroce nell’ira, quando fa rotolare nella polvere il suo morso micidiale i cani infuriati, non una leonessa, quando porge le mammelle ai piccoli che succhiano il latte, non una corta vipera colpita da un passante ignaro, quanto una donna dopo che ha sorpreso una rivale nel letto nuziale: brucia d’ira e mostra in faccia i sentimenti dell’anima; cerca ferro e fuoco e, messo da parte ogni ritegno, si lancia come spinta 101 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="102"?> 21 Testo e trad. a cura di D E L L A C A S A 1991. 22 Cf. i paralleli con la Medea senecana che, come visto sopra, omnis specimen affectus capit (v. 389), nullum vagante forma servat diu colorem (vv. 860-861). 23 Sulle Furie come rappresentazione delle emozioni di Medea, vd. S T A L E Y 2010, pp. 97- 120. In particolare, per l’importante dell’immagine dei serpenti nella rappresentazione del dramma di Medea, vd. N U S S B A U M 1994, pp. 712-739. Vd. supra, § 2 n. 9. dalle corna del dio di Aonia. La donna barbara del Fasi vendicò attraverso i suoi figli la colpa del marito e i diritti coniugali violati. 21 Il fuoco, dunque, sembra centrale nella fenomenologia della donna gelosa, sofferente per il tradimento subito: brucia (vv. 378 ardet, 379 in … flammasque ruit), infatti, colei che scopre una rivale nel letto del suo compagno e mostra nel volto tutti i segni del suo turbamento (v. 378 in vultu pignora mentis habet) 22 . Parallelamente all’immagine del fuoco, questo passaggio ovidiano presenta altri elementi che possono far comprendere meglio l’esperienza romana della gelosia erotica. Anche in questo ipotetico scenario di triangolarità, il poeta usa il termine ira, che abbiamo visto essere connesso alla gelosia se non dal punto di vista semantico, sicuramente dal punto di vista fenomenologico. In questo brano, l’ira viene concettualizzata metaforicamente attraverso l’immagine più concreta della bestia feroce le cui caratteristiche efferate vengono enfatizzate attraverso l’iperbole: nessun’altra bestia, né un cinghiale rosso, né una leonessa o una piccola vipera, infatti, sono tanto feroci quanto l’ira della donna tradita. In questa rappresentazione ovidiana troviamo, dunque, un interessante contrappunto a quella senecana di Medea. Come visto precedentemente, infatti, l’amor infelix del personaggio senecano infuria (v. 136 saevit infelix amor) come infuria una bestia capace di trascinarla via (vv. 850-851 praeceps amore saevo / rapitur? ), mentre l’ira e amore sono animali selvaggi che Medea non sa domare (vv. 866-867 frenare nescit iras / Medea, non amores). Il tema della bestialità è centrale in tutta la storia di Medea, ed è per questo che in questa sede analizzo specificamente anche questo secondo nucleo metaforico. All’interno del testo, è Medea stessa ad essere descritta come una bestia feroce, una tigre (vv. 863-865 ut tigris orba natis/ cursu furente lustrat / Gangeticum nemus), una furia (vv. 445-446, 800-801) o a servizio delle Furie (v. 966 pectus en Furiis patet) 23 . Tale comparazione può essere interessante anche alla luce del fatto che, secondo Seneca, gli animali non possono provare emozioni, ma esperire soltanto gli impulsi. Medea, invece, attraversando tutti e tre i movimenti del processo emotivo giunge all’estremo caso in cui, una volta dato il consenso alla passione con la ragione, quest’ultima prende il sopravvento e come tale viene spesso paragonata a una bestia feroce. Parallelamente, questa rappresentazione 102 Roberta G. Leotta <?page no="103"?> 24 Su questo parallelismo si veda N U S S B A U M 1994, p. 707. 25 Vd. supra, § 2 n. 9. fa, infatti, da eco al pensiero stoico, secondo cui gli eccessi delle emozioni vadano tenuti a freno o sotto controllo tramite delle briglie, alla stregua di animali selvaggi 24 . Seneca, in particolare, parla e rappresenta l’ira nella sua opera filosofica (De ira) usando diffusamente e sapientemente l’immaginario in questione (ad. es. 3.4.3 ferarum […] minus taetra facies est) 25 . Tali immagini, dunque, collaborano a restituire una rappresentazione di Medea in cui la bestialità e la focosità sono fondamentali caratteristiche identi‐ tarie, coerenti con i nuclei narrativi della tragedia e temi inerenti al pensiero filosofico senecano. Queste metafore, inoltre, sembrano significative anche per figurare quella che noi potremmo chiamare la ‘gelosia’ di Medea. La descrizione ovidiana della donna gelosa nell’Ars amatoria, che probabilmente era nota anche allo stesso Seneca, ne restituisce un significativo parallelo in cui sia l’immagine del fuoco che quella della bestia hanno un particolare rilievo. Entrambe risultano strategiche nella rappresentazione concettuale e nell’espressione linguistica della sfera emotiva di Medea: dolor, amor, ira e odium sono pensati come fuoco, mentre ira e amor sono rappresentati come bestie feroci che imperversano. Nel prossimo paragrafo cercheremo di comprendere come tale concettualiz‐ zazione metaforica dei termini emotivi possa essere messa in relazione con quella che interessa altre parole che indicano altre forme, diverse ma parallele, di gelosia nella letteratura latina. 5.2. Metafore per la gelosia nella letteratura latina Le immagini del fuoco e dell’animale selvaggio non sono al centro di metafore esclusivamente senecane, ma sono presenti nell’espressione linguistica di una famiglia di concetti che in latino descrivono un sentimento simile alla nostra invidia e gelosia, veicolati dai termini invidia, aemulatio, livor, malevolentia e rivalitas. In questo paragrafo mostrerò come l’immaginario proposto da Seneca nella Medea sia coerente con quello che ritroviamo in molti altri testi letterari per ‘dare corpo’ al sentimento di gelosia e invidia. Confrontando le nostre osservazioni sul testo senecano con i dati raccolti an‐ notando tutte le occorrenze di parole latine che afferiscono all’ambito semantico della gelosia e dell’invidia all’interno del corpus Brepols LLT-A (1142 occorrenze di invidia, 103 di aemulatio, 30 di livor, 13 di malevolentia, 3 di rivalitas), ho potuto costatare che l’immagine del fuoco viene usata come source domain nella concettualizzazione ed espressione linguistica del termine latino invidia in ben 48 casi e in un caso anche del termine aemulatio. 103 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="104"?> 26 Sal. Cat. 23.6.26, 49.4.20, Jug.15.5.25, 39.5.19; Svet. Aug. 27.3.22; Gal. 16.1.6; Liv 3.11.10, 5.11.4, 40.5.1, 40.15.9, 43.16.2; Plin. Ep. 3.9.31.25, 9.13.21.13; Tac. Ann. 3.36.1.5, 4.60.3.27, 13.4.2.6. Ma anche Sen. Dial. 9.1.5. Nello specifico, quando l’invidia è un fuoco, il sentimento è concettualizzato come una fiamma che brucia qualcuno e i verbi chiave, spia di tale concettualiz‐ zazione, sono (con)flagro, accendo, incendo, aestuo e uror. Per esempio Cicerone, nelle lettere al fratello Quinto, parla dell’invidia come di un’emozione che ardet (come ardet la Medea senecana e la donna gelosa descritta da Ovidio) e che “brucia ogni cosa” (Cic. QFr. 2.15.4 res ardet invidia). L’invidia può essere anche un fuoco che viene estinto e, in questo caso, l’unico mezzo per ottenere questo risultato è la morte (Cic. Balb. 16 mors enim cum exstinxisset invidiam). Parallelamente, la maggior parte dei termini presi in esame viene espressa anche attraverso la concettualizzazione metaforica che ha come source domain l’animale selvaggio: l’invidia viene domata soltanto dalla morte (Hor. Epist. 2.1 comperit invidiam supremo fine domari), abbaia contro il vincitore con la sua nera bocca (Sil. Pun. 8.288 nigro allatraverat ore victorem invidia), lacera, morde o addirittura si nutre dell’esperiente (Cic. Brut. 156.46.7 invidia, quae solet lacerare plerosque; Ov. Am. 1. 15.39 pascitur in vivis Livor; Ov. Trist. 4.10.123-124 Livor iniquo / ullum de nostris dente momordit opus). Le metafore del fuoco e dell’animale selvaggio, dunque, risultano particolar‐ mente rilevanti nella concettualizzazione dell’area semantica di cui ci occupiamo in questa sede. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, i contesti in cui queste immagini vengono usate sono prevalentemente legati a una dimensione politica e sociale. L’emozione denotata da livor, per esempio, viene concettualizzata come un animale che morde e che si nutre dell’esperiente soprattutto in scenari in cui il tema principale riguarda la gloria poetica (Ov. Trist. 4.10.123-124; Ov. Pont. 3.4.73-76). Analogamente, l’immagine del fuoco viene usata per descrivere il sentimento dell’invidia o della gelosia all’interno di contesti politico-sociali. Su 47 occorrenze che registrano il termine invidia espresso linguisticamente at‐ traverso l’immagine del fuoco, ben 22 (quasi la metà) vengono usati da Cicerone in riferimento alla vita politica e sociale contemporanea - di queste, 20 sono documentate nelle sue opere di oratoria (ad es. Cic. Pro Cluen. 136.25 cum invidia flagraret ordo senatorius); le restanti occorrenze sono principalmente usate in contesti politici o bellici 26 . Nell’unico caso in cui la metafora del fuoco viene usata con il termine latino aemulatio, quest’ultimo assume il significato di “zelo” (Colum. Rust. 12.3.18 flagrabatque mulier pulcherrima diligentiae aemulatione), lo zelo con cui, secondo Columella, la donna era solita dedicarsi all’economia e agli affari del marito. 104 Roberta G. Leotta <?page no="105"?> 27 Vd. quanto scrive B E T T I N I 2011, p. 51: «colpisce il fatto che i nomi di frater e soror venissero comunemente utilizzati per descrivere metaforicamente la relazione che intercorre fra due “amanti”: se gli amanti si chiamano tra loro frater e soror, bisognerà pensare che l’atteggiamento sotteso alla relazione “fratello/ sorella” fosse sentito come marcato da forte affettività». Due occorrenze riguardano invece una dimensione erotica, o a questa assimi‐ labile, in cui tale sentimento può manifestarsi. Per tale ragione, ci soffermeremo brevemente su queste due testimonianze, cercando di mettere in luce come le immagini del fuoco e dell’animale possano contribuire a rappresentare un tipo di sentimento simile a quello della nostra gelosia erotica. Il primo esempio chiama in causa Plinio, che nel Panegirico (84.2.21) descrive l’inusuale rapporto di intesa fra la sorella di Traiano (Ulpia) e sua moglie (Pompeia Plotinia). Fra le due non c’è quella rivalità (aemulatio) conflittuale (ad simultates), che, secondo Plinio, è molto frequente nelle donne: quel tipo di rivalità che nasce, in primo luogo, da una grandissima unione (ea porro maxime nascitur ex coniunctione), alimentata dalla somiglianza (alitur aequalitate), infi‐ ammata dall’invidia (exardescit invidia) e il cui fine è l’odio (cuius finis est odium). L’invidia, dunque, sembra essere pensata come quell’elemento che infiamma un rapporto di competizione fra due donne molto simili. Benché qui non si stia descrivendo un triangolo di amanti, bisogna tenere presente che nella cultura romana, così come anche in altre culture, il legame fra sorella e fratello era molto intimo, tale per cui era possibile che moglie e cognata rivendicassero istanze di esclusività affettiva o di interesse nei confronti dello stesso uomo, benché non dal punto di vista strettamente sessuale 27 . L’altro passo riguarda invece una storia che ricorda significativamente quella di Medea. Nella prima parte del decimo libro delle Metamorfosi di Apuleio il protagonista, Lucio-l’asino, racconta la storia di una donna che a causa della saeva Rivalitas ha commesso terribili omicidi e che, per tale ragione, sta per essere lanciata tra alcune bestie (10.24-29). Suo marito, infatti, aveva una sorella - anche in questo caso il legame tra fratello e sorella risulta pregnante - di cui l’identità veniva tenuta nascosta. La donna, gelosa dell’intimità fra i due e non sapendo che l’altra fosse sua cognata, architetta un inganno e uccide quella che pensa essere una rivale, bruciandola con un oggetto incandescente. In seguito, ella compie una serie di ulteriori terribili omicidi, uccidendo il marito, la figlia, il medico che le aveva procurato il veleno letale. Soltanto al termine di questa catena omicida verrà scoperta e lanciata in mezzo alle bestie, avendo lei agito proprio come tale nei suoi crimini efferati (10.24 libidinosae furiae stimulis efferat primum quidem nudam flagris ultime verberat, dehinc quod res erat clamantem quodque frustra paelicatus indignatione bulliret). 105 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="106"?> 28 Cf. Cic. Tusc. Disp. 4.26.56. Per la specificità d’uso di questo termine in contesti erotici, vd. R O S A T I 2008. Questa storia propone diversi elementi di confronto e paragone con le considerazioni fatte sopra a proposito della rappresentazione della gelosia di Medea. In primo luogo, nel testo di Apuleio, così come in quello senecano, l’im‐ magine della bestia incarna un ruolo significativo tanto nella caratterizzazione identitaria del personaggio quanto nella rappresentazione delle sue emozioni: la gelosia (rivalitas) viene caratterizzata come una bestia efferata (saeva), così come una bestia efferata risulta essere la donna che, gelosa, commette terribili omicidi. Ugualmente, la Medea senecana viene descritta come una bestia selvaggia, così come bestiali vengono rappresentate le sue emozioni - l’ira, l’amor infelix. In entrambe le vicende, inoltre, il fuoco svolge una funzione significativa come strumento di vendetta. In contrasto con la Medea senecana, invece, è interessante sottolineare come qui non sia più soltanto il registro linguistico dell’ira, ma anche quello più specifico della gelosia a essere concettualizzato attraverso la metafora dell’animale selvaggio. La rivalitas, insieme all’ira e al furor, entra in campo all’interno di uno scenario erotico di tipo triangolare e viene connotata come saeva; similmente saevus era l’amor, e infuriava (saevit), alla stregua di un animale selvaggio, l’amor infelix del personaggio senecano. È possibile supporre che nella rappresentazione della donna gelosa Apuleio potesse avere in mente la Medea senecana. Se così fosse, possiamo ipotizzare che non soltanto per noi lettori moderni, ma anche per un poeta latino successivo, ma sicuramente più vicino a Seneca, l’ira di Medea potesse essere letta, equipa‐ rata, ‘tradotta’ in termini di ‘gelosia’ o meglio, in parole latine, di rivalitas  28 . 6. Conclusioni Riassumendo l’analisi sviluppata in questa sede, possiamo provare a tracciare alcune considerazioni su come questo fenomeno che noi chiameremmo ‘gelosia’ sia rappresentato concettualmente e linguisticamente nella Medea di Seneca. In primo luogo, abbiamo visto che si può riconoscere un fenomeno emotivo simile a quello della nostra gelosia lì dove esiste uno scenario che ne presenti le condizioni sufficienti; successivamente che si possa esprimere e rappresentare questo fenomeno sia attraverso l’uso di più lessemi chiave, ma anche attraverso l’uso di diversi tipi di immagini metaforiche. Nello specifico, infine, abbiamo considerato come sia le immagini dell’animale selvaggio sia quella del fuoco 106 Roberta G. Leotta <?page no="107"?> risultino significative per concettualizzare questo fenomeno, essendo usate nella rappresentazione linguistica di termini che - denotano delle emozioni (ira, amor, dolor) all’interno di scenari che pre‐ sentano le condizioni sufficienti per la gelosia, come quello della Medea senecana (§ 5.1); - descrivono un concetto simile a quello della nostra invidia/ gelosia (invidia, livor, aemulatio etc.) anche in altri contesti di carattere politico e sociale, come evidenziato nella discussione su invidia e livor (prima parte di § 5.2); - designano un concetto simile a quello della nostra gelosia e invidia (invidia, rivalitas) in un contesto di tipo erotico (ultima sezione di § 5.2). Nella rappresentazione di una simile fenomenologia emotiva le metafore del fuoco e della bestia feroce risultano essere decisamente significative. Al di là della rete di possibili riferimenti e connessioni intertestuali, l’analisi basata su corpus ha infatti evidenziato un uso diffuso e acclimatato di queste immagini in diversi autori, epoche e generi letterari della lingua latina per descrivere un sentimento simile a quello della gelosia, relativamente a diversi tipi di contesti: politico, sociale ed erotico. Possiamo infine proporre alcune interpretazioni sulle ragioni della produt‐ tività di tale immaginario nella rappresentazione di questa emozione. Una prima considerazione riguarda il fatto che entrambe le immagini implicano, in qualche misura, l’esperienza della violenta distruzione, rispettivamente per combustione e per l’azione di mordere o sbranare. Tale dimensione della distruzione sembra essere bidirezionale, ammettendo un’interpretazione attiva e passiva: una persona gelosa viene consumata, logorata da questo sentimento ma, nello stesso tempo, può logorare e distruggere chi le sta intorno. Questo sembra essere il caso della donna delle Metamorfosi di Apuleio, così come quello di Medea. Inoltre, più specificamente, l’immagine del fuoco risulta anche essere legata a una dimensione ‘incarnata’: l’ardere della persona gelosa è connesso a un’esperienza fisiologica di aumento della temperatura corporea che può partecipare alla fenomenologia descritta. Queste due immagini, dunque, sono connesse a due dimensioni esperienziali dello scenario della gelosia, una legata al corpo e l’altra alla violenza distruttiva subita o agita dall’esperiente in simili contesti. A tal proposito, l’immagine del fuoco e quella dell’animale si configurano come risorse conoscitive ed espressive insieme, strategiche per concettualizzare la gelosia attraverso più dimensioni, profondamente concatenate. Le emozioni, infatti, possiedono diverse dimensioni, tutte necessarie e fonda‐ mentali, come afferma C AI R N S (2021, p. 25): «emotions are not just subjective, 107 Saevit infelix amor: la gelosia nella Medea di Seneca <?page no="108"?> 29 Per la nozione di gelosia “normale”, vd. F R E U D 1977, p. 367. internal feelings or states of mind. They are also implicated in the relations between people, in the external conditions in which they arise and which give rise to them, and in the actions that we take in a given emotional scenario. They have many dimensions, all of which are important in their definition». L’analisi delle immagini metaforiche mette in luce quali di queste dimensioni siano risultate più significative per comprendere e rappresentare questo fenomeno in un dato contesto. In altre parole, è possibile ritenere che il fenomeno della gelosia, in generale, non implichi necessariamente esperienze di “violenta distruzione” e che, invece, possa anche essere esperito, per esempio, come “normale” espressione di un sano interesse per qualcuno o qualcosa 29 . Le immagini usate per rappresentare questa emozione nei testi finora analiz‐ zati, però, enucleano la salienza di questa dimensione distruttiva nei contesti esaminati, inspessendo l’associazione fra violenza e sentimento che può trovare fondamento nell’esperienza. In via conclusiva possiamo dunque affermare che l’immagine metaforica, più che la parola, assume talvolta un ruolo centrale e pervasivo nella concettualiz‐ zazione e nell’espressione dell’emozione. I dati discussi in questa sede mostrano, da una parte, come le metafore concettuali che intessono sistematicamente il testo siano un ulteriore strumento sapientemente utilizzato da Seneca per rendere visibile e veicolare il suo pensiero filosofico sulle emozioni. Dall’altra, l’indagine intorno alle immagini metaforiche può contribuire a evidenziare quali dimensioni di quell’esperienza emotiva risultino più significative per la comprensione e concettualizzazione della stessa all’interno di un dato contesto culturalmente situato. Per simili ragioni, infine, sembra opportuno suggerire che lo studio in un’ottica comparativa della lingua e letteratura delle culture presenti e passate possa, nell’interazione con altre discipline umanistiche, contribuire ad approfondire la ricerca sulle emozioni, fra cui quella sulla gelosia, la piovra - direbbe Proust nella Recherche - che con i suoi vigorosi tentacoli avvolge, talvolta, alcune delle nostre e altrui realtà. 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P.Oxy. 2164, fr. 1) from one of Aeschylus’ Dionysiac plays (Xantriae or Semele), this article shall therefore try to assess a balanced evaluation of the reasons that led Hera to vanquish Dionysus’ mother, which could not be limited to her widely-known jealousy, but are likely to involve deeper religious matters. Keywords: Aeschylus - fragments - Hera - Semele - jealousy. 1. Introduzione In AP 5.151, amplificando grottescamente la mostruosità dei suoi interlocutori, Meleagro si rivolge, piccato, agli ὀξυβόαι κώνωπες (“zanzare stridenti”) che turbano il sonno dell’amata Zenòfila. Dopo l’accalorato esordio dei primi due versi, in cui, incurante della tenuitas della materia, l’autore contamina con disinvoltura la lingua alta della poesia tradizionale (e.g. v. 2 κνώδαλος, “mostro”: cf. Hom. Od. 17.317; Alcm. 89.5; Pind. N. 1.50; Aesch. Ch. 587, Pr. 462; Eur. Suppl. 146 et al.) a termini di nuovo conio (v. 2 διπτέρυγα, “alati”) 1 , il tono si stempera nella supplica: che le zanzare cessino di molestare Zenòfila, e di succhiarne avidamente il sangue; banchettino, piuttosto, con le carni del poeta, eroicamente offerte per procurare sollievo all’amata (vv. 3-4 βαιὸν Ζηνοφίλαν, <?page no="116"?> 2 La dea, oltraggiata dal frutto adulterino dell’unione tra Zeus e Semele, si presenta a quest’ultima travestita da nutrice, persuadendola a chiedere al suo amante di manifestarsi in tutta la sua potenza divina: Semele finirà dunque incenerita dall’epifania di Zeus, e quest’ultimo terminerà la gestazione del piccolo Dioniso cucendolo nella sua coscia. Cf. Diod. Sic. 3.64.3-4 μυθολογοῦσι γὰρ ἐρασθέντα Δία μιγῆναι πλεονάκις αὐτῇ διὰ τὸ κάλλος, τὴν δ’ Ἥραν ζηλοτυποῦσαν καὶ βουλομένην τιμωρίᾳ περιβαλεῖν τὴν ἄνθρωπον, ὁμοιωθῆναι μέν τινι τῶν ἀποδοχῆς τυγχανουσῶν παρ’ αὐτῇ γυναικῶν, παρακρούσασθαι δὲ τὴν Σεμέλην· εἰπεῖν γὰρ πρὸς αὐτὴν ὅτι καθῆκον ἦν τὸν Δία μετὰ τῆς αὐτῆς ἐπιφανείας τε καὶ τιμῆς ποιεῖσθαι τὴν ὁμιλίαν ᾗπερ χρᾶται κατὰ τὴν πρὸς τὴν Ἥραν συμπεριφοράν. διὸ καὶ τὸν μὲν Δία, τῆς Σεμέλης ἀξιούσης τυγχάνειν τῶν ἴσων Ἥρᾳ τιμῶν, παραγενέσθαι μετὰ βροντῶν καὶ κεραυνῶν, τὴν δὲ Σεμέλην οὐχ ὑπομείνασαν τὸ μέγεθος τῆς περιστάσεως τελευτῆσαι καὶ τὸ βρέφος ἐκτρῶσαι πρὸ τοῦ καθήκοντος χρόνου; [Apollod.] 3.4.3-5, 1 Σεμέλης δὲ Ζεὺς ἐρασθεὶς Ἥρας κρύφα συνευνάζεται. ἡ δὲ ἐξαπατηθεῖσα ὑπὸ Ἥρας, κατανεύσαντος αὐτῇ Διὸς πᾶν τὸ αἰτηθὲν ποιήσειν, αἰτεῖται τοιοῦτον αὐτὸν ἐλθεῖν οἷος ἦλθε μνηστευόμενος Ἥραν. Ζεὺς δὲ μὴ δυνάμενος ἀνανεῦσαι παραγίνεται εἰς τὸν θάλαμον αὐτῆς ἐφ’ ἅρματος ἀστραπαῖς ὁμοῦ καὶ βρονταῖς, καὶ κεραυνὸν ἵησιν. Σεμέλης δὲ διὰ τὸν φόβον ἐκλιπούσης, ἑξαμηνιαῖον τὸ βρέφος ἐξαμβλωθὲν ἐκ τοῦ πυρὸς ἁρπάσας ἐνέρραψε τῷ λίτομαι, πάρεθ’ ἥσυχον ὕπνῳ / εὕδειν, τἀμὰ δ’, ἰδού, σαρκοφαγεῖτε μέλη). Gli insetti, sordi alla preghiera dell’innamorato, continuano a pungere la ragazza, attratti dal tepore della morbida pelle (vv. 5-6 καίτοι πρὸς τί μάτην αὐδῶ; καὶ θῆρες ἄτεγκτοι / τέρπονται τρυφερῷ χρωτὶ χλιαινόμενοι). Ecco allora che il registro si impenna nuovamente, con brusco scarto stilistico, nelle ultime battute del carme: il perentorio ἀλλ’ ἔτι νῦν e la serrata successione dattilica del v. 7 accelerano il ritmo narrativo e traducono la ribollente impazienza del poeta; la genìa maledetta (κακὰ θρέμματα) che tormenta il sonno di Zenòfila farà bene a dileguarsi, o conoscerà la forza di una mano gelosa (v. 8 γνώσεσθε χερῶν ζηλοτύπων δύναμιν). La formula meleagrea, che non ha altra pretesa se non introdurre il lettore alla materia di cui a breve parleremo, è però - credo - significativa: è infatti capace di trasmettere, con sicura efficacia espressiva, la dirompente vitalità che il poeta associa al sentimento della ζηλοτυπία. La gelosia ha, per Meleagro, una δύναμις, una forza che spinge irrefrenabilmente all’azione - e il mito greco abbonda di esempi, in tal senso. Il più emblematico resta, forse, quello di Era, moglie ζηλότυπος par excellence, costretta a tollerare i ripetuti tradimenti del suo sposo e artefice di terribili vendette ai danni delle sue rivali; e nella sfaccettata gamma di vicende in cui l’infedeltà di Zeus finisce per alimentare (con esiti rovinosi) la gelosia della consorte, un episodio di sicuro rilievo è quello legato alla nascita di Dioniso, frutto (come è noto) dell’amore adulterino tra il padre degli dèi e la sventurata Semele. Le fonti antiche guardano piuttosto concordemente alla gelosia di Era come motore primo della catena di eventi che porterà, poi, al sanguinoso compimento della sua vendetta 2 ; non è però improbabile, a mio 116 Pietro Berardi <?page no="117"?> μηρῷ; ma cf. anche Ov. Met. 3.253-315 (su cui vd. infra, n. 44), Hygin. fab. 167 e 179, e soprattutto Nonn. Dion. 8.34-44, in cui Φθόνος, personificazione della gelosia, aizza crudelmente Era (con immagini truculenti e sanguinarie, in pieno stile nonniano) a vendicarsi su Semele per il concepimento di Dioniso (per cui vd. C A R P A N E L L I 2018, p. 21). 3 Sopravvivono testimonianze di una Licurgia messa in scena da Polifrasmone nel 467 (P.Oxy. 2256, fr. 2 = TrGF I DID C 4a; Aesch. T 58b R., test. arg. M Aesch. Sept., p. 61, 5-9 West ≅ CLGP I 1, 1, p. 38), di un Penteo attribuito a Tespi (Thesp. T 1 Sn.-Kn., test. Suda θ 282, 7-8 Adler), delle Baccanti di Senocle (incluse in una vittoriosa tetralogia andata in scena alle Dionisie del 415: cf. Xenocl. fr. 1 Sn-Kn., test. Ael. V.H. 2.8), delle Baccanti o Penteo composte da Iofonte, figlio di Sofocle (Iophon T 1a Sn.-Kn., test. Suda ι 451, 3-5 Adler), di una Semele κεραυνομένη (“folgorata”) attribuita a Spintaro (Spinth. T 1 Sn.-Kn., test. Suda σ 945 Adler), delle Baccanti ascrivibili a Cleofonte (Cleoph. T 1 Sn.-Kn., test. Suda κ 1730 Adler), del Dioniso di Cheremone (Chaeremon frr. 4-7 Sn.-Kn.), delle due Semele di Carcino e di Diogene, risalenti al IV sec. a.C. (Carc. II frr. 2-3 Sn.-Kn. e Diog. Sinop. T 1 Sn.-Kn.). 4 Schol. R Ar. Th. 135 (III 2, p. 25 Regtuit) <Λυκουργείας>: τὴν τετραλογίαν λέγει Λυκουργείαν, Ἠδωνοὺς, Βασσαρίδας, Νεανίσκους, Λυκοῦργον τὸν σατυρικόν. giudizio, che, parallela a questa feconda linea narrativa, se ne sia sviluppata un’altra, che ampliava e arricchiva il motivo della ζηλοτυπία con diverse, più profonde implicazioni cultuali, e che trovava forse, in Eschilo, una compiuta elaborazione sul piano ideologico e compositivo. Prima di affrontare compiuta‐ mente l’argomento, sarà bene offrire, però, qualche nozione preliminare. Il tema dionisiaco, che è legittimo includere, sulla base delle testimonianze superstiti, tra i filoni più fertili della scena tragica ateniese tra V e IV sec. a.C., conta, oggi, scarsissime reliquie 3 . Vide senz’altro giusto Eric R. D O D D S (1960, p. xxix) nell’affermare che «of none of these do we know much beyond the title - the great popularity of [scil. Euripides’] Bacchae in later antiquity doubtless killed them. And even of Aeschylus’ Dionysiac plays our knowledge is lamentably small». Non posso non rilevare, tuttavia, che il materiale superstite eschileo, pur pesantemente ingiuriato dai capricci della tradizione, in più di un caso permette di rischiarare un quadro altrimenti oscuro. Nel prologo delle Tesmoforiazuse di Aristofane, il rozzo Parente di Euripide, trovandosi al cospetto dell’effeminato tragediografo Agatone, soggiunge di volerlo interrogare “alla maniera di Eschilo dalla sua Licurgia” (Ar. Th. 134-135 καί σ’, ὦ νεανίσχ’, ἥτις εἶ, κατ’ Αἰσχύλον / ἐκ τῆς Λυκουργείας ἐρέσθαι βούλομαι); dallo scolio Ravennate al v. 135 4 appren‐ diamo che la tetralogia battezzata dal Parente come Licurgia era composta, nell’ordine, da Edoni (frr. 57-67 R.), Bassaridi (frr. 23-25 R.), Neaniskoi (frr. 146-149 R.) e Licurgo satiresco (frr. 124-126 R.), e doveva plausibilmente trattare (almeno nel primo dramma) l’ingresso di Dioniso in Tracia, la persecuzione patita per mano di Licurgo (sovrano degli Edoni), la prigionia del dio nei palazzi 117 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="118"?> 5 Vd. W E L C K E R 1826, pp. 103-122; H E R M A N N 1831, pp. 4-5; H A U P T 1896, pp. 137- 160; D E I C H G R Ä B E R 1939, pp. 231-309; W E S T 1990, pp. 26-50; D I M A R C O 1993; X A N T H A K I S -K A R A M A N O S 2005; X A N T H A K I S -K A R A M A N O S 2012; S O M M E R S T E I N 2016; X A N ‐ T H A K I S -K A R A M A N O S 2020; B E D N A R E K 2021. 6 Cf. Hom. Il. 6.130-140; Eumel. fr. 11 Bernabé; Hygin. fab. 132; Serv. ad Verg. Aen. 3.14 (I, p. 337 Thilo); schol. Tz. Lyc. 273 (p. 118, 2-12 Scheer); Nonn. Dion. 20.142-404 e 21.1-169. 7 I titoli riportati nel Catalogo Mediceo (Βάκχαι, Ξάντριαι, Πενθεύς, Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι, Τροφοί vel Διονύσου Τροφοί, de quo cf. arg. (a) Eur. Med., I, p. 89, 18-20 Diggle = Aesch. fr. 246a, 3-5 R. Αἰσχύλος δ’ ἐν ταῖς Διονύσου Τροφοῖς ἱστορεῖ ὅτι καὶ τὰς Διονύσου τροφοὺς μετὰ τῶν ἀνδρῶν αὐτῶν ἀνεψήσασα ἐνεοποίησεν) afferenti ad una ipotetica tetralogia ‘tebana’ sono gravati da numerosi problemi. D O D D S 1960, p. xxix, era incline a credere che il primo titolo (ridondante nella sequenza della tetralogia) fosse o una variante di Βασσαραί, il secondo dramma della Licurgia (postulando un’accidentale omissione, da parte del copista di M, della particella disgiuntiva ἤ nel vergare la stringa Βάκχαι <ἤ> Βασσαραί Γλαῦκος Πόντιος - un’ipotesi allettante, data la prossimità dei due titoli nella mise en page del Catalogo), ovvero un titolo alternativo del Penteo (rispecchiando, dunque, la duplice titolatura attestata per le Baccanti nella tradizione manoscritta euripidea). Ulteriori allusioni alla tetralogia ‘tebana’ di Eschilo si colgono nella ὑπόθεσις attribuita ad Aristofane di Bisanzio premessa in L (Laur. plut. 32.2, ca. 1300-1320) e P (Pal. gr. 287, ca. 1320-1325) al testo delle Baccanti euripidee, in cui si segnala la stretta aderenza tematica tra il dramma di Euripide e il Penteo eschileo (arg. LP Eur. Ba., III, p. 290, 19-21 Diggle = TrGF III F 299 Διόνυσος ἀποθεωθεὶς μὴ βουλομένου Πενθέως τὰ ὄργια αὐτοῦ ἀναλαμβάνειν, εἰς μανίαν ἀγαγὼν τὰς τῆς μητρὸς ἀδελφάς, ἠνάγκασε Πενθέα διασπάσαι. ἡ μυθοποιία κεῖται παρ’ Αἰσχύλῳ ἐν Πενθεῖ). Sulla base delle notizie preservate dall’estensore della ὑπόθεσις e del dettato di schol. ME Aesch. del re e il terribile castigo che a quest’ultimo veniva inflitto da Dioniso dopo la sua liberazione (la follia, l’uccisione involontaria del figlioletto Driante, la relegazione sulle cime del monte Pangeo). I punti ciechi determinati dall’esiguità dei frammenti superstiti si possono in certa misura illuminare grazie ad alcuni loci presumibilmente ispirati all’ipotesto eschileo (cf. e. g. Soph. Ant. 955-965; [Apollod.] 3.5.1); tuttavia, l’esatta distribuzione della materia narrativa nell’arco della tetralogia, come pure la ricostruzione del nucleo tematico dei singoli drammi, sono ancora materia dibattuta dai commentatori 5 , anche in ragione della fluidità e della mutevolezza con cui il mito è trattato dalle fonti antiche 6 . Oltre alle piéces della Licurgia, il Catalogo Mediceo dei drammi eschilei, preservato nel codice M (Laur. plut. 32.9, f. 189 [= 85] r , sec. X; vd. Aesch. T 78 R.), tramanda, inoltre, cinque ulteriori titoli inscrivibili nel segmento ‘tebano’ della vicenda dionisiaca, dal momento embrionale della nascita del dio fino ai più adulti, sanguinosi sviluppi portati in scena decenni più tardi da Euripide nelle Baccanti. I titoli sono Semele o Portatrici d’acqua (Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι), Cardatrici (Ξάντριαι), Penteo (Πενθεύς), Baccanti (Βάκχαι), Nutrici (Τροφοί) - drammi per i quali, tuttavia, l’afferenza a una tetralogia legata, organica e tematicamente coesa, non è testimoniata da nessuna delle fonti superstiti 7 . Converrà, ai fini di 118 Pietro Berardi <?page no="119"?> Eum. 26c (I, p. 44, 12 Smith, su cui vd. infra), S O M M E R S T E I N 2013 ritiene ora che Xantriai e Penteo fossero titoli alternativi di uno stesso dramma che inscenava l’empietà e la punizione del sovrano tebano, a chiusura di una trilogia costituita, nell’ordine, da Toxotides (punizione e morte di Atteone) e Semele. Dei problemi ecdotici ed esegetici che interessano i frammenti superstiti di questi drammi - la loro doppia titolatura, l’attribuzione di P.Oxy. 2164, le intersezioni citazionali fra tradizione diretta e indiretta (solo per citarne alcuni) - non si può dar conto distesamente in questa sede; alcuni di questi verranno esaminati infra; per una loro ricognizione globale, rimando ai contributi di G A N T Z 1980, pp. 154-158; S O M M E R S T E I N 2002 (= 2010a, pp. 11-29); S O M M E R S T E I N 2010b, pp. 35-36; S O M M E R S T E I N 2010c; S O M M E R S T E I N 2013; T O T A R O 2017. 8 Cf. Soran. Gynaec. 2.4.1 e 2.6.4 Ilberg (CMG IV, p. 52, 17; IV, p. 55, 3) e vd. R A D T 1985, p. 335; S O M M E R S T E I N 2008, p. 224; L U C A S D E D I O S 2008, p. 596. 9 Vd. S C H Ü T Z 1821, p. 147 ad F 204: «ad Semelen Aeschyli pertinere videtur, quod refert Schol. Apollon. Rhod. I, 636»; R A D T 1985, p. 335: «ad hanc fabulam Schütz probabilissime rettulit Σ L Ap. Rh. 1, 636a». Vd. T O T A R O 2017, pp. 24-25. 10 Test. Hsch. α 3996 Cunnigham <Ἀμφίδρομος>· Αἰσχύλος Σεμέλῃ (fr. 222 R.) ἔπλασε δαίμονα καὶ περὶ τὰ ἀμφιδρόμια, ὡσεὶ ἔλεγες τὸν Γενέθλιον. δηλοῖ δὲ καὶ ἐξ ἑκατέρου μέρους θεόμενον, ἢ προηγούμενον, ἢ ὁρμᾶν δυνάμενον, ὡς Αἰσχύλος Ἠδωνοῖς (fr. 65 R.). 11 T O T A R O 2017, p. 25. questo studio, fornire qualche notizia più accurata sugli snodi salienti di due di questi drammi, la cui pertinenza alla materia che andiamo trattando apparirà presto chiara. Della Semele sopravvivono poche, scarne testimonianze. Uno scolio Lau‐ renziano al primo libro delle Argonautiche di Apollonio Rodio informa che Eschilo portò in scena Semele incinta e posseduta dalla divinità, e ugualmente possedute erano anche quelle che le toccavano il ventre (forse le sue ancelle, le “portatrici d’acqua” che formavano il coro 8 : vd. schol. L Ap. Rh. 1.636a, p. 55, 21 Wendel <θυιάσιν ὠμοβό<ροις>: > μαινάσιν, Βάκχαις· παρὰ τὸ θύειν καὶ ὁρμᾶν μαινομένας. ἔνθεν καὶ τὴν Σεμέλην Θυώνην καλοῦσιν, ἐπειδὴ Αἰσχύλος ἔγκυον αὐτὴν παρεισήγαγεν οὖσαν καὶ ἐνθεαζομένην, ὁμοίως δὲ καὶ τὰς ἐφαπτομένας τῆς γαστρὸς αὐτῆς ἐνθεαζομένας). Sebbene la glossa, che sembra rimontare a buona erudizione, non specifichi nitidamente il dramma eschileo in cui ciò avveniva, è più che plausibile, come osservava già S C HÜT Z (1821, p. 147 ad F 204), che essa vada riferita proprio alla Semele  9 . Questa testimonianza, come anche il riferimento contenuto nel fr. 222 R. alle Anfidromie 10 (la cerimonia durante la quale, in famiglia, veniva riconosciuto il neonato), spingerebbero ragionevol‐ mente a credere che la Semele «inscenasse la tragedia della partoriente, infelice madre di Dioniso» 11 . Ancor più torbida, se possibile, è la cornice performativa delle Xantriai. Una glossa foziana (ο 195 Theodoridis) e il lessico Suda (ο 130 Adler = Paus. ο 15 Erbse) testimoniano che, nel dramma, Lyssa (la Follia personificata) “ispirando le 119 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="120"?> 12 In luogo del tràdito γλώσσης, S O M M E R S T E I N 2008, pp. 172-173, accoglie a testo la diortosi di L O B E C K 1835, p. 103* λύσσης, traducendo «the prick of madness». 13 Rilevo, a margine, una forte aderenza linguistica con un frammento, pur molto corrotto, dalle Bassaridi (fr. 23a R. Παγγαίου γὰρ ἀργυρήλατον / πρῶν’ †ες τὸ τῆς ἀστραπῆς† πευκᾶεν σέλας), probabilmente anch'esso allusivo al baluginio di torce impugnate dalle donne di Tracia sulle cime del Pangeo, in preda al delirio bacchico. Vd. R A B E 1908, pp. 419-422; D E I C H G R Ä B E R 1939, p. 268; M E T T E 1963, p. 138; P A L U M B O 1966; F E R R A R I 1982, pp. 57-59; W E S T 1983, p. 70; R A D T 1985, p. 140; D I M A R C O 1993, p. 125; M E R R O 2008, pp. 254-257; L U C A S D E D I O S 2008, p. 232. 14 Concordo con T O T A R O 2017, p. 22 n. 25, nel reputare ingiustificato l’eccesso di prudenza (segnalato dal doppio asterisco antecedente il numero d’ordine) con cui R A D T 1985, p. 287, include questo frammento tra le Xantriai eschilee. È vero che i testimonia lessicografici riportano il frammento ascrivendolo alle Xantriai, senza dichiararne apertamente la paternità; ma non c’è motivo di assegnarlo ad altro autore (l’attribu‐ zione ad Eschilo fu proposta in prima istanza da Stanley ms., teste B U T L E R 1816, pp. 26, 104, «probabiliter» commenta Radt ad loc. «propter colorem tragicum»). Alcuni studiosi (G A I S F O R D 1810, p. 91; M E I N E K E 1814, pp. 39-40) hanno tuttavia preferito l’assegnazione a Platone comico; ma il titolo della commedia di Platone era Ξάνται (con variante Κέρκωπες, test. Suda π 1708 Adler), non Ξάντριαι come si legge nei manoscritti di Efestione (su cui Gaisford aveva fondato la sua congettura: vd. Hephaest. Enchir. 15.12, p. 51, 8 Consbruch e Plat. Com. fr. 96 K.-A.). Vd. K A S S E L , A U S T I N 1989, p. 472, e P I R R O T T A 2009, p. 205. Baccanti” (ἐπιθειάζουσα ταῖς Βάκχαις), descriveva lo sparagmos: “dai piedi su in cima al capo si insinua lo spasmo, puntura della lingua, dardo di scorpione, dico” (fr. 169 R. ἐκ ποδῶν δ’ ἄνω / ὑπέρχεται σπαραγμὸς εἰς ἄκρον κάρα, / κέντημα γλώσσης 12 , σκορπίου βέλος λέγω). In un altro frammento, citato da Galeno nel Commento al VI libro delle Epidemie di Ippocrate (1.29 Wenkebach-Pfaff = XVIIa, p. 880, 8-9 Kühn), si parla di persone o cose (il relativo femminile plurale ἃς ad incipit di verso non permette una chiara identificazione del suo referente) “che non guarda né il raggio luminoso del sole né l’occhio luminoso della figlia di Leto” (fr. 170 R. ἃς οὔτε πέμφιξ ἡλίου προσδέρκεται / οὔτ’ ἀστερωπὸν ὄμμα Λητῴας κόρης). Polluce (10.117, II, p. 225, 15 Bethe) preserva un dimetro anapestico che descrive un baluginio di torce (forse impugnate dalle baccanti in preda all’ekstasis dionisiaca: fr. 171 R. κάμακες πεύκης οἱ πυρίφλεκτοι) 13 . Fonti lessicografiche (Et. Gen. AB ~ Et. Sym. V = EM, s.v. μύστις, p. 595, 40 Gaisford) citano dalle Xantriai l’espressione “consigliera di queste sofferenze” (fr. **172 R. τῶνδε βούλευτις πόνων) 14 . Frinico (Praep. Soph. p. 33, 5 De Borries) e Fozio (α 1429 Theodoridis, in cui è specificato il titolo dell’opera eschilea, assente in Frinico) preservano, poi, un esempio della formidabile attitudine poietica della lingua eschilea: ἀναγκόδακρυς (fr. 172a R.), che indica colui che piange per necessità, non per una qualche sofferenza o sventura. In ultimo, uno scolio Mediceo al v. 26 delle Eumenidi informa che, nelle Xantriai, i fatti 120 Pietro Berardi <?page no="121"?> 15 Vd. R A D T 1985, p. 287 ad loc.: «‘Xantrias’ de Penthei exitio egisse hinc collegerunt multi coll. F 169: ad vaticinium de Penthei morte datum haec referenda esse coniecit Dodds [1960, p. xxxi n. 1]». 16 Vd. e. g. C A N T A R E L L A 1948, p. 126 n. 1; M O R A N I 1987, pp. 678-679; R A M E L L I 2009, p. 415. 17 Da alcuni individuata in Penteo, come avveniva nelle Baccanti euripidee e, forse, anche nel Penteo eschileo (vd. supra, n. 7; cf. arg. LP Eur. Ba., III, p. 290, 19-21 Diggle), da altri nel figlio di una delle Miniadi; vd. R A D T 1985, pp. 280-281; S O M M E R S T E I N 2008, pp. 170-171; L U C A S D E D I O S 2008, pp. 486-488. riguardanti Penteo erano ambientati sul Citerone (fr. 172b R., test. schol. ME Aesch. Eum. 26c, I, p. 44, 12 Smith νῦν φησιν ἐν Παρνασῷ εἶναι τὰ κατὰ Πενθέα, ἐν δὲ ταῖς Ξαντρίαις ἐν Κιθαιρῶνι): troppo poco per affermare con sicurezza se nelle Xantriai la vicenda di Penteo fosse effettivamente drammatizzata ovvero solo menzionata (alla maniera di Licurgo in Soph. Ant. 955-965, vd. supra) 15 ; quanto basta, però, per limitarsi prudentemente a ipotizzare un dramma di argomento dionisiaco. Alcuni studiosi 16 , temerariamente, interpretano il titolo nel senso di “Laceratrici”, “Dilaniatrici” (cioè baccanti che fanno a pezzi la loro vittima) 17 , rispetto al più comune “Cardatrici”, vale a dire donne che cardano la lana (‘cardare la lana’ è infatti, il significato proprio del verbo ξαίνειν: cf. B E E K E S 2010, II, p. 1033, s.v. ξαίνω). Come si evince da questa breve ricognizione, l’esiguità del materiale super‐ stite impedisce di tracciare un quadro nitido del plot dei due drammi, come pure di indovinarne la sequenza in una ipotetica (ma indimostrata) tetralogia ‘dioni‐ siaca’, gemella della Licurgia e incentrata sul segmento ‘tebano’ della vita del dio. C’è però un’importante testimonianza, che sinora ho tralasciato di trattare, riaffiorata dalle sabbie dell’Egitto e pubblicata da L O B E L (1941) nel XVIII volume della Oxyrhinchus Papyri Collection che, seppur irta di problemi, può forse rischiarare qualche punto cieco di almeno uno dei due drammi di cui siamo andati discutendo finora - nonché apportare elementi di sicuro rilievo per una migliore disamina del nucleo tematico di questo studio. 2. P.Oxy. 2164, fr. 1: Semele o Xantriai? Nel segmento terminale del secondo libro della Repubblica (381c-e), Platone afferma il principio secondo cui “è impossibile che un dio voglia trasformarsi” (ἀδύνατον ἄρα, ἔφην, καὶ θεῷ ἐθέλειν αὑτὸν ἀλλοιοῦν): essendo dotati di bel‐ lezza e perfezione al massimo grado, gli dèi permangono sempre semplicemente nella loro forma (ἀλλ’ ὡς ἔοικε, κάλλιστος καὶ ἄριστος ὢν εἰς τὸ δυνατὸν ἕκαστος αὐτῶν μένει ἀεὶ ἁπλῶς ἐν τῇ αὑτοῦ μορφῇ). Le favole cantate dai poeti a proposito delle metamorfosi divine sono, quindi, pura menzogna: 121 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="122"?> 18 Cito il testo dall’edizione oxoniense di S L I N G S 2003, p. 81. 19 Cf. Hom. Od. 4.455-458; [Apollod.] 3.13.5 con S C A R P I 1996, pp. 275 e 594 ad loc. 20 Correzione di B O I S S O N A D E 1818, p. 241, per il tràdito τήν, accolta da H E R C H E R 1873, p. 248, e G I A N N A N T O N I 1990, p. 447 (edizioni da cui cito il testo dell’epistola). 21 Diortosi proposta da Meineke (ap. N A U C K 1856, p. 42) in luogo del tràdito κρήναισιν, e accolta da H E R C H E R 1873, p. 248, e G I A N N A N T O N I 1990, p. 447. μηδεὶς ἄρα […] λεγέτω ἡμῖν τῶν ποιητῶν, ὡς “θεοὶ ξείνοισιν ἐοικότες ἀλλοδαποῖσι, / παντοῖοι τελέθοντες, ἐπιστρωφῶσι πόληας”· μηδὲ Πρωτέως καὶ Θέτιδος καταψευδέσθω μηδείς, μηδ’ ἐν τραγῳδίαις μηδ’ ἐν τοῖς ἄλλοις ποιήμασιν εἰσαγέτω Ἥραν ἠλλοιωμένην, ὡς ἱέρειαν ἀγείρουσαν “Ἰνάχου Ἀργείου ποταμοῦ παισὶν βιοδώροις”. 18 Nessuno dei poeti, dunque, venga a dirci che “gli dèi, rendendosi simili a stranieri di altri paesi, / assumendo le sembianze più varie, si aggirano per le città”; e nessuno racconti frottole su Proteo e Teti, e non si introduca in tragedia o in altri generi poetici Era trasformata in sacerdotessa questuante “per le figlie di Inaco fiume argivo datrici di vita”. Sono citati in prima istanza versi omerici (Od. 17.485-486), a cui segue una generica allusione a Proteo e Teti, esseri marini dotati di poteri metamorfici 19 . Si accenna infine a una particolare metamorfosi di Era, nei panni di sacerdotessa questuante, in tragedia o in altro genere poetico; ma Platone omette di enunciare la paternità del verso citato a riguardo. All’ambito tragico riconduce anche un’epistola (34.1-2) indirizzata da Di‐ ogene di Sinope alla madre Olimpia, in cui si parla di “tragediografi che sostenevano che Era, la sposa di Zeus, trasformatasi in sacerdotessa, assunse un tale aspetto facendo la questua per le ninfe delle fonti, illustri dee, figlie di Inaco fiume argivo datrici di vita” (καὶ τῶν τραγῳδοποιῶν, οἵτινες Ἥραν τε τὴν Διὸς παράκοιτιν ἔφασαν εἰς 20 ἱέρειαν μεταμορφωθεῖσαν τοιοῦτον βίου σχῆμα ἀναλαβεῖν νύμφαις κρηνιάσιν 21 , κυδραῖς θεαῖς, ἀγείρουσαν Ἰνάχου Ἀργείου ποταμοῦ παισὶν βιοδώροις). Circoscritto il genere letterario della citazione, per l’identificazione del tragediografo autore del verso e di questa singolare metamorfosi di Era vanno intersecate diverse fonti. Pausania (8.6.6), ad esempio, registra che Eschilo, tra altri, definiva l’Inaco come fiume argivo (τὸν Ἴναχον ἄλλοι τε καὶ Αἰσχύλος ποταμὸν καλοῦσιν Ἀργεῖον); un contributo decisivo a illimpidire il quadro viene, però, da Aristofane. Nel corso dell’agone oltremondano inscenato nelle Rane, Eschilo (vv. 1331-1363) attacca ferocemente tanto i contenuti quanto la 122 Pietro Berardi <?page no="123"?> 22 Ar. Ra. 1329-1330 βούλομαι δ’ ἔτι / τὸν τῶν μονῳδιῶν διεξελθεῖν τρόπον; vd. R A U 1967, pp. 131-136; P R E T A G O S T I N I 1989, pp. 116-121; M A S T R O M A R C O , T O T A R O 2006, pp. 685- 687; D I V I R G I L I O 2021, pp. 300-326. 23 T O T A R O 2017, p. 18. 24 Vd. W I L S O N 2007, II, p. 196 (apparato ad loc.). 25 B O U R D R E A U X 1919, p. 86, sconsigliava di identificarlo con Asclepiade di Mirlea; potrebbe trattarsi, forse, dell’Alessandrino contemporaneo o anteriore a Didimo: sulla sua problematica identificazione, si vedano i recenti contributi di M O N T A N A R I 1997; P A G A N I 2009a; P A G A N I 2009b; M O N T A N A 2005, p. 61 n. 20; M O N T A N A 2017. 26 La traditio textus, in questo punto della glossa, pare inquinata. I manoscritti presentano le lezioni διατεθῶν (V) e διαθέτων (EΘ); l’Aldina ha invece διαθέντων. La diortosi stampata da Chantry, διασωθέντων, fu formulata da D O B R E E 1833, p. 176 (da intendere implicitamente διασωθέντων <αὐτογράφων>), e venne presto accolta a testo già nelle edizioni degli scolii aristofanei curate da D I N D O R F 1838, p. 145, e D Ü B N E R 1855, p. 310; ma varie altre proposte sono state avanzate nel corso degli anni: F R I T Z S C H E 1845, p. 415 εὐδιαθέτων («h. e. in bono exemplari»); L E H R S 1848, p. 445 διδαχθέντων? ; B E R G K 1844, veste formale delle monodie euripidee. È stato giustamente osservato che «la monodia eseguita dall’Eschilo aristofaneo non ripropone un reale brano di Euripide, ma presenta elementi riconducibili alla tecnica compositiva e alla produzione del più giovane tragediografo: l’interesse parodico si appunta, in questo caso, complessivamente sul τρóπος, sul modo euripideo di comporre monodie 22 ; e l’impressione che si intende dare, come già notavano gli antichi commentatori, è di continuo disordine e di assoluto nonsense» 23 - si vedano, in tal senso, scholl. vett. Ar. Ra. 1341-42 (III 1 a , p. 150 Chantry) e, soprattutto, lo scolio 1344d ἔοικε δὲ τὸ ὅλον ἐπιτηδεύειν ἀνυπότακτα VEΘ(Ald). Di particolare rilievo ai fini di questo studio è il v. 1344, in cui si trova l’e‐ spressione “Ninfe nate sui monti”, νύμφαι ὀρεσσίγονοι (con variante ὀρεσίγονοι in V ac AKL e nel lemma dello scolio in VE) 24 . A proposito di questo verso, gli scolii informano che il grammatico Asclepiade 25 suggeriva una derivazione dalle Xantriai di Eschilo: schol. vet. Ar. Ra. 1344b (III 1 a , p. 150 Chantry) νύμφαι ὀρεσίγονοι VE: ἐκ τῶν Ξαντριῶν Αἰσχύλου, RVEΘ(Ald) φησὶν Ἀσκληπιάδης. Eccettuati i due codici più antichi, Ravenn. 429 (R) e Marc. gr. Z. 474 (V), il resto della tradizione manoscritta (EΘ (Ps add. VatAld)) tramanda concordemente la variante ἐκ τῶν Ξαντριῶν Εὐριπίδου, presumibilmente in forza della logica per cui sarebbe più naturale pensare che, in tale contesto, l’Eschilo aristofaneo distorcesse parodicamente versi del rivale, non suoi propri: ma abbiamo già os‐ servato (vd. supra) che questo titolo tragico è recensito dalle fonti antiche sempre e solo in relazione a Eschilo, mai per Euripide. La seconda parte della glossa preserva, poi, notizie non meno interessanti. Vengono citati due versi dalle Xant‐ riai eschilee nell’assetto che Asclepiade trovava in una “copia ateniese”: εὗρε δὲ Ἀθήνησιν ἔν τινι τῶν δια<σω>θέ<ν>των 26 · “†νύμφαι ὀρεσιγόνιοι† θεαῖσιν 123 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="124"?> p. 286 n. 36 ἀποθέτων; L A T T E 1948, p. 48 e C A N T A R E L L A 1948, p. 113 διορθωθέντων. «On peut comprendre» - segnala W A R T E L L E 1971, p. 172 n. 5 - «qu’Asclépiade a trouvé cette citation à Athènes dans une exemplaire mis en ordre ou corrigé. F. Dübner de son côté (Schol. gr. in Aristoph., p. 310) avait lu: ἔν τινι τῶν διασωθέντων, ce qui peut signifier dans une exemplaire conservé». 27 Evidente dittografia, opportunamente espunta da Pierson, ap.V A L C K E N A E R 1767, p. 11 B. 28 La mano che ha vergato il testo parrebbe identificabile con il cosiddetto ‘scriba 3’ di Ossirinco (per cui vd. A R A T A 2004, p. 57). Nel 1952, Lobel pubblicò altri due frustuli del II sec. d.C. (P.Oxy. 2248 e 2249), pesantemente ingiuriati nel testo superstite e nel supporto scrittorio, che sono stati talora messi in relazione con P.Oxy. 2164; mi allineo, tuttavia, al calibrato giudizio di T O T A R O 2017, p. 21 n. 17: «al di là della suggestione che può provenire dalle linee 12-13 di 2249, dove si legge “Era è giunta” (ciò che indusse Mette e S N E L L 1953, p. 436, a relazionarlo con P.Oxy. 2164), nulla di certo si può dire riguardo la loro attribuzione; condivisibile è dunque l’estrema cautela degli editori che li includono tra i frammenti eschilei dubbi (sono i nn. 451e e 451 f in Radt, Sommerstein e Lucas De Dios)». Vd. anche S O M M E R S T E I N 2013, p. 83 n. 5: «if these fragments [scil. P.Oxy. 2248-2249] come from one of the ‘Dionysus at Thebes’ plays, little or nothing can be inferred from them regarding its content». 29 S O M M E R S T E I N 2008, p. 228, notava opportunamente che il papiro presenta una linea orizzontale «marking a structural break of some kind in the song». 30 Secondo L O B E L 1941, p. 30 [ad fr. 1, 16], «above α of αις a trace of ink which would suit the lower end of ˫ », e ancora, «αἷσιν might be read, but κ[υδραὶ θεα]ί seems too long for the gap», e infatti nella sua trascrizione (qui sopra riportata) furono segnati in lacuna sei punti di litterae incertae. R A D T 1985, p. 283, a fronte di una nuova ispezione autoptica del papiro, ha reputato opportuno incrementare il numero di possibili lettere mancanti («lacunam 7 vel - si latae (μ π ω sim.) deerant - 8 litteras cepisse censeo»), recependo favorevolmente l’integrazione κ[υδραὶ θεα]ὶ αἷσιν, ricavabile da Diogene di Sinope e proposta da L A T T E 1948, p. 43 (accolta in seguito da L L O Y D -J O N E S 1957, ἀγείρω, / Ἰνάχου Ἀργείου [ὑπὸ] 27 ποταμοῦ παισὶ<ν> βιοδώροις”. VEΘ(Ald). Ritroviamo qui lo stesso verso citato senza autore e opera da Platone, e alluso da Pausania in riferimento a Eschilo: duce Asclepiade, saremmo dunque portati a credere che si tratti di un frammento dalle Xantriai eschilee. Nel corso del Novecento, nuove scoperte papiracee hanno però indotto diversi studiosi a rivalutare l’attendibilità delle informazioni preservate nello scolio. Nel 1941, nel XVIII volume dei Papiri di Ossirinco, Edgar Lobel pubblicò, numeran‐ dolo P.Oxy. 2164, un gruppo di tre frammenti databili su base paleografica al II sec. d.C. 28 . Il fr. 1, il più massiccio, è costituito da una sezione di kola lirici scritti in eisthesis, brandelli di un canto corale (vv. 1-15) 29 , seguiti da esametri dattilici lirici (vv. 16-30), i primi due dei quali (vv. 16-17) coincidono, grossomodo, con la citazione tragica che le fonti indirette (Platone e Diogene) riportano per esemplificare il travestimento di Era - e che lo scolio assegna a Eschilo: νυμφα̣ινᾱμερτεῖϲκ[ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣ ̣] ι̣αιϲιναγειρ[ ι̣ ̣αχουαρ̣γειουποταμουπαιϲινβιοδώροι[ 30 124 Pietro Berardi <?page no="125"?> p. 569; M E T T E 1959, p. 133; S O M M E R S T E I N 2008, p. 230; L U C A S D E D I O S 2008, p. 489). Una simile diortosi parrebbe attagliarsi perfettamente sul piano linguistico: κυδρóς (‘glorioso’, ‘illustre’) è, già in Omero, epiteto tradizionale e specifico di divinità (vd. F Ü H R E R 1991); come già epico è νημερτής (‘infallibile’, ‘veridico’), riferito a persone (cf. e. g. Hom. Od. 4.349; Hes. Th. 235) o a cose (per cui vd. S C H M I D T 2004). Sulla scorta dell’uso epico, Aesch. Pers. 246 πάντα ναμερτῆ λόγον (per cui vd. G A R V I E 2009, p. 140 ad loc.) costituisce l’unica altra attestazione in tragedia oltre a P.Oxy. 2164, fr. 1, 16. Come è stato però opportunamente rilevato da T O T A R O 2017, pp. 27-28, «il dato più sorprendente che emerge incrociando i dati della tradizione indiretta e diretta è la forte divergenza tra le fonti a proposito dell’attributo immediatamente connesso a νύμφαι: ναμερτεῖς nel papiro; κρήναισιν (al dativo come νύμφαις) nell’epistola di Diogene; ὀρεσιγόνιοι (V) vel ὀρεσιγόνιαι (EΘ) nel testo delle Xantriai eschilee trovato ad Atene da Asclepiade e trasmessoci dallo scolio aristofaneo a commento di Ra. 1344 νύμφαι ὀρεσσίγονοι (ὀρεσίγονοι in parte della tradizione manoscritta)». Le ninfe di cui parla Eschilo, come apertamente dichiarato nel verso successivo, sono però acquatiche, fluviali, “figlie dell’Inaco fiume argivo, datrici di vita”: una circostanza che induce a squalificare l’epiteto montano del testo aristofaneo e della tradizione scoliastica come adulteramento - a fini comici - dell’originale eschileo. Senz’altro più congruo apparirà, dunque, il termine che le lega alle fonti, che non è però privo di problemi sul piano ecdotico. Anzitutto, i manoscritti che tramandano l’epistola di Diogene riportano il sostantivo κρήναισιν, variamente ritoccato dagli editori per ripristinare un aggettivo da associare a queste ninfe: κρηναίαισιν ovvero κρηνίσιν (Boissonade), κρηνιάσιν (Meineke), κρηναίαις (Sommerstein). Resta però da determinare la compatibilità di questi interventi con la lacuna del papiro e il loro apporto alla ricostruzione del testo eschileo. C A N T A R E L L A 1948, pp. 119-120, tentava di colmare la lacuna con l’epiteto κρηναῖαι: νύμφαι ναμερτεῖς κ[ρηναῖα]ι αἷσιν ἀγείρω. Il verso, così concepito, poneva però un problema metrico, l’αι lungo di κρηναῖαι in iato, che egli risolveva alterando l’ordo verborum in κρηναῖαι ναμερτεῖς: a parere dello studioso, questo intervento avrebbe sanato un’accidentale trasposizione prodottasi al momento della trascrizione del testo, ripristinando peraltro una iunctura di ascendenza omerica, νύμφαι κρηναῖαι (cf. e. g. Hom. Od. 17.240). Non molto dissimile la diortosi proposta da L A S S E R R E 1949, p. 145, che integrava νύμφαι ναμερτεῖς, Κ[ράναις δ]ίαισιν ἀγείρω, con sette lettere in lacuna invece delle sei raccomandate da Lobel e Cantarella: «mais αι» - spiegava - «occupe généralement l’espace d’une lettre». Di fatto, come diversi studiosi hanno già osservato, colmare la lacuna con il nesso κ[υδραὶ θεα]ί parrebbe, per varie ragioni, la soluzione più opportuna. Anzitutto, va ricordato che il termine «dee» è attestato in entrambe le fonti indirette, tanto in Diogene (νύμφαις κρήναισιν, κυδραῖς θεαῖς, ἀγείρουσαν) quanto in Asclepiade presso lo scolio aristofaneo (νύμφαι ὀρεσιγόνιοι [vel -γόνιαι] θεαῖσιν ἀγείρω). L’eventualità di porre in lacuna la forma dorica κ[ραναῖα]ι fu attentamente ponderata anche da L A T T E 1948, p. 49 n. 1, che però la escluse per ragioni di spazio e di metrica: «κ[ραναῖα]ι in Aeschylo spatium non explet et ictus in media molossi syllaba contra regulam Marxianam peccat». D’altro canto, lo stesso Latte non escludeva affatto l’ipotesi che il κρήναισιν che si legge nell’epistola di Diogene potesse essere un «glossema», e proseguiva: «scilicet Κρηναῖαι et Κρηνίδες audiunt nymphae, κρῆναι quod sciam nusquam. Sed Byzantini pro deis Graecis appellativa ponere amant, quae illorum nomine paganos veneratos esse sibi persuaserant»; sulla stessa linea interpretativa, qualche anno più tardi, anche L L O Y D -J O N E S 1957, p. 568, 125 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="126"?> secondo cui «Diogenes’ κρήναις may be an explanatory gloss». L’idea - va detto - è senz’altro allettante, soprattutto alla luce del fatto che gli elementi contestuali presenti in Diogene/ Eschilo, ossia l’esplicito riferimento alle Ninfe figlie di un fiume, parrebbero di per sé sufficienti a motivare una simile glossa. A ciò va aggiunto un ulteriore elemento, di recente posto in luce da T O T A R O 2017, p. 29, secondo cui la glossa, non casualmente collocata accanto a νύμφαις, a rimpiazzo dell’originario epiteto eschileo (ναμερτεῖς), potrebbe essere stata in qualche modo «incoraggiata da un equivoco, da una maldestra, inopportuna relazione con un termine erroneamente desunto da ναμερτεῖς, nella fattispecie νᾶμα, di cui κρήνη è una chiosa perfetta; e si tenga conto che arcinota era la formula νυμφῶν νᾶμα ο νᾶμα νυμφῶν, che, sedimentatasi in una lunga tradizione, a partire da un celebre passo del Fedro di Platone (278b), individuava la “fonte delle ninfe” quale luogo ameno e pregno di sacralità». 31 L O B E L 1941, p. 27. 32 Traduzione di T O T A R O 2017, p. 23. Lobel non esitava, sulla base delle informazioni trasmesse nello scolio aris‐ tofaneo a Ra. 1344, ad assegnare i versi vergati sul papiro alle Xantriai di Eschilo, ammonendo, tuttavia, che «even with the present addition to the extant fragments the story of the Ξάντριαι cannot be guessed» 31 . Anche dopo l’editio princeps, però, i punti ciechi nello studio del fr. 1 di P.Oxy. 2164 (Xantriai, fr. **168 R.) si sono inevitabilmente dilatati, e complicati. Vale la pena tracciarne qui una sintesi. A dispetto delle lacune e del precario stato di conservazione del testo, è innegabile che il fr. 1, per quel che si riesce a ricostruire, esibisca un contenuto dionisiaco. Nella sezione corale (vv. 1-15) emergono i nomi di Era (v. 3), Semele (vv. 9, 13), Cadmo (v. 13) e Zeus (v. 15); l’ultima parola distintamente leggibile è γάμων (v. 15). Al v. 16 parrebbe collocarsi l’epifania di Era, che, come apprendiamo da Platone e Diogene, arriva in scena travestita da sacerdotessa questuante per le ninfe “figlie di Inaco fiume argivo datrici di vita”. La sua rhesis evoca insistentemente elementi afferenti alla ritualità nuziale: la soavità del canto imeneo (v. 19 εὐμόλποις ὑμ[εναίοις), spose novelle (v. 20 ν]εολέκτρους ἀρτιγάμ̣[), il “pudore puro e miglior ornamento di una sposa” 32 (v. 23 αἰδὼς γὰρ καθαρὰ καὶ ν[υ]μφο̣κ̣όμ̣ος μέ[γ]’ ἀρ̣ί̣[στα), la fruttuosa prole generata da quanti godono del favore delle ninfe, propizie e con animo di miele (vv. 24-25 παίδων δ’ εὔκαρπον τε[λ]έ̣θει γένος, οἷς[ / ἵλαοι ἀντιάσουσι μελίφ[ρον]α̣ θ̣υ̣μ̣ὸ̣ν ἐ̣χ̣[ουσαι), un marito di letto (v. 29 εὐναίου φωτὸ̣[ς). La vicenda evocata dal testo superstite pare dunque inscriversi disinvoltamente nella storia dell’amore adulterino tra Zeus e Semele, da cui nascerà Dioniso; un rapporto osteggiato per gelosia da Era, che in fonti più tarde verrà presentata nei panni di un’amica (Diog. Sinop. 3.64.3-4) ovvero di una nutrice di Semele: un disguise pattern finalizzato a persuadere la figlia di Cadmo a pretendere dal suo amante un’e‐ pifania divina in piena regola, quantusque et qualis ab alta / Iunone excipitur 126 Pietro Berardi <?page no="127"?> 33 T O T A R O 2017, p. 24. 34 L’attribuzione alla Semele fu proposta, non molti anni dopo l’editio princeps del papiro, da L A T T E 1948; N I L L S O N 1955; L L O Y D -J O N E S 1957, pp. 566-571. Più tardi, hanno aderito a questa linea interpretativa anche T A P L I N 1977, pp. 427-428; C A V A L L O N E 1980, pp. 93- 101; G A N T Z 1981, p. 25; J O U A N 1992, p. 77; H A D J I K O S T I 2006; e questo trend esegetico si è presto riverberato anche nelle configurazioni ecdotiche messe a punto dagli editori per il testo papiraceo: M E T T E 1959 stampa i tre frammenti di P.Oxy. 2164 come fr. 355 della Semele; S O M M E R S T E I N 2008 come frr. 220a-b-c della stessa tragedia (argomentando la scelta in S O M M E R S T E I N 2010c, pp. 202-204 e S O M M E R S T E I N 2013); L U C A S D E D I O S 2008, pur preservando inalterata la numerazione di Radt e collocando il papiro tra i frammenti delle Xantriai, si mostra comunque incline a considerarli più appropriati alla Semele. (Ov. Met. 3.284-285; e cf. Hyg. fab. 167, 179): richiesta che Zeus effettivamente esaudisce, apparendo tra tuoni e fulmini e finendo con l’incenerire la giovane tebana incinta - non prima, però, di aver salvato il piccolo Dioniso strappandolo al ventre della madre morente e cucendolo nella sua coscia. È stato giustamente rilevato che «inquadrato in questa cornice mitica, il testo eschileo rappresenta per noi la prima attestazione della fertile tradizione relativa al travestimento di Era» 33 - il che permetterebbe, con la dovuta cautela, di ravvisare in Eschilo l’inventor del fecondo modulo narrativo della metamorfosi di Era. Resta però da capire se questa vicenda, quale è ricostruibile dalla collazione fra il testo papiraceo e le fonti seriori, sia congruente con quanto ci è noto delle Xantriai (vd. supra) o non vada piuttosto ascritta a un’altra tragedia, la Semele, il cui nucleo tematico era probabilmente costituito (test. schol. L Ap. Rh. 1.636a ed Aesch. fr. 222 R., su cui vd. supra) proprio dall’inganno ordito da Era ai danni di Semele e dalla travagliata nascita di Dioniso 34 . Gli elementi che indurrebbero a respingere l’attribuzione alle Xantriai e a propendere per la Semele sono molteplici. Anzitutto, una ragione di ordine tema‐ tico: abbiamo poc’anzi accennato (vd. supra), pur sulla base delle poche, scarne testimonianze superstiti sul dramma, che la Semele portava probabilmente in scena la tragedia della partoriente, infelice madre di Dioniso: un contesto nel quale, indubbiamente, P.Oxy. 2164 parrebbe attagliarsi perfettamente. Il testo del papiro presupporrebbe, peraltro, una Semele ancora in vita se si accettasse, per i vv. 9-11, la ricostruzione e l’integrazione λά[χος proposte da L ATT E (1948, pp. 49-50): 127 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="128"?> 35 Così traduce e interpreta C A V A L L O N E 1980, pp. 95-96, che svolge un’accurata analisi sintattica, metrica e lessicale della pericope, dimostrando l’implausibilità che l’intelaiatura linguistica di questi versi sia imperniata attorno a un costrutto di origine o provenienza e che il verbo εὔχομαι significhi gloriari. Il bersaglio è soprattutto C A N T A R E L L A 1948, p. 112, che infatti così intendeva sia il verbo che l’espressione διὰ πᾶν εὐθύπορον λάχος, «‘per sortem [scil. generationis] omnino recta via incedentem’; noi diremmo ‘discendiamo direttamente (in linea retta) da’»; esattamente come M O R A N I 1987, p. 681: «Noi ci vantiamo di essere discendenti da Semele per una linea completa‐ mente retta». Per altre interpretazioni, si veda l’ottima sintesi di T O T A R O 2017, p. 25 n. 37. 36 Schol. vet. Ar. Ra. 1269c (III 1 a , p. 143 Chantry) κύδιστ’ Ἀχαιῶν VE: Ἀρίσταρχος καὶ Ἀπολλώνιος, ἐπισκέψασθε πόθεν εἰσί. VEΘBarb(Ald) [Σ]εμ̣έλας δ’ ε[υχόμεθ̣’ εἶναι διὰ πᾶν εὐθύπορον λά[χος Noi ci auguriamo che la sorte di Semele prosegua sempre con dritto corso 35 . Tralasciando, però, l’esegesi della pericope, attorno alla quale non pochi studiosi si sono divisi (vd. n. 35), ad instillare il sospetto che l'attribuzione alle Xantriai promossa da Asclepiade fosse in realtà da respingere è stata, soprattutto, la massa di notizie confuse, imprecise - se non, in alcuni casi, del tutto erronee - che, confluite nella tradizione scoliografica aristofanea sotto il nome del grammatico, hanno finito per restituire a noi moderni l’impressione di un lavoro erudito spesso condotto in maniera approssimativa e mal documentata. In schol. vet. Ar. Av. 348 (II 3, p. 61 Holwerda) e 424 (II 3, p. 72 Holwerda) emergono, ad esempio, due errori grossolani commessi da Asclepiade. Egli notava la derivazione di Av. 348 (δοῦναι ῥύγχει φορβάν) dall’Andromeda (Eur. fr. 115a Kn. ἐκθεῖναι κήτει φορβάν) e di Av. 423-424 (σὰ γὰρ ταῦτα πάντα καὶ ἐκεῖσε καὶ δεῦρο, in schol. 348a ΓM; σὰ γὰρ ταῦτα πάντα καὶ τὸ τῇδε καὶ τὸ κεῖσε, in schol. 348b VΓ 3 ) dalle Fenicie (v. 266 καὶ ἐκεῖσε καὶ δεῦρο, μὴ δόλος τις ᾖ): ma si tratta, in entrambi i casi, di tragedie rappresentate dopo la première degli Uccelli (andati in scena agli agoni dionisiaci del 414) - l’Andromeda nel 412, le Fenicie ancora più tardi (come gli stessi scoliasti scrupolosamente rilevano). Ancora: l’i‐ dentificazione del dramma eschileo evocato in Ra. 1269-1270 (κύδιστ᾽ Ἀχαι- / ῶν Ἀτρέως πολυκοίραινε μάνθανέ μου παῖ) costituiva una crux interpretativa già per i filologi alessandrini; Aristarco e Apollonio, prudentemente, evitavano di formulare congetture azzardate, sollecitando ad indagini più approfondite 36 ; altri si sono dimostrati, invece, più audaci: Timachida suggeriva il Telefo (cf. schol. vet. 1269a), Asclepiade l’Ifigenia (cf. schol. vet. 1269b). Non sussistono elementi 128 Pietro Berardi <?page no="129"?> 37 M U Z Z O L O N 2005, p. 103. 38 S O M M E R S T E I N 2008, p. 226; S O M M E R S T E I N 2010c, p. 203. 39 S O M M E R S T E I N 2010c, p. 203. 40 S O M M E R S T E I N 2010c, p. 203. 41 W A R T E L L E 1971, p. 172. 42 R A D T 1985, p. 282. per valutare con certezza quale tra i due eruditi sia nel giusto; certo è che «il disaccordo delle loro proposte di attribuzione conferma l’oggettiva mancanza di elementi a disposizione di Aristarco» 37 . È perciò plausibile, come ritiene da ultimo Sommerstein 38 , che tanto Timachida quanto Asclepiade formulassero solo ipotesi, prive di qualsiasi raffronto documentale. In tempi recenti, Alan Sommerstein si è dimostrato, fra tutti, il più accanito sostenitore dell’attribuzione del papiro alla Semele: un’operazione ermeneutica che non poteva non compiersi se non per il tramite di una sistematica, chirurgica decostruzione dell’affidabilità del lavoro filologico asclepiadeo. Discutendo proprio dello scolio aristofaneo a Ra. 1344, lo studioso arriva ad affermare che i due versi citati da Asclepiade e attribuiti alle Xantriai eschilee non sarebbero stati reperibili in copie della tragedia presenti nella biblioteca di Alessandria: «if then they were not to be found in Alexandrian copies of Xantriai, it was because they did not belong to Xantriai…but to Semele» 39 . E concludeva: «to believe Asclepiades lands us in unending difficulties: to disbelieve him is what we have to do about half the time anyway» 40 . Ma non sono mancate altre spiegazioni. Wartelle 41 postulava un errore di memoria, in virtù del quale Asclepiade avrebbe confuso due drammi appartenenti alla medesima trilogia dionisiaca. Radt 42 , prudentemente, non sfiducia del tutto il grammatico - dopo tutto, stampa il frammento, sia pur dubitativamente, nella sezione dell’edizione dedicata alle Xantriai (sia pur dubitativamente) -, ma rispolvera, al contempo, una vecchia tesi di Dindorf: «at non ideo Asclepiadi fides omnino abroganda est: etiam si verba νύμφαι ὀρεσσίγονοι ap. Aristophanem ex Euripide petita sunt [id quod veri simile est; Euripidis locum olim appositum fuisse coniecit Dind.], Asclepiades verba a se allata ap. Aeschylum legisse potuit [quae Euripides fort. imitatus est (id quod coniecit Dind.)]». Dire una parola sicura sull’attribuzione del testo preservato, in forme e assetti diversi, dal papiro e dallo scolio, è dunque difficile, soprattutto alla luce della frustrante esiguità dei frammenti superstiti e della laconicità delle testimonianze parallele su Semele e Xantriai. Qualcosa di più si può forse azzardare, tuttavia, sulle radici ideologiche e l'orizzonte poetico del testo eschileo: un testo che, indipendentemente dall’originario dramma di riferimento, parrebbe restituire un profilo di Era per certi aspetti dissonante rispetto alla tradizione successiva, 129 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="130"?> 43 Vd. G I G L I P I C C A R D I 2003, ad loc. 44 Saldandosi senza soluzione di continuità alla vicenda relativa alla morte di Atteone, il racconto ovidiano dell’episodio di Semele esordisce focalizzandosi, con repentino cambiamento di soggetto, sul dolor patito da Era per la gravidanza di Semele (Met. 3.259b-262 subit ecce priori / causa recens, gravidamque dolet de semine magni / esse Iovis Semelen; dum linguam ad iurgia solvit / ‘profeci quid enim totiens per iurgia’ dixit); un patimento esasperato, sul piano linguistico, dalla sapiente collocatio verborum (l’iperbato gravidam … Semelen raffigura icasticamente l’immagine della donna incinta che ‘porta nel grembo’ il seme di Giove) e dall’aspra allitterazione della dentale (gravidamque dolet de semine magni). Accantonate le infruttuose recriminazioni sui giuramenti infranti, la Giunone ovidiana convoglia ogni energia nei suoi propositi di annientamento della rivale: propositi sotterraneamente venati e alimentati dalla nitida consapevolezza della diminutio del suo status di Iovis coniunx (vv. 263-266 ‘ipsa petenda mihi est; ipsam, si maxima Iuno / rite vocor, perdam, si me gemmantia dextra / sceptra tenere decet, si sum regina Iovisque / et soror et coniunx, certe soror, con pungente, ironico rovesciamento del modello virgiliano di Aen. 1.46-47 quae divum incedo regina Iovisque / et soror et coniunx, che a sua volta riprende la formula omerica di Il. 16.432 Ἥρην δὲ προσέειπε κασιγνήτην ἄλοχόν τε). L’astioso monologo della dea, che sino a questo momento attinge a moduli e stilemi della poesia alta, precipita poi nella Umgangssprache: con una brusca sterzata stilistica, Giunone torna a lamentarsi del concepimento di Dioniso con toni e locuzioni di ambito comico-colloquiale, che ancora di più acuiscono l’irriducibile ‘umanità’ del suo sentire di donna tradita (vv. 266-272 at, puto, furto est / contenta, et thalami brevis est iniuria nostri. / Concipit - id deerat anche (forse soprattutto) in relazione al motivo scatenante dell’inganno da lei ordito: la gelosia per Semele. 3. Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? Le fonti posteriori a Eschilo - si è detto - si allineano abbastanza concordemente attorno alla vulgata che vede nella gelosia di Era la prima radice dell’inganno ordito ai danni di Semele. Diodoro Siculo afferma apertis verbis che la volontà della dea di punire la figlia di Cadmo era alimentata dalla sua ζηλοτυπία (3.64.3-4 μυθολογοῦσι γὰρ ἐρασθέντα Δία μιγῆναι πλεονάκις αὐτῇ διὰ τὸ κάλλος, τὴν δ’ Ἥραν ζηλοτυποῦσαν καὶ βουλομένην τιμωρίᾳ περιβαλεῖν τὴν ἄνθρωπον, ὁμοιωθῆναι μέν τινι τῶν ἀποδοχῆς τυγχανουσῶν παρ’ αὐτῇ γυναικῶν, παρακρούσασθαι δὲ τὴν Σεμέλην); Nonno (Dion. 8.34-44) esaspera marcatamente questo elemento introducendo nella trama del racconto la perso‐ nificazione di Φθóνος, che aizza crudelmente Era a vendicarsi del concepimento di Dioniso 43 ; e anche l’esordio della rielaborazione ovidiana del mito consiste, di fatto, nella caustica requisitoria indirizzata da Era non solo contro la relazione adulterina che Semele, mortale, ha intessuto con Zeus, ma anche, forse soprat‐ tutto, contro l’empio frutto originatosi da quell’unione - la gravidanza, premio che a lei “toccò a malapena” (Met. 3.269 quod vix mihi contigit) 44 . Discernere 130 Pietro Berardi <?page no="131"?> - manifestaque crimina pleno / fert utero et mater, quod vix mihi contigit, uno / de Iove vult fieri: tanta est fiducia formae. / Fallat eam faxo; nec sum Saturnia si non / ab Iove mersa suo Stygias penetrabit in undas). Come ha opportunamente rilevato D I M U N D O 2015, pp. 326-327, «la gelosia e l’ira inducono Giunone a esprimersi come una qualsiasi mortale […] e ad accrescere la responsabilità di Semele, rea di un vero e proprio ‘delitto’ che ostenta spudoratamente […]. Agli occhi della dea, inoltre, Semele è colpevole di aver assunto un ruolo che lei stessa, moglie legittima di Giove, a stento è riuscita a ricoprire: la parentetica quod vix mihi contigit ripropone l’atteggiamento autoironico che Giunone ha manifestato con l’inciso certe soror nel v. 266; nonostante la connessione con la maternità […] Giunone viene raramente indicata come madre di figli divini, molti dei quali, per di più, sono meno importanti di quelli che Zeus ha avuto da altre unioni adulterine». Segue, poi, il resoconto della metamorfosi della dea, che presenta elementi di sicuro rilievo per la nostra analisi (vv. 273-278 surgit ab his solio fulvaque recondita nube / limen adit Semeles nec nubes ante removit / quam simulavit anum posuitque ad tempora canos / sulcavitque cutem rugis et curva trementi / membra tulit passu; vocem quoque fecit anilem, / ipsaque erat Beroe, Semeles Epidauria nutrix). Non è ben chiaro da quale fonte discenda la versione della vicenda in cui Era si trasforma nella nutrice di Semele, Beroe - un elemento narrativo attestato in prima istanza nelle Metamorfosi, e recuperato più tardi da Igino (fab. 167, 179). M. Haupt (ap. L A T T E 1948, p. 53) ipotizzò che Ovidio lo attingesse da Virgilio (Aen. 5.620), ma non sopravvivono elementi ulteriori che permettano di confermare questa tesi. Nonno (Dion. 8.180-187) l’ha invece dipinta come la nutrice di Cadmo, laddove Diodoro Siculo (3.64.3) - o, più probabilmente, la fonte mitografica da cui attingeva - la definisce semplicemente come una delle famigliari di Semele, tacendone il nome. Se ne deduce che l'inganno ordito da Era doveva costituire, dunque, un elemento narrativo di una certa antichità, ben presto fossilizzatosi nella tradizione successiva, laddove le sembianze da lei assunte parrebbero, invece, un tratto decisamente più fluido e mutevole tra le varie fonti. L’epiteto che Ovidio assegna ad Era al momento della sua metamorfosi (Met. 3.278 Epidauria nutrix) non sarà dunque irrilevante, ma potrebbe essere forse traccia del fatto che il poeta attingeva da una fonte intermedia modellata su Eschilo, ovvero da Eschilo stesso, autore presso cui la dea dichiara apertis verbis la propria provenienza argiva. Del resto - rileva giustamente L A T T E 1948, p. 54 - «sponte enim Ovidius Thebanae virgini vix nutricem dedisset Peloponneso ortam. Est profecto artis Alexandrinae tali modo variam fabulam enarratae memoriam obiter indicasse». Sul passo ovidiano, si vedano almeno B Ö M E R 1969, ad loc.; H E N D E R S O N 1979, ad loc.; H A R D I E 1990; A N D E R S O N 1997, ad loc.; P A P P A 2002; B A R C H I E S I 2007, pp. 163-171; D I M U N D O 2015; D I M U N D O 2017. nitidamente quale ruolo ricoprisse la gelosia di Era nella drammatizzazione eschilea è compito arduo, data la problematicità e la frammentarietà delle testimonianze superstiti; tuttavia, proprio il testo conservato in P.Oxy. 2164 parrebbe offrire, in tal senso, interessanti spunti di riflessione. Ho già rilevato 131 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="132"?> 45 Schol. L Ap. Rh. 1.636a (p. 55, 21 Wendel) <θυιάσιν ὠμοβό<ροις>: > μαινάσιν, Βάκχαις· παρὰ τὸ θύειν καὶ ὁρμᾶν μαινομένας. ἔνθεν καὶ τὴν Σεμέλην Θυώνην καλοῦσιν, ἐπειδὴ Αἰσχύλος ἔγκυον αὐτὴν παρεισήγαγεν οὖσαν καὶ ἐνθεαζομένην, ὁμοίως δὲ καὶ τὰς ἐφαπτομένας τῆς γαστρὸς αὐτῆς ἐνθεαζομένας. 46 C A V A L L O N E 1980, p. 96. 47 Vd. D O D D S 1973, p. 88 n. 1. 48 B E E K E S 2010, I, p. 426, s.v. ἐνθουσιάζω, III: «ἔνθεος, properly ‘in whom is a god’». 49 Sulla follia dionisiaca provocata da Era, cf. [Apollod.] 3.4.3-5; Hyg. fab. 5; Ov. Met. 4.416-562; e non si tralasci neppure J E A N M A I R E 1944, pp. 88-89, il quale opportunamente pone in luce come il motivo della gelosia di Era fosse ricorrente non solo nel ciclo delle leggende dionisiache, ma già nell’inno pseudo-omerico ad Apollo (h.Hymn. 3.92- 101, e si vedano specialmente i vv. 98-101 ἧστο γὰρ ἄκρῳ Ὀλύμπῳ ὑπὸ χρυσέοισι νέφεσσιν / Ἥρης φραδμοσύνῃς λευκωλένου, ἥ μιν ἔρυκε / ζηλοσύνῃ ὅ τ’ ἄρ’ υἱὸν ἀμύμονά τε κρατερόν τε / Λητὼ τέξεσθαι καλλιπλόκαμος τότ’ ἔμελλεν, con C À S S O L A 1975, p. 494 ad loc.). come lo scolio mediceo ad Ap. Rh. 1.636a 45 , delineando i tratti essenziali con cui Eschilo rappresentava la vicenda di Semele, permetta di individuare una frattura netta tra le rielaborazioni seriori del mito e la versione eschilea, in cui Semele, oltre ad essere ἔγκυος, cioè gravida di Dioniso, è definita anche ἐνθεαζομένη, cioè preda di un particolare stato di «eccitamento psichico» 46 : un termine che, restituito al suo pieno significato etimologico, fa di Semele una mortale «plena deo» 47 , ἔνθεος 48 , posseduta dal dio in quanto ella stessa lo possiede nel suo grembo. Lo scolio precisa, inoltre, come questo suo stato di mania contagi anche le donne che le toccano il ventre - da identificarsi, con ogni verosimiglianza, con le ὑδροφóροι del coro. Rileva dunque opportunamente C AVAL L O N E (1980, p. 96) come «la versione eschilea in cui Dioniso sembrerebbe responsabile in prima persona dello stato di ἐνθουσιασμóς che colpisce Semele e le donne che la avvicinano» sia sostanzialmente «in disaccordo con la restante tradizione mitografica che, oltre a non riconoscere lo stato di invasamento di Semele, fa risalire l’origine della follia dionisiaca all’intervento di Era, motivato dalla gelosia nei confronti della rivale» 49 . L’estraneità delle fonti seriori all’ἐνθουσιασμóς dionisiaco che, in Eschilo, fa di Semele la prima baccante spinge, dunque, a riconsiderare sotto una luce diversa l’ἀπάτη e la vendetta ordite da Era ai danni della sventurata figlia di Cadmo, reazioni che la mitografia posteriore giustifica - si è detto - con il solito Leitmotiv della gelosia. Abbiamo osservato (vd. supra, n. 44) come l’espediente escogitato per l’in‐ ganno - il travestimento - costituisca un elemento narrativo di una certa antichità, presto fossilizzatosi nella tradizione mitografica: eppure, una ricogni‐ zione anche sommaria delle fonti consente di cogliere, d’altro canto, quanto le sembianze di volta in volta assunte dalla dea siano in realtà mutevoli e fluide, tra i vari autori. Non sarà dunque privo di significato che Eschilo (test. 132 Pietro Berardi <?page no="133"?> 50 C A V A L L O N E 1980, p. 98. P.Oxy. 2164, fr. 1) abbia optato per il travestimento da sacerdotessa questuante, incastonandolo in una cornice narrativa che, nel designare le ninfe evocate da Era come garanti del matrimonio e della famiglia, evidenzia l’intima connessione tra le loro prerogative e quelle della dea, di fatto rappresentata sulla scena, forse, nell’atto di presidiare il proprio culto contro la minaccia costituita dal nuovo dio e dalle sue prime seguaci. In tal senso, trovo perfettamente condivisibile la tesi di C AVAL L O N E (1980, p. 97), secondo cui «lo stato di gravidanza e di invasamento in cui si configura l’ὕβρις di Semele, ad un tempo protagonista attiva in quanto ἔγκυος, passiva in quanto ἐνθεαζομένη, rappresenta, in termini di linguaggio mitico, la rottura dell’ordine religioso-sociale provocata dall’avvento del dionisismo». Nonostante l’esiguità a tratti disperante dei frammenti superstiti non per‐ metta di dire parole sicure sull’intelaiatura ideologica sottesa a questa trilogia (? ) dionisiaca, alla luce di quanto osservato, non posso non trovare seducente uno scenario in cui l’intervento di Era, in Eschilo, più che dettato dalla gelosia unanimemente rilevata dagli autori successivi, fosse in realtà scatenato da più profonde motivazioni sociali e religiose, di cui la metamorfosi della dea in ministra del culto preesistente potrebbe facilmente costituire il riflesso più evidente, sul piano poetico e compositivo. Dioniso infatti, in quanto figlio adulterino, e con lui Semele, gravida pur non trovandosi nella condizione di sposa legittima, non possono non apparire, innanzitutto, come cellule impazzite, pericolosi sovvertitori di istituzioni religiose e sociali saldamente incardinate nel culto di Era, dea della famiglia par excellence, che interviene per preservare un preciso paradigma di femminilità (la donna come sapiente tutrice del focolare, confinata nel ruolo di moglie e di madre) dall’infettivo dilagare della μανία dionisiaca, che, già a partire dal grembo materno, sembra colpire soprattutto l’elemento femminile. Sarà dunque il fenomeno del menadismo - seguendo C AVAL L O N E (1980, p. 98) - «la motivazione più profonda della battaglia al culto dionisiaco». Accettando l’idea (pure non dimostrata) che il set di drammi orbitanti attorno al segmento tebano della vicenda dionisiaca si conciliasse nell’architettura (consueta per Eschilo) di una trilogia legata, proprio il rapporto tra Dioniso e l’elemento femminile poteva perciò costituire - come è stato rilevato 50 - l’effettivo terreno di scontro tra i due culti: la strenua opposizione al sorgere del menadismo nella Semele - nella fase ancora embrionale della vita del dio - poteva essere plausibilmente seguita dal tentativo di arginare il dilagare del nuovo culto nel Penteo (i cui snodi salienti dovevano grossomodo coincidere con 133 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="134"?> 51 Un indizio di questa conciliazione può rintracciarsi in un passo di Strabone (10.3.16) in cui si afferma che, presso i Traci, da un certo momento della storia del culto, Licurgo e Dioniso divenivano soggetti di una sotterranea sovrapposizione identitaria (καὶ τὸν Διόνυσον δὲ καὶ τὸν Ἠδωνὸν Λυκοῦργον συνάγοντες εἰς ἓν τὴν ὁμοιοτροπίαν τῶν ἱερῶν αἰνίττονται); e in un passo del Reso pseudo-euripideo, in cui è data menzione di un profeta di Dioniso il cui santuario è allocato sulle cime del Pangeo ([Eur.] Rh. 972-973 Βάκχου προφήτης, ὅς γε Παγγαίου πέτραν / ᾤκησε, σεμνὸς τοῖσιν εἰδόσιν θεός). Oltre alla cooptazione di Licurgo nell’alveo della ritualità bacchica, una qualche forma di osmosi cultuale doveva forse verificarsi, nella Licurgia, anche tra la nuova religione di‐ onisiaca e il culto autoctono di Apollo-Helios, di cui Orfeo era probabilmente, in Tracia, uno dei ministri: una traccia di questa ulteriore armonizzazione del conflitto può forse rintracciarsi in un frammento eschileo incertae fabulae (fr. 341 R.), tràdito da Macrobio e ascritto alternativamente alle Bassaridi o ai Neaniskoi, che testimonierebbe, se non proprio una sovrapposizione identitaria tra Apollo e Dioniso, quanto meno un singolare scambio di attributi tra le due divinità (Macr. Sat. 1.18.6 et ne quis opinetur diversis dis Parnassum montem dicatum, idem Euripides in Lycimnio, Apollinem Liberumque unum eundemque deum esse significans, scribit (fr. 477 Kn.) ‘δέσποτα φιλόδαφνε Βάκχε, παιὰν Ἄπολλον εὔλυρε’. Ad eandem sententiam Aeschylus (fr. 341 R.) ‘ὁ κισσεὺς Ἀπόλλων, ὁ βακχειόμαντις’). Si vedano, sulla questione, almeno D I M A R C O 1993, p. 151, e B E R A R D I 2021, p. 54 n. 54. quelli euripidei delle Baccanti - test. arg. LP Eur. Ba., III, p. 290, 19-21 Diggle Διόνυσος ἀποθεωθεὶς μὴ βουλομένου Πενθέως τὰ ὄργια αὐτοῦ ἀναλαμβάνειν, εἰς μανίαν ἀγαγὼν τὰς τῆς μητρὸς ἀδελφάς, ἠνάγκασε Πενθέα διασπάσαι. ἡ μυθοποιία κεῖται παρ’ Αἰσχύλῳ ἐν Πενθεῖ); e ancora nelle Xantriai, i cui sviluppi sono pure difficili da divinare, l’antitesi al menadismo potrebbe emergere anche dal titolo stesso della tragedia, che indicherebbe, come già segnalato (vd. supra, § 1), le mulieres lanificae, donne impegnate nella cardatura della lana - cioè relegate nella dimensione subalterna e domestica tradizionalmente associata all’elemento femminile, dunque in rapporto inevitabilmente oppositivo con la sfrenatezza estatica del dionisismo. Come accadeva nella Licurgia, in cui l’inflessibile opposizione di Licurgo all’introduzione del culto dionisiaco in Tracia (test. Hom. Il. 6.130-140; Soph. Ant. 955-965; [Apollod,] 3.5.1 et al., vd. supra, n. 6) approdava, con tutta probabilità, ad una osmotica conciliazione tra la nuova religione e il culto autoctono di Apollo-Helios 51 , così il finale della trilogia (se di trilogia è lecito parlare per questi drammi 'tebani' della saga dionisiaca) «doveva comunque vedere punita questa intransigente opposizione al culto e ai riti dionisiaci, e doveva trovare, in armonia con la Weltanschaaung eschilea, la conciliazione di forze antagoniste, all’inizio rigidamente contrapposte, nel superamento di ogni intransigenza e di ogni rigidità etica da parte del culto di Era, e nel contempo una regolarizzazione delle manifestazioni di culto dionisiache in vista di un loro incanalamento nella 134 Pietro Berardi <?page no="135"?> 52 C A V A L L O N E 1980, p. 98. 53 Cf. e. g. Verg. Aen. 4.301-303 bacchatur, qualis commotis excita sacris / Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho / orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron, e il commentario a Verg. Georg. 3.43-44 Cithaeron mons est Beothiae, ubi arcana Liberi Patris celebrantur tertio quoque anno, quae trieterica dicuntur; e cf. Diod. Sic. 4.3. che allude a feste trieteriche celebrate da Beoti, altri Greci e Traci, senza specificarne, purtroppo, la sede. 54 C A V A L L O N E 1980, p. 99. Cf. Plut. fr. 157.89ss. Ziegler (ap. Eus. praep. ev. 3.1) περαινομένων δὲ τούτων οὐκέτι τὴν Ἥραν καρτερεῖν, ἀλλὰ καταβᾶσαν ἐκ τοῦ Κιθαιρῶνος, τῶν Πλαταιατίδων αὐτῇ γυναικῶν ἑπομένων, ὑπ’ ὀργῆς καὶ ζηλοτυπίας θέουσαν ἐλθεῖν πρὸς τὸν Δία, καὶ τοῦ πλάσματος φανεροῦ γενομένου, διαλλαγεῖσαν μετὰ χαρᾶς καὶ γέλωτος αὐτὴν νυμφαγωγεῖν· τιμὴν δὲ τῷ ξοάνῳ προσθεῖναι, καὶ Δαίδαλα τὴν ἑορτὴν προσαγορεῦσαι, κατακαῦσαι δ’ ὅμως αὐτὸ καίπερ ἄψυχον ὂν ὑπὸ ζηλοτυπίας. 55 B R E L I C H 1969, p. 477. religione ufficiale» 52 . Non sarà dunque azzardato postulare, anche alla luce di testimonianze seriori sulle pratiche cultuali celebrate a Tebe 53 , che il finale della trilogia (? ) fosse occupato dal riconoscimento ufficiale della religione bacchica, per il tramite della istituzionalizzazione di riti dionisiaci disciplinati dall’autorità centrale della città e aventi come sede elettiva il Citerone: «lo stesso luogo che, probabilmente in periodi diversi, doveva continuare ad ospitare i Daidala, pratiche religiose in onore di Era, su cui ci informano Plutarco e Pausania» 54 . Alla luce di quanto osservato, sarà dunque possibile scorgere, in filigrana agli sviluppi della drammatizzazione eschilea, l’ombra di antiche lotte condotte dalle seguaci del culto di Era contro il dilagare della religio dionisiaca in ambiente beotico; e riconoscere, nella inattestata e tuttavia plausibile pacificazione di quei conflitti, quel «processo livellatore di panellenizzazione» 55 votato a ripulire gli antichi dèi dalle scorie residue dei culti locali e a permettere la costituzione del pantheon greco di età classica. Certo è che l’impianto teologico della trilogia eschilea doveva comunque enfatizzare l’antitesi tra il ruolo di Era, protettrice del matrimonio e della famiglia, e quello di Dioniso, eversore e provocatore dell’ekstasis orgiastica: e questo poteva darsi soltanto sottraendo Era, nel perimetro della fictio scaenica, alla paludata staticità del ruolo di moglie-madre, imprimendole l’arguzia calcolatrice e l’attitudine all’inganno che già Omero le aveva cucito addosso nel XIV canto dell’Iliade (la c.d. Διὸς ἀπάτη) - un espediente narrativo da cui lo stesso Eschilo si dimostrerà, in più di un’occasione, proficuamente sedotto (cf. Aesch. fr. 301 R. ἀπάτης δικαίας οὐκ ἀποστατεῖ θεός, fr. 302 R. ψευδῶν δὲ καιρὸν ἔσθ’ ὅπου τιμᾷ θεός). 135 Ἥρα ζηλότυπος: un paradigma infranto? In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="136"?> Bibliografia A D L E R 1928-1938 A. Adler, Suidae lexicon, 5 voll., Stuttgart 1928-1938. A R A T A 2004 L. Arata, “Aeschylus 6”, in G. Bastianini, M. Haslam, H. 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In margine ad Aesch. fr. **168 Radt <?page no="147"?> 6. Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio Pietro Vesentin Abstract: The Venus that the reader meets in the Metamorphoses is the blending of several epic and drama characters who share a series of negative founding emotions: among others, jealousy. This work will examine these theatrical figures and the kind of jealousy - that of a goddess, of a woman, or a mother - that the author highlights each time. Furthermore, partly by analyzing the schemes of literary allusion, the paper will dwell upon the topic of repressed identity and upon the wounds that jealousy can cause within a character. Actually, among all the others, it is specifically this emotion that enables Apuleius to bring modernity and innovation into the myth of Aphrodite. Keywords: jealousy - Apuleius - Metamorphoses - Venus - dramatis persona. - Num sibi collatam doluit Venus? Illa peraeque prae se formosis invidiosa dea est… Prop. 2.28.9-10. 1. Introduzione Interi boschi e costellazioni fuoriescono dalle terre e dai cieli della letteratura greco-latina: nuvole di uomini, di donne, di eroi ed eroine che sono stati cambiati in qualcos’altro per volere imperscrutabile di un nume, o che sono morti per appagarne la sete di sangue. Nelle case celesti, tra le dee celebri per i loro divoranti rancori, due catalizzano gran parte dell’attenzione: Era, il cui talamo è sempre imbrattato dagli amori adulterini del divino consorte, e la bella Afrodite, signora del desiderio, simbolo di ogni perfezione. Le apparizioni di Venere nella cultura letteraria occidentale costituiscono un atelier in cui lo studioso si smarrisce, stupefatto dal campionario di stoffe di volta <?page no="148"?> 1 Per l’analisi della figura di Afrodite in questa tragedia, vd. S U S A N E T T I 2005, pp. 7-16. 2 Cf. Hom. Hymni 5.3-6. 3 Cf. Soph. fr. 942 Radt. 4 Il testo e le traduzioni riportate, dove non diversamente esplicitato, sono quelli proposti da N I C O L I N I 2005. 5 Per orientarsi nella sterminata bibliografia su Venere, un buon punto di partenza in K E R É N Y 1989, pp. 67-78; G U I D O R I Z Z I 2013, pp. 507-527, e B E T A , P U C C I O 2019. 6 Non è questa la sede adatta a trattare un argomento che richiederebbe uno spazio assai ampio: basti ricordare la frequente presenza della dea nei papiri magici, cf. ad esempio PGM IV 3209-3254, VII 215-218. Sul rapporto tra Venere e i legami amorosi, vd. G U I D O R I Z Z I 2015, pp. 101-121; sul suo culto e su quello di Adone a lei legato, vd. F R A Z E R 1965, pp. 503-541. 7 Mi limito ad una rassegna sintetica e circoscritta ai due soli romanzi latini Satyricon e Metamorfosi. Per Petronio vd. tra gli altri C I C U 1993; P A N A Y O T A K I S 1995; R A G N O 2009. Per Apuleio vd. W A L S H 1970, il primo a dividere la storia in cinque atti; S C H I E S A R O 1988, pp. 141-150; M A Y 2006. Ulteriore bibliografia in K E U L E N 2000, p. 56 n. 6 e p. 57 n. 9. Sulla vicinanza tra romanzo e teatro cf. anche alcune fonti classiche: Rhet. Her. 1.13; Cic. inv. 1.27; Quint. inst. 2.4.2; Phot. Bibl. 166 (111a 34). Una panoramica generale sul romanzo antico e sul rapporto che intrattiene con gli altri generi letterari in F U S I L L O 1994, pp. 233-371, e in G R A V E R I N I , K E U L E N , B A R C H I E S I 2006. 8 Vd. K E U L E N 2000, pp. 56-72, e M A Y 2006, pp. 235-240. in volta adoperate nel vestirla: è pneuma che anima il mondo in Lucrezio, maestà ferita e vendicatrice in Draconzio, trasfigurazione parnassiana nelle ottave di D’Annunzio, giovane morta nella conchiglia del letto in Garcia Lorca. Indiscussa protagonista nelle parole dell’epica, del mito, ma anche in quelle della poesia moderna e contemporanea, è con l’Ippolito  1 euripideo che la dea viene consacrata a dramatis persona. I suoi pepli perdono i colori dell’incanto e restituiscono allo spettatore l’amaro riflesso della morte, poiché se da un lato è signora dagli amplessi di miele 2 , dall’altro può assumere anche il volto dell’amore mostruoso, capace di recidere come un colpo di forbice la volontà di uomini e numi 3 . Apuleio, nelle Metamorfosi  4 , si deve confrontare con una figura già ampia‐ mente tematizzata e con uno smisurato repertorio di risorse disponibili 5 : testi letterari commisti ad un ensemble di fonti religiose, magiche e teurgiche 6 che trovano nel romanzo il ricettacolo ideale. Sebbene la critica, ormai da tempo interessata alle relazioni che intercorrono tra il teatro e questo ‘genere’ 7 , abbia già dedicato qualche attenzione alla figura drammatica della Venere apuleiana - alludo specialmente ai lavori di W. Keulen e R. May 8 -, nel panorama degli studi sembra mancare ancora un contributo che ragioni sul profondo Unheimlichkeitsgefühl che presiede alle sue azioni: l’amaro senso di raccapriccio nato in seno al sentimento di stratificata, viscerale gelosia che ella nutre nei confronti di Psiche. 148 Pietro Vesentin <?page no="149"?> 9 Questa posizione critica, ormai canonica nel panorama degli studi apuleiani, è sostenuta tra gli altri da S C H I E S A R O 1988, pp. 141-150. Torna sull’argomento il recente commento di G R A V E R I N I , N I C O L I N I 2019, pp. LVIII-LXXV. 10 Lo confermano le parole che l’asino pronuncia in Met. 6.25 al suo epilogo: “Sed astans ego non procul dolebam mehercules quod pugillares et stilum non habebam qui tam bellam fabellam praenotarem”, “‘E io, che stavo proprio lì accanto, ero davvero dispiaciuto, perdio, di non avere qualche tavoletta e una penna per appuntarmi un raccontino così carino’”. 11 Un utile approfondimento in GCA 2004, p. 488. 12 Cf. Apul. Met. 4.28. Dietro quelli che paiono spaccati tragicomici di orrore e delizia in cui la dimensione teatrale è chiamata in causa anche apertis verbis, l’autore, infatti, mette insieme un ritratto mosaicato della dea in cui ogni tessera assunta dal mondo drammatico - sia esso tragico, comico o mimico - acquisisce un suo preciso senso. Tenteremo di analizzare tali materiali in rapporto al tipo di gelosia che Apuleio intende illuminare di volta in volta: quella della dea, della donna o della madre, senza tuttavia suggerire che tra essi venga a costituirsi una relazione fondata su una corrispondenza univoca, perché significherebbe mettere in discussione e negare implicitamente l’elegante gioco cui dà vita, modellando e contaminando la letteratura in filigrana con stupefacente perizia 9 . Non da ultimo, a partire dalla Venere triste delle Metamorfosi, si proverà a ragionare sul tema dell’identità soffocata e negata che, da un lato, fa rivivere il mito al lettore in un’ottica assolutamente moderna, dall’altro porta alla costruzione di un personaggio che è un unicum nella letteratura antica. 2. La triplice gelosia 2.1. Altera Venus. Il furto della divina persona Ad un primo sguardo la fabula di Amore e Psiche sembra trasmettere alla fan‐ ciulla cui è rivolta, all’asino e al lettore una piacevole sensazione di leggerezza, di diletto e di irrealtà 10 , sebbene nei fatti sia una grande kermesse dell’orrore: è la storia di una dea malefica che esige il sangue di una donna, riprende da vicino il tema della katabasis, proprio dell’epica greco-romana 11 , e si configura fin da subito come cronaca di una morte annunciata. È un racconto in cui la dimensione dell’aldilà, della sofferenza e del terrore viene esibita e richiamata costantemente. Come tutti coloro che, in virtù di un aspetto sovraumano 12 , costituiscono una eccezionalità inquietante, anche Psiche, attirando su di sé l’ira di un’immortale, 149 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="150"?> 13 In filigrana vi è anche il motivo dello phthonos ton theon: l’invidia aggressiva che gli dèi nutrono nei confronti degli uomini. 14 Cf. Apul. Met. 4.32. 15 Cf. Apul. Met. 4.33. 16 Vd. anche M A Y 2006, p. 246. 17 Apul. Met. 4.28-30. è destinata alla rovina 13 . Appena entra in scena è già morta. Apuleio declina fin da subito il modello di una forma perfetta, inutile e gelida: sola e relicta, bella al pari di una statua scolpita nel marmo, è prigioniera di un palazzo che le si serra addosso come un sepolcro 14 . Odia se stessa perché nessuno la vuole, incute una soggezione che la allontana innaturalmente dal prossimo e dalla vita. Il suo matrimonio, cui segue un giorno di lutto cittadino 15 , è un funerale solenne (feralium nuptiarum) e, profilandosi come cancellazione di un’eccezione che ha turbato l’umano e il divino, che ha scosso il cielo e la terra, sembra prometterle un’uscita definitiva dal mondo. Ciò detto, è facile intuire quanto la tragedia, il più sublime dei generi teatrali - lo spazio privilegiato dai prìncipi e dai numi, dal sangue e dalla maledizione - finisca per costituire fin da subito un pattern ben visibile e quasi scontato 16 . L’ouverture del racconto, del resto, è un tessuto di testi mitici e tragici 17 : Iamque proximas civitates et attiguas regiones fama pervaserat deam quam caerulum profundum pelagi peperit et ros spumantium fluctuum educavit iam numinis sui passim tributa venia in mediis conversari populi coetibus, vel certe rursum novo caelestium stillarum germine non maria sed terras Venerem aliam virginali flore praeditam pullulasse. […] Iam multi mortalium longis itineribus atque altissimis maris meatibus ad saeculi specimen gloriosum confluebant. Paphon nemo Cnidon nemo ac ne ipsa quidem Cythera ad conspectum deae Veneris navigabant: sacra differuntur, templa deformantur, pulvinaria proter‐ untur, caerimoniae negleguntur; incoronata simulacra et arae viduae frigido cinere foedatae. Puellae supplicatur et in humanis vultibus deae tantae numina placantur, et in matutino progressu virginis victimis et epulis Veneris absentis nomen propitiatur, iamque per plateas com‐ meantem populi frequenter floribus sertis et solutis adprecantur. Haec honorum caelestium ad puellae mortalis: cultum immodica translatio verae Veneris vehementer incendit animos, et impatiens indignationis capite quassanti fremens altius, sic secum disserit: “En rerum naturae prisca parens, en elementorum origo initialis, en orbis totius alma Venus, quae cum mortali puella partiario maiestatis honore tractor et nomen meum caelo conditum terrenis sordibus profanatur! Nimirum 150 Pietro Vesentin <?page no="151"?> communi nominis piamento vicariae venerationis incertum sustinebo et imaginem meam circumferet puella moritura. Frustra me pastor ille, cuius iustitiam fidemque magnus comprobavit Iupiter ob eximiam spe‐ ciem tantis praetulit deabus. Sed non adeo gaudens ista, quaecumque est, meos honores usurpaverit: iam faxo <eam> huius etiam ipsius inlicitae formonsitatis paeniteat.” E ormai nelle città vicine e nelle regioni confinanti si era sparsa la fama che la dea partorita dalle azzurre profondità del mare e nutrita dalla rugiadosa schiuma delle onde, ormai viveva tra la gente comune, concedendo a tutti la grazia della sua presenza divina, o che perlomeno, da un nuovo seme di gocce celesti, non il mare stavolta, ma la terra, avesse generato un’altra Venere, in tutta la sua virginale bellezza. […] E già molti uomini, affrontando lunghi viaggi per terra e traversate sul mare profondo, si riversavano a vedere quella meraviglia del loro tempo. Nessuno navigava più verso Pafo, nessuno andava a Cnido, e nemmeno a Citera, per contemplare la dea Venere: i suoi riti sacri vengono rimandati, i suoi templi vanno in rovina, i suoi sacri letti sono calpestati, le cerimonie trascurate; le sue statue risultano senza corone di fiori, i suoi altari vuoti sporchi di cenere ormai fredda. È alla fanciulla che si rivolgono suppliche, e nel suo volto di essere umano si invoca la potenza di una dea così grande, e durante le sue uscite al mattino ci si propizia con sacrifici e banchetti il nome di Venere, che invece è lontana; e, quando poi attraversa le piazze, la gente si accalca per adorarla offrendo fiori intrecciati o sparsi. Questo insensato trasferimento degli onori dovuti a una divinità al culto di una fanciulla mortale infiammò di una collera violenta l’animo della vera Venere: incapace di sopportare lo sdegno, scuotendo la testa e fremendo nel profondo, la dea parlava così con se stessa: “Ma guarda se io, antica madre della natura, origine prima degli elementi, io Venere, nutrice del mondo intero, devo fare a metà con una fanciulla mortale degli onori che spettano alla mia maestà, e vedere il mio nome, il cui posto è nel cielo, profanato dalle volgarità terrene! A quanto pare, visto che sotto il mio nome si adora in comune anche qualcun altro, dovrò sopportare l’incertezza di una venerazione rivolta a una sostituta: e una ragazza destinata a morire porterà in giro una falsa immagine di me! Non è servito a nulla che quel famoso pastore, il cui giudizio giusto ed equo fu approvato persino dal grande Giove, mi abbia ritenuto superiore a due dee così grandi, e ciò in virtù della mia bellezza senza pari! Ma questa qui, chiunque sia, si pentirà di essersi appropriata degli onori 151 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="152"?> 18 Vd. K E U L E N 2000, pp. 56-58 e riferimenti bibliografici alla n. 5; GCA 2004, pp. 55-57 e 354. Per i contatti con il mondo dell’epica vd. H A R R I S O N 1998, pp. 51-68; B U S S I 2007, pp. 281-294; B R U Z Z O N E 2017, pp. 576-582. 19 Cf. Eur. Hipp. 1-5 Πολλὴ μὲν ἐν βροτοῖσι κοὐκ ἀνώνυμος / θεὰ κέκλημαι Κύπρις οὐρανοῦ τ’ ἔσω· / ὅσοι τε Πόντου τερμόνων τ’ Ἀτλαντικῶν / ναίουσιν εἴσω, φῶς ὁρῶντες ἡλίου, / τοὺς μὲν σέβοντας τἀμὰ πρεσβεύω κράτη, / σφάλλω δ’ ὅσοι φρονοῦσιν εἰς ἡμᾶς μέγα, “Io sono potente, sono famosa in cielo e in terra. Io sono la dea Cipride. Da un capo all’altro del mondo, dal Mar Nero al monte Atlante, io dispenso i miei favori a chi mi venera, ma se uno fa l’insolente lo distruggo” [trad. S U S A N E T T I 2005]. 20 Cf. Eur. Hipp. 1-57. 21 Fedra è imparentata col Sole che ha denunziato a Efesto il suo rapporto adulterino con Ares. Questo motivo, accennato in Euripide ai vv. 47ss. e 337ss., verrà ripreso da Seneca nella sua Fedra (cf. vv. 124ss.). Sull’argomento vd. S U S A N E T T I 2005, p. 158 n. 16. che spettano a me; le farò rimpiangere pure questa sua bellezza a cui non ha alcun diritto! ” Com’è stato ampiamente notato 18 , i modelli letterari su cui è esemplata la Venus apuleiana in fondo non sono molti: Giunone nell’Eneide, Afrodite nelle Argonautiche di Apollonio Rodio e nell’Ippolito, ma anche Atena nelle Troiane euripidee. Laddove istituire un confronto con i personaggi dell’epica ci porte‐ rebbe inesorabilmente lontano dai propositi dell’indagine, non possiamo evitare di prendere in esame il côté tragico e valutare entro quali confini il parallelo possa dirsi legittimo. Al pari del suo Doppelgänger nelle Metamorfosi, la Venere euripidea è un’antica matriarca; è il principio cosmico che presiede agli amori dei cieli e delle terre, è la scintilla che feconda l’universo e che garantisce perpetuità al mondo 19 . Oltraggiata dal figlio dell’Amazzone che alle gioie del letto antepone i piaceri della caccia, al calore delle carni la freschezza della selva, all’amore dei corpi la castimonia, preannuncia nel prologo l’ecatombe cui andranno incontro i personaggi del dramma 20 . Ippolito e la matrigna, infelice frutto di una stirpe dannata 21 , non sono infatti esseri umani, ma animali condotti al macello, cadaveri viventi mossi nell’oscurità profonda ed ineludibile delle trame divine. L’effrazione alle leggi celesti si paga con la vita: le parole di Afrodite, simili a una tela di ragno, ondeggiano fin da principio sulla scena intorno alle pareti della reggia e si stringono pian piano nel nodo che sigilla la gola di Fedra. Il percorso del discorso di Cipride aderisce strettamente allo svolgersi degli accadimenti: potente e famosa, ella, che assoggetta il mondo al suo giogo, sta cuocendo a fuoco lento la moglie di Teseo per servirsene al momento giusto e spalancare le porte dell’Ade sotto i piedi del giovane. 152 Pietro Vesentin <?page no="153"?> 22 Cf. Eur. Hipp. 15-22 Φοίβου δ’ ἀδελφὴν Ἄρτεμιν, Διὸς κόρην, / τιμᾷ, μεγίστην δαιμόνων ἡγούμενος, / χλωρὰν δ’ ἀν’ ὕλην παρθένῳ ξυνὼν ἀεὶ / κυσὶν ταχείαις θῆρας ἐξαιρεῖ χθονός, / μείζω βροτείας προσπεσὼν ὁμιλίας. / τούτοισι μέν νυν οὐ φθονῶ· τί γάρ με δεῖ; / ἃ δ’ εἰς ἔμ’ ἡμάρτηκε τιμωρήσομαι / Ἱππόλυτον ἐν τῇδ’ ἡμέρᾳ, “Lui onora Artemide, la sorella di Apollo, la figlia di Zeus: ai suoi occhi è la divinità più grande. Passa tutto il suo tempo con lei, con quella vergine, là nel bosco: fa strage di animali con le sue cagne veloci. Ma la compagnia di una dea è troppo per un uomo. Non che io sia gelosa, ci mancherebbe! Però Ippolito mi ha offesa e oggi stesso mi vendicherò” [trad. S U S A N E T T I 2005]. 23 Vd. D’U R S O 2013, pp. 107-108. 24 Hom. Hymni 5.7-22; Orph. H. 36. La dea, dunque, agisce ex alto per vendicare la propria maestà, vilipesa da un rifiuto intollerabile. Più che voler attirare su di sé l’interesse e le attenzioni dell’eroe, tradisce un moto di fastidio nei confronti della cacciatrice celeste sua patrona, Artemide 22 , una delle poche divinità nelle case dei superi capace di resisterle. Facendo perno sul senso di inferiorità, di mancanza e di competizione, e fondandosi sul confronto tra chi riceve gli onori - la rivale - e chi, come lei, se li vede negare, il suo si configura come un sentimento di invidia più che di gelosia. Si ricava facilmente, a questo punto, la differenza tra le due emozioni: geloso è chi teme di perdere ciò che possiede, invidioso chi desidera ciò che non ha 23 . Peraltro, non esiste nella pièce alcuna triangolazione erotica che coinvolga la dea - assai frequente, invece, nelle dinamiche della gelosia - poiché ad essere desiderati sono gli ossequi di Ippolito, non Ippolito stesso. Ciò detto, se dovessimo tracciare il percorso dell’emozione che anima l’anta‐ gonista euripidea, dovremmo disegnare una linea orizzontale agli estremi della quale si collocano le divine sovrane: da un lato vi è Artemide la cui forza sta nella sobrietà, in tutti quei predicati enucleati nei suoi Inni  24 che fanno di lei un emblema di purezza, dall’altro, infinitamente lontana e ostile, la signora dell’amore, onorata da chi ama la frizione delle carni e i fuochi del sesso. La somiglianza tra le due non va oltre il filo dell’ascendenza celeste. La nemica di Ippolito e quella di Psiche risultano così accomunate, oltre che dal nome e dalla grana mitica che esso evoca, soltanto dalla rabbia e dalla sete di vendetta, livore che mal si conserta alla saggezza degli immortali. La Venere tragica, infatti, si lascia andare ad una fiducia che non vacilla mai, esaltata dalla collera ed elevata a potenza dal rancore: è un personaggio statico la cui unica nevrosi nasce dall’attesa e, quando la trama si mette in moto, scompare dalla scena, ritirandosi per sempre nei luminosi abissi del cielo. Ancora più lontana è l’Atena delle Troiane. Nel rappresentare la pacificazione con il dio del mare, il drammaturgo rinnova la sua critica velata nei confronti dei 153 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="154"?> 25 Cf. Eur. Tr. 67-68. 26 Cf. Eur. Tr. 48-86. 27 Vd. K E U L E N 2000, p. 57. 28 Cf. Eur. Tr. 69-75. 29 Cf. Eur. Tr. 914-965. 30 Cf. Eur. Tr. 924ss. 31 Vd. GCA 2004, pp. 57-62. 32 Due sono i miti principali sull’origine della dea: in Omero ella nasce da Zeus e Dione; nel racconto esiodeo, invece, dalla schiuma del mare (aphros) fecondata dal seme di Urano. Sulle sue origini cf. Orph. H. 55; Hom. Hymni 5.6, 10, e Hes. Th. 190ss. Una sintesi in G U I D O R I Z Z I 2013, pp. 199-202. numi che si lasciano spingere in basso dalle contese umane 25 . A tal proposito, Pallade, la cui presenza è circoscritta a meno di una quarantina di versi 26 , irata per la violenza mossa da Aiace alla profetessa Cassandra, non è disposta a rinunciare al suo desiderio di infliggere sofferenze agli Achei. È il volto del furor più atroce e si muove vendicativa sullo sfondo pretendendo il sangue del nemico. Cosa resta di lei nella Venere apuleiana? Di certo la rabbia, ma poco altro. Lo stesso dettaglio del culto trascurato, ricordato da Keulen 27 , passa in secondo piano rispetto al sacrilegio della violenza perpetrata ai danni della sacerdotessa di Apollo 28 : torna il mitologema della furia divina, ma la gelosia, la principale risposta psicologica di Cipride nelle Metamorfosi, è qui completa‐ mente assente. Paradossalmente, Apuleio sembra cogliere meglio la traiettoria mitica del discorso di Elena 29 che, nel fornirne a Menelao il ritratto della dea, evoca il giudizio di Paride 30 . Tale riferimento, chiaramente topico, non si può comunque in nessun modo considerare un prestito mutuato alla sola pièce euripidea. Riassumendo: nessuna emozione, nella Venere latina, eguaglia per malessere, durata e intensità la gelosia. Sarà bene chiarire, a questo punto, da cosa origina e quali implicazioni porta con sé. L’allusione alla nascita divina, in cui si riverberano fonti e influenze più o meno evidenti attinte al codice del mito 31 , innalza e solennizza il tono dei capitoli 28-30 del romanzo e fa sorgere nella mente del lettore il dubbio: esiste forse una nuova dea che ha reso altra l’originale? Una domina nata dall’incrocio di cielo e terra, capace di far convergere su di sé ogni ramo della tradizione mitologica 32 ? Viene così chiarendosi la scaturigine della rabbia di Afrodite, che assume ora la forma di un fuoco violento (vehementer incendit animos), ora quella di un incontenibile tremito (capite quassanti fremens). Ci troviamo davanti ad una figura scissa, infranta, paralizzata: freme, eppure riesce solo a parlare con se stessa, poiché anche se sembra vedere bene l’oggetto del suo investimento 154 Pietro Vesentin <?page no="155"?> 33 Cf. Plat. Smp. 180d-e, 181b-c, e Apul. Apol. 12. 34 Per il concetto di effimero vd. S U S A N E T T I 2014, pp. 95-118. pulsionale, la fanciulla che le ha sottratto l’amore del popolo, Psiche di fatto non esiste ancora. Cipride vive un’esperienza di fusione con una donna perfettamente sovrap‐ ponibile a sé e potenzialmente in grado di sostituirla nell’esercizio della divina professione. Del resto, la nuova signora dell’amore vince sulla vecchia fin dal momento in cui viene al mondo: è nata dal seme del cielo, ma cammina sulla terra, la sua bellezza si mantiene virginale e intatta nonostante viva tra le genti. In buona sostanza è una Venere al quadrato, un’elegante sintesi di ciò che per Platone è Uranio e Pandemio 33 . A questo punto giunge il paradosso. La creatura che spinge al pellegrinaggio gli uomini, che svuota i templi, che dissecca gli altari lasciando le statue della dea in balìa di incuria e decrepitezza, è quanto di più sfuggente e passeggero possa esservi: una mortale. Pur condivi‐ dendo la natura effimera 34 con tutti i suoi simili - essendo, cioè, come loro una pedina sul divino scacchiere, non in grado di opporsi né di vedere le trame ordite dagli dei - ha ricevuto in dono - non si sa da chi - una bellezza ingiusta, una pulchritudo di cui è inerte trasmettitrice; né vi è stato ab origine un pastore che abbia legittimato con il proprio giudizio la sua supremazia. L’esercizio del pensiero porta all’affiorare di domande inquietanti che spin‐ gono a riflettere sullo statuto del divino: è sufficiente che nasca un essere debole e senza meriti per cancellare dalla memoria collettiva la signora dell’amore e i suoi culti? E, soprattutto, Cipride è riducibile alla sola bellezza del suo sacro corpo, considerato che essa sembra costituire l’unico termine su cui si articola il paragone con la ragazza? Diversamente dalla controparte tragica, nel romanzo, insomma, la madre di Amore è interamente lacerata dall’esperienza esistenziale della gelosia: amorosa, poiché teme di perdere l’affetto del figlio, e sociale, poiché vede completamente ridimensionato il proprio ruolo nel mondo. In questo caso, l’emozione si espande su una direttrice verticale - ad esserne bersagliata è una mortale - creando un ideale triangolo: vi è una persona amata, Eros, e una rivale, la protagonista. Ma su questo torneremo in seguito. Si dischiude così nell’animo della dea un’insanabile ferita narcisistica: Psiche le ha sottratto l’identità tramite quell’unico predicato di cui tutti hanno memoria, attorno al quale gravita ogni suo onore: la bellezza. Non è un caso che lo spettro nato dall’afflizione dell’animo, a questo punto, fugga dalla mente e inizi gradualmente ad abitare lo spazio della realtà. 155 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="156"?> 35 Apul. Met. 4.31. 36 Cf. Svet. fr. 161 (Prata); per un elenco di ulteriori passi vd. anche K E U L E N 2000, p. 61 e n. 26. 37 Cf. Apul. Apol. 12. 38 Alludo al mito di Atalanta in Ov. Met. 10.570ss. Sebbene sia Cibele a punire l’eroina e Ippomene, ella è al servizio di Venere. Un’analisi puntuale del passo con riferimenti al sincretismo tra il culto delle dee e alla figura del leone in R E E D 2013, p. 291. 39 K E U L E N 2000, p. 62. 40 Apul. Met. 5.31. La bella per eccellenza si trasforma in bestia. La metamorfosi della sua figura assume, grazie all’impiego del verbo fremo, usato in pendant con gemo, un chiaro profilo 35 : Et tota illa perlata de formonsitatis aemulatione fabula gemens ac fremens indignatione. E, dopo avergli raccontato tutta la storia della loro rivalità nella bellezza, lamentandosi e fremendo di sdegno… Oltre a rimarcare la collera e l’ovvio fastidio che ne consegue, infatti, attiva immediatamente, almeno su un piano sonoro, un’imagery ferina. Leonum est fremere vel rugire, spiega Svetonio 36 . E d’altra parte, l’immagine del leone funge da richiamo discreto alla tradizione mitica della dea: non solo perché Afrodite disciplina gli amori delle bestie 37 ma anche perché, quella leonina, è una delle silhouette animali in cui sono riplasmati i corpi di coloro che maledice 38 . Ella strepita ancora all’altezza di Met. 5.29: Haec quiritans properiter emergit e mari suumque protinus aureum thalamum petit et reperto, sicut audierat, aegroto puero iam inde a foribus quam maxime boans. E, continuando a strillare, emerge in tutta fretta dal mare e se ne va dritto verso la sua stanza tutta d’oro, e trovandoci, proprio come le era stato riferito, il figlio che stava male, fin dalla soglia comincia ad urlare a più non posso. I verbi quirito e boo, come ha spiegato Keulen 39 , richiamano per onomatopea lo strillo del cinghiale e il muggito del bue, intensificando l’assimilazione con il mondo delle fiere e facendo della degradazione animale un tema visibile nella plasmazione concreta della figura divina intesa nel suo divenire 40 . 156 Pietro Vesentin <?page no="157"?> 41 Apul. Met. 6.10. 42 Gli effetti dell’ira sul corpo dell’eroe tragico che, spogliato dei suoi connotati, si trasforma in belva, sono stati recentemente indagati da B R E S C I A 2021. B U S S I 2007, p. 282, studia invece l’impatto del dolore sul corpo di Venere. 43 Cf. Apul. Met. 6.16 Nam sic eam maiora atque peiora flagitia comminans appellat renidens exitiabile, “Infatti, minacciandole pene ancora peggiori e più crudeli, con un ghigno terrificante la apostrofa così”. Sed eam protinus Ceres et Iuno continantur visamque vultu tumido quaesire cur truci supercilio tantam venustatem micantium oculorum coerceret. Proprio in quel momento le capitano davanti Cerere e Giunone; ve‐ dendola gonfia in volto, le chiesero perché mai con quell’espressione truce si rovinasse i suoi begli occhi lucenti. La metamorfosi animale, in ogni caso, evade ben presto il solo piano acustico, arriva a coinvolgere la sfera del corpo - la bellezza evapora, la carne del viso si fa tumefatta, gli occhi brillano di un fuoco diabolico - e, infine, completando una ideale climax iniziata con la trasformazione della voce e proseguita con quella dell’aspetto, intacca l’animo 41 : His editis involat eam vestemque plurifariam diloricat capilloque discisso et capite conquassato graviter affligit. E dopo aver pronunciato queste parole, si lancia su di lei e le lacera la veste facendola in mille pezzi, poi la percuote con violenza, strappandole i capelli e scuotendola forte per la testa. Se da un lato Venere è un idolo malvagio in preda alla collera 42 e desidera soltanto, come ogni antagonista, potersi ergere trionfante sul cadavere della nemica per berne il sangue, dall’altro il vero vampiro è Psiche. Morta vivente la cui esistenza è uno scandalo per il cielo, si mantiene nutrendosi inconsapevolmente della bellezza di Cipride e disseccandone il culto. L’incantesimo della metamorfosi, uno dei castighi prediletti dai numi, si ritorce così contro chi è solito servirsene: la rabbia, risposta della mente alla gelosia, preludio all’attacco, riduce ‘la più bella’ ad una belva dal ghigno spaventoso 43 . A questo punto si chiarisce la tragedia personale di Afrodite-dea nelle Meta‐ morfosi: ammesso sia vero che non vi possono essere due sovrane dell’amore - ciò sembrerebbe sancire una trasgressione anche al principio aristotelico di 157 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="158"?> 44 Cf. Arist. Metaph. 4.3. 45 Vd. K E U L E N 2000, p. 58. 46 Vd. S A N D E R S 2013, p. 43, che riprende le posizioni di P A R R O T T 1991. 47 Vd. P A R R O T T 1991, pp. 16-17. identità 44 -, una Venere che non è più Venere, che ha perduto il proprio nome cedendolo ad un’altra, cessa semplicemente di esistere. In conclusione. I modelli tragici analizzati incidono sul testo apuleiano solo nella misura in cui, sul terreno delle macroforme tematiche, evocano nella mente del lettore l’archetipo della divinità offesa e la solennità del contesto mitico. Cipride nasce e rinasce dalla penna di Apuleio come figura immacolata, perché i suoi occhi, senza alcun filtro, la colgono dall’alto e non dal basso: prima di essere una dea è un personaggio costituzionalmente in crisi e una donna fin de siécle, i cui timori, sentimenti e angosce, tra i quali spicca la gelosia - il male che sopra ogni altro divora l’immagine del sé - sono più vicini all’essere umano che al nume; motivo per cui, a questo punto, sarà opportuno spostare l’oggetto del confronto dalla figura divina a quella dell’eroina. 2.2. Carne morta. La virgo e la megera A livello teorico ci troviamo ora a proporre un contatto con due modelli total‐ mente opposti, quello eroico e quello dell’anus; l’uno di stampo tragico, l’altro di matrice comica. In sostanza, però, seguendo i postulati del ragionamento, vedremo come essi, parlando della Venus apuleiana, si contemperino. L’accostamento tra Afrodite e Medea è proposto già da Keulen 45 che, sugge‐ rendo una lettura contestuale dei vv. 502-505 della tragedia, dei frammenti enniani superstiti, di Metamorfosi 5.30 e di altri materiali, e muovendo dal topos dell’eroina relicta, si concentra sul lamento patetico di Venere e sulle sue forti cellule retoriche. Diversa è l’analisi che mi accingo ad offrire: andando ad integrare quanto è già emerso si muove, piuttosto, sul terreno accidentato della gelosia sessuale. In accordo con la critica 46 , affinché tale affezione della mente sia diagnos‐ ticabile devono sussistere tre condizioni: occorre (1) che il soggetto abbia una relazione con qualcuno, (2) che tema di perderne l’esclusività, e (3) che, naturalmente, sia presente un rivale amoroso. Ormai è chiaro, non vi è gelosia senza una triangolazione. Aggiunge Parrott 47 che l’amato, in un analogo contesto patologico, contribu‐ isce a tal punto all’auto-rappresentazione dell’amante, da spalancare nel suo Sé una voragine dolorosa nel caso in cui dovesse venire a mancare. Tale disfunzione psichica va quindi a ledere profondamente le certezze su cui posa l’identità di chi ne è affetto. 158 Pietro Vesentin <?page no="159"?> 48 Cf. Eur. Med. 8. 49 Vd. S A N D E R S 2013, p. 45. 50 Vd. S A N D E R S 2013, p. 48: «Her entire self-conception is now formed by being a wife and a mother». Paradigmatico a questo proposito è il caso di studio offerto sulla Medea euripidea, donna abbandonata par excellence. Sanders, nel lavoro dedicato alla sua figura, partendo dal testo tragico e seguendo un paradigma indiziario che privilegia l’allusione, lo scarto lessicale, il double entendre, riconduce le manifestazioni del malessere di cui è vittima alla sintomatologia della gelosia sessuale. Sulla scorta degli elementi da lui enucleati proveremo a confrontare il sentimento dell’eroina euripidea e della Venere apuleiana, non per istituire una comparazione in vitro che rischia di tenere limitatamente conto della profonda diversità dei testi e delle figure prese in esame, quanto, piuttosto, per rilevare come tale emozione, la gelosia sessuale, abbia una chiara facies e delle specificità intensamente drammatiche. Da un lato esse conferiscono una patina tragica alla materia letteraria, dall’altro, confluendo scopertamente nella figura di Medea, fanno di lei il prototipo della donna gelosa, modello evocato più o meno dichiaratamente nella produzione successiva. Riconduciamo al testo tragico il quadro sintomatologico emerso ai punti (1), (2) e (3), riassumendo le conclusioni cui approda Sanders. La gelosia di Medea è sessuale per i seguenti motivi: (1) è venata di una fortissima componente erotica che emerge fin dall’ouverture del dramma, poiché lo spettatore è subito informato sulla natura spiccatamente passionale del rapporto instaurato con Giasone 48 . Sono due, tra l’altro, gli inni dedicati al potere di Afrodite, e i termini greci usati per designare il talamo, lechos, lektron, eune, koite, occorrono ben trentadue volte nell’intera opera: venti in relazione al vecchio rapporto, dodici in riferimento a quello con Glauce 49 . Ovviamente Eros, il desiderio amoroso sconvolgente, è il motore dell’intera azione tragica, guida e domina la maga in ogni momento. (2) Nell’abnegazione di Medea verso l’amato, di certo imposta dal paradigma femminile - come ella stessa profusamente spiega nel corso della lunga rhesis (vv. 214-266) -, ma frutto anche della decisione personale più volte ribadita che l’ha spinta ad abbandonare la terra natale, il padre e la casa (vv. 32, 483, 503, 1332), non si intravede solo il timore di perdere il marito, ma si conferma anche la dipendenza affettiva che la porta all’annullamento del Sé 50 . Le mancate attenzioni e approvazioni lusinghiere, la trascurata fedeltà, unite alla disperazione di chi si è smarrito per inseguire l’altro, portano al desiderio di vendetta e alla crisi di collera. Questa, sul piano corporeo, scatena sintomi precisi: inizialmente Medea grida e geme addolorata senza darsi pace (vv. 132, 159 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="160"?> 51 Interessante, in relazione alla somatizzazione di sintomi psicologici, ciò che scrive M A N I E R I 1972, p. 53, su Saffo: «Ogni stato psicologico puro può essere rilevato solo tramite una modificazione fisiologica. E perciò ogni sintomo psicologico è sempre, ed insieme, un sintomo psico-fisiologico». 52 Cf. Apul. Met. 5.28 Psychen ille meae formae succubam mei nominis aemulam vere diligit? , “Psiche? ! Si è davvero innamorato di quella che è la mia rivale in bellezza, di quella che vuole rubarmi il nome? ”. 53 Apul. Met. 4.31. 54 Vd. GCA 2004, pp. 70-71. 55 Cf., a titolo d’esempio, Hor. Epod. 8; Priap. 57; Mart. Epigr. 7.75, 9.37, 10.67, 11.29; Petron. Sat. 134, 138. L’‘antica fame’ delle dominae romane in tutta la sguaiatezza dei suoi modelli mimici e comici è studiata da C I C U 1992 che, pur dedicando la sua monografia specificamente al femminile petroniano, fornisce numerosi riferimenti utili. Per un paragone con la figura antropologica della lena, vd. M A Y 2006, pp. 237-240. 138, 161), si lascia andare (v. 141) evocando la morte (v. 146) e si consuma in lacrime (v. 159), poi si tramuta in fiera (vv. 186-189). Le manifestazioni psicopatologiche 51 seguono un iter analogo in Venere: se all’inizio, durante il tracollo interiore, ella scuote la testa e freme parlando tra sé e sé come fa chi soffre, appena scopre la relazione tra il figlio e Psiche - la donna che ha già attentato al suo nome e minato la sua identità 52 - inizia a gridare a perdifiato. Da questo punto in poi, la metamorfosi in bestia cui si faceva riferimento subisce un’accelerazione notevole. Tutto ciò per dire che è l’amore di Eros, riversato sull’eroina, a scatenare l’aspetto più esplosivo della gelosia della domina, a dispetto della sottrazione del culto, degli onori e di tutto il resto. Se del legame madre-figlio parleremo nel prossimo paragrafo, quello che mi preme invece sottolineare ora, per non perdere di vista il tema, è la forte componente sessuale che intride anche la loro relazione 53 . Sic effata et osculis hiantibus filium diu ac pressule saviata. Così dicendo, baciò il figlio con baci lunghi, a labbra aperte, pieni di passione. Laddove gli stessi commentatori del GCA  54 hanno rilevato come la descrizione di questo ‘bacio alla francese’ rientri difficilmente tra le attenzioni materne canoniche, resta ancora da chiedersi cosa lo giustifichi. È presto detto: come capita a certuni personaggi dell’universo comico-mimico che ancora sentono, nonostante l’età avanzata, i pruriti del ventre 55 , così Afrodite adotta una condotta esasperatamente seduttiva. Nei confronti del figlio, che è 160 Pietro Vesentin <?page no="161"?> 56 Apul. Met. 6.8. 57 In sostanza, si comporta come tutte le streghe del romanzo: l’ubriacona Meroe (Apul. Met. 1.7) e la maga Panfile, infatuata dei fanciulli (3.16). Sulla figura comica della donna ubriaca vd. anche GCA 2007, pp. 37-38. pur sempre un ragazzo, ma anche di tutti quegli uomini (e quelle donne? ) che le hanno voltato le spalle 56 : Si quis a fuga retrahere vel occultam demonstrare poterit fugitivam regis filiam, Veneris ancillam, nomine Psychen, conveniat retro metas Murtias Mercurium praedicatorem, accepturus indicivae nomine ab ipsa Venere septem savia suavia et unum blandientis adpulsu linguae longe mellitum. Se qualcuno riuscirà a riportare indietro dalla fuga o a indicare dove se ne sta nascosta la schiava fuggitiva, figlia del re, serva di Venere, di nome Psiche, si incontri dietro le colonne Murcie con il banditore Mercurio: a titolo di ricompensa per la denuncia, riceverà da Venere in persona sette dolcissimi baci, più un altro ancor più delizioso, dato con il tocco carezzevole della sua lingua. È un’anus imbellettata, un po’ volgare, disposta a tutto pur di gratificare chi le obbedirà; una di quelle figure grottesche di cui brulicano i bassifondi e gli angiporti delle urbes romane. Si inscrive a buon diritto, insomma, nel parterre di megere, tanto caro all’autore 57 , che escono la notte a caccia di giovani maschi. L’incantesimo che rassoda le carni frolle, la magia del cielo che la trasfigura e rende florida, del resto, è solo un velo illusorio e non modifica la sua essenza. Venere non è cieca davanti alla realtà e più volte, nel corso della fabella, fa trasparire con furia ingenua i suoi timori e il senso di inadeguatezza causatole dall’età. Siamo all’altezza di Metamorfosi 5.29: Verum etiam hoc aetatis puer tuis licentiosis et immaturis iungeres amplexibus, ut ego nurum scilicet tolerarem inimicam. Sed utique praesumis nugo et corruptor et inamabilis te solum generosum nec me iam per aetatem posse concipere. Velim ergo scias multo te meliorem filium alium genituram E poi per giunta ti unisci a lei tu, un ragazzino, con rapporti senza pudore oltre che troppo precoci, evidentemente perché mi toccasse avere la mia nemica per nuora! A quanto pare, tu pensi - buffone, odioso d’un seduttore - di essere il solo capace di riprodurti, e che io alla mia età non possa più far figli. 161 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="162"?> 58 Come già ampiamente illustrato da M A Y 2006, pp. 237ss., e K E U L E N 2000, pp. 60ss. 59 Apul. Met. 6.11. e 6.9: Tunc rursus sublato risu Venus: “Et ecce” inquit “nobis turgidi ventris sui lenocinio commovet miserationem, unde me praeclara subole aviam beatam scilicet faciat. Felix vero ego quae in ipso aetatis meae flore vocabor avia et vilis ancillae filius nepos Veneris audiet”. Allora, levando di nuovo una gran risata, Venere sbotta: “Ma guarda‐ tela, come cerca di suscitare compassione con questo mezzuccio della sua pancia gonfia, con cui, a quanto pare, dovrebbe rendermi nonna felice di un magnifico rampollo. Ma beata me, veramente! Proprio nel fiore della giovinezza mi toccherà d’esser chiamata ‘nonna’, e il figlio di una miserabile schiava sarà detto nipote di Venere”. In tale freak show le analogie con l’universo comico, naturalmente, non sono circoscritte a questi singoli aspetti, ma abbracciano anche i registri vocali, la gestualità poco nobile, a tratti plautina, la loquela 58 . Non da ultimo, ad arricchire tale buffet è la passione di Cipride per il vino, che contribuisce da un lato a locupletare il quadro fortemente umano delle sue manifestazioni emotive, dall’altro a degradarne ulteriormente l’immagine 59 : Sed initio noctis e convivio nuptiali vino madens et flagrans balsama Venus remeat totumque revincta corpus rosis micantibus. Ma sul far della notte Venere ritorna dal banchetto di nozze, ebbra di vino e profumata d’unguenti, cinta in tutto il corpo di splendide rose. Se in Psiche prevale la dimensione dell’amore uranio, per quanto in lei l’oriz‐ zonte del cielo e della terra si combinino dando vita ad una creatura perfetta e intatta, in Afrodite, meno giovane e meno bella, primeggia decisamente l’aspetto pandemio. Chiamata come una qualsiasi donna a confrontarsi con uno splendore ancora nel suo fiore, sposta la competizione sul piano fisico: è un’amante esperta che sa come vezzeggiare i partner e che non esita a ricorrere alla propria ars, ormai ben collaudata, per legare a sé il prossimo. Il passaggio dal coturno al socco coincide con l’attenuarsi della gelosia di Venere-dea e con l’emergere, invece, della gelosia sessuale di Venere-donna. Apuleio probabilmente riconosce il quadro clinico prototipico di Medea, ma lo ripropone in maniera epurata e originale, innestandovi dettagli situazionali, 162 Pietro Vesentin <?page no="163"?> 60 Cf. Apul. Met. 4.7. 61 Cf. Apul. Met. 6.3 Sed cognatae meae, cum qua etiam foedus antiquum amicitiae colo, bonae praeterea feminae, malam gratiam subire nequeo, “Non posso fare una scortesia ad una mia parente, con la quale ho anche un legame d’amicizia da tanto tempo e che tra l’altro è una brava donna”, e 6.4 Veneris nurus meae, quam filiae semper dilexi loco, “Venere, mia nuora, che ho sempre amato come una figlia”. 62 Cf., per esempio, Apul. Met. 6.9, dove occorrono termini socrus - nurus. 63 Cf. Apul. Met. 6.7. 64 Cf. Apul. Met. 6.23 Adolescentem istum quod manibus meis alumnatus sim profecto scitis omnes […] “Nec tu” inquit “filia, quicquam contristere nec prosapiae tantae tuae statuque de matrimonio mortali metuas, “Conoscete tutti questo giovane: io stesso, con le mie mani, l’ho allevato […] E tu, figlia mia, non ti rattristare e non temere per la tua discendenza o per la tua condizione”. 65 Posizione assurda se si considerano le variegate origini mitiche del dio. Il paradosso è rilevato anche in GCA 2004, p. 339. tematici, lessicali, prossemici, che sconvolgono brillantemente il mondo dei generi: non disdegna certo il comico e la dimensione basso-corporea, né teme di violare la divina sacrosanctitas. Non ha paura della vecchiaia e ha una predilezione per i suoi caratteri: la lussuria, la sguaiatezza, la sete di vino. Ma forse, tutto questo fa gioco all’anus narratrice 60 , la vecchia insaziabile e crapulona cui spetta l’intrattenimento della bella Carite. Perché non trasferire un po’ di sé in quella dea così sadica? E perché non vestire, nel tempo fragile ed effimero della poiesis, i panni di colei che con la sua bellezza mette in ginocchio il mondo? 2.3. La sindrome della leonessa. Storia di una madre single Il codice sociale della bella fabella è fondato su immagini e motivi tipicamente familiari: il legame che unisce Venere a Cerere e Giunone è di parentela 61 ; nel rapporto che più la ossessiona, quello con la fanciulla, è spesso evocata la relazione suocera/ nuora 62 ; Mercurio fa la sua comparsa in scena come frater  63 , e lo stesso Giove, il cui intervento risolutivo pone fine al racconto, nel suo discorso allude due volte alla struttura della celeste familia  64 . Il rapporto tra consanguinei offre un pretesto utile a contestualizzare la gelosia di Venere-madre, una donna fortemente legata agli affetti domestici che ha dovuto tirare su il figlio da sola 65 . O, almeno, è ciò che dà a intendere all’altezza di Metamorfosi 5.29, urlando con frustrazione: nec enim de patris tui bonis ad instructionem istam quicquam con‐ cessum est. 163 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="164"?> 66 Cf. Apul. Met. 5.29-30. 67 Cf. Apul. Met. 5.28 Nomen eius quae puerum ingenuum et investem sollicitavit, “Dimmi chi è questa che ha sedotto un ragazzino ingenuo e ancora adolescente! ”. 68 Cf. Apul. Met. 5.29 Verum etiam hoc aetatis puer tuis licentiosis et immaturis iungeres amplexibus, “Ti unisci a lei tu, un ragazzino, con rapporti senza pudore oltre che troppo precoci”. 69 Cf. Apul. Met. 5.31. 70 Apul. Met. 5.30. perché di tutto questo tuo armamentario non c’è nulla che ti sia venuto dalle cose di tuo padre. Per quanto, in preda ad eccessi d’ira, non esiti a minacciare Amore e sembri quasi disprezzarlo 66 , numerosi dettagli tradiscono in realtà l’affezione che prova nei suoi confronti, nonché la natura profondamente materna delle sue preoccupa‐ zioni, grossomodo riconducibili ad una: Eros è un ingenuo adolescente 67 , troppo giovane per pensare ai piaceri del corpo 68 . Paradossalmente, si innesca un role-playing in cui il tabù erotico è riversato direttamente sul signore del sesso. A nulla valgono le parole di Cerere e di Giunone che, nel tentativo di ricondurre il dio alle sue aree di influenza, riescono solo ad indisporre ulteriormente la congiunta 69 . Non c’è niente da fare: il sagittarius praeclarus per sua madre è un’anima innocente, un educando che deve essere salvaguardato dalle tentazioni della carne. Tale auto-convincimento è così intenso da spingere Cipride a forgiarsi una nuova immagine di lui: a momenti sembra averlo espurgato, come un monaco fa con i suoi codici. Peccato sia poi lei, lo abbiamo visto, la prima a rivolgergli attenzioni inopinatamente seduttive. Comunque vada, nel monde à l’envers romanzesco tutto è lecito - non è più il fanciullo a desiderare la madre, ma la madre a sedurre il fanciullo - e anche il conflitto edipico può essere stravolto senza che il lettore se ne debba preoccupare. Le minacciose parole della dea, tuttavia, racchiudono parimenti con incredi‐ bile dolcezza uno spaccato domestico in cui il tempo si cristallizza, facendo emergere la dimensione di una maternità che, tra i lampi di livore, fa risplendere sul filius tutto il bagliore del suo affetto 70 : Tunc iniuriae meae litatum crediderim cum eius comas quas istis minibus meis subinde aureo nitore perstrinxi deraserit, pinnas quas meo gremio nectarei fontis infeci praetotonderit. Quando gli avrà rasato a zero quei capelli che tante volte con le mie stesse mani gli ho pettinato facendoli risplendere come oro, e 164 Pietro Vesentin <?page no="165"?> 71 Cf. Apul. Met. 5.29 Ut primum quidem tuae parentis immo dominae praecepta cal‐ cares, “Prima calpesti gli ordini di tua madre, anzi della tua padrona”. 72 Questo tema emerge con frequenza: cf. Apul. Met. 5.28, 6.9, 6.23. 73 Apul. Met. 5.30. 74 Non è casuale che le ancelle della dea, Sollicitudo e Tristities, mai personificate nella letteratura precedente, portino il nome dei patemi d’amore, vd. GCA 2004, pp. 426-427; M A Y 2006, pp. 230-232. Il carro è trascinato dai passeri, associati ad Afrodite perché ritenuti uccelli lussuriosi: cf. Sapph. fr. 1.10, e vd. GCA 2004, p. 405. La lascivia è da imputarsi, però, alla loro estrema caducità, poiché, secondo le fonti antiche (cf. Plin. Nat. 10.107) essi muoiono quasi subito. Viene dunque da domandarsi se si possano considerare allegoria degli amori fugaci che ardono rapidamente e velocemente si consumano. 75 Cf. Apul. Met. 6.6. gli avrà tagliato quelle ali che ho imbevuto di nettare tenendole nel mio grembo, solo allora mi sembrerà di aver avuto soddisfazione per l’offesa che ho ricevuto. Sdegnando ogni invito a farsi da parte, a lasciare che Eros viva la sua vita, Venere si conferma risolutamente ostinata a tenerlo legato a sé, come farebbe con un servo di sua proprietà 71 . Allo stesso modo teme per l’immagine della famiglia, poiché accogliere Psiche significherebbe legittimare delle nozze tra categorie sociali diseguali e diventare nonna di un bastardo 72 . Al di là del gioco delle apparenze, risolto sapientemente dal padre del cielo che, alla fine della storia, fa ascendere la fanciulla al rango sublime, il suo rifiuto nei confronti della nuora è carico di sottintesi. Crudele ed iraconda, non più giovane e minacciata nell’esercizio della propria professione, Afrodite non è che una mater appassita nella solitudine 73 . Et quasi viduam utique contemnis nec vitricum tuum fortissimum illum maximumque bellatorem metuis. Quidni? cui saepius in angorem mei paelicatus puellas propinare consuesti. E a quanto pare mi disprezzi come se fossi una donna sola, non hai neanche paura del tuo patrigno, quel guerriero fortissimo e poten‐ tissimo! E perché dovresti, visto che hai sempre avuto l’abitudine di procurargli delle ragazze, per farmi soffrire coi suoi tradimenti! Non mancano nel testo passaggi in cui traspare questa sua infelice condizione: né referenti simbolici che ad essa rimandano 74 , come il cocchio di Vulcano, vestigio di un matrimonio fallito perso negli abissi del tempo 75 . Rinunciare ad Eros, pertanto, significherebbe lasciar andare uno dei pochi affetti vicini, riflettere sulla vita vissuta e trascorsa, sui tradimenti degli amanti, 165 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="166"?> 76 Cf. Apul. Met. 5.30, e vd. supra. 77 Cf. Apul. Met. 5.30 Parricida denudas cotidie et percussisti saepius, “Tu, pezzo d’assassino, mi metti a nudo ogni giorno e più e più volte mi hai trafitto”. Il termine parricida occorre anche nelle invettive di Plaut. Pseud. 361. Sull’analogia tra i passi vd. anche GCA 2004, p. 341. 78 Alludo alla iunctura «osculis hiantibus» in Apul. Met. 4.31, attestata anche in Plaut. Merc. 183. Sul passo vd. GCA 2004, pp. 70-71. Nel corso della fabula, tra l’altro, la stessa Venere arriva ad auto-definirsi lena: Apul. Met. 5.28 lenam me putavit, “Mi ha preso per una ruffiana”. 79 Celebre è la massima messa in bocca a Lachete in Ter. Hec. 201 Itaque adeo uno animo omnes socrus oderunt nurus, “E così, di comune accordo, tutte le suocere odiano profondamente le nuore e viceversa” [trad. T E D E S C H I 2010]. 80 Vd. M A Y 2006, p. 235, e vd. supra. 81 Vd. F I O R E N C I S , G I A N O T T I 1990, pp. 71-114. 82 In relazione a questa forma drammatica vd. C I C U 1988. 83 Vd. K E U L E N 2000, p. 65. sulla solitudine della vecchiaia. Ed è proprio la solitudo a fornire la chiave per comprendere fino in fondo la gelosia di Venere-madre: un’emozione che Apuleio riesce a caricare di intensità tragica senza sottrarvi credibilità. L’influenza del mondo teatrale, ben lungi dall’essere attenuata, offre al sentimento molti dei suoi colori: c’è Medea disperata 76 che inveisce 77 e la lena plautina che bacia 78 , c’è il macro-tema terenziano dell’odio tra suocera e nuora 79 , vi sono tutte quelle esagerazioni comiche che rimandano al paradigma della madre ultra-protettiva. C’è qualcosa della tragedia personale di ogni vacua mulier romana e qualcosa della figura antropologica della matrona, crudele con i servi e formidabile nel gestire le clientele familiari 80 . L’orizzonte squisitamente umano in cui vengono trascinati gli dei, immortalati nelle loro beghe tra parrocchiani, la desacralizzazione del mito filtrata attraverso le esperienze e i dolori della vita quotidiana, il profilo psicologico dell’antagonista, mai comunque interamente appiattita su un tipo senza corpo né volume, costituiscono infine l’accordo di coda del profumo drammatico e rievocano i toni borghesi ora della commedia di mezzo, ora della commedia nuova. 3. Appendice. E il mimo dov’è? 3.1. Uno strappo nel cielo di carta: Venere sull’Ida in Apul. Met. 10.31-32 Lo studio dei processi di teatralizzazione nel decimo libro delle Metamorfosi, definito non a caso liber de spectaculis, esigerebbe un contributo a parte; lavoro a cui altri, con grande finezza, hanno già pensato 81 . Le stesse influenze esercitate dal mimo 82 sulla novella della matrigna avvelenatrice (Apul. Met. 10.2-12), sulla fabula di Amore e Psiche 83 e, in generale, sulla prosa apuleiana, necessiterebbero 166 Pietro Vesentin <?page no="167"?> 84 Per gli elementi teatrali in questa digressione e, in generale, nel decimo libro: vd. M A Y 2003, pp. 269-306. 85 Sul rapporto tra mimo di età imperiale e romanzo apuleiano con un’analisi puntuale di Metamorfosi 10.29-34: vd. F I N K E L P E A R L 1991, pp. 221-236. 86 Apul. Met. 10.31. di un approfondimento che eccede le possibilità di questo testo nonché le forze di chi lo scrive. Non affronterò, nemmeno per sommi capi, l’ultima milesia dell’opera, quella della donna condannata ad bestias  84 , né mi dilungherò nell’analizzare lo spettacolo del monte Ida 85 che alla sua cruenta punizione fa da preludio. Al centro del mio interesse si riconferma la sola figura di Venere per come appare connotata nel segmento di microscopica estensione interno al pantomimo offerto dai capitoli 31 e 32 del libro. In relazione all’inquadratura generale dell’episodio basti quanto segue: Lucio, quasi al termine della sua avventura, messo a parte dell’ennesima vicenda orrorifica, scopre che una catena di sangue è stata perpetrata nei pressi di Corinto da una terribile assassina (Apul. Met. 10.23-28). Riconosciuta colpevole e mandata a morte dal magistrato, ella è destinata a venire ammazzata dalle belve feroci nel corso di uno spettacolo pubblico. Durante quella stessa macabra festa, l’infelice asino sarà chiamato a giacere con lei, rischiando di finire dilaniato a sua volta. Sebbene il munus sia suddiviso in tre momenti, il terzo, quello dell’esecuzione, non avrà mai luogo perché il protagonista, alla fine, riesce a fuggire. Prima calcano il palco i fanciulli danzanti, fa poi la sua comparsa sotto gli occhi degli spettatori la riproduzione lignea del monte Ida, setting vero e proprio della messinscena mitologica. Dopo l’avvento di Giunone e Atena, Apuleio si concentra sulla figura di Venere 86 . Super has introcessit alia, visendo decore praepolens, gratia coloris ambrosei designans Venerem, quails fuit Venus, cum fuit virgo, nudo et intecto corpore perfectam formonsitatem professa, nisi quod tenui pallio bombycino inumbrabat spectabilem pubem. […] Ipse autem color deae diversus in speciem, corpus candidum, quod caelo demeat, amictus caeruleus, quod mari remeat. Subito dopo queste, fece la sua entrata un’altra, superiore alle altre per la sua bellezza spettacolare e che, con il fascino del suo divino incarnato, rappresentava Venere, ma Venere com’era nella sua prima giovinezza: completamente nuda e senza vesti, si mostrava in tutta la sua perfetta bellezza, fatta eccezione per un leggero velo di seta che nascondeva il bellissimo ventre. […] Anche i colori della dea 167 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="168"?> 87 Apul. Met. 10.32. contrastavano poi nell’aspetto: bianchissimo il suo corpo - com’è ciò che scende dal cielo -, azzurro il suo manto - come ciò che sale dal mare. A uscire non è, come accade nella bella fabella, una dea vecchia, fiaccata dalla gelosia e dai fumi della rabbia, ma una creatura fresca e incantevole, coperta da un unico, sottilissimo velo di seta: una Venus per come doveva essere. L’azzurro, il colore nel cui abbraccio si incontrano il cielo e il mare, non viene prescelto casualmente, perché è nel cromatismo simbolico che si cela il richiamo alla figura di Psiche: ella nasceva dal seme del cielo, riversato sulla terra e non nell’oceano, ed era bella e preziosa, poiché il suo temperamento uranio la rendeva intangibile nonostante camminasse tra le genti. A questo punto, la giovane attrice, protagonista indiscussa della masquerade, si mette a danzare davanti alla platea, tra le schiere delle Grazie e delle Ore 87 : Et velut nuptialis epulas obiturae dominae coruscis praelucebant fa‐ cibus. Et influunt innuptarum puellarum decorae suboles, hinc Gra‐ tiae gratissimae, inde Horae pulcherrimae, quae iaculis floris serti et soluti deam suam propitiantes scitissimum construxerant chorum, dominae voluptatum veris coma blandientes. Iam tibiae multiforabiles cantus Lydios dulciter consonant. Quibus spectatorum pectora suave mulcentibus, longe suavior Venus placide commoveri cunctantique lente vestigio et leniter fluctuante spinula et sensim adnutante capite coepit incedere mollique tibiarum sono delicatis respondere gestibus et nunc mite coniventibus nunc acre comminantibus gestire pupulis et nonnunquam saltare solis oculis. E con delle fiaccole scintillanti facevano luce alla loro padrona, come se si stesse recando ad un banchetto di nozze. Intanto si riversavano dentro anche leggiadre schiere di giovani vergini, da una parte le graziosissime Grazie, dall’altra le stupende Ore che, propiziandosi la dea con lanci di ghirlande o di semplici fiori, avevano formato un magnifico coro e deliziavano la signora di tutti i piaceri, offrendole la chioma fiorita della primavera. Già i flauti a tanti fori facevano risuonare melodie lidie, in una meravigliosa armonia. E, mentre questi con la loro dolcezza incantavano gli animi degli spettatori, più dolcemente ancora Venere prese a danzare in modo soave, e ad avanzare con passo lento e studiato, ondeggiando mollemente con la schiena e oscillando appena appena il capo, e ad assecondare 168 Pietro Vesentin <?page no="169"?> 88 Apul. Met. 6.24. il voluttuoso suono dei flauti con movimenti pieni di grazia, e ad accennare ora con gli occhi languidamente socchiusi, ora con sguardi penetranti e fieri, e c’erano dei momenti che pareva danzare soltanto con gli occhi. La casta fierezza dell’eroina su cui la figura dell’attrice pareva essersi esemplata nei primi momenti, è mandata irrimediabilmente in frantumi dalla danza provocante: i movimenti del capo e il languore dei suoi occhi suggeriscono certe squisite fantasie che con la dimensione della purezza celeste nulla hanno a che vedere. Nel ballo, del resto, pare rimodularsi la danza con cui Afrodite aveva chiuso la favola, tornando a riversare sul mondo tutto lo splendore del suo incanto nel momento in cui, ascesa al cielo, la fanciulla era divenuta altro da lei 88 : Horae rosis et ceteris floribus purpurabant omnia, Gratiae spargebant balsama, Musae quoque canora personabant. <Tunc> Apollo cantavit ad citharam, Venus suavi musicae superingressa formonsa saltavit, scaena sibi sic concinnata, ut Musae quidem chorum canerent, tibias inflaret Saturus, et Paniscus ad fistulam diceret. Le Ore coloravano tutto di rosso, con rose e altri fiori, le Grazie spargevano unguenti profumati e le Muse poi facevano risuonare le loro armonie. Poi Apollo cantò accompagnandosi con la cetra e Venere, entrando al ritmo di una musica dolcissima, danzò in tutta la sua bellezza, dopo essersi organizzata una scena in cui le Muse cantavano in coro, Satiro suonava il flauto e un piccolo Pan cantava al suono della zampogna. A questo punto il raffronto tra i due passi induce ad alcune considerazioni significative: la star del pantomimo entra in scena raccogliendo echi intratestuali dalla sequenza in cui viene introdotta la protagonista della novella; ben presto, però, il suo fare seduttivo porta al superamento dell’illusione mimetica che suggeriva un parallelo con lei e fa affiorare, piuttosto, l’imago di Venere. Non la dea sadica che accompagna la fanciulla nelle sue peripezie, ma la bellissima signora dell’amore che fa la sua comparsa l’attimo prima delle nozze. Il contesto, peraltro, pare riproporsi geometricamente: oltre al ballo, vi è il corteo mitologico costituito dalle Cariti e dalle Horai, e la cornice nuziale è evocata apertis verbis (et velut nuptialis epulas obiturae). Allo stesso tempo, nella novella di Amore e Psiche, Afrodite agiva come una teatrante, allestendo il palco per se stessa e per il 169 Il sangue e l’oro. Venere gelosa come dramatis persona nelle Metamorfosi di Apuleio <?page no="170"?> 89 Così Eros a tratti diventa un fanciullo ingenuo troppo giovane per i piaceri dell’am‐ plesso, così Psiche viene definita deformis ancilla in Apul. Met. 6.10. suo accompagnamento (scaena sibi sic concinnata). Il motivo mimico, insomma, funge da sutura e genera una frizione tra i due luoghi del testo, conchiudendo i passi in un’unica compagine: la pantomima integra la favola e, per così dire, la completa, aggiungendo un’ultima persona al trittico delle Veneri: dopo la dea e la mortale, l’attrice. Ed è proprio quest’ultima a spuntarla: brilla di un calore maliardo, ma è giovane e fresca. È la sosia in tutto e per tutto di quella domina terribile che regna sugli uomini e sulle bestie dall’alto dei cieli della tradizione mitica. Non è più tempo di divinità tragiche e leggendarie: che tocchi ad uno spettacolo smaliziato come la pantomima farsi collettore delle loro vicissitudini la dice lunga su quanto, nell’immaginario apuleiano, le figure tradizionali del pantheon siano ridotte a ologrammi patinati, non in grado di competere con i personaggi profondamente umani e intrisi di malinconia che popolano le sue pagine. 4. Conclusioni Per quanto lo scrittore nel corredo genetico della sua Venus intrecci i cromosomi delle eroine epico-tragiche, Afrodite è il prodotto dell’incorporazione di mate‐ riali drammatici ben più variegati, che si rivelano in cluster linguistici, tematici e situazionali appena l’indagine si apre ad una prospettiva di profondità. Al tempo stesso, egli non attinge mai in modo sterile e pedissequo alla voce dei padri, ma integra il suo repertorio con risorse immaginative che nascono in seno ad una lucida osservazione del mondo. Oltre la penna ‘cannibale’ che propone al suo lettore orientamenti letterari complessi, si nasconde il profilo più vivo dell’Apuleio pensatore, il fantasma di un uomo che fa del mondo e delle sue persone il terreno privilegiato di studio. Venere è una dea che ha smarrito la propria identità, ma anche una donna soggetta allo scorrere del tempo e una madre che non riesce a staccarsi dalla prole. È una figura la cui gelosia multiforme, scoprendosi poco a poco in uno schema intricato e indistricabile, porta all’affiorare di una dimensione patologica: distorce la realtà 89 , non accetta di invecchiare, si comporta seduttivamente col giovane figlio, cercando paradossalmente di sostituirsi a colei che tanto odia. Più che incorporare i generi teatrali - la commedia, la tragedia e il mimo - l’auctor li modella rifunzionalizzandoli alla creazione di un personaggio intensamente umano, intimo, malato, incapace di provare empatia nei confronti 170 Pietro Vesentin <?page no="171"?> 90 Queste le parole destinate a Psiche in Apul. Met. 4.32. di chi, proprio come lui, in fin dei conti «piange il suo abbandono e la sua solitudine» 90 . È impossibile psicanalizzare il soggetto di una finzione, sarebbe come dia‐ logare con una statua, ma la grandezza di Apuleio sta in questo: fornisce allo studioso gli elementi per interrogarsi sui grandi temi che segnano la storia del pensiero fin dalle origini - il ruolo della donna, lo statuto costituzionalmente in crisi del divino - e, attraverso i personaggi che dispone sulla scena, riesce a far convergere l’attenzione del lettore sulle lacerazioni dell’identità e sulle ossessioni che colmano l’uomo del suo tempo. Lo fa, peraltro, con la raffinatezza incredibile di chi trascende il tempo e le latitudini, riuscendo a sostituire con il sangue l’oro che scorreva nelle vene di pietra degli eroi e delle eroine della letteratura passata. Bibliografia B E T A , P U C C I O 2019 S. Beta, F. Puccio, Il dono di Afrodite. L’eros nella letteratura e nel mito in Grecia e a Roma, Roma 2019. B R E S C I A 2021 G. Brescia, “La metamorfosi dell’ira. Teseo padre-matrigna nella Fedra di Seneca”, in M. De Poli (a cura di), Il teatro delle emozioni: l’ira, Padova 2021, pp. 319-338. B R U Z Z O N E 2017 A. Bruzzone, “L’ira di Venere in Apuleio e in Draconzio”, Maia 69, 3, 2017, pp. 583-595. B U S S I 2007 C. Bussi, “L’ira di Venere tra Stazio e Apuleio”, Acme 60, 2, 2007, pp. 281-294. C I C U 1988 L. Cicu, Problemi e strutture del mimo a Roma, Sassari 1988. C I C U 1992 L. Cicu, Donne petroniane. Personaggi femminili e tecniche di racconto nel Satyricon di Petronio, Sassari 1992. C I C U 1993 L. 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Text, Introduction and Commentary, edited by M. Zimmerman, S. Panayotakis, V. C. Hunink, W. H. Keulen, S. J. Harrison, Th. D. McCreight, B. Wesseling, D. van Mal-Maeder, Groningen 2004. GCA 2007 Apuleius Madaurensis Metamorphoses, Book I. Text, Introduction and Commentary, edited by W. H. Keulen, Groningen 2007. G R A V E R I N I , K E U L E N , B A R C H I E S I 2006 L. Graverini, W. Keulen, A. Barchiesi, Il romanzo antico. Forme, testi, problemi, Roma, 2006. G R A V E R I N I , N I C O L I N I 2019 L. Graverini, L. Nicolini, Apuleio. Metamorfosi, I: Libri I-III, Milano 2019. G U I D O R I Z Z I 2013 G. Guidorizzi (a cura di), Il mito greco, I: Gli dei, Milano 2013 5 . G U I D O R I Z Z I 2015 G. Guidorizzi, La trama segreta del mondo. La magia nell’antichità, Bologna 2015. H A R R I S O N 1998 S. Harrison, “Some Epic Structures in Cupid and Psyche”, in M. Zimmerman, V. C. Hunink, Th. D. McCreight, D. van Mal-Maeder, S. Panayotakis, V. Schmidt, B. 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Walsh, The Roman Novel, Cambridge 1970. 174 Pietro Vesentin <?page no="175"?> 1 “Chi se non il poeta meonio racconta di Venere e Marte incatenati, / dei loro corpi còlti in flagrante nel letto scandaloso? ”: cito da L E C H I 1993. 7. Dal mito alla scena. Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici Ilaria Ottria Abstract: The myth of Mars, Venus, and Vulcan became very popular during the Renaissance, both in the literature and in the visual arts. This article examines the presence of expressions related to love and jealousy in Lorenzo de’ Medici’s Furtum Veneris et Martis, a brief poem composed for a carnival or other public celebration in Florence. Moreover, the analysis aims to show the relationship between this text written in order to realize a play and the description of the adultery offered by Ovid in the Ars amatoria and in the Metamorphoses. Keywords: Furtum Veneris et Martis - Lorenzo de’ Medici - Ovid - adultery - jealousy. Quis nisi Maeonides Venerem Martemque ligatos narrat, in obsceno corpora prensa toro? Ov. Tr. 2.377-378 1 1. Introduzione La natura fluida e cangiante delle Metamorfosi di Ovidio, perpetuum carmen nel quale le vicende si susseguono l’una all’altra senza soluzione di continuità e la conclusione di un episodio è spesso legata all’inizio di quello successivo, non può fare a meno di attirare l’attenzione di ogni lettore. Nel suo saggio Gli indistinti confini, che funge da premessa all’edizione del poema curata da Piero Bernardini Marzolla e pubblicata da Einaudi nel 1979, Italo Calvino illustra così questo andamento strutturale dominato dall’accumulazione e dal dinamismo, in cui ogni entità è sottoposta alla legge del cambiamento e il principio del divenire <?page no="176"?> 2 Vd. C A L V I N O 1995, I, pp. 910-911. 3 Cito da R A M O U S 1992. Per un commento all’intero episodio vd. P E R U T E L L I , P A D U A N O , G A L A S S O 2000, pp. 923-925; B A R C H I E S I 2007, pp. 270-274. 4 Penso agli episodi di Aci, Polifemo e Galatea (Ov. Met. 13.738-897), Glauco, Scilla e Circe (Ov. Met. 13.898-968, 14.1-74) e Pico, Canente e Circe (Ov. Met. 14.312-440), sui quali si legga N A G L E 1988. 5 Vd. P I A N E Z Z O L A 1993, pp. 106-109 (testo), 329-333 (commento). Sul libro II dell’Ars si ricorra anche a J A N K A 1997; sulla sezione dedicata agli amori di Marte e Venere, vd. pp. 404-424. 6 Per una rassegna delle molteplici forme di ricezione di questo mito rinvio alla pagina di riferimento sul sito Iconos. Cattedra di Iconografia e Iconologia, Dipartimento di Storia dell’arte e spettacolo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma: http: / / www.iconos.it/ le-metamorfosi-di-ovidio/ libro-iv/ marte-venere-e-vulcano/ . 7 Tra i numerosi studi sul tema si vedano D E J O N G 1995; C I E R I V I A 1997; Z I E F E R 2010; C A P R E T T I 2015; D E J O N G 2020. prevale sempre sull’essere: «Le Metamorfosi sono il poema della rapidità: tutto deve succedersi a ritmo serrato, imporsi all’immaginazione, ogni immagine deve sovrapporsi a un’altra immagine, acquistare evidenza, dileguare» 2 . A questo perenne mutamento prospettico e ritmico si affianca, in certi casi, un sapiente gioco a incastro, nel quale alcuni personaggi diventano a loro volta narratori di altre storie; è quanto accade, per esempio, con le figlie di Minia che, rifiutandosi di partecipare ai riti sacri in onore di Bacco, trascorrono l’intera giornata dedicata a tali celebrazioni in casa, impegnate a lavorare al telaio e a raccontare favole mitiche. Si incontra qui il mito di Marte, Venere e Vulcano (Ov. Met. 4.167-189) 3 , una delle più note vicende del poema latino incentrate su un triangolo amoroso. Rispetto ad alcune favole presenti negli ultimi libri delle Metamorfosi, che hanno come protagonisti personaggi umani e divini e mettono in scena amori non corrisposti 4 , il mito in questione (narrato da Ovidio già in Ars 2.561-600) 5 si svolge interamente nel mondo divino e descrive un amore adultero, ossia il tradimento perpetrato da Venere e Marte ai danni di Vulcano, e la successiva vendetta di quest’ultimo nei confronti dei due amanti, legati al talamo ed esposti al biasimo di tutte le divinità dell’Olimpo. Trattato da una molteplicità di fonti classiche e destinato a incontrare una notevole fortuna letteraria (si ricordino, in merito alla poesia latina di età imperiale, il Pervigilium Veneris, ideato da un autore di identità ignota, e il Concubitus Martis et Veneris di Reposiano) 6 e artistica (specialmente tra XV e XVII secolo) 7 , tale episodio è il tema a cui si ispira il Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici (1449-1492), un frammento di 120 versi composto in età giovanile e relativo a una rappresentazione che sarebbe dovuta andare in scena all’interno di un carnevale o di qualche festa fiorentina. Nell’edizione in due volumi uscita per il cinquecentenario della morte dell’autore il Furtum fa parte, 176 Ilaria Ottria <?page no="177"?> 8 Vd. O R V I E T O 1992: il Furtum Veneris et Martis si trova alle pp. 845-852 del vol. 2. Sul Furtum segnalo anche R H O 1926, pp. 130-133; L I V A 2015. 9 Sulle sacre rappresentazioni, indagate già da M O L I N A R I 1961, si vedano almeno N E W ‐ B I G I N 1994; S T A L L I N I 2011. 10 Vd. C A S T O N 2012. Sul rapporto tra gelosia e letteratura rimando anche a P I Z Z O C A R O 1994 (su Venere e Marte si leggano in primo luogo le pp. 32-43); S I S S A 2015. non a caso, della sezione di testi a tema comico-realistico e/ o destinati a occasioni festive 8 . Esso è inoltre accostabile alla Fabula di Orfeo di Poliziano (redatta intorno al 1479-1480 in occasione di una festa nuziale celebrata a Mantova presso la corte dei Gonzaga), che innesta una trama di argomento mitologico, dunque profano, su una struttura simile a quella delle sacre rappresentazioni, genere teatrale assai diffuso nell’Italia quattrocentesca 9 . Nel Furtum, rimasto incompiuto, una sequenza di battute accompagna il dipanarsi della relazione tra Venere e Marte nelle sue varie tappe: la lieta complicità fra i due amanti, che si preparano a godere delle gioie del connubio, la condanna morale del Sole, che invita gli dèi ad assistere al tradimento e, infine, le lamentele di Vulcano, che minaccia vendetta contro la coppia di adulteri. Sebbene compaia in scena per ultimo, il dio fabbro è evocato più volte nei discorsi degli altri personaggi, e la sua forte gelosia verso la sposa, tanto bella quanto compiacente e propensa alle gioie dell’amore, serpeggia per l’intero testo. Come ha mostrato Ruth Caston 10 , il tema della gelosia è ricorrente nell’elegia d’amore latina, che annovera tra i suoi motivi topici i tradimenti veri o presunti della fanciulla amata dal poeta e i turbamenti che ne derivano. Quasi tutti i carmi di Properzio, Tibullo e Ovidio si fondano, infatti, sulla presunta esistenza di un triangolo amoroso, e questo fatto determina lo scenario ideale per il sorgere della gelosia. Basato anch’esso su un triangolo amoroso, il mito narrato nel Furtum presenta molti punti di contatto con il genere elegiaco, compresi il timore dell’infedeltà (con conseguente frustrazione dell’ideale dell’amor mutuus), il senso di vergogna, l’ostilità verso il rivale. Riservando particolare attenzione ai temi dell’adulterio e della gelosia, questo contributo si propone di mettere in luce le modalità attraverso cui l’autore assimila, rielaborandolo, il racconto degli amori di Venere e Marte proposto da Ovidio nell’Ars amatoria e nelle Metamorfosi. Tale analisi consentirà di trarre alcune considerazioni sull’approccio adottato da Lorenzo de’ Medici nei confronti dei modelli antichi e sui tratti distintivi di questo testo unico nel suo genere, la cui stesura precede di pochi decenni la composizione dei grandi rifacimenti in ottava rima delle Metamorfosi, dotati di un ruolo chiave 177 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="178"?> 11 Nella cospicua bibliografia sul recupero nel Rinascimento della letteratura classica, e soprattutto delle Metamorfosi, ricordo M O O G -G R Ü N E W A L D 1979; A N S E L M I , G U E R R A 2006; B U C C H I 2011. Restano poi imprescindibili G U T H M Ü L L E R 1981; G U T H M Ü L L E R 1997. nella produzione letteraria di quel secolo fortemente classicista che sarà il Cinquecento 11 . 2. Il gioco della seduzione, ovvero il potere dell’amore di vincere la guerra Mentre negli ipotesti classici l’episodio veniva presentato da un narratore esterno, ossia il poeta nel ruolo di praeceptor amoris nell’Ars amatoria e Leuconoe (variazione della Leucippe presente in altre fonti) nelle Metamorfosi, nel Furtum Veneris et Martis sono i protagonisti stessi a prendere la parola; la prima a espri‐ mersi è Venere, seguita nell’ordine da Marte, il Sole e Vulcano. Approfittando dell’assenza del legittimo consorte, la dea esorta il suo amante a raggiungerla prontamente nel talamo. Tale invito è preceduto da un’apostrofe indirizzata a varie divinità, a cui si chiede di mettere in atto accorgimenti vòlti a impedire che l’adulterio venga scoperto: Venere parla: Su, nymphe, hornate il glorioso monte di canti e balli et resonanti lire; fate di fior’ grillande alme alla fronte, ché mi par Marte, amico mio, sentire e dalla plaga lactea su nel cielo e visto ho la stella sua lieta apparire. 5 Spargete all’aura i crini avolti in velo e liete tutte nel fonte Acidalio gratiose vi lavate il volto e ‘l pelo. Le sacre Muse dal licor castalio 10 di dolci carmi piene invitarete; stendete drappi, hornate il ciel col palio. Bacco, Sileno mio liete acogliete, e se Cerer non è sdegnata ancora per Proserpina sua, la chiamerete. 15 Va’, Climen, nympha mia, dall’Aurora: digli che indugi alquanto il bel mactino; lieta col suo Titon facci dimora. Tu, Clitia, andrai nel bel monte Pachinno, tu nel Peloro, e tu nel Lilibeo: 20 178 Ilaria Ottria <?page no="179"?> guardate di Sicilia ogni confino, sì che Vulcano mio fabro flegreo cum Marte non mi truovi in adultèro, donde fabula sia poi d’ogni iddeo. Ascondi, Luna, il lucido emispero; 25 voi per le selve non latrate, o cani, sì che d’infamia non si scuopri il vero. Vien, lieta notte, e voi, profundi Mani, scurate l’ora; e tu, figliuol Cupido: mi do nelle tua braccia, in le tue mani. 30 Con le tue fiamme dolcie ardente rido: fa’ lume a Marte, mio sponso e signore, tu mi feristi, Amore, di te me fido. Marte, se obscure ancor ti paion l’ore, vienne al mio dolce ospitio, ch’io t’aspecto: Vulcano non v’è che ci disturbi amore. 35 Vien’, ch’io t’invito nuda in mezzo il lecto; non indugiar, che ‘l tempo passa e vola: coperto m’ho di fior’ vermigli il pecto. Vienne, Marte, vien’ via, vien’ ch’io son sola. 40 Togliete e lumi: el mio mai non lo spengo; non sia chi più mi parli una parola. Al principio, le esortazioni di Venere sembrano finalizzate ad accogliere l’arrivo di Marte con tutti gli onori come suggerisce, per esempio, l’invito rivolto alle ninfe a dare inizio a canti e danze nonché, dopo essersi fatte belle e aver chiamato a raccolta anche le Muse, a stendere drappi per ornare il cielo (vv. 1-3, 7-12). In seguito, però, si comprende che la maggiore preoccupazione di Venere è occultare il suo tradimento al consorte; pertanto, se l’Aurora, sposa di Titone, dovrà fare in modo che la notte duri il più possibile, così da prolungare le gioie dell’amore (vv. 16-18), altre divinità, fra cui la ninfa Clizia, sono incaricate di sorvegliare i confini della terra in cui si trova la fucina di Vulcano (la Sicilia), allo scopo di avvertire Venere di un suo improvviso ritorno (vv. 19-24). Analogamente, alla Luna spetta il compito di velare il luogo dove si consuma l’infedeltà, ai cani quello di non attirare l’attenzione con i loro latrati e ai Mani, le anime dei defunti, quello di garantire il loro favore (vv. 25-29). Venere non potrà, infine, fare a meno del supporto del suo «figliuol Cupido» in cui, anzi, ripone ogni fiducia, dal momento che proprio l’alato arciere è responsabile dell’innamoramento per il dio della guerra, avendola trafitta con i suoi temibili dardi (vv. 29-33). 179 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="180"?> 12 Vd. P E R U T E L L I , P A D U A N O , G A L A S S O 2000, p. 923. 13 Vd. P I Z Z O C A R O 1994, p. 34. Tutta la prima sezione dell’opera è quindi pervasa di riferimenti all’adulterio e alle terribili conseguenze che potrebbero derivarne. Malgrado Venere tenti in ogni modo di ridimensionare la gravità del suo agire attribuendo in parte la colpa all’intervento di Cupido e definendo Marte «mio sponso e signore» (v. 32), nel vano tentativo di equiparare la loro relazione a un’unione legittima, essa manifesta a più riprese il timore di essere sorpresa in flagrante adulterio e andare così incontro al pubblico ludibrio (si vedano, in particolare, il v. 24 «donde fabula sia poi d’ogni iddeo» e il v. 27 «sì che d’infamia non si scuopri il vero»). Alla base del suo timore vi è, con tutta probabilità, la forte gelosia di Vulcano, di cui la dea è perfettamente consapevole. Alla gelosia si unirebbe la perdita dell’onore, inevitabilmente connessa a ogni tradimento coniugale e già riscontrabile nella narrazione omerica della vicenda, proposta alla corte dei Feaci dall’aedo Demodoco in Od. 8.266-366. Riguardo a questo episodio, che «costituisce un unicum all’interno del poema omerico per il suo sfondo sessuale» 12 , Massimo Pizzocaro osserva: «La parola chiave, che connota l’azione di Afrodite verso il marito, è ἀτιμάζει (v. 309): Afrodite “disonora” Efesto perché preferisce a lui, zoppo, il perfetto Ares; ed esautora Efesto delle sue prerogative maritali» 13 . Conscia di tale situazione, Venere immagina nel Furtum quale sarebbe la reazione di Vulcano, nei confronti del quale sa di avere un obbligo di fedeltà (si noti il possessivo che rimanda al vincolo coniugale del v. 22 «Vulcano mio fabro flegreo»), e perciò esorta l’amante a raggiungerla al più presto, prima che il consorte torni a casa. Si tenga presente che la gravità dell’affronto è accresciuta dal fatto che l’adulterio si consumerebbe proprio nella dimora di Venere e Vulcano (v. 35 «vienne al mio dolce ospitio, ch’io t’aspecto»), vale a dire nel loro talamo (v. 37 «Vien’, ch’io t’invito nuda in mezzo il lecto»). L’insistenza sulla possibilità che la dea venga còlta sul fatto e sulla sua paura di diventare oggetto di dileggio consente di individuare alcuni punti di contatto con la narrazione ovidiana delle Metamorfosi (Ov. Met. 4.167-189): Desierat, mediumque fuit breve tempus, et orsa est dicere Leuconoe; vocem tenuere sorores. «Hunc quoque, siderea qui temperat omnia luce, cepit amor Solem: Solis referemus amores. Primus adulterium Veneris cum Marte putatur hic vidisse deus: videt hic deus omnia primus. Indoluit facto, Iunonigenaeque marito furta tori furtique locum monstravit. At illi 170 180 Ilaria Ottria <?page no="181"?> et mens et quod opus fabrilis dextra tenebat excidit. Extemplo graciles ex aere catenas retiaque et laqueos, quae lumina fallere possent, elimat; non illud opus tenuissima vincant stamina, non summo quae pendet aranea tigno: utque leves tactus momentaque parva sequantur, efficit et lecto circumdata collocat apte. Ut venere torum coniunx et adulter in unum, arte viri vinclisque nova ratione paratis in mediis ambo deprensi amplexibus haerent. Lemnius extemplo valvas patefecit eburnas admisitque deos: illi iacuere ligati turpiter, atque aliquis de dis non tristibus optat sic fieri turpis. Superi risere, diuque haec fuit in toto notissima fabula caelo». 175 180 185 Aveva terminato. Ci fu una breve pausa, poi cominciò Leuconoe a raccontare: le sorelle fecero silenzio. «Anche il Sole, che regola ogni cosa con la luce astrale, anche lui fu preso da amore: racconterò gli amori del Sole. Si pensa che questo dio fosse il primo a sapere dell’adulterio di Venere con Marte: è un dio che sa tutto per primo. S’indignò, e al marito, figlio di Giunone, rivelò il tradimento coniugale e il luogo del tradimento. A Vulcano cadde il cuore e dalle mani operose che lo stringevano cadde il suo lavoro. Senza perder tempo fabbrica ad arte catene di bronzo, reti e lacci così sottili da sfuggire alla vista: non c’era ordito, non c’era ragnatela appesa a una trave del soffitto che superasse quell’opera in trasparenza. E, disponendoli con maestria intorno al letto, fece in modo che scattassero al tocco più lieve e al minimo movimento. Quando la moglie e l’amante si unirono sul letto per amarsi, sorpresi dal marchingegno preparato con proprietà nuovissime dal marito, rimasero intrappolati nell’atto dell’amplesso. Il dio di Lemno allora spalancò di colpo la porta d’avorio e fece entrare gli dèi: i due giacevano avvinti in posa vergognosa, e qualcuno dei numi meno severo s’augurò di essere svergognato così. Scoppiarono a ridere gli dèi e in tutto il cielo questa storia passò di bocca in bocca per anni». Benché non si possa parlare di autentica filiazione di un brano dall’altro, vale la pena di rilevare almeno due elementi di affinità: la messa in risalto dell’infamia, assai temuta da Venere nel Furtum ed espressa nelle Metamorfosi tramite 181 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="182"?> 14 Cito da L E T O 1995. 15 P I Z Z O C A R O 1994, p. 42. 16 Vd. O R V I E T O 1992, II, pp. 718-720. l’accostamento dell’avverbio turpiter e dell’aggettivo turpis ai vv. 187-188, e la presenza, in entrambi i testi, del termine latino fabula in relazione al diffondersi della notizia dell’adulterio (Ov. Met. 4.189 haec fuit in toto notissima fabula caelo; Furtum 24 «donde fabula sia poi d’ogni iddeo»). Lo stesso termine compariva, peraltro, già nell’incipit dei racconti presenti nell’Ars (2.561-562 Fabula narratur toto notissima caelo, / Mulciberis capti Marsque Venusque dolis, “Si racconta una storia, ben nota in tutto il cielo, / di Venere e di Marte vittime delle astuzie di Vulcano”) e negli Amores (1.9.39-40 Mars quoque deprensus fabrilia vincula sensit; / notior in caelo fabula nulla fuit, “Preso in flagrante, Marte sperimentò le catene del fabbro / né esiste storia in cielo più famosa di questa”) 14 . Nell’Ars amatoria il poeta anticipa poi la conclusione dell’episodio, rovesciando i rapporti di forza tra i protagonisti; da artefici di un inganno, i due amanti diventano preda dell’astuzia del dio fabbro, pagando il fio delle loro colpe. Tale inganno dovrebbe riuscire a compensare, almeno in parte, la perdita dell’onore da parte di Vulcano, con conseguente aumento della sua gelosia e della sua brama di vendetta; tanto nell’epica omerica quanto nella letteratura successiva, infatti, «il tradimento amoroso implica nel tradito infamia, disonore sociale e desiderio di vendetta per l’ingiustizia subita» 15 . Lo spettro di una tremenda punizione non è sufficiente, tuttavia, a far desistere Venere dai suoi propositi. Nell’ultima sezione del suo discorso nel Furtum la dea ribadisce la disponibilità a incontrare Marte, e lo incita a cogliere l’occasione, resa propizia dall’assenza di Vulcano (si noti la triplice anafora dell’imperativo «vienne» ai vv. 35, 37 e 40). Tale invito trova legittimazione, oltre che nello stato d’animo trepidante della dea, ornatasi «di fior’ vermigli il pecto» (v. 39) mentre attende il suo amante, nel carattere breve ed effimero dell’esistenza e soprattutto della giovinezza, motivo per cui è necessario godere delle gioie dell’amore finché se ne ha la possibilità (v. 38 «non indugiar, che ‘l tempo passa e vola»). Questa allusione all’estrema fugacità della vita umana richiama alla memoria altri passaggi laurenziani, come l’esordio della Canzone VII («Chi tempo aspetta, assai tempo si strugge / e ‘l tempo non aspetta, ma via fugge») 16 , la famosa Canzona di Bacco, facente parte dei Canti carnascialeschi, e alcuni testi del Canzoniere (e.g. XXI, LVII e LX). La constatazione del rapido trascorrere del tempo e della caducità dei beni terreni determina l’invito a fruire il più possibile della giovinezza, come recita il ritornello della Canzona 182 Ilaria Ottria <?page no="183"?> 17 Vd. O R V I E T O 1992, II, pp. 799-804. di Bacco, divenuto quasi proverbiale: «Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia: / chi vuol esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza» 17 . La battuta di Venere è seguita dall’arrivo di Marte, che formula questo discorso: Venuto Marte, parla così: Non qual nimico alle tuo stanze vengo, Vener mia bella, ma sanza arme o dardo, ché contro ai colpi tua nulla arme tengo. 45 Altra cosa è vedere un lieto sguardo d’un amoroso lume, ovunque e’ vada, che spada o lancia o vexillo o stendardo. «Amor regge suo impero sanza spada»; coperto no, ma vuole il corpo nudo, dolce, contento a seguir quel che aggrada. 50 O dir, parlar, non dispietato o crudo, ma dolce in sé, qual di pietà s’accolga: e questa l’arme sia, la lancia e ‘l scudo. Intorno al col suo bianco treccia avolga, 55 degli ardenti amator’ dura catena e forte laccio che già mai si sciolga. Baciar la bocca e la fronte serena, e ‘ dua celesti lumi e ‘l bianco pecto, la lunga mano d’ogni bellezza piena! 60 Altra cosa è giacer nello aureo lecto con la sua dolcie amica e cantar carmi che affaticare il corpo a scudo e elmetto. Gustar quel fructo che può lieto farmi, ultimo fin d’un tramante dilecto! Tempo è d’amar, tempo è da spada et armi. 65 Dal punto di vista tematico, il ragionamento di Marte si fonda interamente sulla contrapposizione tra l’attività bellica e quella amorosa. Sin dai primi versi, il dio dichiara di essere completamente inerme di fronte alle tecniche seduttive di Venere; sebbene la pratica delle armi eserciti su di lui un’attrattiva innegabile, essa risulta di gran lunga inferiore alla possibilità di «vedere un lieto sguardo / d’un amoroso lume» (vv. 46-47). L’elogio della fruizione del piacere erotico trova riscontro, d’altro canto, nella tradizionale rappresentazione di Amore come dio privo di armi, ma nondimeno potentissimo, in grado di 183 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="184"?> 18 Qui e più avanti cito da C O N T I N I 1964. 19 In merito alla subordinazione di Marte nei confronti di Venere, si rammenti il precedente illustre di Lucr. 1.31-37 Nam tu sola potes tranquilla pace iuvare / mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors / armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se / reicit aeterno devictus vulnere amoris, / atque ita suspiciens tereti cervice reposta / pascit amore avidos inhians in te, dea, visus, / eque tuo pendet resupini spiritus ore, “Infatti tu sola puoi gratificare i mortali con una tranquilla pace, / poiché le crudeli azioni guerresche governa Marte / possente in armi, che spesso rovescia il capo nel tuo grembo, / vinto dall’eterna ferita d’amore, / e così mirandoti con il tornito collo reclino, / in te, o dea, sazia anelante d’amore gli avidi occhi, / e alla tua bocca è sospeso il respiro del dio supino”: cito da C O N T E , C A N A L I , D I O N I G I 2008. Marte appare totalmente abbandonato sul grembo di Venere e non ha più nulla della ferocia che suole caratterizzarlo in quanto dio della guerra; ne deriva una completa vittoria dell’amore e della forza generatrice della natura sulla distruzione provocata dalla guerra. Intorno alla notevole fortuna di questa immagine vd. P I A Z Z I 2011, pp. 34-38, 135-136. reggere «suo impero sanza spada» (v. 49). La nudità di Cupido, espressa da questa formula in cui risuona l’eco di Rvf CV 11 «Amor regge suo imperio senza spada» 18 , diventa riflesso sia dell’impossibilità di sottrarsi ai piaceri amorosi, sia dell’inevitabile svestizione che accompagna l’atto erotico; abbassata ogni difesa e deposte le vesti, l’amante ha il corpo «nudo, / dolce, contento a seguir quel che aggrada» (vv. 50-51). Al testo petrarchesco (in particolare a Rvf CV 7-8 «Un acto dolce honesto è gentil cosa / et in donna amorosa anchor m’aggrada») rimanda pure il ricorrere del motivo della dolcezza, che nel Furtum passa attraverso la triplice ripetizione dell’aggettivo «dolce», riferito nel v. 51 al corpo dell’amante, nel v. 53 al suo modo di esprimersi e nel v. 62 a Venere stessa, definita «dolcie amica». La pesante armatura indossata abitualmente dal dio della guerra cede il passo alle strategie della seduzione, «catena» in apparenza lieve, ma in sostanza non meno «dura» (v. 56) degli obblighi militari. Del resto, il potere dell’amore di vincere la guerra, ossia l’incapacità di Marte di sottrarsi alle lusinghe di Venere, a sua volta attratta da lui, era già individuabile in Ov. Ars 2.563-566 Mars pater insano Veneris turbatus amore / de duce terribili factus amator erat; / nec Venus oranti (neque enim dea mollior ulla est) / rustica Gradivo difficilisque fuit, “Il padre Marte, preso per Venere da folle amore, / da guerriero tremendo s’era fatto amante, / e Venere, che fra le dee è certo la più dolce, / alle preghiere del dio Gradivo non si mostrò difficile e villana” 19 . Nel poemetto laurenziano è Marte stesso a elogiare la bellezza di Venere, ponendo in risalto la notevole attrattiva dell’atto erotico, di certo più piacevole dei combattimenti in armi. Dal v. 64 «Gustar quel fructo che può lieto farmi», relativo alla fruizione del piacere amoroso, sembra quasi affiorare un’eco del peccato originale, veicolata dalle forme «gustar» e «fructo». Non si dimentichi, a tale proposito, la perifrasi dantesca con cui è designato Adamo in Par. 184 Ilaria Ottria <?page no="185"?> 20 Vd. C H I A V A C C I L E O N A R D I 1997, p. 894. Il testo della Commedia è citato da P E T R O C C H I 1994. 21 Riprendo qui alcuni punti dell’Introduzione di S I S S A 2015. XXXII 121-123: «colui che da sinistra le s’aggiusta / è ‘l padre per lo cui ardito gusto / l’umana specie tanto amaro gusta». «La forte contrapposizione tra i due gusti, l’uno dolce e l’altro amaro, - scrive Anna Maria Chiavacci Leonardi - propone ancora una volta il confronto tra quell’unico gesto e i lunghi secoli di dolore che ne seguirono» 20 . Questo rinvio all’immagine del peccato originale accentua nel Furtum l’idea di un piacere desiderato con ancora maggiore intensità proprio perché proibito, qual è appunto il connubio tra Venere e Marte; se è certo, quindi, che questo tipo di amore, proibito in quanto adulterino, implica equivoci, inganni e tradimenti, è altrettanto innegabile che senza eros non possono vivere né gli uomini né gli dèi. Essendo quasi sempre collegata all’amore, anche la gelosia è parte integrante dell’esistenza, e si traduce in uno stato d’animo di inquietudine, in cui si tradisce la fiducia nel proprio valore e si esalta, di contro, la superiorità del presunto rivale. Sebbene sia universale, come tutti i sentimenti, la gelosia tende a mutare le sue manifestazioni con il trascorrere dei tempi, in parallelo al modo di intendere l’idea di proprietà e all’amara presa di coscienza della mobilità del desiderio altrui 21 . 3. L’adulterio svelato, ovvero il trionfo del biasimo e della gelosia Come è noto, ogni sforzo compiuto dai due amanti divini per tenere nascosto il loro incontro si rivela inutile. Il Sole, che tutto vede, scopre l’adulterio e, illuminandoli con i suoi raggi mentre sono intenti ad amarsi sul talamo nuziale, svela quanto accaduto e fa sì che la coppia sia sottoposta al biasimo degli altri dèi. Nel Furtum non si dedica ampio spazio allo stratagemma realizzato da Vulcano per cogliere Venere e Marte in flagrante adulterio. La rete pressoché invisibile che imprigiona i due amanti non appena danno inizio all’amplesso è menzionata soltanto con un accenno (vv. 82-84) ma, trattandosi di un testo rimasto incompiuto, non si può escludere che in seguito l’autore avrebbe trattato diffusamente anche questo aspetto, che nelle fonti classiche rivestiva una posizione di primo piano. Tale ipotesi appare verosimile alla luce del fatto che l’opera, così come ci è pervenuta, si conclude con una battuta di Vulcano in cui il dio manifesta tutta la sua ira e promette una vendetta adeguata al torto subito. Prima, però, si incontra un discorso piuttosto esteso del Sole, che condanna aspramente il peccato commesso da Venere e Marte: Il Sole agli scuopre et parla: 185 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="186"?> Ingiuria è grande al lecto romper fede: non sia chi pecchi in dir «chi ‘l saprà mai? », ché il sol, le stelle, il ciel, la luna il vede. E tu che lieta col tuo Marte stai, 70 né pensi il ciel di tua colpa dispone: così spesso un gran gaudio torna in guai. Ogni lungo secreto ha suo stagione: chi troppo va tentando la fortuna, s’allide in qualche scoglio: è ben ragione. 75 Correte, o nymphe, a veder sol quest’una adulterata Venere impudica e ‘l traditor di Marte: o stelle! o luna! Giove, se non ti par troppa fatica, con Giunon tuo gelosa al furto viene: non pecchi alcun, se non vuol che si dica. 80 Vieni a veder, Mercurio, le catene acciò riporti in cielo di questo e quella, ché nul peccato mai fu sanza pene. Pluto, se inteso hai ancor questa novella, 85 con Proserpina tua lassa l’inferno, ascendi all’aura relucente e bella. Alme che hornate el bel paese etterno de’ campi elisi, al gran furto venite: convien si scuopra ogni secreto interno. 90 Glauco, Neptunno, Dori, Alpheo, corrite al tristo incesto, e Ino e Melicerta con le driade e’l gram padre d’Amphitrite; acciò che in terra, in mare e in ciel sie certa infamia tale d’una malvagia dea e grave stupro e inhonestate aperta. 95 Vulcan, vieni a vedere tua Citerea, come con Marte suo lieta si posa e rocta t’ha la fede e facta rea. Debbe al consortio tuo esser piatosa, 100 ad altri no. Ma gli è fatica e grave posser guardare una donna amorosa, ché, se la vuol, non fia chi mai la cave. Tu dormi forse, e se ‘l mio sono hai inteso, vieni a veder di lei l’opere prave. 105 Lascia Cicilia e’l tuo stato sospeso, ché patir tanta ingiuria honor t’è poco: 186 Ilaria Ottria <?page no="187"?> vendecta brama Iddio d’un core offeso. Dando voce a un atteggiamento di chiaro rimprovero nei confronti di qualsiasi tradimento coniugale, il Sole esprime l’impossibilità di tenere nascosto un adulterio, perché tutti gli astri del cielo vigilano sulle relazioni umane e divine, motivo per cui, presto o tardi, l’infedeltà diventa di dominio pubblico. Sono gli stessi concetti formulati da Ovidio in Ars 2.571-576: Sed bene concubitus primos celare solebant; plena verecundi culpa pudoris erat. Indicio Solis (quis Solem fallere possit? ) cognita Vulcano coniugis acta suae. Quam mala, Sol, exempla moves! Pete munus ab ipsa, 575 et tibi, si taceas, quod dare possit, habet. Ma all’inizio solevano tenere ben nascosti i loro incontri: la loro colpa era piena di riserbo e di pudore. Poi, su denuncia del Sole (chi può ingannare il Sole? ), fu appresa da Vulcano la condotta della sua consorte. Oh, Sole, che brutti esempi dai! La ricompensa chiedila a lei stessa: 575 certo ha qualcosa da dare pure a te, se mantieni il silenzio. Al senso di vergogna provato dai due amanti subentra un’ironica apostrofe rivolta all’artefice della delazione, cui si attribuisce la colpa di aver denunciato qualcosa di poco edificante. Tale apostrofe è seguita da un’allusione alla natura compiacente di Venere, sempre pronta a concedere i suoi favori. Nel frammento laurenziano, dopo aver sorpreso Marte e Venere in palese adulterio, il Sole chiama a raccolta gli dèi per farli assistere a quello spettacolo fuori dal comune. Si viene così a creare una situazione che ricorda, almeno in parte, quella prospettata dalle parole di Venere, ma è in realtà di segno opposto: mentre all’inizio dell’opera la dea si rivolgeva a tutte le divinità per ottenere il loro appoggio al fine di organizzare in totale segretezza la sua tresca amorosa, ora quelle divinità, che in certi casi sono le medesime (come attesta, per esempio, l’apostrofe alle ninfe del v. 76, che richiama quella del v. 1), diventeranno testimoni del suo disonore. Anche in questo passo si individua un ampio sfoggio di erudizione mitologica; accanto alle figure divine più note come Giove, Giunone e Mercurio (vv. 79-84) sono infatti citati personaggi minori, come gli dèi marini Glauco, Nettuno, Dori, Alfeo, Ino e Melicerte (vv. 91-93). Questi ultimi sono protagonisti di un episodio 187 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="188"?> 22 Vd. C A L V I N O 1995, I, p. 912. 23 Si ricordi che, oltre che in Ov. Met. 4.173-174, il termine furtum compare - sempre in riferimento agli amori di Venere e Marte - anche in Verg. Georg. 4.346 dulcia furta, glossato come adulteria nel commento di Poliziano, nonché in Ov. Met. 1.605-606 atque suus coniunx ubi sit circumspicit, ut quae / deprensi totiens iam nosset furta mariti, “e, ben conoscendo [scil. Giunone] le infedeltà del marito, sorpreso / tante volte in flagrante, si volse intorno a guardare dove fosse”; 2.422-424 Iuppiter, ut vidit fessam et custode vacantem: / ‘Hoc certe furtum coniunx mea nesciet’, inquit, / ‘aut si rescierit, sunt, o sunt iurgia tanti! ’, “Come Giove la vide così stanca e indifesa, si disse: / ‘Di questa tresca certo mia moglie non saprà nulla, / e anche se venisse a saperla, vale, vale bene una diatriba! ’”; 3.6-7 quis enim deprendere possit / furta Iovis? , “e chi potrebbe scoprire i sotterfugi / di Giove? ”. Sul termine furtum, vd. O R V I E T O 1992, II, p. 850 n. 80. ricordato in Ov. Met. 4.512-542: dopo l’uccisione del figlio Learco da parte del consorte Atamante, Ino (figlia del re di Tebe, Cadmo) si gettò in mare con l’altro figlio, Melicerte, e furono trasformati in due divinità marine chiamate rispettivamente Leucotea e Palemone. Si stabilisce, inoltre, una corrispondenza diretta tra il rimando al mito di Cerere e Proserpina (narrato in Ov. Met. 5.341- 571 e Fast. 4.417-620) presente nel discorso di Venere (vv. 14-15 «e se Cerer non è sdegnata ancora / per Proserpina sua, la chiamerete») e quello contenuto nelle parole del Sole, in cui si invita il re dell’oltretomba ad abbandonare insieme alla sposa il suo regno dominato dall’oscurità per recarsi in cielo e constatare di persona la veridicità di quanto appreso per sentito dire (vv. 85-87 «Pluto, se inteso hai ancor questa novella, / con Proserpina tua lassa l’inferno, ascendi all’aura relucente e bella»). Il Furtum si rivela dunque ricchissimo di riferimenti mitologici, quasi sempre relativi a episodi appartenenti alle Metamorfosi o, più in generale, all’immaginario poetico ovidiano. Questa rete così fitta di allusioni riproduce pienamente, benché su scala ridotta, una delle caratteristiche principali del capolavoro latino. Occorre qui ricordare nuovamente il saggio Gli indistinti confini di Calvino, in cui l’autore afferma: «Una legge di massima economia interna domina questo poema appa‐ rentemente votato al dispendio sfrenato. È l’economia propria della metamor‐ fosi, che vuole che le nuove forme recuperino quanto più è possibile i materiali delle vecchie» 22 . Tale propensione al riuso di materiali desunti da altri testi è confermata, nel poemetto quattrocentesco, dal recupero di tessere ovidiane inerenti al mito in questione; se è evidente che proprio su un distico delle Metamorfosi (4.173-174 Indoluit facto, Iunonigenaeque marito / furta tori furtique locum monstravit) 23 è modellato il titolo dell’opera, il quale reca in sé l’idea dell’‘amore furtivo’, si deve rilevare che allo stesso passo allude, nel discorso del Sole, la duplice occorrenza del termine «furto», ai vv. 80 e 89. Ai vv. 176-177 del libro IV delle Metamorfosi (Extemplo graciles ex aere catenas / retiaque et laqueos) 188 Ilaria Ottria <?page no="189"?> rimanda poi, con ogni probabilità, l’allusione alla catena fabbricata da Vulcano dei vv. 82-84 («Vieni a veder, Mercurio, le catene / acciò riporti in cielo di questo e quella, / ché nul peccato mai fu sanza pene»), in cui pare affermarsi una sorta di legge del contrappasso, secondo cui chi si macchia di qualche colpa non può rimanere impunito. L’ipotesto ovidiano di maggiore estensione circa il motivo della catena coincide, però, ancora una volta, con l’Ars (2.577-584): Mulciber obscuros lectum circaque superque disponit laqueos; lumina fallit opus. Fingit iter Lemnon; veniunt ad foedus amantes; impliciti laqueis nudus uterque iacent. 580 Convocat ille deos; praebent spectacula capti: vix lacrimas Venerem continuisse putant. Non vultus texisse suos, non denique possunt partibus obscenis opposuisse manus. Il Mulcibero dispone allora intorno e sopra il letto una rete nascosta, ben dissimulata ad arte. Poi finge un viaggio a Lemno. Vanno gli amanti al loro incontro. Impigliati nei lacci della rete giacciono entrambi nudi. 580 Vulcano convoca gli dèi: a dar spettacolo sono i prigionieri. A stento Venere - così si crede - tratteneva le lacrime; non possono nascondersi il volto, non possono neppure coprirsi con le mani le parti vergognose. All’elogio dell’astuzia di Vulcano si accompagna il profondo senso di vergogna provato dai due amanti, che trova espressione nel pianto di Venere. Tale vergogna rivela il biasimo morale di cui sono oggetto, quello stesso biasimo che emerge in più punti dal discorso del Sole nel Furtum tramite una serie di espressioni afferenti all’ambito del disonore e della fiducia tradita (v. 67 «In‐ giuria è grande al lecto romper fede»; vv. 76-77 «quest’una / adulterata Venere impudica»; vv. 91-92 «corrite / al tristo incesto»; vv. 95-96 «infamia tale d’una malvagia dea / e grave stupro e inhonestate aperta»; v. 99 «rocta t’ha la fede e facta rea»). Degna di nota è l’apostrofe a Vulcano dei vv. 97-99 («Vulcan, vieni a vedere tua Citerea, / come con Marte suo lieta si posa / e rocta t’ha la fede e facta rea»), in cui il Sole sembra voler far leva sulla gelosia del dio, ponendo in risalto l’offesa arrecatagli dalla “sua” sposa, che ha trasferito a un altro soggetto le prerogative e i diritti maritali che un tempo gli erano propri (si rilevi il ruolo chiave degli aggettivi possessivi nei sintagmi «tua Citerea» e «Marte suo»). Tale apostrofe si colloca quindi agli antipodi rispetto 189 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="190"?> 24 Vd. P I A N E Z Z O L A 1993, p. 333. 25 Vd. D E J O N G 2020, p. 114. a quella, rivolta al medesimo interlocutore, di Ars 2.589-592: Hoc tibi perfecto, Vulcane, quod ante tegebant, / liberius faciunt, et pudor omnis abest. / Saepe tamen demens stulte fecisse fateris, / teque ferunt artis paenituisse tuae, “Fatta dunque, Vulcano, questa bella azione, quello che prima tenevano nascosto, / ora lo fanno più liberamente, senza alcun pudore. / Ora, insensato, tu confessi spesso d’avere agito scioccamente / e sei pentito - dicono - della tua collera di allora”). Ovidio interviene nel mito in veste di praeceptor, giungendo a una conclusione opposta rispetto a quella del Furtum; in questa sezione dell’Ars, infatti, egli invita gli uomini ad assumere un atteggiamento tollerante nei confronti delle consorti, evitando di farsi dominare dalla gelosia e di abbandonarsi ad accessi d’ira, e proprio l’ira è «la molla del gesto disastroso di Vulcano e di ogni amante impulsivo» 24 . Nel Furtum la condanna dell’adulterio è invece espressa con chiarezza ai vv. 100-101 «Debbe al consortio tuo esser piatosa, / ad altri no», in cui si evidenzia come Venere debba essere accondiscendente soltanto in compagnia del legittimo sposo. L’opera laurenziana assume così una funzione prettamente didascalica nel proporre un exemplum vitandum di infedeltà, che autorizza una giusta punizione perché è stato leso gravemente l’onore di Vulcano, invitato a vendicarsi (v. 108 «vendecta brama Iddio d’un core offeso»). Vale infine la pena di sottolineare l’elevato numero di occorrenze del verbo «vedere», che ricorre ai vv. 76, 82, 97 e 105, in concomitanza con l’invito del Sole alle altre divinità a presentarsi il più rapidamente possibile. Tale insistenza sull’atto scopico ben si accorda con l’idea dell’adulterio di Venere e Marte come spettacolo, secondo quanto si leggeva già in Ars 2.581. Grazie ai suoi elementi costitutivi (gli splendidi corpi avvinti dei due amanti, la violazione del talamo, simbolo dell’unione coniugale, la singolarissima rete tessuta da Vulcano), il racconto degli amori di Venere e Marte assume quasi una connotazione figurativa. Proprio questa valenza ecfrastica è alla base della grande fortuna artistica ottenuta dal mito in età moderna, una fortuna che varca i confini della produzione pittorica, come spiega Jan de Jong: «Its popularity as a source for visual artists during the early modern centuries is evident from the large number of representations in paintings, prints, tapestries, majolica, and other media. In the 15 th and 16 th centuries the theme of Mars, Venus and Vulcan became so popular in the visual arts that it grew into a category in itself - or even into several categories» 25 . Dopo l’intervento del Sole, la parola non può che passare a Vulcano, il quale pronuncia l’ultima battuta del testo rimasta forse, essa stessa, incompiuta: 190 Ilaria Ottria <?page no="191"?> 26 Cito da P R I V I T E R A , H E U B E C K , L O S C A L Z O 2015. Vulcano loquitur: Non basta avermi il ciel da l’alto loco gittato in terra e da suo mensa privo e facto fabro e dio del caldo foco, 110 ché per più pena mia ciaschedun divo cerchi stratiarmi e dimostrar lor pruove; ma tanta ingiuria mai non la prescrivo. Io pure attendo affar sagitte a Giove 115 sudando intorno all’antica fucina, e Marte gode mie fatiche altrove. Venere, vener mia, spuma marina tu Marte adulter, pena pagherete, ché grave colpa vol gran disciplina. 120 Adirato per l’accaduto, il dio ricorda la condizione di inferiorità in cui si è sempre trovato a causa della sua deformità fisica, riecheggiata da Demodoco in Od. 8.306-311: ‘Ζεῦ πάτερ ἠδ᾽ ἄλλοι μάκαρες θεοὶ αἰὲν ἐόντες, / δεῦθ᾽, ἵνα ἔργα γελαστὰ καὶ οὐκ ἐπιεικτὰ ἴδησθε, / ὡς ἐμὲ χωλὸν ἐόντα Διὸς θυγάτηρ Ἀφροδίτη / αἰὲν ἀτιμάζει, φιλέει δ᾽ ἀίδηλον Ἄρηα, / οὕνεχ᾽ ὁ μὲν καλός τε καὶ ἀρτίπος, αὐτὰρ ἐγώ γε / ἠπεδανὸς γενόμην’ (“Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, / venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, / come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, / me che son zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, / perché lui è bello e veloce, mentre io / sono storpio”) 26 . L’ira dello sposo tradito, che contrappone alle sue fatiche quotidiane di fabbro i piaceri amorosi di cui fruisce il rivale, si tinge di gelosia nel momento in cui conferisce grande rilievo al torto subito, di gran lunga superiore alle precedenti offese. Si noti che il v. 114 («ma tanta ingiuria mai non la prescrivo») si pone in diretta continuità con i vv. 106-107 («Lascia Cicilia e’l tuo stato sospeso, / ché patir tanta ingiuria honor t’è poco»), come mostra il ricorso al termine «ingiuria», di cui si era già avvalso il Sole. Inoltre, Vulcano rivendica una sorta di possesso nei confronti della sua consorte legittima (v. 118: «Venere, vener mia»), su cui sente di conservare ancora qualche diritto. In questa battuta appaiono condensati tutti i motivi chiave legati alla gelosia, compresi lo stato emotivo di sconforto che coglie chi è vittima dell’affronto, la consapevolezza della superiorità del rivale e l’acceso desiderio di vendetta. Pur con alcune differenze, ritorna il valore conferito alla gelosia nel mondo classico, dalle fonti ovidiane ai poemi omerici, in cui - scrive Massimo Pizzocaro - sembrerebbe che «‘gelosia’ sia essenzialmente risentimento ed ira per i diritti coniugali […] 191 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="192"?> 27 Vd. P I Z Z O C A R O 1994, p. 43. 28 Vd. S A L V A D O R I , B A G G I O 2011, p. 79. 29 Vd. P E R U T E L L I , P A D U A N O , G A L A S S O 2000, p. 923. 30 Inoltre, esso viene frequentemente riprodotto dagli autori di incisioni a tema erotico del primo Cinquecento, come evidenzia B U C C H I 2011, pp. 244-245. 31 Vd. G O S T O L I 1986. 32 Vd. P A L M I S C I A N O 2012. 33 Sulla fase comico-burlesca e sulla brigata medicea, vd. R O C H O N 1963, pp. 88-99; C L O U L A S 1986, pp. 105-119; C A R R A I 1999. offesi da una relazione extra-coniugale, che si configura sempre anche come attentato ai rapporti di proprietà e di potere in vigore nell’οἶκος. Il fastidio per la sottrazione sul piano puramente sessuale viene rimosso dalla narrazione come non rilevante, ovvero non adeguato al livello etico-stilistico dell’epos, salvo a riemergere in primo piano in brani di carattere burlesco» 27 (qual è appunto il canto di Demodoco). 4. Conclusioni Sebbene il mito di Marte, Venere e Vulcano venga narrato da un alto numero di testi antichi (greci e latini), a costituire due fonti privilegiate sono senza dubbio le opere di Ovidio; a questo proposito, non va altresì dimenticato il ruolo di primo piano detenuto dalle figure di Marte e Venere nella propaganda augustea, in cui essi «diventano i progenitori dei Romani, garantendo due aspetti su cui si basa il saeculum aureum introdotto da Augusto, la virtus e la fecondità» 28 . Tale mito, che è considerato «una delle più note storie burlesche dell’anti‐ chità» 29 , e tra Medioevo e Rinascimento offre spesso lo spunto per digressioni licenziose 30 , appare particolarmente adatto a una riproposizione in chiave teatrale. Già la sua formulazione omerica aveva attirato l’attenzione dei critici antichi per la presenza di tratti spiccatamente satirici 31 , e pure in tempi recenti si è notato come il racconto degli amori di Ares e Afrodite proposto da Demodoco si ponga al crocevia tra la dimensione epica e quella drammatica 32 . In virtù di questa stretta contiguità (e continuità) tra mito e teatro, la scelta operata da Lorenzo de’ Medici non sorprende, anche in considerazione del fatto che il Furtum si inserisce nella fase a carattere comico-burlesco della sua produzione. Tale fase dura indicativamente sino al 1473 ed è riconducibile all’influsso esercitato da Luigi Pulci, che imprime all’ambiente mediceo quella tendenza alla letteratura burlesca, dall’impronta talora fortemente realistica, di cui lo stesso Magnifico fu per un certo periodo acceso sostenitore 33 . Alla luce di quanto emerso dall’analisi si può affermare che, malgrado i brani dell’Ars amatoria e delle Metamorfosi siano stati con ogni probabilità 192 Ilaria Ottria <?page no="193"?> 34 Vd. O R V I E T O 1992, II, p. 845. 35 Vd. B A R C H I E S I 2007, p. 271. 36 Mi riferisco essenzialmente a P A O L I 2017. presenti nell’immaginario di Lorenzo intento a comporre il Furtum, il rapporto che intercorre tra il testo quattrocentesco e quelli classici non si traduce semplicemente in una fedele riproposizione del modello. Come già rilevava Paolo Orvieto 34 , i due testi ovidiani hanno senz’altro fornito il materiale del poemetto, ma non vengono imitati passivamente, e l’autore riprende da essi soprattutto alcuni elementi, che si fondono agli aspetti caratteristici dell’opera, la cui trama è arricchita da innumerevoli riferimenti mitologici, citazioni dotte e figure retoriche (specialmente apostrofi, anafore e allitterazioni). Questo frammento ideato per la scena si trova dunque in perenne oscillazione tra serietà e parodia, ed è contraddistinto dal sapiente intreccio tra un compia‐ ciuto indugio (di matrice quasi novellistica) sulla materia erotica e la volontà di proporre agli spettatori e/ o lettori un exemplum morale. Si manifestano così due aspetti chiave degli ipotesti ovidiani. Come si è constatato, nell’Ars amatoria prevale un tono scherzoso, che ben si accorda con l’esortazione - rivolta agli uomini - a fingere di non vedere le eventuali infedeltà delle donne, onde evitare di fare la fine di Vulcano, designato in modo quasi beffardo come demens (2.591); dopo aver sorpreso Venere in dolce intimità con Marte, infatti, egli ottenne come unico effetto che i due si amassero liberamente, senza più nascondersi. Al contrario, il tratto che affiora maggiormente dalle Metamorfosi, anche in virtù della diversa identità della voce narrante (la seria Leuconoe, devota a Minerva), è la condanna dell’adulterio, veicolata da «un tono sostenuto e meno mondano […] rispetto alla versione “libertina” dell’Ars» 35 . A causa di tale mescolanza di aspetti seri e burleschi il Furtum di Lorenzo de’ Medici è accostabile a un’opera d’arte sostanzialmente coeva, forse di poco successiva: il dipinto Venere e Marte di Sandro Botticelli [Fig. 1], eseguito a tecnica mista su tavola negli anni 1483-1485 circa e attualmente conservato alla National Gallery di Londra. I due amanti sono dolcemente adagiati l’uno di fronte all’altra e, mentre il dio appare immerso nel sonno, la dea lo osserva con un’espressione enigmatica. A prima vista, la scena celerebbe un’allegoria del matrimonio, rinviando alla già citata vittoria dell’amore e della pace sulla barbarie e sulla guerra. Tuttavia, come è stato notato dalla critica più recente 36 , questa interpretazione neoplatonica sembra essere in conflitto con alcune varianti introdotte da Botticelli rispetto all’iconografia tradizionale del mito, che rendono il dipinto un unicum in relazione alle fonti sia figurative che letterarie. Spiega Marco Paoli: «Venere è interamente vestita e Marte è seminudo, Venere è sveglia e Marte è dormiente, i tradizionali eroti sono stati sostituiti da 193 Adulterio, seduzione e gelosia nel Furtum Veneris et Martis di Lorenzo de’ Medici <?page no="194"?> 37 Vd. P A O L I 2017, p. 5. 38 Vd. P A O L I 2017, p. 6. satirelli. Non è neppure certo che il rapporto amoroso sia stato consumato e che Marte si stia abbandonando al deliquio erotico, dato che Venere pare non si sia mai liberata delle vesti a giudicare dalla spilla che le salda al petto abito e trecce insieme. A ben vedere l’espressione della dea è di attesa, e il satirello soffia rumorosamente con la conchiglia nell’orecchio di Marte come intendesse richiamarlo al suo dovere di amante» 37 . Di conseguenza, «la scena di un’appassionata relazione adulterina - consacrata dal mito a partire da Omero che per primo narra la storia amorosa tra Marte e Venere, moglie di Vulcano - viene parodiata e declassata da Botticelli alla vicenda di un amante impotente o perlomeno indolente» 38 . Fig. 1: Sandro Botticelli, Venere e Marte (1483-1485), Londra, National Gallery. Dato che dietro alle figure di Marte e Venere si celano Giuliano de’ Medici e Simonetta Cattaneo, e che l’opera fu commissionata da un membro della famiglia Vespucci (come indicherebbero le vespe raffigurate nel margine destro del dipinto), appare verosimile che l’artista abbia assunto il celebre episodio come filtro per rappresentare in chiave parodica la relazione tra il fratello del Magnifico e la consorte di Marco Vespucci, dando così espressione al risentimento presumibilmente nutrito dalla famiglia Vespucci verso la sposa adultera. All’origine della realizzazione del dipinto si troverebbe quindi un’in‐ tentio satirica, che sottopone le solenni figure del mito a una rivisitazione burlesca; in modo non del tutto dissimile, il Furtum di Lorenzo trasforma la vicenda di Venere e Marte in una raffinata scena di seduzione amorosa, in cui 194 Ilaria Ottria <?page no="195"?> la condanna morale dell’adulterio convive con valenze marcatamente comiche e giocose. Bibliografia A N S E L M I , G U E R R A 2006 G. M. Anselmi, M. Guerra (a cura di), Le Metamorfosi di Ovidio nella letteratura tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 2006. B A R C H I E S I 2007 Ovidio, Metamorfosi, II: Libri III-IV, a cura di A. Barchiesi, testo critico basato sull’edizione oxoniense di R. Tarrant, traduzione di L. Koch, commento di A. Barchiesi, G. Rosati, Milano 2007. B U C C H I 2011 G. Bucchi, «Meraviglioso diletto». La traduzione poetica del Cinquecento e le Metamorfosi d’Ovidio di Giovanni Andrea dell’Anguillara, Pisa 2011. 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This paper focuses on the role of Cassandra, with the aim of determining how it was involved in the plot and when a consideration for Clytemnestra’s jealousy developed. A lexical analysis of Aesch. Ag. 1438-1447 shows that the jealousy-theme lies beneath the scene, but the betrayal is not the main charge against Agamemnon. Euripides’ approach is different: Cassandra is self-aware of her responsibility in causing Agamemnon’s ruin (e.g. Tr. 356-360) and Clytemnestra points to Agamemnon’s infidelity as one of the main reasons for killing him (El. 1032-1040). Clytemnestra’s jealousy also belonged to another mythical plot, namely Nauplios’ revenge on the Atreides, and this subject was probably familiar to the 5 th century tragedians. As a result of an increased focus on Clytemestra’s feelings, Lycophron combines all previous mythical accounts and defines her explicitly as ‘jealous’ (Alex. 1117). Keywords: Cassandra - Clytemnestra - jealousy - Aeschylus - Euripides. 1. Introduzione La vicenda dell’uccisione di Agamennone da parte di Clitemestra, sposa infedele, fa parte della tradizione mitica greca fin dai tempi più antichi. Le frequenti riproposizioni di questo tema nei documenti letterari mostrano l’esistenza di varianti in alcuni punti della trama, alcune di esse circolanti già in età arcaica. Questo contributo intende soffermarsi sul motivo della gelosia provata da Clitemestra nei confronti di Cassandra, con l’obiettivo di determinare da quando esso entri a far parte della vicenda e in quale modo sia sfruttato dai tragediografi del V secolo. <?page no="202"?> 1 Dato che si farà prevalentemente riferimento a testi del V secolo, il nome della moglie dell’Atride sarà sempre traslitterato per comodità come Clitemestra, ma è bene ricordare che il nome dell’eroina era conosciuto con almeno due varianti nell’antichità: Κλυταιμνήστρη (forma attestata in quasi tutti i manoscritti contenenti il testo dei poemi omerici e delle tragedie superstiti) e Κλυταιμήστρα (forma attestata nelle iscrizioni sui vasi del V secolo [vd. T H R E A T T E 1980, p. 569] e, per quanto riguarda la tradizione letteraria, unicamente nel codice Laurenziano Mediceo 32.9). Come dimostrato da F R A E N K E L 1950, II, p. 52, la forma comune nel V secolo era dunque Κλυταιμήστρα e gli editori dei testi drammatici, generalmente, stampano quindi in tutte le occorrenze la forma in -μήστρα. 2 Per questo tipo di argomentazione si vedano ad es. M A R C H 1987, pp. 84-85; D E J O N G 2001, pp. 287-289. 3 P R A G 1985, pp. 68-73, e D A N E K 1998, pp. 235-236, identificano due principali versioni del racconto che avrebbero dato origine alle altre, in una il solo responsabile sarebbe stato Egisto e nell’altra Clitemestra. 4 Ferecide era forse a conoscenza di questa versione del mito: uno scolio a Pindaro rileva infatti che, secondo Ferecide, Egisto aveva ucciso il figlio della nutrice di Oreste scambiandolo per quest’ultimo (fr. 201 Dolcetti = Schol. vet. Pind. Pyth 11, 25b, vol. II, p. 257, rr. 10-12 Drachmann). Si potrebbe quindi pensare a un ruolo esclusivo di Egisto (M A R C H 1987, p. 91), ma la notizia dello scoliaste è forse troppo succinta per suggerire questa conclusione. 2. Clitemestra e Cassandra nelle tradizioni mitiche anteriori al V secolo La morte di Agamennone è rievocata in numerose occasioni nel corso dell’O‐ dissea, principalmente con la funzione di instaurare un parallelo tra il nostos di Agamennone e quello di Odisseo, e, in alcuni casi, tra la figura della moglie fedele (Penelope) e quella infedele (Clitemestra) 1 . Le varie occorrenze in cui la storia è citata, però, mostrano al loro interno contraddizioni che non possono essere spiegate solo dalla volontà del poeta di enfatizzare questo parallelo o dalla sensibilità del personaggio che, nel poema, racconta la vicenda 2 . È più probabile che circolassero varianti mitiche di questo racconto, che si differenziavano su alcuni punti (poi ulteriormente sviluppati nella letteratura successiva): si tratta principalmente del coinvolgimento di Egisto nel delitto, delle circostanze in cui esso viene portato a termine e delle motivazioni che lo determinano. I tre aspetti appaiono strettamente legati e così, a partire dal ruolo svolto da Egisto, è possibile individuare le principali varianti del mito: in una Egisto è il solo ad agire, la seconda prevede una collaborazione di Clitemestra e infine la terza vede la donna come unica responsabile 3 . Della prima versione non si trovano tracce all’infuori di Omero 4 ; la seconda era contenuta nei Nostoi e nel Catalogo delle donne di Esiodo, oltre che nell’Elettra di Sofocle e nell’Elettra 202 Isabella Nova <?page no="203"?> 5 Procl. Chrest. 301-303 ἔπειτα Ἀγαμέμνονος ὑπὸ Αἰγίσθου καὶ Κλυταιμνήστρας ἀναιρεθέντος ὑπ᾿ Ὀρέστου καὶ Πυλάδου τιμωρία; Hes. fr 23a.28-30 M.-W.; Soph. El. 97-99; Eur. El. 9-10. L’esistenza di un racconto in cui Clitemestra e Egisto erano ugualmente coinvolti nell’uccisione è provata anche dalla raffigurazione su un pinax proveniente da Gortina (Creta, Hiraklion Mus., VII secolo a.C.): vd. D A V I E S 1969, pp. 228-238. 6 Il sogno di Clitemestra, contenuto in un frammento stesicoreo (fr. 180 Finglass = Plut. Mor. 555 a, 2-7), in cui appare Agamennone in forma di serpente, è stato interpretato come espressione del rimorso della donna per il delitto e si è quindi pensato ad una sua parte piuttosto rilevante in esso (P R A G 1985, p. 76). La funzione del sogno era, probabilmente, quella di spingere Clitemestra a tentare di placare l’ombra del marito, mandando Elettra a portare offerte alla sua tomba. Vd. M A R C H 1987, p. 91; D A V I E S , F I N G L A S S 2014, pp. 488-490 e 503-505. 7 Vd. M A R C H 1987, pp. 88-91; M A Z Z O L D I 2001, p. 64. 8 Hes. fr. 176.5-6 M.-W. ὣς δὲ Κλυταιμήστρη προλιποῦσ᾿ Ἀγαμέμνονα δῖον / Αἰγίσθῳ παρέλεκτο καὶ εἵλετο χείρον ἀκοίτιν. 9 Egisto è definito Θυεστιάδης già in Od. 4.518. I tragici insistono sulla maledizione della stirpe dei Pelopidi, che grava sui discendenti di Atreo e Tieste, e presentano il gesto di Egisto come una necessaria conseguenza. Cf. Soph. El. 505-515; Eur. El. 11-24. Anche in Aesch. Ag. 1577-1610 si riepilogano le ragioni dell’ostilità tra i due rami della famiglia, benché, come sottolinea anche il coro (vv. 1633-1635), Egisto non abbia avuto il coraggio di compiere il delitto in prima persona. 10 Per quanto riguarda Eschilo, vd. infra. Il sacrificio di una figlia di Agamennone e Clite‐ mestra (chiamata Ἰφιμήδη) era contenuto nel Catalogo delle donne attribuito a Esiodo (fr. 23a.17-24 M.-W.), ma il fatto non è indicato come movente dell’omicidio. Questa connessione, invece, era probabilmente stabilita nell’Orestea di Stesicoro (compare il nome della ragazza nel frr. 178 e 181a.25-27 Finglass). Vd. D A V I E S , F I N G L A S S 2014, pp. 489-490. di Euripide 5 ; della terza, prima che in Eschilo, si può trovare forse traccia in Stesicoro 6 e, con maggiore sicurezza, in Pindaro (Pyth. 11.17-19, vd. infra). Tralasciando, in questa sede, l’analisi delle circostanze in cui il delitto viene compiuto, si può notare che, parallelamente al ruolo di Egisto e Clitemestra, sembra cambiare in queste versioni anche il movente del delitto 7 : nella prima e nella seconda variante è messo in primo piano il tradimento di Clitemestra, ed è quindi la relazione amorosa che spinge Egisto, con o senza l’amante, a uccidere Agamennone. Nell’Odissea, infatti, viene dato spazio alla seduzione di Clitemestra (1.41, 3.265-272), e anche un passo del Catalogo delle donne  8 si concentra sullo stesso tema. Le trame tragiche si arricchiscono, poi, di ulteriori dettagli genealogici che giustificano l’ostilità tra Egisto e Agamennone 9 . Il coinvolgimento di Clitemestra, a sua volta, viene giustificato, oltre che dalla relazione con Egisto, anche dalla precedente uccisione di Ifigenia ad opera di Agamennone, avvenimento non menzionato nell’epica omerica, ma che godrà di una discreta attenzione presso i tragici 10 . 203 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="204"?> 11 La datazione di quest’ode è incerta: le due possibili date sono il 474 e il 454 a.C. (F I N G L A S S 2007, pp. 5-11). Nel secondo caso il testo sarebbe posteriore all’Orestea di quattro anni e quindi potrebbe essere stato da questa influenzato. È da sottolineare, però, che Pindaro si serve della versione spartana del mito degli Atridi (come specificato ai vv. 16 e 32), a conferma del fatto che il poeta non si sentiva vincolato alla tragedia eschilea -ammesso che la conoscesse (vd. F A R N E L L 1961, p. 227). 12 Per l’interpretazione di questo verso si veda A N G E L I B E R N A R D I N I 1995, p. 655. 13 Si tratta di rappresentazioni di età successiva alla rappresentazione delle tragedie: la coppa attribuita al pittore di Marlay (Ferrara Mus. Arch. T264, inv. 2.482, datato al 435-425 a.C.) e la coppa decorata a rilievo (Berlino, Staatl. Mus. 4996, proveniente da Tebe e datata al IV-III sec. a.C.), su cui vd. nota 15. 14 Pannello in bronzo, Atene Mus. Naz. 5.81.71 datato al 660-650 a.C. L’interpretazione relativa al mito degli Atridi è stata proposta per primo da B L E G E N 1939, pp. 415-418, ed è generalmente accettata. Vd. P R A G 1985, p. 58; M A Z Z O L D I 2001, pp. 81-82. L’esistenza di versioni mitiche alternative che si differenziavano essenzial‐ mente per il movente del delitto è confermata da un passo dell’undicesima Pitica di Pindaro (Pyth. 11.17-25) 11 . Nell’ode l’attenzione è tutta dedicata alla νηλὴς γυνά (v. 22) e sono presentate due possibilità per spiegare il suo gesto (che comprende l’uccisione sia di Agamennone sia di Cassandra): il sacrificio di Ifigenia in Aulide o la relazione con Egisto. Il poeta sembra propendere per la seconda motivazione (vv. 25-26 τὸ δὴ νέαις ἀλόχοις / ἔχθιστον ἀμπλάκιον καλύψαι τ᾽ ἀμάχανον) 12 , mostrando comunque di conoscere anche l’altra vari‐ ante. Il personaggio di Cassandra era sicuramente parte del nucleo più antico della vicenda, ma è difficile stabilire se avesse un ruolo di rilievo in tutte le varianti individuate. Nell’Odissea, la sua morte è menzionata solo nel libro XI, durante il racconto di Agamennone sulla sua stessa morte: οἰκτροτάτην δ᾽ ἤκουσα ὄπα Πριάμοιο θυγατρός, / Κασσάνδρης, τὴν κτεῖνε Κλυταιμνήστρη δολόμητις / ἀμφ᾽ ἐμοί (Od. 11.421-423). In questo resoconto la responsabilità del delitto è attribuita sia ad Egisto sia a Clitemestra (vv. 409-410 Αἴγισθος τεύξας θάνατόν τε μόρον τε / ἔκτα σὺν οὐλομένῃ ἀλόχῳ), ma l’uccisione di Cassandra è compiuta dalla sola Clitemestra. Non è sicuro, quindi, che Cassandra avesse una parte anche nella versione in cui è il solo Egisto che agisce, perché la sua morte sembrerebbe esclusivamente legata alla presenza di Clitemestra. L’impressione è confermata anche dalle rappresentazioni vascolari: l’episodio è scarsamente rappresentato, ma le poche occorrenze rimaste mostrano che la morte della profetessa è sempre opera di Clitemestra 13 . L’unica scena di età arcaica riferibile a questo mito è l’incisione su un pannello di bronzo, proveniente da Argo 14 , che mostra una donna nell’atto di attaccare con un pugnale la donna che le sta di fronte: in assenza di altri episodi conosciuti che trattino una vicenda simile, i personaggi sono stati identificati come Cassandra e Clitemestra. Se 204 Isabella Nova <?page no="205"?> 15 Una conferma della presenza di Cassandra nel poema deriva dalla raffigurazione con‐ tenuta su una coppa decorata a rilievo (vd. nota 13), che mostra Cassandra attaccata da Clitemestra, mentre Agamennone è disteso a terra, già colpito. Tutti i personaggi sono accompagnati da iscrizioni e una ulteriore notazione del pittore indica la fonte: [κατὰ τὸν ποιητὴν] Ἀ[γίαν] ἐκ [Νό]στων Ἀχ[αι]ῶν θάνατος Ἀγαμέμνονος. Vd. M A Z Z O L D I 2001, p. 83. 16 Alcuni ritengono comunque probabile che Stesicoro abbia trattato il tema della morte di Cassandra: vd. D A V R E U X 1942, pp. 20-21; P R A G 1985, p. 76. l’interpretazione è corretta, si avrebbe quindi un ulteriore riferimento alla tradizione su una partecipazione predominante di Clitemestra nel delitto e la conferma di una particolare attenzione allo scontro tra le due donne. Per il resto, non sono noti altri riferimenti letterari o iconografici anteriori al V secolo al legame di Cassandra con Agamennone e alla sua morte. Il personaggio non compare, infatti, nel riassunto di Proclo dei Nostoi anche se, forse, era presente nel poema 15 . È possibile, poi, che comparisse nell’Orestea di Stesicoro, ma i frammenti superstiti non offrono nessuna conferma 16 . 3. Clitemestra e Cassandra nell’Agamennone Nell’Agamennone di Eschilo, Cassandra è introdotta dall’Atride sulla scena come schiava di guerra (vv. 950-954) e anche le parole con cui viene invitata da Clitemestra a scendere dal carro ribadiscono la sua condizione (vv. 1035-1068). Il sacrificio di Ifigenia è più volte rievocato nel corso della tragedia (vv. 205-249, 1525-1530, 1555-1560) ed è indicato come motivazione principale dietro le azioni di Clitemestra (vv. 1431-1432 μὰ τὴν τέλειον τῆς ἐμῆς παιδὸς Δίκην, / Ἄτην Ἐρινύν θ᾽, αἷσι τόνδ᾽ ἔσφαξ᾽ ἐγώ; cf. anche i vv. 1412-1420). Nonostante ciò, dalle parole di Clitemestra dopo il delitto emerge la rivalità con Cassandra e il lessico usato sottolinea l’offesa ricevuta attraverso il tradi‐ mento (vv. 1438-1447): κεῖται γυναικὸς τῆσδ᾽ὁ λυμαντήριος, Χρυσηίδων μείλιγμα τῶν ὑπ᾽ Ἰλίῳ, ἥ τ᾽ αἰχμάλωτος ἥδε, καὶ τερασκόπος καὶ κοινόλεκτρος τοῦδε, θεσφατηλόγος πιστὴ ξύνευνος, ναυτίλων δὲ σελμάτων ἰστοτριβής. ἄτιμα δ᾽ οὐκ ἐπραξάτην. ὁ μὲν γὰρ οὕτως, ἡ δέ τοι κύκνου δίκην τὸν ὕστατον μέλψασα θανάσιμον γόον κεῖται, φιλήτωρ τοῦδ᾽, ἐμοὶ δ᾽ ἐπήγαγεν †εὐνῆς† παροψώνημα τῆς ἐμῆς χλιδῆς. 1440 1445 205 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="206"?> 17 Si è scelto di adottare il testo di W E S T 1991. I problemi testuali più rilevanti saranno affrontati nelle note seguenti. 18 L’aggettivo è poco usato: si trova, nelle Coefore, a proposito di Egisto (vv. 764-765 τῶνδε λυμαντήριον / οἴκων) e nel Prometeo (v. 991 δεσμὰ λυμαντήρια). Alcuni intendono λυμαντήριος come riferito principalmente all’introduzione in casa di una concubina (così si avrebbe una simmetria con l’uso del termine nelle Coefore: vd. F O L E Y 2001, p. 215; M E D D A 2017, p. 353), ma il confronto con il Prometeo e con il senso generale di questa radice e del verbo λυμαίνω suggerisce un significato meno specifico. Un analogo riferimento generico agli sbagli di Agamennone si trova nelle Coefore, quando Clitemestra, nel dialogo con Oreste, menziona le colpe del padre (v. 918 μὴ ἀλλ᾽ εἴφ᾽ ὁμοίως καὶ πατρὸς τοῦ σοῦ μάτας). 19 Appare però forzato vedere in questa espressione un’eco di Il. 1.113-115, in cui Agamennone dice di preferire Criseide a Clitemestra. 20 La forma è così attestata dai manoscritti e sono state avanzate varie ipotesi per spiegarla: si tratta forse di un insulto che allude agli amplessi durante il viaggio per mare (con ἱστός inteso come “albero della nave”, la traduzione può essere “che strofina l’albero sui banchi delle navi”, come traduce M E D D A 2017). In alternativa, se si considera ἱστός nel senso di “telaio”, il termine potrebbe avere il senso di “schiava da telaio”, ma rimane meno chiara la connessione con ναυτίλων δὲ σελμάτων. Data la difficoltà, alcuni editori (ad es. T H O M S O N 1938) stampano la correzione ἰσοτριβής (con il significato di “che logora insieme - ad Agamennone - i banchi delle navi”), criticata da F R A E N K E L 1950, III, Giace morto l’uomo che ha oltraggiato questa donna, la delizia delle Criseidi di Ilio, e con lui questa prigioniera, indovina e compagna del suo letto, la profetessa, fedele concubina, la schiava da telaio dei banchi delle navi. Non è immeritata la sorte che hanno subito. Lui così come ho detto; lei invece, la sua amante, giace dopo aver cantato come un cigno l’ultimo lamento di morte; e a me ha apportato in più un gradevole condimento del mio piacere. [trad. M E D D A 1995] Questi versi sono interessati da alcuni problemi testuali 17 e ulteriormente complicati dalla presenza di hapax, ma il senso è nel complesso chiaro. Agamennone è definito γυναικὸς τῆσδ᾽ ὁ λυμαντήριος, “violatore di questa donna” (evidentemente Clitemestra), con generico riferimento a tutti gli oltraggi compiuti da Agamennone, non solo quello di aver introdotto Cassandra 18 . A questa definizione si aggiunge quella, ironica, di Χρυσηίδων μείλιγμα, “delizia delle Criseidi”, con allusione agli altri tradimenti di Agamennone attraverso la menzione della concubina più famosa secondo la tradizione iliadica, Criseide 19 . I termini riservati a Cassandra non sono meno pungenti, e rimarcano sia le sue abilità profetiche (τερασκόπος e θεσφατηλόγος, hapax con intento forse denigratorio), sia la sua condizione di concubina (κοινόλεκτρος, ξύνευνος, ἰστοτριβής 20 ). Anche φιλήτωρ (v. 1446, hapax) ribadisce il concetto: il suffisso 206 Isabella Nova <?page no="207"?> pp. 680-683, ma difesa da altri (vd. W I N N I N G T O N -I N G R A M 1983, p. 110); per una rassegna di altre possibili interpretazioni si veda O ’D A L Y 1985, pp. 13-14. 21 Vd. M E D D A 2017, III, p. 357. 22 Diversamente A R D I Z Z O N I 1946, pp. 100-101, intende «non sono stati privati dell’ono‐ revole sorte che meritavano», sottolineando il legame di ἄτιμος con ἀτιμία. Per una discussione si veda M E D D A 2017, III, pp. 356-357. 23 S M Y T H 1929 traduce: «she has brought for my bed an added relish of delight». 24 Così intende M E D D A 2017, p. 365, che traduce: «a me ha apportato la delizia del loro letto che si aggiunge alla mia voluttà». Per questa interpretazione vd. anche L I V R E A 1978, pp. 509-513. La costruzione con due genitivi riferiti ad uno stesso sostantivo trova paralleli (M E D D A 2017, p. 365, menziona Aesch. Ag. 1242 τὴν μὲν Θυέστου δαῖτα παιδείων κρεῶν), ma nel caso in questione il senso è indubbiamente più oscuro. 25 Convincente l’analisi di A R D I Z Z O N I 1946, pp. 106-111, che propende per εὔνουν παροψώνημα. Anche F R A E N K E L 1950, III, pp. 686-687, risolve così la questione, consi‐ derando εὐνῆς come glossa di χλιδῆς poi penetrata nel testo. Vd. su questo problema anche M A Z Z O L D I 2001, p. 71 n. 183. -τωρ accentua forse la responsabilità di Cassandra nella seduzione 21 . L’espres‐ sione ἄτιμα δ᾽ οὐκ ἐπραξάτην (v. 1443), se intesa come “hanno subito una sorte non immeritata”, insisterebbe ancora su una colpa condivisa anche da Cassandra 22 . Interessante è, poi, la considerazione finale: la possibilità di uccidere il marito con l’amante, per Clitemestra, è un’aggiunta al suo piacere (Aesch. Ag. 1447 παροψώνημα τῆς ἐμῆς χλιδῆς). L’uso di παροψώνημα esprime efficacemente il tipo di piacere provato da Clitemestra: si tratta di uno hapax che può essere ricondotto alle forme παροψίς e παρόψημα (“portata aggiuntiva”, “condimento”, entrambi derivati dal termine ὄψον, “pietanza”) e nel contesto rende evidente il piacere di un capriccio aggiuntivo. Appare difficile, invece, l’interpretazione del termine εὐνῆς, che alcuni hanno tentato di difendere: se il riferimento è all’u‐ nione di Clitemestra e Egisto, si avrebbe la morte di Cassandra come aggiunta al piacere dell’adulterio di Clitemestra (“aggiunse un nuovo condimento al piacere del mio letto”, εὐνῆς dipendente da χλιδῆς) 23 ; se invece con εὐνῆς si intende il legame tra Agamennone e Cassandra, questa unione tra i due, anche nella morte, sarebbe un’aggiunta al piacere di Clitemestra (“condimento, consistente nella loro unione, che si aggiunge al mio piacere”, i due genitivi εὐνῆς e χλιδῆς dipendono entrambi da παροψώνημα, il primo con valore descrittivo, il secondo con funzione di genitivo oggettivo) 24 . In entrambe le soluzioni, il riferimento alle relazioni adultere sembra, però, fuori luogo rispetto al contesto ed è quindi preferibile considerare il testo corrotto e accogliere l’ipotesi che al suo posto si trovasse un aggettivo (εὔνουν, εὔρουν) concordato con παροψώνημα, con il senso complessivo di “benevolo condimento della mia voluttà” 25 . La χλιδή, in questo contesto, non sembra che possa essere la “lussuria dell’adulterio”, ma, 207 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="208"?> 26 Il termine può essere ricondotto a χλίω (“essere superbo” o “compiacersi”), vd. DELG, s.v. χλιαίνω. F R A E N K E L 1950, III, p. 358, in questa direzione, intende: «lust of revenge»; si vedano i paralleli citati da L I V R E A 1978. piuttosto, il “lusso” o la “gioia superba” di poter uccidere Agamennone (la gioia per l’omicidio compiuto era, peraltro, già stata espressa da Clitemestra nei vv. 1388-1393) 26 . Nel complesso, si vede come l’elemento della gelosia sia presente nelle parole di Clitemestra, senza però essere il motivo principale che la spinge a compiere il delitto. Questo aspetto, quindi, sembra essere frutto della riflessione di Eschilo sul personaggio di Clitemestra e non ancora parte di una affermata tradizione mitica. Oltretutto, il confronto con altre tragedie conferma che anche la stessa Cassandra non faceva parte di tutte le riproposizioni del mito. Sofocle, infatti, ignora del tutto questo personaggio nell’Elettra. Il delitto è presentato come compiuto dai due amanti insieme (vv. 97-99) e la responsabilità del delitto è attribuita in alcuni punti a Egisto (vv. 266-274), in altri a Clitemestra (vv. 124-126, 525-527). Il motivo per l’omicidio è unicamente il sacrificio di Ifigenia (vv. 528-551). 4. Clitemestra e Cassandra nelle tragedie di Euripide Al contrario della tradizione precedente, Euripide insiste maggiormente sulla caratterizzazione di Cassandra come amante di Agamennone e sulle consegu‐ enze che questa relazione avrà per entrambi. Nelle Troiane, Cassandra pronuncia un canto nuziale, per celebrare la sua unione con Agamennone Tr. 308-341), e nei versi successivi commenta la sua situazione affermando che proprio questa unione porterà l’Atride alla rovina (Tr. 356-360): εἰ γὰρ ἔστι Λοξίας, Ἑλένης γαμεῖ με δυσχερέστερον γάμον ὁ τῶν Ἀχαιῶν κλεινὸς Ἀγαμέμνων ἄναξ. κτενῶ γὰρ αὐτόν, κἀντιπορθήσω δόμους ποινὰς ἀδελφῶν καὶ πατρὸς λαβοῦσ᾽ ἐμοῦ 360 Se mai esiste il Lossia, con nozze più amare di quelle di Elena sposerà me l’illustre sovrano degli Achei, Agamennone. Lo ucci‐ derò, infatti, e devasterò a mia volta la sua casa, vendicando i fratelli e il padre mio. [trad. C E R B O 1998] 208 Isabella Nova <?page no="209"?> 27 S E A F O R D 1987, pp. 127-128, ritiene che l’immaginario del matrimonio sia evocato metaforicamente anche nell’Agamennone. La sua analisi di questi e altri passi tragici, comunque, mostra come quello del ‘matrimonio rovesciato’ sia un motivo tipico che allude ad una catastrofe imminente. 28 Il termine è impiegato, in attico, per indicare i parenti acquisiti con il matrimonio (sui termini che indicano parentela, vd. T H O M P S O N 1971, p. 110). Su questi versi e, in particolare, sulla situazione delle schiave di guerra scelte come concubine nelle tragedie euripidee, vd. S C O D E L 1998. Sull’efficacia dialettica di questa argomentazione di Ecuba, vd. K A S T E L Y 1993, pp. 1041-1042; B A T T E Z Z A T O 2018, p. 184. Lo stesso concetto è ribadito nei versi seguenti: τοὺς γὰρ ἐχθίστους ἐμοὶ / καὶ σοὶ γάμοισι τοῖς ἐμοῖς διαφθερῶ (vv. 404-405) 27 . Agamennone, invece, è descritto in preda alla passione amorosa (vv. 413-415 ὁ γὰρ μέγιστος τῶν Πανελλήνων ἄναξ, / Ἀτρέως φίλος παῖς, τῆσδ᾽ ἔρωτ᾽ ἐξαίρετον / μαινάδος ὑπέστη). Nell’Ecuba, la relazione tra Agamennone e Cassandra è pubblicamente nota e il coro vede in questa unione il motivo che spinge l’Atride a prendere le difese di Ecuba e a schierarsi contro il sacrificio di Polissena (vv. 120-122 ἦν δ᾽ ὁ τὸ μὲν σὸν σπεύδων ἀγαθὸν / τῆς μαντιπόλου Βάκχης ἀνέχων / λέκτρ᾽ Ἀγαμέμνων). Ecuba stessa, nel terzo episodio, invoca la protezione dell’Atride proprio sulla base della sua unione con Cassandra (vv. 825-835) e arriva a definire Polidoro come κηδεστής di Agamennone (vv. 834-835 τοῦτον καλῶς δρῶν ὄντα κηδεστὴν σέθεν / δράσεις) 28 . 4.1. Eur. El. 1032-1040 Nell’Elettra durante l’agone tragico tra Elettra e Clitemestra, il motivo della gelosia viene esplicitamente formulato. Clitemestra, nel tentativo di giustificare davanti alla figlia le ragioni del suo omicidio, spiega che non si è trattato solo di una vendetta per il sacrificio di Ifigenia, episodio che, per quanto grave, da solo non l’avrebbe spinta al delitto (vv. 1030-1031 ἐπὶ τοῖσδε τοίνυν καίπερ ἠδικημένη / οὐκ ἠγριώμην οὐδ᾽ ἂν ἔκτανον πόσιν). Decisivo, invece, è stato il tradimento del marito, indicato anche come causa della relazione tra Clitemestra ed Egisto (Eur. El. 1032-1040): ἀλλ᾽ ἦλθ᾽ ἔχων μοι μαινάδ᾽ ἔνθεον κόρην λέκτροις τ᾽ ἐπεισέφρηκε, καὶ νύμφα δύο ἐν τοῖσιν αὐτοῖς δώμασιν κατείχομεν. μῶρον μὲν οὖν γυναῖκες, οὐκ ἄλλως λέγω· ὅταν δ᾽, ὑπόντος τοῦδ᾽, ἁμαρτάνῃ πόσις τἄνδον παρώσας λέκτρα, μιμεῖσθαι θέλει γυνὴ τὸν ἄνδρα χἅτερον κτᾶσθαι φίλον. 1035 209 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="210"?> 29 Vd. le obiezioni di D E N N I S T O N 1939, pp. 177-178, e, più recentemente, D I S T I L O 2012, pp. 512-515. 30 D E N N I S T O N 1939, p. 177: «The excuse at 1035-40 is certainly not a good one»; C R O P P 1988, p. 172: «Cl.’s speech was intentionally equivocal about her adultery». Vd. anche F O L E Y 2002, sull’ambiguità del discorso di Clitemestra. κἄπειτ᾽ ἐν ἡμῖν ὁ ψόγος λαμπρύνεται, οἱ δ᾽ αἴτιοι τῶνδ᾽ οὐ κλύουσ᾽ ἄνδρες κακῶς. 1040 Ma Agamennone ritornò portandosi dietro una Menade folle e invasata, e l’infilò nel suo letto: e così vivevamo due mogli nella stessa casa. Si sa, le donne sono deboli, non lo nego: ammesso questo, se lo sposo pecca e disprezza il letto coniugale, la donna vuole imitarlo, e prendersi un altro come amico. E poi il biasimo si gonfia contro di noi, mentre i veri colpevoli, gli uomini, non sono neanche criticati. [trad. A L B I N I 1999] Cassandra, quindi, non è più presentata come schiava e bottino di guerra, ma come νύμφη, sullo stesso piano di Clitemestra. Oltre a questo slittamento, che mostra il maggiore rilievo accordato al personaggio di Cassandra e le implicazioni che la sua presenza determina per la moglie legittima, l’argomen‐ tazione di Clitemestra sembra rimandare ad una vicenda diversa da quella più nota. L’espressione νύμφα δύο / ἐν τοῖσιν αὐτοῖς δώμασιν κατείχομεν sembra alludere ad un periodo in cui le due donne si sono trovate nella stessa casa e, soprattutto, la formulazione ὅταν … ἁμαρτάνῃ πόσις / … μιμεῖσθαι θέλει γυνὴ suggerisce che il tradimento di Clitemestra sia avvenuto solo dopo la scoperta della relazione di Agamennone con Cassandra. Il discorso prosegue poi, nei versi seguenti (vv. 1041-1050), con un ritorno al tema del sacrificio della figlia, sviluppato tramite una reductio ad absurdum volta a confermare ulteriormente la posizione di Clitemestra (se Menelao fosse stato rapito, sarebbe stato giusto che Clitemestra uccidesse Oreste, per salvare il marito di sua sorella? ). A causa della stranezza di questa argomentazione, nel suo complesso, e del modo confuso con cui è raccontato il tradimento con Egisto (che introduce un’incongruenza nella sequenza temporale degli eventi, almeno rispetto alla tradizione eschilea), alcuni studiosi hanno dubitato dell’autenticità di questi versi e presentato ipotesi di espunzione, che, però, non hanno avuto seguito 29 . Scartata, così, la possibilità di intervenire sul testo, a molti la difesa pronunciata da Clitemestra è parsa comunque mal costruita, oppure volutamente confusa per poter essere più facilmente confutata da Elettra 30 . Al contrario, i sostenitori dell’efficacia di questo discorso hanno posto maggiore enfasi sul rovesciamento 210 Isabella Nova <?page no="211"?> 31 Vd. M A Z Z O L D I 2001, p. 76; D I S T I L O 2012, p. 518. 32 Per un’analisi di questi esempi di gelosia in tragedia, vd. S A N D E R S 2014, pp. 130-156. 33 Ad esempio Andoc. 4.14-15; Isae. 6.21. Vd. S A N D E R S 2014, pp. 156-166. 34 Questa è la posizione di M A Z Z O L D I 2001, pp. 89-90. 35 Vd. D A V R E U X 1942, p. 48. 36 Paus. 2.16.6; schol. vet. ad Od. 11.420 (p. 513, r. 17 Dindorf). della morale più comune (che tollerava più facilmente il tradimento maschile, rispetto a quello femminile), espresso soprattutto ai vv. 1039-1040 31 , ma non si è dedicata particolare attenzione al tema della gelosia formulato da Clitemestra. Questo sviluppo non sembra, in realtà, così forzato se si considera che si tratta di un motivo già ampiamente sfruttato in tragedia (oltre alla Medea, un parallelo più stringente di rivalità tra concubina e moglie legittima è presente nelle Trachinie di Sofocle e nell’Andromaca di Euripide) 32 . In particolare, la preoccupazione di Clitemestra per la presenza di due spose nella stessa casa (vv.1034-1035) trova uno stretto parallelo nelle parole di Deianira: τὸ δ᾽ αὖ ξυνοικεῖν τῇδ᾽ ὁμοῦ τίς ἂν γυνὴ / δύναιτο, κοινωνοῦσα τῶν αὐτῶν γάμων; (Soph. Tr. 545-546). Inoltre, nonostante le ben note limitazioni che la condizione femminile imponeva, il dissidio provocato dall’adulterio commesso dal marito (e dalla presenza di concubine) è trattato dagli oratori del V e IV secolo, a conferma del fatto che il problema suscitava interesse 33 . La presentazione euripidea di Clitemestra può quindi testimoniare una particolare attenzione per la condizione femminile e per fenomeni di rilievo sociale 34 , ma a questa sensibilità possono aggiungersi anche alcuni dettagli mitografici. 4.2. La gelosia negli inganni di Nauplio Come si è visto, Clitemestra dice di essersi trovata nella stessa casa con Cassandra e di aver tradito il marito dopo aver saputo della sua relazione con la schiava. Questa versione della storia non è attestata altrove e sembra essere un’invenzione euripidea, ma l’insistenza da parte del tragediografo sul ruolo di Cassandra e il riferimento al tema della gelosia possono derivare dalla conoscenza di una tradizione mitica effettivamente diversa 35 . Esistono infatti riferimenti a figli nati dall’unione tra Agamennone e Cassandra (Pelope e Teledamo secondo Pausania, il solo Teledemo secondo uno scolio all’Odissea  36 ) e, inoltre, il tema della gelosia di Clitemestra si lega strettamente ad un altro intreccio mitico, quello relativo alla vendetta di Nauplio nei confronti degli Atridi. Dopo la morte del figlio Palamede, Nauplio chiede invano una forma di compensazione agli Atridi; al loro rifiuto, quindi, medita una vendetta in due modi: attraversa tutte le regioni della Grecia per diffondere notizie sull’infedeltà 211 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="212"?> 37 Il racconto è ripreso anche da alcuni scoliasti: schol. vet. ad Lyc. Alex. 386b (p. 74, rr. 9-19 Leone); schol. vet. ad Eur. Or. 432 (vol. I, p. 147, r. 21-p. 148, r. 14 Schwartz) in cui manca la parte sul tradimento delle mogli. 38 Sui riferimenti a Palamede e a Nauplio nei poemi del ciclo, vd. S E V E R Y N S 1928, pp. 371- 376; per l’iconografia vd. W O O D F O R D 1994, pp. 164-167. 39 Eur. Hel. 766-767 τί σοι λέγοιμ᾽ ἂν τὰς ἐν Αἰγαίῳ φθορὰς / τὰ Ναυπλίου τ᾽ Εὐβοικὰ πυρπολήματα; Eur. Hel. 1126-1129 πολλοὺς δὲ πυρσεύσας / φλογερὸν σέλας ἀμφιρύταν / Εὔβοιαν εἷλ᾽ Ἀχαιῶν / μονόκωπος ἀνήρ. 40 Per la prima ipotesi vd. P E A R S O N 1917, pp. 80-83; R A D T 1999, pp. 353-355; per la seconda S O M M E R S T E I N 2010. 41 C O C K L E 1984, pp. 27-29. 42 Il naufragio causato da Nauplio è ricordato anche ai vv. 373-386 e 1217. Per un commento analitico sulla ripresa di questa vicenda da parte di Licofrone si veda D E B I A S I 2006. dei capi della spedizione a Troia, in modo che le mogli li tradiscano, e, quando la flotta achea si mette in viaggio per tornare, accende segnali di fuoco sugli scogli di Capo Cafereo, sulla costa meridionale dell’Eubea, per ingannare i marinai facendo credere loro che si tratti di un porto. Questa vicenda è attestata nella sua forma più completa solo da autori tardi ([Apollod.] Epit. 4.9-11; Hyg. Fab. 117, in cui lo stratagemma è attribuito al fratello di Palamede, Eace) 37 , ma sono noti vari titoli di tragedie, ora perdute, che dovevano trattare il tema (il Palamede di Eschilo, Nauplios Pyrkaeus e Nauplios Katapleon di Sofocle, il Palamede di Euripide). Anche le raffigurazioni vascolari mostrano che la vicenda di Palamede era nota nel V secolo 38 . C’è invece maggiore incertezza sugli stratagemmi messi in atto da Nauplio per vendicarsi. L’Elena di Euripide contiene, infatti, due riferimenti al naufragio provocato da Nauplio attraverso i segnali di fuoco ingannatori 39 , e il titolo Nauplios Pyrkaeus attribuito al dramma sofocleo potrebbe andare nella stessa direzione. Per il contenuto del Nauplios Katapleon sono state proposte due diverse ipotesi: può trattarsi di Nauplio “che salpa” verso le dimore dei capi dei Greci, oppure “che approda” a Troia, per chiedere giustizia per la morte del figlio 40 . La scoperta, relativamente recente, di un papiro (P.Oxy. 3652) contenente l’hypothesis del dramma (frammentaria) non è stata risolutiva, ma lascia aperta la possibilità che anche nel secondo caso si facesse riferimento, nella parte finale, alle vendette che il protagonista avrebbe messo in atto 41 . 4.3. Clitemestra δύσζηλος (Lyc. Alex. 1117) Ulteriori spunti possono essere forniti dal trattamento del mito nell’Alessandra di Licofrone. Nel poema ci sono infatti allusioni a entrambi gli espedienti di Nauplio, la diffusione di notizie per corrompere le mogli dei capi achei (vv. 1093-1095) e i falsi segnali di fuoco sulle rocce (vv. 1096-1099) 42 . Nei versi 212 Isabella Nova <?page no="213"?> 43 Od. 7.306-307 μή πως καὶ σοὶ θυμὸς ἐπισκύσσαιτο ἰδόντι· / δύσζηλοι γάρ τ᾽ εἰμὲν. Odisseo spiega ad Alcinoo che è stata Nausicaa ad invitarlo a seguirla, ma che lui avrebbe rifiutato per non farlo adirare. Il senso di δύσζηλοι potrebbe quindi essere quello di “facili all’ira” (considerando anche θυμός al verso precedente e l’espressione οὔ μοι … φίλον κῆρ / μαψιδίως κεχολῶσθαι della risposta di Alcinoo, vv. 309-310) o di ‘possessivi’ (S A N D E R S 2014, p. 48). Il termine sembra avere un significato analogo anche in Ap. Rh. 4.1089 λίην γὰρ δύσζηλοι ἑαῖς ἐπὶ παισὶ τοκῆες. Diversamente Chantraine (DELG, s.v. ζῆλος) intende «qui épreuve une mauvaise envie», ma non sembra che un significato simile sia adeguato al contesto. Le occorrenze plutarchee del termine possono indicare più chiaramente la gelosia: Olimpiade è definita come δυσζήλου καὶ βαρυθύμου γυναικός (Plut. Alex. 9); Rossane è gelosa di Stateira, seconda moglie di Alessandro Magno (Plut. Alex. 77 δυσζήλως δὲ ἔχουσα πρὸς τὴν Στάτειραν). Per l’uso di ζῆλος, vd. S A N D E R S 2014, pp. 46-49, e il contributo di Cerroni in questo volume. successivi, poi, viene narrata la morte di Agamennone e Cassandra e, proprio in relazione a quest’ultima, viene sottolineata la gelosia di Clitemestra (Alex. 1112-1119): ῥήξει πλατὺν τένοντα καὶ μετάφρενον, καὶ πᾶν λακίζουσ᾽ ἐν φοναῖς ψυχρὸν δέμας δράκαινα διψὰς κἀπιβᾶσ᾽ ἐπ᾽ αὐχένος πλήσει γέμοντα θυμὸν ἀγρίας χολῆς, ὡς κλεψίνυμφον κοὐ δορίκτητον γέρας δύσζηλος ἀστέμβακτα τιμωρουμένη. βοῶσα δ᾽ οὐ κλύοντα δεσπότην πόσιν θεύσω κατ᾽ ἴχνος ἠνεμωμένη πτεροῖς. 1115 Così quella serpe che provoca la sete mi spezzerà il grande tendine del collo e il dorso e dilaniando tutto il mio corpo freddo nella morte mi salirà sul collo con i piedi e sazierà il suo cuore straripante di rabbia incontenibile vendicandosi senza pietà, folle di gelosia, come se fossi una furtiva sposa, non bottino di lancia. Io chiamando a gran voce il mio signore, lo sposo che non sente, correrò dietro i suoi piedi a volo con il vento. [trad. G I G A N T E L A N Z A R A 2000] L’omicidio è narrato in maniera cruda e si enfatizza il sentimento che muove Cli‐ temestra, definito inizialmente γέμοντα θυμὸν ἀγρίας χολῆς e poi ulteriormente specificato come vendetta di una donna δύσζηλος. Il termine è usato, prima di Licofrone, solo in Od. 7.307, con un significato controverso, ma nell’occorrenza in questione il senso è chiaramente quello di “geloso” 43 . Viene specificato anche il motivo: Clitemestra uccide Cassandra perché la considera una “ladra di sposo” 213 Infedeltà e gelosia: variazioni sul personaggio di Clitemestra nelle tragedie del V secolo <?page no="214"?> 44 Sul termine, vd. P E L L E T T I E R I 2021, pp. 79-80. Lo studioso ricorda che già in tra‐ gedia i composti in -νυμφος hanno una connotazione negativa. Una forma simile, γυναικόκλωψ, è usata da Licofrone a proposito dei Proci (Alex. 771). 45 Vd. H U R S T 2008, p. 270; H O R N B L O W E R 2015, pp. 14-15. 46 Se si accetta l’identità tra il poeta tragico Licofrone e l’autore dell’Alessandra, può essere rilevante ricordare che allo stesso poeta era attribuita una tragedia dal titolo di Nauplio (TGrF I, 100 T 3). Per un’argomentazione a favore di questa identificazione, vd. D E B I A S I 2006, p. 122; H U R S T 2008, pp. xiii-xx. 47 D E B I A S I 2004, pp. 235-243, sostiene che la vendetta di Nauplio (con entrambi gli stratagemmi) fosse narrata nei Nostoi e che già in quel contesto essa fosse collocata poco prima della morte di Agamennone e Cassandra. Licofrone si sarebbe quindi ispirato direttamente al poema ciclico. (κλεψίνυμφον, hapax) 44 e non bottino di guerra. L’ambiguità della relazione tra Agamennone e Cassandra è espressa, successivamente, anche dall’accostamento δεσπότην πόσιν (v. 1118). L’attenzione, quindi, è tutta sul sentimento di gelosia, ma questo sembra determinante non tanto per l’uccisione di Agamennone, quanto per quella di Cassandra. Nel poema, come si è visto, le notizie sull’infedeltà di Agamennone erano state diffuse da Nauplio e la modalità di composizione dell’opera suggerisce che questa tradizione mitica fosse già nota in precedenza. L’ampiezza e la complessità dei riferimenti mitologici nell’Alessandra, infatti, suggeriscono chiaramente che l’autore abbia ripreso contenuti provenienti da vari generi letterari e, in particolare, per la parte relativa alla morte di Agamennone e Cassandra l’influsso tragico è facilmente individuabile, grazie anche ad alcuni paralleli lessicali 45 . Per la vicenda di Nauplio manca, in realtà, una certezza di questo tipo, ma dato che, come si è visto, il tema era affrontato nelle tragedie perdute menzionate sopra è probabile che questo intreccio sia confluito nel poema proprio per questa via 46 o che, in ogni caso, si trattasse di una tradizione mitica ben affermata 47 . Con ogni probabilità, dunque, anche Euripide conosceva questa vicenda. Nel passo dell’Elettra non viene ripreso l’intreccio delle notizie diffuse in anticipo, ma un riferimento così esplicito alla gelosia di Clitemestra sembra più facilmente inquadrabile alla luce dell’esistenza di una versione del racconto che lo contestualizzava più chiaramente. 5. Conclusioni La rassegna fin qui condotta mostra come la presenza di Cassandra nella vicenda della morte di Agamennone offra lo spunto per vari sviluppi, soprattutto nelle 214 Isabella Nova <?page no="215"?> trame tragiche del V secolo, inserendosi in una tradizione mitica già variegata, che offriva giustificazioni diverse per l’uccisione dell’Atride. Attraverso le riproposizioni di questo mito, si vede come il tema della gelosia sia presente, sullo sfondo, già nell’Agamennone di Eschilo, in cui si aggiunge agli altri motivi che hanno spinto Clitemestra al delitto. La situazione cambia con i drammi euripidei, sia attraverso la rievocazione di una Cassandra consapevole di essere la causa della rovina del suo ‘sposo’ (nelle Troiane), sia nella nuova presentazione di Clitemestra, alla quale il sacrificio della figlia Ifigenia non sembra più un motivo sufficiente per uccidere (nell’Elettra). In parallelo, la vicenda viene contestualizzata anche all’interno dei racconti sulle trame di Nauplio per provocare la rovina dei capi Achei e la gelosia provata da Clitemestra diventa motivo che la spinge a sua volta all’adulterio. Il risultato di questo processo di adattamento del mito si coglie in Licofrone, che, combinando i diversi aspetti, descrive la collera selvaggia di Clitemestra, che uccide proprio perché espressamente gelosa. Bibliografia A L B I N I 1999 U. Albini, Euripide. Ecuba, Elettra, traduzione di U. Albini, V. Faggi; introduzione di U. Albini; note di C. Bevegni, Milano 1999. A N G E L I B E R N A R D I N I 1995 Pindaro. Le Pitiche, a cura di P. Angeli Bernardini, E. Cingano, B. Gentili, P. Giannini, Milano 1995. A R D I Z Z O N I 1946 A. Ardizzoni, Studi eschilei, I: Agamennone, Catania 1946. B A T T E Z Z A T O 2018 L. Battezzato, Euripides. Hecuba, Cambridge 2018. B L E G E N 1939 C. W. 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Woodford, “Palamedes Seeks Revenge”, The Journal of Hellenic Studies 114, 1994, pp. 164-169. 218 Isabella Nova <?page no="219"?> 1 This research is co-financed by Greece and the European Union (European Social Fund- ESF) through the Operational Programme «Human Resources Development, Education and Lifelong Learning» in the context of the project “Reinforcement of Postdoctoral Researchers - 2 nd Cycle” (MIS-5033021), implemented by the State Scholarships Foundation (ΙΚΥ). 2 Konstan argues that this emotion did not exist in classical Greece. See K O N S T A N 2006, pp. 219-243. See contra S A N D E R S 2013; S A N D E R S 2014. 3 See S A N D E R S 2013, pp. 42-43, with more bibliography. 9. Heroines, Other Women, and Female Choruses: Performing ‘Sympathetic’ Sexual Jealousy in Ancient Greek Tragedy? 1 Vasiliki Kousoulini Abstract: In this paper, I examine whether the female choruses of Sophoc‐ les’ Women of Trachis and Euripides’ Medea, and Andromache are capable of sharing the emotion of sexual jealousy felt by the female protagonists. I examine the ways in which female choruses express this ‘sympathetic’ sexual jealousy and attempt to transfer it to the audience. More specifically, I explore the possibility that these female choruses express their ‘sympa‐ thetic’ sexual jealousy in the same way that any Greek tragic chorus expresses its emotions, that is, through their choreia. These female groups sympathize with the female characters and some of them attempt to perform their ‘sympathetic’ sexual jealousy by singing and dancing. In this way, the complex emotion of sexual jealousy that is supposed to be felt only by one person can effortlessly be transferred to the audience. Keywords: female choruses - sexual jealousy - Greek tragedy. 1. Introduction The psychological feeling of sexual jealousy is complex 2 and is generally considered a blend of simpler affects. These usually include eros, anger, envy, fear of (or grief at) loss, hostility, and phthonos for the rival 3 . Sexual jealousy <?page no="220"?> 4 The antecedent conditions of a sexual jealousy episode are three: 1) the person who experiences it believes that has an exclusive relationship with someone, 2) he/ she is in danger of losing that exclusivity or the entire relationship, 3) and has a rival for his/ her affection. See P A R R O T T 1991, pp. 15-16; N E U 1980, pp. 432-433; B E N -Z E ’ E V 2000, pp. 289-290. 5 I use the concept of emotional episodes or scenarios. The term prototypical emotional episode refers to a complex process that unfolds over time. This process begins when a person starts having cognitions - perceptions of, or thoughts about, a situation - and interpreters them. These are called antecedent conditions. See on this S H A R P S T E E N 1991, p. 37. These antecedent conditions arouse psychological and physiological feelings, the ‘emotion’ itself. See S A N D E R S 2013, p. 42. The next steps are, usually, an attempt at self-regulation of the emotion, then verbal expressions and/ or physical actions resulting from the emotion, and eventually resolution of the emotion. See E L S T E R 1999, pp. 244-283, and B E N -Z E ’ E V 2000, pp. 49-78. 6 See M C H A R D Y 2020, pp. 20-21. 7 See C A S T E L L A N I 1989; P A T T O N I 1989; H O S E 1990, pp. 17-20; F O L E Y 2003, pp. 20, 24; M A S T R O N A R D E 2010, p. 103; W E I S S 2018, p. 66; C A L A M E 2020, p. 782; K O U S O U L I N I 2020a. 8 See M A S T R O N A R D E 2010, pp. 103-104; C E R B O 2012, pp. 280-281; C H O N G -G O S S A R D 2013, p. 40. is manifested when three people are present: two currently or formerly in a sexual relationship and a newcomer 4 . In ancient Greek tragedy, a sexual jealousy scenario 5 often involves a hero in a relationship with a heroine and a new woman brought into the oikos. Sexual jealousy is a potent force in generating violence in Greek tragic contexts 6 , as we can see in Aeschylus’ Agamemnon, Sophocles’ Women of Trachis, and Euripides’ Medea and Andromache. All of these tragedies, except for Aeschylus’ Agamemnon, have a female chorus tied to the female protagonist. Female choruses have the inbuilt ability to develop an intimate engagement with both male and female characters. Nevertheless, the ties of sympathy between female characters and the members of female choruses have been the object of debate among modern scholars 7 . Female choruses tend to share the emotions of the female protagonist and, frequently, offer consolation to the suffering heroine 8 . But can this choral sympathy be displayed towards jealous heroines or, in other words, do female choruses share - to some extent - the emotion of sexual jealousy felt by a tragic heroine? In this paper, I take as my premise that Medea, Deianeira, and Hermione ex‐ perience an episode of sexual jealousy as this is described by modern psychology. I suggest that in Greek tragedy, there are female choruses capable of sharing the emotion of sexual jealousy felt by the female protagonists. I examine whether or not these female choruses express their ‘sympathetic’ sexual jealousy in the way that any Greek tragic chorus expresses its emotions, that is, via their 220 Vasiliki Kousoulini <?page no="221"?> 9 The term choreia is not a modern construct. It first appears in Pratinas (fr. 708 PMG). It also appears in classical drama (Eur. Ph. 1265; Ar. Ra. 247, 336, Th. 856, 968, 981, 983). Choreia is first defined by Plato in the Laws (654b) as the combination of dance and music (song and accompaniment). Contemporary scholars frequently use this term to describe the performance of a song by a chorus. For the term choreia, see M U L L E N 1982; N A G Y 1990, pp. 339-381; H E N R I C H S 1994-1995, pp. 90-91 n. 1; L A D I A N O U 2005; D A V I D 2006, pp. 23-51; L E Y 2007; P E P O N I 2007, p. 351; S C H E D T L E R 2014, pp. 113-153; W E I S S 2020. On how the references of tragic choruses to their choreia express their emotions see, for example, B I E R L 2016. 10 Many contemporary scholars argue that any descriptions of choreia encountered in an ancient Greek lyric composition aims at exacting a response from the audience. See P E P O N I 2009, pp. 65-67; K U R K E 2012, p. 231; P E P O N I 2012, p. 94; K U R K E 2013, pp. 147-149; C A R R U E S C O 2016, p. 92. See O L S E N 2016, p. 6; O L S E N 2021, pp. 15-20. Olsen uses the term «communal resonance» to refer to the discursive construction of dance and movement in literary sources which can reflect and attempt to affect the embodied experiences and kinetic expressions of its audience. See O L S E N 2016, p. 10. For how the embodied nature of emotions is reflected in ancient Greek language, see C A I R N S 2016. 25 See M E I N E C K 2018, pp. 120-153. Meineck calls this phenomenon «emotional conta‐ gion». See M E I N E C K 2018, p. 127. Varakis uses the same term in connection with the emotion of joy in Aristophanic comedy. See V A R A K I S 2018, pp. 312-314 with more bibliography. See also K O U S O U L I N I 2020b. 11 See F R I E D R I C H 1993; B U R N E T T 1998, p. 194; M A S T R O N A R D E 2002, p. 16; M C H A R D Y 2008, pp. 61-62; C A I R N S 2008, pp. 53-56; S A N D E R S 2013. 12 See S A N D E R S 2013, pp. 42-47. 13 See S A N D E R S 2013, pp. 43-45. 14 See S A N D E R S 2013, pp. 43-47. 15 See S A N D E R S 2013, pp. 47-50. Sanders regards that Medea’s sexual jealousy semantically falls somewhere between eros, phthonos, misos, and orge. See S A N D E R S 2013, p. 54. choreia  9 that we can access mainly by their descriptions. I will focus on the words they use to describe what they feel, the music, the gestures, and the dance steps during their choral performance. I also examine the possibility that the complex emotion of sexual jealousy that is supposed to be felt only by one person towards another person could be transferred to the audience through choral performance 10 . 2. ‘Sympathetic’ Sexual Jealousy in Euripides’ Medea Sexual jealousy is part of the plot of the Medea, according to modern scholars 11 . Medea seems to experience a jealousy episode 12 . Medea is portrayed as a woman in love with Jason 13 . The heroine believes that she has an exclusive relationship with Jason and that she is in danger of losing the entire relationship because she has a rival for his affection 14 . A set of complex emotions that Jason’s betrayal arouses, are part of her jealousy episode in the eponymous tragedy 15 . From the first lines of the Medea, we know that the heroine is surrounded by a sympathetic 221 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="222"?> 16 Pattoni points out that the chorus’ consolation of the heroine often takes place during the parodos. See P A T T O N I 1989, p. 33. Chong-Gossard also observes that consolation is usually offered at the start of the drama. See C H O N G -G O S S A R D 2013, p. 43. 17 Mastronarde uses the term «three-way exchange» in order to describe the «triangula‐ tion» of song in the parodos since Medea is absorbed in her own emotions and has no awareness of her listeners (the Nurse and the chorus members) and their comments. See M A S T R O N A R D E 2002, p. 189. 18 I follow the text and the translation of Kovacs. See K O V A C S 1994. 19 They use the term posis to describe the conjugal union of Jason and Medea. This term was more often used to refer to the legal husband of someone. See LSJ, s.v. πόσις. These women constantly refer to the oaths that Jason broke (439-440 βέβακε δ᾽ ὅρκων χάρις, οὐδ᾽ ἔτ᾽ αἰδὼς / Ἑλλάδι τᾷ μεγάλᾳ μένει, “the magical power of an oath has gone, and Shame is no more to be found in wide Hellas”, 207 βοᾷ τὸν ἐν λέχει προδόταν κακόνυμφον, “the shrill accusations she utters against the husband who betrayed her bed”). On the importance of oaths in the Medea, see F L E T C H E R 2003, pp. 32-36. We do not know the exact legal status of Medea and Jason’s union. As McClure stresses, from the Athenian standpoint, the union of Medea and Jason has no legal basis because it was contracted not between the father of the bride and the husband but directly between husband and wife. See M C C L U R E 1999, p. 379. female chorus. In the Medea (131-183), the heroine sings while she is inside the house. The female chorus immediately arrives (131) 16 and tries to offer her advice and consolation although Medea initially seems unresponsive 17 . The heroine then discusses her situation with the chorus and turns them into her accomplices (214-266). These women promise to keep secret Medea’s plan to punish her husband (267-268 δράσω τάδ᾽· ἐνδίκως γὰρ ἐκτείσῃ πόσιν, / Μήδεια. πενθεῖν δ᾽ οὔ σε θαυμάζω τύχας, “I will do so. For you will be justified in punishing your husband, Medea, and I am not surprised that you grieve at what has happened”) 18 . This is a very supportive chorus that sympathizes much with the suffering heroine. There are strong emotional links between them and Medea. But are these women able to feel, at least to some extent, Medea’s sexual jealousy? The sympathetic female chorus of the Medea seems to experience, to some extent, an episode of sexual jealousy. The chorus starts having thoughts about a situation - Jason’s abandonment of Medea - and interprets them. These thoughts are somehow similar to Medea’s beliefs. These women believe that Medea has an exclusive relationship with Jason that is in danger because the heroine has a rival (155-159 εἰ δὲ σὸς πόσις / καινὰ λέχη σεβί- / ζει / κείνῳ τόδε μὴ χαράσσου· / Ζεύς σοι τάδε συνδικήσει. / μὴ λίαν / τάκου δυρομένα σὸν εὐνάταν, “but if your husband holds another marriage bed in honor, do not vex yourself on his account: Zeus will be your advocate in this, do not grieve extensively or weep over your husband”) 19 . These antecedent conditions, as 222 Vasiliki Kousoulini <?page no="223"?> we shall see, arouse in them the psychological and physiological feelings that constitute the emotion of ‘sympathetic’ sexual jealousy. When the truth is revealed after Medea and Creon’s dialogue, Medea’s exile finalizes her separation with Jason and marks her rival’s win and the heroine’s loss of Jason’s heart. The women seem almost as crushed as Medea. Instead of trying to console her, they utter loud cries and mourn her bad fortune (357-363 [δύστανε γύναι,] / φεῦ φεῦ, μελέα τῶν σῶν ἀχέων. / ποῖ ποτε τρέψῃ; τίνα προξενίαν / ἢ δόμον ἢ χθόνα σωτῆρα κακῶν / ἐξευρήσεις; ὡς εἰς ἄπορόν σε κλύδωνα θεός, / Μήδεια, κακῶν ἐπόρευσεν, “[Unhappy woman,] Ah, ah, crushed by your misfortunes, where will you turn? What protector of strangers will you find, what house, what land, to save you from calamity? A god has cast you, Medea, into a hopeless sea of troubles”). Medea is more optimistic than the women of Corinth. She tells them that they perceive the things wrongly; all is not lost, there are struggles ahead for Jason and his new bride as well as for her father (364-368 κακῶς πέπρακται πανταχῇ· τίς ἀντερεῖ; / ἀλλ᾽ οὔτι ταύτῃ ταῦτα, μὴ δοκεῖτέ πω, / <μέλλει τελευτᾶν εἴ τι τῇ τέχνῃ σθένω.> / ἔτ᾽ εἴσ᾽ ἀγῶνες τοῖς νεωστὶ νυμφίοις / καὶ τοῖσι κηδεύσασιν οὐ σμικροὶ πόνοι, “the situation is bad in every way: who will deny it? But things are not at all as you describe them, do not imagine it: there are still struggles for the newly wedded pair, and for the maker of the match difficulties that are not trifling”). Medea reveals to them her murderous intentions towards the new couple and the bride’s father (369-409). According to Medea, the game is still on; she will be able to ruin Jason’s marriage and defeat her rival. The chorus, instead of offering words of consolation and trying to convince the heroine to abandon her murderous plan, sing the first stasimon, a choral song that seems almost to be designed to further ignite Medea’s sexual jealousy. The chorus, who initially advised Medea to keep her temper and not to mourn for Jason, seems to adopt Medea’s point of view and language. These women express their ‘sympathetic’ sexual jealousy through their words and physical actions resulting from this emotion. In the first stasimon (410-445), the female chorus expresses a set of emotions similar to those expressed by Medea earlier in the tragedy. Medea’s expressed emotions, which are part of her sexual jealousy episode, have been described as a mixture of grief, anger, hatred, envy, and 223 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="224"?> 20 See S A N D E R S 2013. 21 Sanders argues that Jason and Medea’s relationship had a strong sexual element, and this is made clear by the extraordinary frequency of Greek words for the bed: lechos, lektron, eune, or koite occur twenty times as a euphemism for their old relationship, and twelve for his new one. See S A N D E R S 2013, p. 43. 22 Hopman argues that the members of the chorus talk in metapoetic terms and want to compose a new poetic genre that will bring kleos to women. See H O P M A N 2008. 23 See M C C L U R E 1999, pp. 387-388. 24 Pride is not discussed by Aristotle. According to Konstan, pride is the opposite of shame, that is, pleasure concerning those goods that are perceived to lead to a good reputation or approval. See K O N S T A N 2006, p. 100. pride 20 . A sexual motive seems to lie behind them 21 . Choreia - the words, music, and dance - is the medium through which they express them. Medea’s grief makes the women of Corinth feel pity. According to Aristotle (Rhet. 2.8.2, 1385b 13-16), pity is a kind of pain in the case of an apparent destructive or painful harm to a person who does not deserve to encounter it. These women in the first stasimon not only recognize that Medea is in a dreadful condition (437 τάλαινα, “poor wrench”, 442 δύστανε, “unhappy woman”) and describe in detail the heroine’s troubles (435-444) but also explicitly state that Medea does not deserve to encounter these sufferings. The women talk about men’s deceit and breaking of oaths (410-413, 439-440). The reaction to Medea’s grief is the arousal of their pity, but their sympathy does not end here. Medea’s anger towards Jason seems contagious. These women express their anger towards the hero and all men. According to Aristotle (Rhet. 2.2, 1378a31-33), anger is a desire, accompanied by pain, for an act of perceived revenge, on account of a perceived slight on the part of people who are not fit slight one or one’s own. These women verbally express their anger towards men who talk about them with malicious slander (419-420 οὐκέτι δυσκέλαδος / φάμα γυναῖκας ἕξει, “no more women will be maligned by slanderous rumor”, 421-422 μοῦσαι δὲ παλαιγενέων λήξουσ᾽ ἀοιδῶν / τὰν ἐμὰν ὑμνεῦσαι ἀπιστοσύναν, “the poetry of ancient bards will cease to hymn our faithlessness”). The Corinthian women seem to want to express their opposition to entire genres of poetry that blame women 22 . What is more, this blame is attached to the supposed sexual misbehavior of women 23 . These women seem to regard that Medea’s actions will avenge the blame attached by men to women (410-430). They believe that Medea’s revenge over the ones that wronged her will bring them honor (415-416 τὰν δ᾽ ἐμὰν εὔκλειαν ἔχειν βιοτὰν στρέψουσι φᾶμαι· / ἔρχεται τιμὰ γυναικείῳ γένει, “the common talk will alter that women’s ways will enjoy good repute, honor is coming to the female sex”). We can assume that the female chorus takes pride in Medea’s actions 24 . 224 Vasiliki Kousoulini <?page no="225"?> 25 The Stoics also describe envy as pain at another’s good fortune (Andronic. Rhod. 2, p. 12 Kreuttner = SVF 3.414). 26 See LSJ, s.v. λέκτρον. Sanders comments on the frequent use of words denoting bed in the Medea and argues that this phrase has strong sexual overtones. See S A N D E R S 2013, p. 43. 27 Sanders argues that Medea first draws attention to the sexual nature of her marriage with Jason and Jason’s marriage with Glauke when she talks about going into the palace to kill Jason and his new bride as they lie on their bed. See S A N D E R S 2013, p. 43. The most surprising emotion that these women express is their envy towards Medea’s rival. According to Aristotle (Rhet. 2.9, 1386b 18-19, 1387b 22-4), envy is a pain arising from the well-being of another 25 . In the eyes of the chorus, Medea’s source of unhappiness is the loss of Jason’s sexual love and devotion. This is also what puts them in distress (357-363). Medea has lost her marriage bed (436-437 τᾶς ἀνάν- / δρου κοίτας ὀλέσασα λέκτρον, “you have lost your marriage bed, your husband’s love”), a source of her well-being in the past. This source of happiness is now enjoyed by her rival. The chorus compares Creon’s daughter with Medea, an exiled princess, (443-445 σῶν τε λέκτρων / ἄλλα βασίλεια κρείσ- / σων δόμοισιν ἐπέστα, “and another, a princess greater match than yourself, holds sway in the house”). Medea’s union with Jason is less important than his union with his new wife. Lektra is a word that denotes the marriage bed or the bed in general 26 . The chorus borrowed this imagery and diction from Medea’s monologue where the heroine introduced it to this tragedy. Medea talked to them about her desire to deprive her rival of something she stopped enjoying herself. Medea thought about going into the palace to kill Jason and his new bride as they lie on their bed (378-380 πότερον ὑφάψω δῶμα νυμφικὸν πυρί, / [ἢ θηκτὸν ὤσω φάσγανον δι᾽ ἥπατος,] / σιγῇ δόμους ἐσβᾶσ᾽, ἵν᾽ ἔστρωται λέχος, “shall I set the bridal chamber on fire [or thrust a sharp sword through their vitals,] creeping into the house where the marriage bed is laid out”) 27 . These women believe that Medea’s actions will stop Jason’s new bride from enjoying a pleasure that the heroine is deprived of or, in other words, they sympathize and share to some extent Medea’s envy against her rival. For Medea to get her revenge, they agree to be silent (357-409). Although there are no textual indications of the chorus’ movements or choreography, we receive some information on the aural part of the choreia of the Corinthian women in the first stasimon. Besides the fact that the chorus imagines that Medea’s revenge will be perceived on a poetic level and emphasize their own choral activity by constantly referring to choral terms (e.g. 421 ἀοιδῶν, 422 ὑμνεῦσαι, 424-425 λύρας / ὤπασε θέσπιν ἀοιδὰν, 426 ἁγήτωρ μελέων, 426 ἀντάχησ᾽ ἂν ὕμνον), the meter used provides additional information. These women mainly sing in dactylo-epitrites. Dactylo-epitrites are generally a 225 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="226"?> 28 See L O U R E N Ç O 2011, p. 31. 29 See P A G E 1938, pp. 183-185; H O P M A N 2008, p. 169. 30 Deianeira is portrayed as a woman in love with Heracles throughout the play. Deianeira herself confesses that, like the gods, she has been conquered by the power of Eros (444) and many words describe her passion for Heracles. See on this S A N D E R S 2014, p. 143. For the role of love and the references to love poetry in the Women of Trachis see P A R C A 1992. 31 See on this E A S T E R L I N G 1982, p. 141, H O U G H T O N 1962; S C O T T 1997. 32 See S A N D E R S 2014, p. 145. I follow the text of Storr and the translation of Lloyd-Jones. See S T O R R 1912; L L O Y D -J O N E S 1994. dignified meter, best suited to lyric moments where elevated diction and ‘high’ poetry call the tune 28 . This meter is used when the chorus talks about Medea’s future glory. As other scholars have suggested, this meter is reminiscent of dactylic hexameter, the meter of epic poetry 29 . We should imagine that their dance and body posture expressed their pride over Medea’s future achievements, at least during the first part of this choral song. 3. Deianeira’s Sexual Jealousy and Choral Sympathy in Sophocles’ Women of Trachis In Sophocles’ Women of Trachis, we encounter all the antecedent conditions of an episode of sexual jealousy. Deianeira has a relationship with her husband that is under threat when a rival appears 30 . Deianeira in the Women of Trachis is a heroine who experiences an episode of jealousy 31 , although she seems to attempt to suppress it. Deianeira expresses a series of emotions that are often part of such an episode. The heroine, when she learns from the messenger that Iole is Heracles’ lover destined to live in the same house with her, tries to deny that she has any negative feelings about this situation. As Sanders argues, Deianeira in her dialogue with Lichas does not sound like someone who is not angry, but rather like someone who is trying to convince herself not to be angry by stating that anger is not a good response to Heracles’ behavior (442 οὐ καλῶς φρονεῖ, “[he] is a fool”) 32 . She repeats the same thing to the female chorus by stating that eros is a sickness, and she cannot be mad at Heracles (543 ἐγὼ δὲ θυμοῦσθαι μὲν οὐκ ἐπίσταμαι, “I do not know how to be mad at my husband”), because he is often sick with this disease (544). She keeps repeating to herself and the chorus that it is not a good thing for a woman to continue being angry (552-553 ἀλλ᾽ οὐ γάρ, ὥσπερ εἶπον, ὀργαίνειν καλὸν / γυναῖκα νοῦν ἔχουσαν, “but as I said it is not honourable for a woman of sense to be angry”). Nonetheless, anger must be there, struggling to break through, as other scholars 226 Vasiliki Kousoulini <?page no="227"?> 33 See H O L T 1981, p. 69: «Deianeira’s repeated assertions that she cannot be angry, or at least that she should not be angry, do not erase the suspicion that she is angry. Rather, they give the impression that she has to keep reminding herself of how she ought to feel». See also H A R R I S 2001, p. 266; S A N D E R S 2014, p. 145. 34 See S A N D E R S 2014, p. 146. 35 See S A N D E R S 2014, p. 146. 36 See S A N D E R S 2014, p. 145. have argued 33 . Sanders maintains that Deianeira also verbally expresses her grief (e.g. 458 ἀλγύνειεν ἄν, “that is what would distress me”, 535 τὰ δ’ οἷα πάσχω συγκατοικτιουμένη, “and partly to get comfort from you for my suffering”) and pride (550-551) since the heroine seems concerned for her reputation 34 . The emotion that dominates the heroines’ diction and the whole play is fear 35 . Despite the fact that Deianeira states that she pities Iole, she expresses her bitterness to the female chorus, portraying her as a rival to Heracles’ love 36 . Deianeira confesses to the chorus that she has been forced to take in this girl who is no longer a girl, as she corrects herself (536 κόρην γάρ, οἶμαι δ᾽ οὐκέτ᾽, ἀλλ᾽ ἐζευγμένην, “but I think she is not a maiden, but taken by him”). The heroine compares Iole to a ship loaded with cargo (537 παρεισδέδεγμαι φόρτον ὥστε ναυτίλος, “I have taken in […] as a captain takes on a cargo”) and calls this treatment λωβητόν (538 λωβητὸν ἐμπόλημα τῆς ἐμῆς φρενός, “a merchandise that does outrage to my feelings”). What bothers the heroine most, is the fact that she has to include Iole in her household and marital relationship with Heracles (545-546 τὸ δ᾽ αὖ ξυνοικεῖν τῇδ᾽ ὁμοῦ τίς ἂν γυνὴ / δύναιτο, κοινωνοῦσα τῶν αὐτῶν γάμων, “yet what women could live together with this girl, sharing a marriage with the same man”). Deianeira imagines herself crouching under a blanket with Iole, waiting together for Heracles to come to bed (539-540 καὶ νῦν δύ᾽ οὖσαι μίμνομεν μιᾶς ὑπὸ / χλαίνης ὑπαγκάλισμα, “and now the two of us remain beneath one blanket for him to embrace”). Deianeira bitterly calls this situation created by Heracles her wages (542 οἰκούρι᾽ ἀντέπεμψε, “the reward […] Heracles has sent me”) for her devotion and love, and ironically calls Heracles her so-called faithful and good husband (540-541 Ἡρακλῆς, / ὁ πιστὸς ἡμῖν κἀγαθὸς καλούμενος, “Heracles, he who is called true and noble”). Deianeira portrays Iole as an antagonist for her husband’s affections since she compares herself to her. She imagines Iole’s bloom ripening as her own dies (546-548), and dreads Heracles being known as her husband, but as Iole’s man (550-551 ταῦτ᾽ οὖν φοβοῦμαι μὴ πόσις μὲν Ἡρακλῆς / ἐμὸς καλῆται, τῆς νεωτέρας δ᾽ ἀνήρ, “this is why I am afraid that Heracles might be called my husband, but the younger’s women man”). Finally, Deianeira decides to act and reveals her plan to the female chorus of locals. She is going to use Nessus’ filter 227 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="228"?> 37 Although Sophocles shows a preference for male choruses, he portrays his female choruses in his extant plays as very sympathetic to the female protagonist. See M U R N A G H A N 2012, p. 221. 38 See on this C A T E N A C C I O 2017, p. 4. 39 See C A T E N A C C I O 2017, p. 8. 40 See E S P O S I T O 1997, p. 23. Sophoclean choruses often resolve in revelry and sing about the prospect of good fortune. See M U R N A G H A N 2012, pp. 229-230. 41 See F I N K E L B E R G 1996, pp. 135-136. on Heracles to win him back unless the women object to this (586-587). The women give her their consent (588-589, 592-593). The heroine also asks for their secrecy, as Medea did in the eponymous tragedy after her episode of sexual jealousy, in 594-597. Deianeira puts her plan into action and gives Lichas the robe she anointed with Nessus’ blood. But what is the reaction of this chorus to Deianeira’s sexual jealousy? Do they manage to share this complex emotion and, if so, to what extent 37 ? Throughout this tragedy, Deianeira’s perspective on things is radically different from that of the members of the chorus 38 . The chorus does not sing exclusively about this situation; the women’s songs are more associative and intuitive, and range freely outside of their immediate context, alluding to the rhythms of nature and the cosmos, universal truths, and the mythological paradigms 39 . The chorus of the Women of Trachis reacts to the heroine’s speech with song. After Deianeira shares her thoughts about this unfortunate situation and reveals her plan to use magic on Heracles and puts the plan into action, the women of Trachis enthusiastically sing the second stasimon (633-662). This chorus of maidens evokes, with the celebratory modes of song and dance, the possibility of positive change, which, in turn, gives reason for hope 40 . The women start the second stasimon with a reference to the inhabitants of the region, describing the local topography and mentioning deities related to the local cult (633-639). They describe an atmosphere of anticipation that is affec‐ ting the entire country 41 . The women say that the aulos will rise for these people again, answering to a Muse divine because Heracles is coming home (640-646). What Heracles brings with him, according to these women, is not a burden, but the trophies of his valour (645-646 πάσας ἀρετᾶς / λάφυρ᾽ ἔχων, “bearing the trophies of all valour”). Nonetheless, these women share some of the emotions that Heracles’ absence ignited in Deianeira. They state that they were in agony too when the hero was absent (647-649 ὃν ἀπόπτολιν εἴχομεν παντᾷ, / δυοκαιδεκάμηνον ἀμμένουσαι / χρόνον, πελάγιον, ἴδριες οὐδέν, “he who was altogether absent from our city while we waited for twelve months in ignorance across the sea”). They also exhibit their pity towards Deianeira, but only for her past misfortunes (650-652 ἁ δέ οἱ φίλα δάμαρ / τάλαιναν 228 Vasiliki Kousoulini <?page no="229"?> 42 For the textual problems of these lines see F I N K E L B E R G 1996, pp. 128-134. 43 Segal comments on the ambiguity of the oracles about a happy end of life or a peaceful end or fulfillment (telos) from Zeus that are encountered in this play. See S E G A L 1995, pp. 69-94. 44 On Sophocles’ use of meter in this stasimon see P O H L S A N D E R 1964, pp. 138-139. 45 See L L O Y D -J O N E S 1994, p. 192. 46 For dochmiacs as a meter used for expressing fear see D E P O L I 2018, pp. 52-56. δυστάλαινα καρδίαν / πάγκλαυτος αἰὲν ὤλλυτο, “and his dear wife was ever perishing in misery in her sad heart”). They are full of hope and relief about the hero’s homecoming. They say that Heracles is finally free from his toils (653-654 νῦν δ᾽ Ἄρης οἰστρηθεὶς / ἐξέλυσ᾽ ἐπίπονον ἁμέραν, “but now the war god goaded to fury has released him from days of toil”) and wish that he will have a swift arrival (655-659 ἀφίκοιτ᾽ ἀφίκοιτο, μὴ σταίη / πολύκωπον ὄχημα ναὸς αὐτῷ, / πρὶν τάνδε πρὸς πόλιν ἀνύσειε, / νασιῶτιν ἑστίαν / ἀμείψας, ἔνθα κλῄζεται θυτήρ, “may he come, may he come! May the many oars of the ship that bears him make no stop before he makes his way to this city, leaving the altar of the island where we are told that he is sacrificing”). They are also convinced that Deianeira’s trick will work, and Heracles will come full of desire for his wife (660-662 ὅθεν μόλοι πανίμερος, / τᾶς πειθοῦς παγχρίστῳ / συγκραθεὶς ἐπὶ προφάσει φάρους, “may he come, may he come, deeply desired united in love through the monster’s beguilement of persuasion”) 42 . This chorus is very excited and optimistic. The women are sympathetic to Deianeira’s grief and fear concerning Heracles’ life and the future of their marriage, but they believe that all these belong to the past. They are eager to welcome the hero who will continue his relationship with Deianeira because the heroine has won her rival by using Nessus’ poison. Despite the optimistic tone of this stasimon, negative emotions are expressed, even only as hints or passing thoughts, through the diction and, as we must suppose, the aural and kinetic activity of the female chorus. The chorus talks about Heracles’ release from toils (653-654). The same words can be used for people who have perished in Greek lyric and tragic poetry 43 . In addition to this, they sing in dochmiacs (in a mixture of cretics and dochmiacs) 44 when they refer to Ares’ decision to release Heracles. They use the same meter in line 662 when they talk about the possible effect that the robe might have on the hero. If Paley’s proposed that συντακείς is the correct writing and could conceivably have led to the intrusion of a gloss, συγκραθείς 45 , then the women might refer without realizing it to the actual effect of the anointed robe on Heracles, as well as the intended one. Dochmiacs in tragic lyric always express intense emotions like panic, fear, and intense grief, or at least a high degree of excitement 46 . We have 229 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="230"?> 47 For an overview of the arguments of modern scholars regarding who is the central figure of the Andromache see M O S S M A N 1996, pp. 143-144. 48 I follow the text and the translation of Kovacs. See K O V A C S 1995. 49 Many modern scholars argue that Hermione is jealous of Andromache, and that her jealousy is behind the murder attempt. See, for example, E R B S E 1966, p. 280; W A L C O T 1978, pp. 23-24; S A N D E R S 2014, pp. 148-153. 50 See S A N D E R S 2014, pp. 151-152. As Kyriakou remarks, inasmuch as Hermione’s social role is determined by her sexuality and fertility of course and since it is difficult to to suppose that the choreography expressed the same intense emotion, although there are no references to it in the text. The future of Heracles is what creates a kind of anxiety in them. Although they seem certain for the happy resolution of Deianeira’s problems and conflict with Iole, they do not appear so certain when they say that Heracles is reported to be a sacrificer (659 κλῄζεται θυτήρ), drawing attention to his reported condition as opposed to his actual condition. 4. Hermione’s Sexual Jealousy and the Female Chorus in Euripides’ Andromache In the eponymous tragedy, a female character, Andromache, sings a monody (103-116) - a song of complaint about her misfortunes - and the sympathetic female chorus of locals enters in line 117, trying to offer her comfort. According to the chorus of the women of Phthia, Andromache suffers because she shares a husband with Hermione. As there are two mistresses in the oikos of Neoptolemus, there are two protagonists of this tragedy 47 . This peculiar situa‐ tion causes hateful strife between Andromache and Hermione (122-125 οἳ σὲ καὶ Ἑρμιόναν ἔριδι στυγερᾷ συνέκλῃσαν, / τλᾶμον, ἀμφὶ λέκτρων / διδύμων, ἐπίκοινον ἔχουσαν / ἄνδρα, παῖδ᾽ Ἀχιλλέως, “troubles that have joined you, unhappy woman, and Hermione in hateful quarrel about a double marriage, since you share a husband, the son of Achilles”) 48 . The chorus is sympathetic to Andromache. Nonetheless, they avoid directly taking her side. They state that although they pity Andromache, they are hesitant to show it because of their fear (141-146). The women advise Andromache to know her place and obey Hermione, who is her master (126-140), as they do. Hermione enters in 147 and starts a quarrel with Andromache that ends in 273. During this quarrel, Hermione exhibits her sexual jealousy 49 . Hermione, the new legitimate wife of Neoptolemus, believes that Andro‐ mache is her rival for Neoptolemus’ affections. Hermione never explicitly states that she is in love with her husband, but she is highly sexualized by the other characters and we know that she needs to retain her sexual relationship with Neoptolemus in order to bear children 50 . Hermione believes that Andromache 230 Vasiliki Kousoulini <?page no="231"?> imagine that a young woman like her would be totally indifferent to her husband’s liaisons, it is not easy to separate the sexual from the social concerns in her case. See K Y R I A K O U 1997, p. 14. 51 See S A N D E R S 2014, p. 149. 52 See S A N D E R S 2014, p. 153. 53 See S T O R E Y 1993, p. 187; W I L S O N 1979, pp. 7-9; S A N D E R S 2014, p. 153. 54 As Perusino remarks, by condemning Neoptolemus’ double marriage in this stasimon, the chorus implicitly shares Hermione’s point of view. See P E R U S I N O 2014, p. 55. has started this fight, since, according to her, Andromache wishes to cast her out of her house and take it over (155-157 σὺ δ᾽ οὖσα δούλη καὶ δορίκτητος γυνὴ / δόμους κατασχεῖν ἐκβαλοῦσ᾽ ἡμᾶς θέλεις / τούσδε, “but though you are a slave woman won by the spear, you mean to throw me out of this house and take possession of it”) and administrates drugs to her and her husband. The drugs make Hermione barren (159 νηδὺς δ’ ἀκύμων, “and my womb is perishing unfruitful”) and make Neoptolemus hate her (158 στυγοῦμαι δ’ ἀνδρί, “I am hated by my husband”). Hermione is afraid and believes this scenario 51 . The source of her fears is the possibility that Neoptolemus will make Andromache his actual wife and mistress of his house, throwing Hermione out or relegating her to a subordinate position because his Trojan concubine has successfully borne him a son (156-158). Besides fear, Hermione seems to feel phthonos against Andromache 52 . Accor‐ ding to Aristotle (Rhet. 2.9, 1386b 16-20), phthonos (“envy”) is opposed to pity and it can be described as a pain excited by the perceived good fortune - not of someone undeserving - but those like us. Maybe this is why Andromache struggles to prove to Hermione that the former is of a higher status and in a better situation than she is. Andromache tries to address Hermione’s concerns in the first agon (192-202). Andromache tells Hermione that this scenario is an impossible one. Nonetheless, Andromache confirms that Neoptolemus strongly dislikes Hermione (205 στυγεῖ πόσις, “your husband dislikes you”). As other scholars have suggested, eris (“strife”) is a major theme of the play 53 . Strife is a recurring theme in the choral parts of this tragedy. The female chorus describes strife as the situation in the house between Hermione and Andromache (122 ἔριδι στυγερᾷ, 490 δύσφρονος ἔριδος ὕπερ, “because of hateful strife”) and compares this strife with the eris between two kings, two craftsmen, and two poets (471-482) in the second stasimon  54 . The chorus recognizes that this is a highly problematic situation, and to some extent, can see things from Hermione’s point of view. But do these women experience some of the emotions that Hermione feels? These women can see both sides of the same coin. The female chorus comments on Hermione’s accusations against Andromache by stating that 231 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="232"?> 55 See S A N D E R S 2014, p. 153. 56 Hopman describes how Medea’s overwhelming physical presence matches her control over the tragic plot. See H O P M A N 2008, p. 156. According to Rabinowitz, Medea is the dramaturge behind the messenger speech and the playwright orchestrating the deaths from a distance. See R A B I N O W I T Z 1992, p. 49; R A B I N O W I T Z 1993, p. 145. On Medea’s power of persuasion see M C C L U R E 1999, pp. 373-374. On Medea’s verbal cunning see, for example, B O E D E K E R 1991; L E V E T T 2010. jealousy is part of a woman’s nature and is ignited especially when there is a rival in a marriage (181-182 ἐπίφθονόν τοι χρῆμα θηλείας φρενὸς / καὶ ξυγγάμοισι δυσμενὲς μάλιστ᾽ ἀεί, “the mind of a woman is a jealous thing and always ill-disposed toward rivals in marriage”). They also try to make Hermione see Andromache’s point of view (232-233 δέσποιν᾽, ὅσον σοι ῥᾳδίως παρίσταται, / τοσόνδε πείθου τῇδε συμβῆναι λόγοις, “my lady, to the extent that you are able to without vexation, to that extent take my advice and come to some agreement with her”). In the first stasimon (274-308), instead of singing to try to console Hermione, the women sing a song about envy/ jealousy scenarios: the beauty competition between Hera, Athena, and Aphrodite and the subsequent strife between Menelaus and Paris over Helen 55 . They also express their pity and sympathy towards Andromache and her son (486-500). Instead of experiencing some of Hermione’s emotions, they are objective observers of an unpleasant situation that threatens the well-being of Neoptolemus’ oikos. 5. Conclusions In the Medea, the heroine experiences an episode of sexual jealousy. Medea undoubtedly is the protagonist of the play. She dominates the whole play and has great influence over other people. This protagonist is supported by a very sympathetic chorus. This chorus expresses the emotions that the unfolding of the events causes them. Jason’s abandonment of Medea arouses their pity towards the heroine. Some of Medea’s emotions are channeled to these women. Jason’s betrayal makes them angry towards him and all men who break their oaths and/ or blame women. The female chorus even seems to share Medea’s phthonos towards the rival. These women feel proud that Medea planned to deprive her rival of what she cannot enjoy and punish the ones that wronged them. The Corinthian women, who have been regularly described by modern scholars as being under Medea’s influence or power of persuasion 56 , seem to take part, to some extent, in Medea’s episode of sexual jealousy. This chorus draws attention to their own choral activity by their frequent use of choral terms in the first stasimon. Their use of dactylo-epitrites, which dictate the 232 Vasiliki Kousoulini <?page no="233"?> aural and kinetic part of their choreia, ensures that they can effortlessly express their pride over Medea’s actions to the audience. These women perform some of Medea’s emotions and are the medium through which other people can understand and feel, to some extent, Medea’s sexual jealousy. But can we talk about ‘sympathetic’ sexual jealousy in the other two tragedies? Deianeira, the female protagonist of the Women of Trachis, experiences an episode of sexual jealousy ignited by Iole’s arrival and the revelations regarding the relationship of Heracles and this girl. Nonetheless, Deianeira attempts to conceal this emotion, even from herself. The chorus in the Women of Trachis is cheerful and optimistic. The women are sympathetic to Deianeira’s grief and fear concerning Heracles’ life and the future of their marriage, but they believe that since the heroine used Nessus’ filter, all these belong to the past. Despite the optimistic tone of the second stasimon, negative emotions find their way into their words. The future of Heracles is what creates a kind of anxiety in them. This anxiety is expressed by the use of a meter that guides the aural and the kinetic part of their choreia. These women almost mimic Deianeira’s covert sexual jealousy. They seem optimistic that the heroine will win Heracles back, but at the same time, their doubt regarding Heracles’ fate, and Deianeira’s relationship with him manages to break through their words, song, and dance. The women of Trachis do not experience an acute episode of sexual jealousy, but do share some of Deianeira’s emotions that are part of her episode of sexual jealousy. In the Andromache, there are two female protagonists. The women of Phthia, are sympathetic to Andromache’s sufferings. These women also understand Hermione’s point of view and are sympathetic to her. Their understanding of the situation as a double marriage does not allow them to recognize that there are all the antecedent conditions that can cause an episode of sexual jealousy (an exclusive relationship between Hermione and Neoptolemus that Andromache’s existence puts under threat). This chorus does not exhibit signs of vicariously experiencing some of the symptoms of sexual jealousy. Why is that only some of the sympathetic female tragic choruses can feel, express, perform, and possibly transfer to the audience, the complex emotion of sexual jealousy that is felt by the heroines? I suggest that some criteria define which female choruses can feel ‘sympathetic’ sexual jealousy and which cannot. In the case of the Medea, we have a sole female protagonist who is a highly influential and domineering figure. The female chorus can feel (to some extent), perform, and transfer her sexual jealousy because Medea forges strong ties with these women through her power of persuasion. The ‘link’ between the heroine and the female chorus works perfectly. These women, at least in the first part of the play, mirror Medea’s intense emotions. In the Women of Trachis, Deianeira 233 Heroines, Other Women, and Female Choruses <?page no="234"?> and her female chorus are close to each other, but the women are also very eager and excited to see Heracles again. This highly optimistic chorus cannot fully apprehend, express, perform, and transfer to the audience the whole range of Deianeira’s emotions, especially because the heroine tries to conceal them. Hermione, the victim of sexual jealousy in the Andromache, is not the sole female protagonist of the Andromache. This is a female chorus tied to two heroines and shares two points of view. Hermione’s sexual jealousy cannot be felt by the female chorus because these women also have a strong bond with Andromache. This double choral sympathy erases the antecedent conditions of an episode of ‘sympathetic’ sexual jealousy. 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How might Krobyle’s concerns be viewed from a different perspective, particularly the point of view of a wife striving to preserve order and harmony in the oikos? In the Perikeiromene (“Girl with Her Hair Cut Short”), Polemon’s jealous rage drives him to cut off Glykera’s hair. Menander presents Polemon’s rash behaviour as the work of a female divinity and as enabling the happy discovery of Glykera’s true social status. From another point of view, however, Polemon’s jealous rage is highly destructive, both to Glykera’s independence as a hetaera and to their former happiness as a couple. In this paper, I explore how Menander privileges the male viewpoint in representing jealousy, and I argue that the androcentric bias in Menandrean comedy prevents full and proper recognition of female perspectives on male conduct. Keywords: Menander - comedy - jealous - marriage - Perikeiromene. 1. Introduction New Comedy is said to be an ideal genre for the study of emotion because it comes closest to representing everyday behaviour and ordinary speech 1 . In antiquity, Menander was praised for taking material from “real life” (vita ho‐ minum) in a manner that was “simple, realistic and delightful” (simplex et verum <?page no="244"?> 2 Aul. Gell. 2.23.11. Also see Plut. Quaes. Conv. 7.8.3 and Quint. Inst. 10.2.69. 3 F O L E Y 2014, p. 266. 4 See F O L E Y 2014, p. 260; also see S C A F U R O 2014, p. 234; B A I N 1984, p. 25; and W A L T O N , A R N O T T 1996, p. 104. In fact, Zeitlin’s observations on women in tragedy apply equally well to women in comedy: «[w]omen as individuals or chorus may give their names as titles to plays; female characters may occupy the center stage and leave a far more indelible emotional expression on their spectators than their male counterparts … [b]ut functionally women are never an end in themselves, and nothing changes for them once they have lived out their drama on stage»: Z E I T L I N 2002, pp. 107-108. 5 On Menander’s androcentric bias generally, see H E N R Y 1986. 6 On women in Menander helping to ‘protect and restore family unity’, see H E N R Y 1986, pp. 145-146. et delectabile) 2 . In modern scholarship, Menander is renowned for plays that focus on domestic contexts, misfortunes and misunderstandings. Menander’s character types include wives, husbands, hetaerae, slave-girls, soldiers, young men, slaves and cooks yet, despite this variety, his plays consistently focus on the core concern of the Athenian male, namely, to reproduce and perpetuate the male line 3 . Complications arise when a young Athenian man rapes a virgin and she bears a child outside marriage or a young man falls madly in love with a girl who is apparently not a legitimate Athenian woman. Differences in social status and the prospect of illegitimate unions threaten Athenian social stability. The conventions of the genre demand a satisfactory resolution. Typically, this resolution is achieved by means of the young man’s wedding, which serves both to legitimize the status of a girl as wife and to guarantee the stability of the new oikos. Although women are essential to Menander’s comic plots, the plots them‐ selves are the products of a male playwright, living in a male-dominated society, communicating with a predominantly male audience 4 . In this paper, I will argue that Menandrean comedy has a distinctively androcentric bias and that this bias directly affects how Menander depicts the emotion of jealousy 5 . In the Plokion, Krobyle’s jealous behaviour is represented as one of her many unappealing character traits. The issue that has provoked that jealousy, namely, the supposed infidelity of Krobyle’s husband, is deemed irrelevant. What is more relevant, it would seem, is that Krobyle is ostensibly ugly, insolent and domineering. In turn, what might be quite reasonable concerns on Krobyle’s part, namely, to protect her oikos and to ensure family unity, are disregarded 6 . In the Perikeiromene, Polemon’s jealousy over Glykera’s supposed betrayal is treated very differently. Polemon’s jealousy is represented not as a character trait per se but an unfortunate and temporary behavioural manifestation that is provoked by a female divinity. Meanwhile, Glykera’s legitimate concerns about 244 Sonia Pertsinidis <?page no="245"?> 7 For detailed discussions of the use of the term in socially competitive situations, see K O N S T A N 2003, pp. 12-15, and, for a discussion of jealousy between the homosexual erastes and eromenos, see F A N T H A M 1986, pp. 47-50, and K O N S T A N 2003, p. 17. 8 On the wordplay in this scene see F A N T H A M 1986, pp. 46-47, 52, and K O N S T A N 2003, p. 12. 9 The connection between the emotion and the expression of physical violence will be discussed later in this chapter. For a discussion of possessive jealousy in sexual contexts, see S A N D E R S 2012, pp. 158-159. For a discussion of a contract expressing exclusive rights to a prostitute, see D U T S C H , K O N S T A N 2011, p. 76. 10 W H I T E 1991, p. 232; for other modern definitions of jealousy see N U S S B A U M 2001, p. 210; P A R R O T T 1991, p. 15; N E U 1980, p. 443. 11 Also jealousy felt by a woman toward her slave - see Herod. 5; discussed in F A N T H A M 1986, p. 52. Polemon’s jealousy-provoked violence are silenced when she shifts from being a mistress to a legitimate wife. These differential treatments of male and female expressions of jealousy are indicative of Menander’s androcentric bias. Before we examine the relevant passages however, we first need to consider how the ancient Greeks understood the concept of jealousy. 2. Ζηλοτυπία The ancient Greek term (ζηλοτυπία) can mean “jealousy”, “envy” or “rivalry”. It can therefore refer to a range of different forms of social competition and relationships 7 . The earliest use of the term in the sense of sexual jealousy appears in Aristophanes’ Wealth (388 B C ) in which an old woman describes a young man feeling ζηλότυπος over her because she attracted the attention of another man. The young man punished her for this by beating her for an entire day (1015 ἐτυπτόμην διὰ τοῦθ᾿ ὅλην τὴν ἡμέραν) 8 . In the words of Chremylus, the young man preferred to “eat alone”, that is, he wanted to have exclusive rights to his woman (1017 μόνος γὰρ ἥδεθ᾿, ὡς ἔοικεν, ἐσθίων) 9 . Even if the old woman may be somewhat misguided about the young man’s attraction to her and his desire for exclusivity, the use of the term in this context is equivalent to our concept of romantic jealousy since it involves «the perception of a real or potential romantic attraction between one’s partner and a (perhaps imaginary) rival» 10 . The same term is used to describe jealousy that is felt by a wife toward her husband (a scenario that is exactly replicated in Menander’s Plokion) 11 . In Plutarch’s Coniugalia praecepta (144b-c), Melanthius accuses the orator Gorgias of hypocrisy for making a public speech about concord when he cannot 245 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="246"?> 12 The Greek text is from F. C. Babbitt, Plutarch Moralia, II, Cambridge 1928; the translation is my own. 13 On envy as dyadic, see B E N Z E ’ E V 2000, p. 282; and on jealousy as triadic, see the same at pp. 289-290; also D I M I T R I J E V I C 2018, p. 83. 14 K O N S T A N 2006, p. 234. 15 P A R R O T T 1991, p. 19. 16 F A N T H A M 1986, p. 45. even achieve harmony in his own household. Apparently, Gorgias’ wife felt ζηλοτυπία because of Gorgias’ desire for his female household slave 12 : Γοργίου τοῦ ῥήτορος ἀναγνόντος ἐν Ὀλυμπίᾳ λόγον περὶ ὁμονοίας τοῖς Ἕλλησιν ὁ Μελάνθιος, “οὗτος ἡμῖν”, ἔφη, “συμβουλεύει περὶ ὁμονοίας, ὃς αὑτὸν καὶ τὴν γυναῖκα καὶ τὴν θεράπαιναν ἰδίᾳ τρεῖς ὄντας ὁμονοεῖν οὐ πέπεικεν”. ἦν γὰρ ὡς ἔοικέ τις ἔρως τοῦ Γοργίου καὶ ζηλοτυπία τῆς γυναικὸς πρὸς τὸ θεραπαινίδιον. When the orator Gorgias presented a speech about concord to the Greeks at Olympia, Melanthius said, “This fellow is lecturing us about concord, but he has not persuaded himself, his wife or his slave-girl, just three people, to get along”. For there was, so it seems, some desire on Gorgias’ part, and jealousy on his wife’s part, toward the slave girl. This passage helpfully outlines the triadic nature of jealousy as essential to the ancient Greek understanding of the emotion. While ζηλοτυπία could refer to “envy” as a dyadic emotion, involving desire for the personal attributes, possessions or position of another person 13 , the same term, when it refered to “jealousy”, necessarily involved three parties: a lover, a beloved and a rival 14 . Furthermore, it would appear that the same term (ζηλοτυπία) was used for an unclear or suspected threat (what we call “suspicious jealousy”) as for knowledge of an actual threat (“fait accompli jealousy”) 15 . Melanthius’ wife feels jealous because she knows about Gorgias’ desire for the slave-girl, just as Krobyle feels jealous because she suspects that her husband desires their slave-girl. Lastly, this passage highlights the capacity of jealousy to disrupt order and harmony within the traditional oikos, just as we will see in Menander’s Plokion. According to Fantham’s survey of relevant sources, jealousy is more often found «between homosexual erastes and eromenos, lover and hetaira, master and concubine, or mistress and gigolo» 16 . This is not to say that Greek men never felt jealous over their wives. Rather, it is not apparent from our extant sources (which were mostly written by elite males). Perhaps, since marriage was a formal arrangement that had little to do with romantic love, jealousy was 246 Sonia Pertsinidis <?page no="247"?> 17 On ‘unromantic’ marriage arrangements, see B L U M E 2014, p. 5. On marriage as an ‘af‐ fair of the city’, see K O N S T A N 1987, p. 136. On feelings of male shame associated with cuckoldry in ancient Greek society, see R O Y 1997, pp. 14-15. 18 On jealousy as revealing fragility or weakness, see D I M I T R I J E V I C 2018, p. 83; on male self-worth, see L L O Y D 1995, pp. 92-93. 19 The Greek text is from B. Perrin, Plutarch Lives, II, Cambridge (MA) 1914. The translation is my own. 20 In modern jealousy, what is at stake is «not so much property rights as an individual’s identity»: see N E U 1980, p. 448. less common, or perhaps it was viewed as an expression of emotion that was shameful or inappropriate for a respectable Greek male 17 . Similar sensitivities about admitting jealousy are said to exist today. Men are said to be generally less willing to admit feeling jealous because it suggests fragility or weakness, while a man whose partner is sexually unfaithful is said to be “cuckolded” (a derisive term that denotes that the man has been duped). A man’s sense of self-honour and self-worth is also viewed as having been reduced by the success of a rival 18 . In Plutarch’s Life of Themistocles (26.4-5), ζηλοτυπία over women is repre‐ sented as characteristic of the barbarian races and, in particular, the Persians 19 : τοῦ βαρβαρικοῦ γένους τὸ πολὺ καὶ μάλιστα τὸ Περσικὸν εἰς ζηλοτυπίαν τὴν περὶ τὰς γυναῖκας ἄγριον φύσει καὶ χαλεπόν ἐστιν. οὐ γὰρ μόνον τὰς γαμετάς, ἀλλὰ καὶ τὰς ἀργυρωνήτους καὶ παλλακευομένας ἰσχυρῶς παραφυλάττουσιν, ὡς ὑπὸ μηδενὸς ὁρᾶσθαι τῶν ἐκτός, ἀλλ᾿ οἴκοι μὲν διαιτᾶσθαι κατακεκλεισμένας, ἐν δὲ ταῖς ὁδοιπορίαις ὑπὸ σκηνὰς κύκλῳ περιπεφραγμένας ἐπὶ τῶν ἁρμαμαξῶν ὀχεῖσθαι. Most barbarian races, and the Persians in particular, are by nature fierce and difficult in their jealousy over their women. They strictly guard not only their wives, but also female slaves they have bought and concubines, to the point where they are not seen by anyone outside, but live their lives completely shut away at home, and even when travelling, they are carried on wagons, beneath tents that cover all sides. If the Greeks regarded ζηλοτυπία as a barbarian trait, a Greek male would not readily admit to feeling the emotion. Perhaps it is no surprise then that the emotion is rarely discussed in our extant sources and, where issues of fidelity are discussed, greater emphasis is placed on matters of retribution and justice. Since wives were regarded as property, the presence of a male rival constituted interference with one’s proprietary rights 20 . Adultery by a wife was «an offense 247 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="248"?> 21 M C C L U R E 2020, p. 103. 22 D O V E R 1973, p. 62. 23 M C C L U R E 2020, p. 102. 24 Women’s rituals and gatherings provided a rare opportunity to leave the house: see W I N K L E R 1990, pp. 188-209. 25 M C C L U R E 2020, p. 100; K I N G 2002, p. 78. 26 M C C L U R E 2020, p. 99. 27 «If the husband commits “some little error” with a hetaira or a slave-woman, the wife should not aganaktein or chalepainein, that is, make a fuss or get cross (it follows that against marriage, a violation of the husband’s claim of exclusive access to his wife’s body, and an assault on the marital bonds of trust» 21 . Under ancient Greek law, a cuckolded male could seek the help of friends to apprehend and prosecute the rival, or if caught in the act, could kill, maltreat or imprison the male rival by force 22 . In Lysias’ speech On the Murder of Eratosthenes, for example, when Eratosthenes is caught in flagrante with Euphiletus’ wife, Euphiletus kills him on the spot. Lysias argues that the act was «justifiable homicide in accordance with Athenian law» 23 . There would seem to be less focus on the emotion itself, and more focus on the action that one can take to reclaim one’s honour and self-worth. Greek men regarded women as irresponsible and vulnerable to temptation and they worried about their tendencies toward sexual promiscuity and excess. As a result, women were closely monitored and limited in their activities. Women were kept mostly at home, their contact with male non-relatives was limited, and they were expected to dress and conduct themselves in a modest manner 24 . By means of these controls, Greek males hoped to ensure ownership over their property and the perpetuation of their family line 25 . The ideal wife remained faithful to her husband and offered her body only to him. She brought wealth to his house in the form of a dowry, bore him sons, and managed daily life, supervising the production of textiles and tending to the sick. Her social identity revolved around the family as she linked generations and households 26 . At this point, the double standard with respect to male extra-marital relati‐ onships in ancient Greek society becomes relevant. Wives were expected to be faithful to their husbands and to only produce legitimate children, while men were permitted to pursue a variety of relationships outside marriage, including relationships with slaves, prostitutes, hetaerae and boys. In the case of a husband’s proven infidelity, a wife was expected not to make a fuss or get angry 27 . A wife was expected to follow the example of Deianeira and resist 248 Sonia Pertsinidis <?page no="249"?> she should not even approach a state of orgē)»: H A R R I S 2004, p. 137 (discussing Plut. Mor. 140a, 140b). 28 See Deianeira in Sophocles’ Trachiniae at lines 543 and 552-553. On Athenian women having sexual affairs, see R O Y 1997. 29 M O X N E S 1997, p. 280. 30 H A W L E Y 2005, pp. 28-29. 31 For more positive images of women and marriage, see H A W L E Y 2005, p. 31. 32 H A W L E Y 2005, p. 30. 33 H A R R I S 2004, p. 138. 34 K O N S T A N 2003, p. 19. 35 On Theophrastus as Menander’s teacher, see P E R T S I N I D I S 2018, pp. 53-59; S C A F U R O 2014, p. 218. On the debate as to whether this text was written by Theophrastus, see C L A R K 2005, p. 158. growing angry since that is the path of a ‘sensible woman’ 28 . In contrast, adultery by women posed a threat to the patriarchal order because it signified a loss of control over property and lack of certainty regarding the legitimacy of children. The voicing of jealous anger by a woman threatened the patriarchal order in a different but related way: it involved questioning male behaviour and potentially disrupting male activities. The former was considered insubordinate and the latter undesirable 29 . In short, Greek wives were expected to tolerate their husband’s philandering, but remain faithful themselves. Given the discrepancies in power and social freedoms, one might expect conjugal conflict, and indeed, there are examples of such conflict in ancient Greek literature 30 . In the Homeric epics, disobedient, unfaithful and dangerous wives such as Helen and Clytemnestra feature just as prominently as the ‘good wives’ Penelope and Andromache 31 . In Xenophon’s Symposium, Socrates’ wife Xanthippe is described as the “most difficult woman” (2.10 χαλεπωτάτῃ). In Menander’s Dyskolos, Pan describes Knemon as fighting with his wife day and night and “living miserably” (17-19 ταύτῃ ζυγομαχῶν οὐ μόνον τὰς ἡμέρας ἐπιλαμβάνων δὲ καὶ τὸ πολὺ νυκτὸς μέρος ἔζη κακῶς). In each case, the perspective is «predominantly male» 32 . While a certain amount of conjugal conflict was to be expected and a wife could express some annoyance with her husband, the expression of anger, especially with one’s husband, was nonetheless viewed as insubordinate 33 . In ancient Greek literature, ζηλοτυπία is presented as a typically female trait, especially in conjugal contexts 34 . Wives who express their jealousy through words or actions (or both) are portrayed as irritating, threatening or fearsome. In a book On Marriage, ostensibly written by the philosopher Theophrastus (who taught Menander), Theophrastus develops a character sketch of the ‘ty‐ pical wife’ 35 . In this work, Theophrastus sets out the main arguments against marriage, which are that wives impede philosophical studies, they expect a great 249 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="250"?> 36 W A L T O N , A R N O T T 1996, pp. 104-105. 37 Hieron. Adv. Iovinian. 1.47-48, fr. 486, in F O R T E N B A U G H , H U B Y , S H A R P L E S , G U T A S 1992. 38 The Greek text is from M. West, Homeric Hymns. Homeric Apocrypha. Lives of Homer, Cambridge (MA) 2003; the translation is my own. For a discussion of other examples of Hera’s jealousy, see K O N S T A N 2003, p. 18. deal, they complain a lot, and they are difficult to guard 36 . In order to illustrate how wives are typically suspicious and jealous, Theophrastus switches from narrative mode to quoted speech: Further, there are garrulous complaints all night long: “That lady appears in public more elegantly dressed”. “This lady is respected by everyone. Poor me, I am despised in the company of women”. “Why were you looking at the woman next door? ” “What were you saying to the young maid? ” “What have you brought me from the marke‐ tplace? ” “I am not allowed to have a single friend or companion” 37 . In this passage, a wife’s envy of another woman’s dress and reputation sits alongside jealousy over the husband paying attention to other women, including slave-women. The quoted speech is designed to vividly evoke the incessant ‘nagging’ of the jealous wife. Theophrastus then describes how a faithful slave is preferable to a wife, both for managing the house and as a companion because slaves are more submissive to their masters and more attentive to their master’s wishes. A wife is especially undesirable if she acts in opposition to her husband and does what pleases her, rather than what she is commanded to do. In mythology, Hera, the goddess of marriage and childbirth, is portrayed as a perennially jealous wife. Fuelled by anger and resentment about her husband’s many affairs, she seeks to punish Zeus, his lovers and his offspring. In the Homeric Hymn to Apollo, for example, Hera prolongs Leto’s birth pangs out of jealousy (3.97-101) 38 : μούνη δ᾿ οὐκ ἐπέπυστο μογοστόκος Εἰλείθυια· ἧστο γὰρ ἄκρῳ Ὀλύμπῳ ὑπὸ χρυσέοισι νέφεσσιν Ἥρης φραδμοσύνῃς λευκωλένου, ἥ μιν ἔρυκεν ζηλοσύνῃ, ὅ τ᾿ ἄρ᾿ υἱὸν ἀμύμονά τε κρατερόν τε Λητὼ τέξεσθαι καλλιπλόκαμος τότ᾿ ἔμελλεν. 100 The only one who had not learned of it was Eileithyia, the goddess of birth pains, for she had sat down on the Olympian summit beneath golden clouds by the prudence of white-armed Hera, who was restraining her out of jealousy, because at that time, 250 Sonia Pertsinidis <?page no="251"?> 39 A further example of Hera’s jealousy is discussed below in relation to Lamia. 40 F O L E Y 2002, p. 241. 41 The Greek text is from D. Kovacs, Euripides. Cyclops, Alcestis, Medea, Cambridge (MA) 1994. The translation is my own. 42 F A N T H A M 1986, p. 45 n. 2. 43 See F O L E Y 2002, pp. 249-257. 44 See N U S S B A U M 2016, pp. 91-92. lovely-haired Leto was about to give birth to an excellent and strong son. In this instance, Hera can do little to punish her husband for his infidelity. Instead, Hera punishes Leto as well as the offspring of the illegitimate union 39 . Medea is the quintessential example of jealousy in Greek drama. She is all the more fearsome because her jealousy is expressed through the brutal murder of her own children as well as the Corinthian princess who usurped her. As Foley observes, «she borrows heroic masculine ethical standards to articulate her choice and stereotypically feminine duplicity and magic permit her to achieve her goals» 40 . In Medea’s view, Jason’s conduct raised expectations of trust and fidelity. After helping Jason acquire the golden fleece, leaving her natal family, sharing his bed and bearing two children, Medea is unceremoniously abandoned (1368-1369) 41 : Μη. Ια. σμικρὸν γυναικὶ πῆμα τοῦτ᾿ εἶναι δοκεῖς; ἥτις γε σώφρων· σοὶ δὲ πάντ᾿ ἐστὶν κακά. Me. Ja. Do you think this disaster is a trivial thing for a woman? For a prudent one, yes. But everything is a disaster in your mind. Jason disregards any notions of personal loyalty or fidelity to Medea: her barbarian status simply prevents social or legal approval of the partnership as legitimate. As Fantham observes, many Greeks would have agreed with Jason’s point of view and regarded the marriage as lacking in legal sanction because of Medea’s status as a foreigner and because she partnered with Jason without the consent of her legal guardian 42 . In many ways, the play can be viewed as a conflict between the masculine and feminine, not only between Jason and Medea but as attributes within Medea herself 43 . The fact that Medea decides to take revenge on Jason demonstrates rationality, autonomy and decisive action: all viewed as distinctively male attributes. The fact that Greek women had very little autonomy and were expected to respect their husband’s decisions makes Medea’s enactment of jealous revenge all the more disturbing 44 . 251 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="252"?> 45 Konstan is cautious in this regard: see K O N S T A N 2003, p. 8. 46 On so-called ‘normal jealousy’, see W H I T E 1991, p. 233. 47 B E N Z E ’ E V 2000, pp. 281, 302-303. 48 In particular, Bryson’s studies of jealousy have found that females consistently score higher on emotional responses while males score higher on measures of aggression and self-blame: B R Y S O N 1991, p. 189. 49 See P I N E S 1992, p. 107, and B R Y S O N 1991, p. 189. 50 N U S S B A U M 2016, p. 122. The passages analysed above suggest that the concept of sexual/ romantic jealousy not only existed in ancient Greece but that it may not have been too far removed from our own understanding of the emotion 45 . The term ζηλοτυπία is clearly used in contexts that involve fear of losing a beloved to a rival, in much the same way that we use the term ‘jealousy’ today. We can also see that it was viewed as a complex emotion that varied in nature and intensity, from so-called ‘normal’ cases of jealousy to extreme pathological forms that lead to violence and murder, such as in Euripides’ Medea  46 . The ancient sources indicate that jealousy was generally viewed as a negative emotion, just as it is said to be viewed today 47 . Finally, and perhaps most importantly, jealousy appears to have been a gendered concept. Greek men appear to have been reluctant to admit feeling jealous, while wives are portrayed as typically jealous. A woman who went further and acted upon her jealousy, such as Medea, is viewed as transgressing gender norms and assuming a masculine role by taking action, retribution and justice. According to Bryson, «there are some sex differences in reactions to jealousy that are relatively stable across cultural and national boundaries» 48 . Perhaps there are differences that are relatively stable across temporal boundaries as well. In particular, men are said to be more likely to respond to jealousy with anger and physical violence while women are more likely to use verbal abuse and they may feel angry, betrayed, emotionally devastated and seek social support 49 . For both men and women, the stakes are said to be high, even if those stakes might be different. A man risks losing his sense of honour and self-worth, while a woman is often at risk of losing money, love and status 50 . In the passages from Menandrean comedy that follow, we will find examples of jealous men reacting with violence, and jealous wives who stand to lose a great deal. With this in mind, let us examine the representation of jealousy in New Comedy. 3. Female jealousy: Menander’s Plokion Although Menander’s Plokion survives only in fragments attested in later sources, it was a popular and influential play and one that is highly relevant to 252 Sonia Pertsinidis <?page no="253"?> 51 For the Greek text (and numbering), I am using the Oxford Classical Text. The translations are my own. 52 See Figure 9a in N E R V E G N A 2013, p. 138. 53 The children may be Krobyle’s or they may be Laches’ children from a previous marriage. 54 R O S I V A C H 1998, p. 22. For other examples of Menandrean plays that end with a poor girl marrying a wealthy young man, see Dyskolos, Georgos and Aspis. a discussion of jealousy. Four substantial fragments of this play survive: three fragments preserved as quotations in Gellius’ Attic Nights (2.23.9, 12, 15) and one fragment quoted in Stobaeus (4.32.42) 51 . The purpose of Gellius’ discussion is to compare and contrast the original version of the play by Menander with a later version written by Caecilius. As such, the discussion provides valuable clues as to the plot, style and characters in Menander’s play. In addition to this written evidence, we have a mosaic from the so-called House of Menander at Mytilene on the island of Lesbos. The mosaic depicts a scene from the Plokion and it dates from the late third or fourth century AD , thereby attesting to the play’s longevity and popularity. It is clearly labelled with the title of the play (Plokion), the act number, and the character’s names (Moschion, Laches and Krobyle) 52 . Using these sources, we are able to sketch a rough outline of the plot as follows: a senex (Laches) married a wealthy young heiress named Krobyle. They have a son (Moschion) and a daughter 53 . Krobyle suspects that her husband has taken their slave-girl as his mistress (in Gellius’ words, suspectam uxori quasi paelicem). She sends the girl away. As it turns out, the girl had been raped by Moschion and she gives birth to a child in the course of the play. The girl then turns out to be a marriageable citizen, and the necklace functions as a recognition token. Presumably, in the end, Moschion marries the girl and the play ends happily 54 . The first fragment (fr. 333) is as follows: ἐπ᾽ ἀμφότερα νῦν ἡ ᾿πίκληρος ἡ κ<αλή> μέλλει καθευδήσειν. κατείργασται μέγα καὶ περιβόητον ἔργον· ἐκ τῆς οἰκίας ἐξέβαλε τὴν λυποῦσαν ἣν ἐβούλετο, ἵν᾽ ἀποβλέπωσιν πάντες εἰς τὸ Κρωβύλης πρόσωπον ᾖ τ᾽ εὔγνωστος οὖσ᾽ ἐμὴ γυνή δέσποινα. καὶ τὴν ὄψιν ἣν ἐκτήσατο· ὄνος ἐν πιθήκοις, τοῦτο δὴ τὸ λεγόμενον ἐστίν. σιωπᾶν βούλομαι τὴν νύκτα τήν πολλῶν κακῶν ἀρχηγόν. οἴμοι Κροωβύλην λαβεῖν ἔμ᾽, εἰ καὶ δέκα τάλαντ΄<ἠνέγκατο> 5 10 253 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="254"?> 55 On the proverbial expression, see G O M M E , S A N D B A C H 1973, p. 705. <τὴν> ῥῖν̓ ἔχουσαν πηχέως. εἶτ᾽ ἐστὶ τό φρύαγμα πῶς ὑποστατόν; <μὰ τὸν> Δία τὸν Ὀλύμπιον καὶ τὴν Ἀθηνᾶν, οὐδαμῶς. παιδισκάριον θεραπευτικὸν δὴ καὶ λόγου †τάχιον· ἀπαγέσθω δέ. τί γὰρ ἄν τις λέγοι; 15 Now the beautiful heiress will sleep soundly on both sides. She has accomplished a great achievement, one much talked about. She has cast out of the house the girl that pained her, as she wanted, so that everyone might look on Krobyle’s face and it would be known that it is my wife who gives the orders. And what a face she has got for herself. An ass among apes, as the saying goes. I don’t want to talk about that night, the start of many troubles. Woe is me, that I took Krobyle as wife, with ten talents and a two-foot-long nose. How can one endure her insolence? By Zeus Olympias and Athena, one cannot at all. Let her lead away the little girl who attended to things quickly as instructed. What can anyone say? The speaker in this passage is undoubtedly Laches, Krobyle’s husband. It appears that he is addressing the audience. The tone is angrily sarcastic: he credits his wife with having accomplished a ‘great achievement’ but, in reality, it only involved expelling a slave girl from the house; he describes his wife as “beautiful” (κ<αλή>) but draws attention to her grotesquely large nose; he contrasts her wealth with the troubles she has brought him. Krobyle is represented as seeking to assert her power over the household and over him personally. While he admits that the slave-girl was a source of pain and grief (τὴν λυποῦσαν) to Krobyle, he never states that he is entirely above suspicion. Instead, he prefers to divert attention from the issue by making an ad hominem attack against his wife’s physical appearance. The description of Krobyle as an “ass among apes” (ὄνος ἐν πιθήκοις) alludes to a proverbial expression but it is also reminiscent of Semonides’ savagely misogynistic comparisons between women and animals 55 . The adjective used to describe Krobyle as “insolent” (φρύαγμα) can also be interpreted as “one who snorts violently”, adding yet more force to the deprecatory remarks about Krobyle’s nose. The second fragment (fr. 334) is as follows: <Α.> ἔχω δ᾽ ἐπίκληρον Λάμιαν· οὐκ εἴρηκά σοι τουτὶ γάρ. 254 Sonia Pertsinidis <?page no="255"?> 56 See Ar. Ve. 1035. 57 C O L L A R D , C R O P P 2008, p. 557. <Β.> οὐχί. <Α.> κυρίαν τῆς οἰκίας καὶ τῶν ἀγρῶν καὶ † πάντων ἀντ᾽ ἐκείνης † ἔχομεν. <Β.> ῎Απολλον, ὡς χαλεπόν. <Α.> χαλεπώτατον. ἅπασι δ᾽ ἀργαλέα ᾿στίν, οὐκ ἐμοὶ μόνῳ· υἱῷ πολὺ μᾶλλον, θυγατρί. 5 <Β.> πρᾶγμ᾽ ἄμαχον λέγεις. <Α.> εὖ οἷδα. A. B. A. B. A. B. A. I have an heiress, a Lamia. I have not revealed this to you. No, you haven’t. She is mistress of the house and land and everything. By Apollo, how difficult! It is most difficult! She is troublesome for us all, not just me but even more so for my son and daughter. You speak of unwinnable battles. I know! In this passage, Laches (A) engages in a conversation with an elderly male friend and neighbour (B). Laches describes Krobyle as a “Lamia”. In Old Comedy, Aristophanes uses this word as a term of abuse 56 . Of even greater significance is that “Lamia” was the title of a fragmentary satyr play by Euripides: Lamia was a beautiful Libyan girl seduced by Zeus; in jealousy Zeus’s wife Hera destroyed the children she bore. Lamia’s grief made her hideous, and she became a killer of others’ children (Duris FGrH 76 F 17, whence Scholia to Aristophanes, Peace 758 and Wasps 1035 etc.). Such a bogey figure would suit comedy (Crates wrote a play with her name) or satyric drama 57 . Laches would seem to be making an analogy between the negative effects of Lamia’s and Krobyle’s emotional states upon their physical appearance, and the manner in which those emotional states translate into vindictive behaviour towards children. In the only fragment of the Euripidean play that is extant, the name Lamia is described as “reviled by mortals” (fr. 472 m [= 922 N., 312a N.-Sn.] ὄ>νομα τοὐπονείδιστον βροτοῖς). Laches also clearly resents Krobyle’s position 255 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="256"?> 58 Another particularly vivid term borrowed from Old Comedy: see G O M M E , S A N D B A C H 1973, p. 706. 59 See Figure 9a in N E R V E G N A 2013, p. 138. 60 On the aggressive gesture in this scene, see N E R V E G N A 2013, p. 163. 61 See B L U M E 2014, p. 9. 62 «New comic fathers of sons can quite frequently reveal patriarchal rigidity through their irascible tempers»: F O L E Y 2014, p. 268. 63 «Illustrations of Greek New Comedies were traditionally displayed in domestic spaces devoted to the reception and entertainment of guests and visitors»: N E R V E G N A 2013, p. 193. Compare the Plokion mosaic from Chania (Figure 9b, discussed in N E R V E G N A 2013, p. 154). as heiress and the power and control that she ostensibly asserts in the household. Echoing Socrates’ description of Xanthippe as “most difficult” (χαλεπωτάτῃ, see above), Laches describes his marital situation as “most difficult” (χαλεπώτατον). Krobyle is described as “troublesome” (ἀργαλέα) for the entire family 58 . The neighbour is sympathetic and supportive throughout this discussion, affirming the magnitude of Laches’ troubles and the difficulties of his situation. Lastly, we have the visual depiction of a scene from the play on the Mytilene mosaic 59 . The central figure is the old man Laches. He is the middle of an angry outburst. In his left arm, he holds his toga and walking stick, and with his right arm, he gestures aggressively towards his young wife, Krobyle, who leans back slightly and to the side, apparently trying to put more distance between herself and her irate husband 60 . She looks rather taken aback by her husband’s anger. They seem to be an incompatible and mismatched couple: both in age and temperament 61 . To the right of Laches stands Moschion, who is watching his father’s aggressive tirade and, to some extent, mirroring his father’s body language and stance. This is not the hen-pecked husband we hear from in the play. Is this a later scene, perhaps, when Laches reasserts his male dominance? In the mosaic, Laches is represented as a strong and assertive elderly male figure, which is consistent with what we know about fathers in New Comedy generally 62 . It is also significant that this mosaic was located in the triclinium of the house, a room reserved for elite males and their guests to gather for dinner parties. Perhaps this scene was deliberately chosen because it demonstrates male assertiveness and power in the oikos  63 . Although we cannot be sure about the later scenes of the play, we can deduce that Krobyle’s jealousy over the slave-girl is pivotal to the plot. Krobyle’s jealousy leads to the girl’s banishment, the revelation of her true status and ultimately, her wedding to Moschion. Yet, the only perspective that we have on the situation is that of Laches. The negative attributes that Laches attributes to 256 Sonia Pertsinidis <?page no="257"?> 64 R U F F E L L 2014, p. 163. 65 T R A I L L 2008, p. 99. 66 On the lack of narrative sympathy for jealous females in literature generally, see L L O Y D 1995, p. 79. 67 On women’s masks, see F O L E Y 2014, p. 262. On facial features and hairstyles of women in New Comedy, see R U F F E L L 2014, p. 156. 68 In Terence’s Menandrean play entitled Phormio, for example, Nausistrata (another wealthy heiress) is angered when she learns that her husband raped a woman and has been financially supporting both her and the child. 69 D O V E R 1973, p. 63. his wife (a domineering personality, ugliness and an insolent nature) quickly become «social and fictional shorthands» for Krobyle’s character 64 : Within the semiotic system of the genre, one stock action can be enough to classify a character and there is an underlying assumption that character is fixed, with little possibility for change or growth. An audience can reasonably expect a character who thinks according to comic norms to be correct, whether he applies these norms self-cons‐ ciously (as “what happens in drama”) or more naturalistically (as simple truths about human nature) 65 . Krobyle is, as Laches paints her, the ugly and insolent heiress, whether this judgment is fair or not. In turn, this fixed character typology makes it very difficult for us to imagine or develop any ‘narrative sympathy’ for Krobyle and, in turn, it is hard to resist the reading of female jealousy that the text apparently presents 66 . This is the case even when the visual evidence that we have contradicts the picture of Krobyle as domineering and ugly - the Mytilene mosaic shows a young female in a subordinate role, wearing modest dress, and with well-proportioned and attractive facial features 67 . Whether we can trust Laches’ account of his wife’s character remains an open question. It should trouble us that Laches never denies (at least not in the fragments we have) desiring the slave-girl and this raises the possibility that Krobyle’s concerns were well founded 68 . If Laches did desire her, he did not need his wife’s consent to have relations with her, nor did he need the slave-girl’s consent: men in ancient Greek society could have sex with slaves and a female slave was not in a position to refuse her master’s sexual demands 69 . It is also quite possible that the question of whether Laches was fond of the girl was never resolved in the play, since it would never have been viewed as an issue for a male audience. It is convenient for Menander/ Laches to paint Krobyle as the stereotypically jealous wife. In Theophrastus’ treatise On Marriage, Theophrastus claims that it 257 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="258"?> 70 Hieron. Adv. Iovinian. 1.47-48, fr. 486 in F O R T E N B A U G H , H U B Y , S H A R P L E S , G U T A S 1992. 71 W H I T E 1991, pp. 237-238. is exceedingly irritating to have a wife who constantly questions her husband’s activities and interactions. There are several other notable parallels between Theophrastus’ ‘typical wife’ and Krobyle: she is wealthy, which according to Theophrastus, makes a wife tortuous; she is ostensibly ugly, which makes a wife undesirous and “faulty” (although these faults are often revealed only after the wedding); and she has control over the household, which shifts the balance of power in her favour. As Theophrastus says: If you give her the management of the whole house, you must yourself be her slave. If you reserve something for yourself, she will not think you are loyal to her; but she will turn to strife and hatred, and unless you quickly take care, she will have the poison ready 70 . This passage clearly plays upon male fears of jealous emotions quickly escala‐ ting to become dangerous, life-threatening conduct. As for Krobyle, the portrait of her as a jealous wife is established quickly and decisively. By matching this portrait to established preconceptions about jealous wives, the audience (especially if it is largely male) is less likely to question whether that character portrait is grossly exaggerated, conflates the evidence, or presents isolated instances of behaviour as if they are routine occurrences. From the point of view of Krobyle, however, the prospect of her husband’s infidelity is no light matter since she stands to lose a great deal. The risk that a female who is inferior to her in age and social status might usurp her position represents a threat to her self-esteem and reputation in the broader community. Secondly, there is the potential or actual threat to the stability of the marital relationship itself. When we consider what is at stake for Krobyle, her jealousy might not irrational at all but a perfectly reasonable attempt to preserve her own status and marriage as well as order and harmony in the oikos. Indeed, the decision to take action - that is, to remove the slave-girl from the house - may not be an attempt to wield even more power in the household (as Laches asserts) but to remove a threat and preserve the status quo. It could be viewed as an attempt to «stabilize a system in distress», to remind Laches that the marital relationship is «distinct from more mundane relationships» and to strengthen boundaries that «have become too permeable» 71 . We can safely presume that the outcomes of this play, as with Menander’s other plays, are positive ones: ultimately, the marital relationship between Laches and Krobyle survives, Moschion is united in marriage to the girl, the child that is a product 258 Sonia Pertsinidis <?page no="259"?> 72 W H I T E 1991, p. 244. 73 See B L U M E 2014, pp. 9-10. 74 D U T S C H , K O N S T A N 2011, p. 60. of rape becomes legitimate and the family is preserved. As White observes, jealousy can «enhance the stability of both the primary relationship and the family or friendship system» 72 . From this point of view, Krobyle’s jealousy is not destabilizing but stabilizing, and her role in the plot is not to disrupt the oikos but to preserve it. Another factor that complicates a fair assessment of Krobyle’s character is her wealth 73 . It seems all too convenient for Laches to repeatedly draw attention to Krobyle’s status as an heiress because this presupposes (as it did in Greek literature more generally) that the rich wife was using her dowry as leverage to exert control over her husband: It was a commonplace that women who brought a large dowry to a marriage had a tendency to lord it over their husbands (Arist. EN 1161a 1-3): their money, which upon divorce would return to their natal family, gave them a special leverage, reversing what was considered to be the normal power relation between husbands and wives 74 . Laches is resentful because Krobyle’s financial power prevents him from ‘living as he pleases’. She is master of the house and property and when it comes to his ownership of slaves, she also has the last word. Hence, Laches describes Krobyle as his owner or tyrant. The problem may not be that Krobyle herself is unreasonable - the problem may be that the entire scenario is at odds with the normal and preferred marital arrangement in which the husband was head of the household and his wife obediently and silently followed his orders. From the point of view of the plot, however, we can guess that Krobyle’s substantial dowry reaps rewards for herself, her marriage and her family. In fr. 335, a slave bemoans the difficulties of being poor and notes that a poor man can’t use money “to cover up” (fr. 335.5 ἐπαμφιέσαι) disasters - which suggests that Krobyle’s wealth may have helped to finance the wedding between Moschion and the girl who has just given birth to his baby. Krobyle’s wealth helps to legitimize the relationship and the marital union. Similarly, in fr. 336, a slave comments that it is hard for a poor person to look upon the comfort and wealth of others. Presumably, the wedding that takes place between the wealthy 259 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="260"?> 75 For a similar resolution of disparities in wealth in Menander’s Dyskolos, see K O N S T A N 2010, p. 38, and L A P E 2010, p. 59. 76 F A N T H A M 1986, p. 57. 77 T R A I L L 2008, p. 79. 78 H E N R Y 1986, p. 146. young Moschion and the poor girl united the two families and helped in some way to redress the imbalances in social class and wealth 75 . We have, to be sure, only fragments of this play and we need to be cautious in making assumptions about how the various complications are resolved. That being said, there are two further points worth considering. The first is that, generally speaking, «[j]ealousy between married partners is not comic (unless it is proved unjustified and resolved in forgiveness)» 76 . This suggests that Krobyle’s jealousy must be resolved by the end of the play and, presumably, this is achieved through Moschion’s legitimate marriage to the slave-girl. Secondly, we cannot discount the possibility that there are certain misperceptions of character like those in other plays by Menander 77 . Just as the slave-girl is revealed to be an innocent victim of rape and to be a marriageable citizen, it is also possible that the ‘Lamia’ Krobyle turns out not to be so villainous after all. As has been observed in other Menandrean plays, it is men who typically disrupt the stability of the oikos, and women who preserve it 78 . By the end of the play, Krobyle may well have been shown to have preserved her own oikos and to have successfully settled Moschion into his new marriage. 4. Male jealousy: Menander’s Perikeiromene In the Perikeiromene (“Girl with Her Hair Cut Short”), the playwright again explores the theme of jealousy although, in this instance, the jealous individual is male. In this play, a mercenary soldier named Polemon lives with a mistress (παλλακή) named Glykera. Next door, lives a young man, Moschion, who is also (unbeknownst to Polemon and the young man) Glykera’s brother. Glykera conceals Moschion’s true birth status for as long as she possibly can in order to protect him and his wellborn lifestyle. When Polemon learns that Moschion embraced Glykera, his jealous rage drives him to cut off her hair. Polemon then leaves their house to live with a friend and Glykera takes refuge in the neighbour’s house. Ultimately, Glykera is revealed to be a legitimate citizen female (who was abandoned as an infant), Moschion is revealed to be her brother, Polemon begs to be reconciled with Glykera, and Glykera is betrothed to Polemon. 260 Sonia Pertsinidis <?page no="261"?> 79 K O N S T A N 2003, p. 23. 80 For the Greek text (and numbering), I am using the Oxford Classical Text. The translations are my own. 81 F A N T H A M 1986, p. 51 n. 17. 82 See F A N T H A M 1986, p. 51 n. 15. 83 On visual depictions of this opening scene on the Perikeiromene wall painting from Ephesus (2 nd -3 rd century A D ), see N E R V E G N A 2013, Figure 18a on p. 160 and pp. 167-168; also see H E N R Y 1988, p. 82. 84 Z A G A G I 1995, pp. 150-151. There is no doubt that Polemon was jealous when he heard of the fateful kiss that Moschion gave Glykera 79 . Polemon describes himself explicitly as a ζηλότυπος ἄνθρωπος (984-988) 80 : οἴμοι [ ὡς κατὰ κράτος μ᾿ εἴληφας. ἐ[φιλ ἀδελφόν, οὐχὶ μοιχόν· ὁ δ᾿ ἀλάστωρ ἐγὼ καὶ ζηλότυπος ἄνθρωπος α[ εὐθὺς ἐπαρῴνουν. 985 Woe is me! How powerfully you have taken hold of me! [You] kissed a brother, not a lover! But I, an avenger, a jealous man, straightaway acted in drunken rage. As Polemon reviews his conduct with regret, he explicitly connects feeling emotionally overwhelmed with his jealous and angry reaction. According to Fantham, the reference to becoming an ἀλάστωρ (986), a vengeful spirit, «im‐ plies that jealous anger or a lover’s moral indignation can be a destructive force, a home-breaking source of ruin» 81 . Similarly, the verb παροινέω (988) is frequently associated with drunken violence, not only “taking to drink” 82 . It is clear then that Polemon acted irrationally and impulsively, without pausing to ask questions about the incident and without presuming that Glykera was innocent. The violence that Polemon refers to in the passage above is the act of cutting Glykera’s hair. While this act may have preceded the opening scene, or taken place off stage, the title of the play itself draws attention to it 83 . The prologue also indicates that the playwright fully expected the audience to be shocked and appalled by the act (167-168 εἰ τοῦτ᾿ ἐδυσχέρανέ τις ἀτιμίαν τ᾿ ἐνόμισε…, “if anyone was disgusted by this and thought it dishonourable”) 84 . The punishment renders Glykera «identical in appearance to a slave prostitute», thus reducing 261 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="262"?> 85 H E N R Y 1986, p. 145. 86 L A P E 2004, p. 153. For a different reading of the haircut as ritual death and rebirth, see H E N R Y 1988, pp. 83-84. 87 Z A G A G I 1995, p. 21. her status and standing 85 . According to Lape, the haircut also seems to represent a punishment specifically for «female infidelity». A man who seized a male seducer in the act could bind him and, if he chose, remove the offender’s pubic hair. By cutting Glykera’s hair, Polemon «inflicts on her the symbolic analog of the punishment usually reserved for the man caught in the act» 86 . In acting like an ἀλάστωρ, Polemon takes it upon himself to enact personal revenge as well as divine justice for presumed wrongdoing. The manner in which jealousy is explained in this play is of particular interest. It is not represented as a character trait but a temporary emotional state inspired by a female divinity known as Ignorance, Ἄγνοια (162-171): … πάντα δ᾿ ἐξεκάετο ταῦθ᾿ ἕνεκα τοῦ μέλλοντος, εἰς ὀργήν θ᾿ ἵνα οὗτος ἀφίκητ᾿-ἐγὼ γὰρ ἦγον οὐ φύσει τοιοῦτον ὄντα τοῦτον-ἀρχὴν δ᾿ ἵνα λάβῃ μηνύσεως τὰ λοιπά, τούς θ᾿ αὑτῶν ποτε εὕροιεν· ὥστ᾿ εἰ τοῦτ᾿ ἐδυσχέρανέ τις ἀτιμίαν τ᾿ ἐνόμισε, μεταθέσθω πάλιν. διὰ γὰρ θεοῦ καὶ τὸ κακὸν εἰς ἀγαθὸν ῥέπει γινόμενον. ἔρρωσθ᾿ εὐμενεῖς τε γενόμενοι ἡμῖν, θεαταί, καὶ τὰ λοιπὰ σῴζετε. 165 170 All this was kindled for the sake of what is to come, to put this man into a rage - I was leading him, since he is not like this by nature - but so that the rest may begin to be revealed and then they would find their families. So if anyone was disgusted by this and thought it dishonourable, he must think again. By means of a god, even evil becomes good by inclination. Farewell, spectators, be well-disposed to us, and keep in mind what follows. Menander does not attribute Polemon’s rage to the soldier personally but presents it as divinely inspired 87 . There is a very deliberate contrast in this passage between Polemon’s nature (164 φύσις) and a temporary emotional state. The confession by Ignorance that she “was leading him” (164 ἦγον) into that 262 Sonia Pertsinidis <?page no="263"?> 88 See K O N S T A N 1995, p. 111. 89 See F O R T E N B A U G H 1974, pp. 440-441. 90 K O N S T A N 1987, p. 132. 91 G O M M E , S A N D B A C H 1973, p. 467, prefer to translate this term as “impetuous”. emotional state effectively absolves Polemon of any wrongdoing and places the cause of the jealousy back in the female domain. It also resolves the tension in Polemon’s character, as a strong and capable Greek soldier on the one hand, but one who behaves in an ‘unGreek’ and ‘unmanly’ way in expressing jealousy over a woman he regards as his wife (489 ἐγὼ γαμετὴν νενόμικα ταύτην) 88 . In other words, the jealousy is satisfactorily explained away as a temporary emotional state inspired by an external (female) force. Menander presents Polemon as full of regret and his rashness as enabling the discovery of Glykera’s true social status. Glykera, however, is unaware of the divinity’s influence over her lover. She interprets Polemon’s assault as an intentionally violent act and one that is deeply humiliating, not only because it diminishes her status but because she is entirely innocent of any wrongdoing (not only is Moschion her brother but she did not invite the kiss) 89 . She is firm in her resolve not to return to Polemon and this is a mark «of her strong character and deep sense of injury» 90 . Glykera refuses to return to Polemon and she states that he can “assault some other girl in future” (722-723 [εἰς ἑτέραν τινὰ / ὑβριζέτω τὸ λοιπόν). At 723-724, Pataikos tries to diminish Polemon’s responsibility by suggesting that what Polemon did was “not so terrible” (οὐχ [… / γέγονε τὸ δεινόν), but at 724, Glykera rebuts that claim, asserting that it was “abominable” (ἀνόσι[ον). Glykera is not the only character in the play to have reservations about Polemon’s character. In the prologue, the female divinity refers to Polemon as “violent” (128 σφοδρός) 91 , the old woman who took care of Glykera reflects on the fact that Polemon was “never reliable” (144 βέβαιον δ᾿ οὐθὲν) and Doris, Glykera’s maid, refers to all soldiers as “lawless” (186 παράνομοι). At 490-491, Pataikos tells Polemon bluntly that Glykera “left because you treated her so badly” (ἀπελήλυθεν δ’ οὐ κατὰ τρόπον σου χρωμένου αὐτῇ) and he counsels Polemon against the use of force. He argues that the only way to convince Glykera is by means of persuasion, and the only way to win justice against the young man who kissed her is to make a formal complaint. Towards the end of the play, Pataikos tells Polemon to forget that he is a soldier and not to commit any further assaults (1016-1017): τὸ λοιπὸν ἐπιλάθου στρατιώτης [ὤν, ἵνα προπετὲς ποήσῃς μηδὲ ἕν, [ 263 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="264"?> 92 See L A P E 2004, pp. 152-155. On the involvement of the divinity as entirely compatible with full human agency and responsibility, see F O R T E N B A U G H 1974, pp. 434-435. For a discussion of Othello as a soldier with a similarly unstable identity, see D E S R O S I E R S 2018. 93 K O N S T A N 1995, p. 117. 94 K O N S T A N 1995, pp. 118-119. 95 See G O M M E , S A N D B A C H 1973, p. 530; also discussion in K O N S T A N 1987, pp. 133-135; K O N S T A N 1995, p. 115; and H E N R Y 1988, p. 76. 96 R O S I V A C H 1998, p. 55. 97 K O N S T A N 1987, p. 134. 98 On male anxiety about «rhetorically proficient women who use their skills to subvert male social hierarchy», see M C C L U R E 1999, p. 28. From now on, forget your soldiering - [So that] you will never act too hastily [again]! One could be forgiven for a slight sense of unease at the end of the play. Was Polemon’s violent assault on Glykera purely a manifestation of divine will or does his soldiering background generate a tendency toward violence 92 ? Will Polemon put his military days behind him and fully enter into the «civic relation of marriage» 93 ? At the end of the play, the «problem of soldier’s rage and Glycera’s indignation is … left hanging» 94 . While the comic genre demands a happy conclusion, the fantasy of marital harmony and respect is at odds with what we know about the realities of marriage in ancient Greek society. Even more concerning (to a modern audience) is the fact that Glykera is effectively silenced at the end of the play 95 . At no point in the final scene does she forgive Polemon, even when she is invited to do so (1020), nor does she express her consent to the marriage. She simply has no speaking part. Glykera is handed over in marriage to Polemon by her father Pataikos, along with a generous dowry (1015). The marriage is stated to be explicitly for the purposes of bearing legitimate children (1013-1014). The independent, outspoken and wilful courtesan has no option but to conform to the traditional model of the subordinate, silent and patient Athenian wife 96 . She has won better social standing but lost her voice in the process: «[h]er deferential silence … appears as the sign of her new citizen status, and the marriage that it brings» 97 . In future, if Glykera wishes to react against her husband’s behaviour, her protests will be viewed in the same way as the protests of other Athenian wives: not as justified criticisms but as expressions of insubordinate attitudes 98 . 264 Sonia Pertsinidis <?page no="265"?> 99 On the useful social function of jealousy, see B E N Z E ’ E V 2000, p. 324. 5. Conclusions By comparing the representation of female jealousy in the Plokion and male jealousy in the Perikeiromene we can see how Menander privileges the male viewpoint. Krobyle is presented in a stereotypically negative light as the jealous (and wealthy) heiress. Whether Krobyle is ever released from this negative stereotype, we will never know. What we can say is that her character portrait is in keeping with what we know about jealous wives elsewhere in Greek literature (especially in Theophrastus’ character portrait of the typical wife) and it is a perspective that is likely to have found sympathy with Menander’s largely male audience. Polemon fares much better. His jealousy is justified on the grounds of ‘temporary insanity’. It is not a matter of his nature or his character. The blame rests with a female divinity (Agnoia) and indirectly, with the female Glykera. In both cases, jealousy is never recognised as part of the rational, dominant male domain. It is kept firmly within the irrational, subordinate and female domain. The androcentric bias in Menandrean comedy also prevents full and proper recognition of the female perspective on male behaviour and it misrepresents the efforts of female characters to preserve harmonious family units. Krobyle is rightly concerned that her husband’s suspected infidelity might jeopardise her status, her marriage and her family. Krobyle takes action to mitigate that risk. Krobyle is not exhibiting a pathologically harmful emotion. Arguably, she is addressing a genuine human concern and performing a useful social function: she is safeguarding her marriage and her oikos  99 . Her actions (and her wealth) enable the preservation of her own household and support the development of new, legitimate households. Likewise, Glykera is rightfully appalled by Polemon’s jealous and violent rage and she leaves the formerly stable relationship in order to preserve her own safety. Her autonomous action and overt criticism of male behaviour are entirely reasonable in the circumstances but, in keeping with Greek concerns about female autonomy and outspokenness, they are not tolerated for long. By the end of the play, Glykera is subordinated and silenced. She is aligned in marriage to the very male who mistreated her and there is no guarantee that his better nature will prevail. In both plays, the female voice is silenced. In the surviving fragments and the Mytilene mosaic representing the scene from Plokion, it is Laches who verbally and physically dominates. We will probably never know if Krobyle had a speaking part in the play. In the Perikeiromene, Glykera’s voice is strongest when she is an independent hetaera standing outside male control. By the 265 Jealousy in Menandrean Comedy <?page no="266"?> 100 H A R R I S 2004, p. 143. end of the play, as a newly married Athenian woman, she has lost her voice, her independence and her «right to rage» 100 . In both plays, male dominance is reasserted, the patriarchal system is reinforced, and any inclination on the part of women to speak critically (or to engage in autonomous action) is stamped out. Jealous concerns about male behaviour are nullified and male actions driven by jealousy are depicted as leading to positive social outcomes. While one may argue that this all in the name of comedy, it might also be said that whether Menander’s plays about romantic jealousy are ‘delightful’ depends on one’s perspective. Bibliography B A I N 1984 D. Bain, “Female Speech in Menander”, Antichthon 18, 1984, pp. 24-42. B E N Z E ’ E V 2000 A. Ben Ze’ev, The Subtlety of Emotions, Cambridge (MA) 2000. B L U M E 2014 H. Blume, “Money and Love in Menandrian Comedy”, in A. Sommerstein (ed.), Menander in Contexts, New York 2014, pp. 3-10. B R Y S O N 1991 J. Bryson, “Modes of Response to Jealousy-Evoking Situations”, in P. Salovey (ed.), The Psychology of Jealousy and Envy, New York 1991, pp. 178-207. 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La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto Chiara Battistella Abstract: This article aims to offer a few insights into the emotion of jealousy in Roman comedy and, more specifically, in Plautus’ Casina, where the character of Cleostrata appears to display jealous feelings over her husband. Despite the absence of straightforward verbal clues, which is incidentally rather common in ancient literature with reference to jealousy, it is possible to bring together, in this play, the ‘tesserae’ of a jealousy script that gives absolute prominence to the wife’s (creative) revenge against her unfaithful husband. Keywords: Plautus - Casina - Cleostrata as a matrona - jealousy script - revenge. 1. Introduzione Nella Casina plautina il topos del conflitto generazionale padri vs figli si esplica per mezzo della rivalità inscenata tra i due schiavi, Olimpione, il fattore del vecchio, e Calino, lo scudiero del giovane. Oggetto del contendere è la fanciulla, Casina appunto, che vive nella casa del vecchio e di sua moglie Cleostrata. Il vecchio vorrebbe darla in sposa al suo schiavo per poter così godere dei suoi favori, ma la matrona, che sa dell’amore del figlio per la giovane, ostacola il piano del marito con un’esilarante trovata facendo travestire Calino da Casina 1 . C’è dunque innanzitutto la gelosia del vecchio (Lisidamo 2 ) nei confronti del figlio (e <?page no="272"?> 3 Sul ‘modello’ nel desiderio mimetico si vedano soprattutto le riflessioni di G I R A R D 2005, p. 15: «La gelosia e l’invidia presuppongono una triplice presenza: presenza dell’oggetto, presenza del soggetto, presenza di colui del quale si è gelosi o di colui che si invidia. Questi due “difetti” sono dunque triangolari: tuttavia non scorgiamo mai un modello in chi suscita la gelosia, poiché sulla gelosia facciamo sempre nostro il punto di vista del geloso stesso. Come tutte le vittime della mediazione interna, questi si convince facilmente che il suo desiderio è spontaneo, vale a dire che affonda le radici nell’oggetto e in quell’oggetto soltanto. Il geloso afferma sempre, perciò, che il suo desiderio ha preceduto l’intervento del mediatore. Ci presenta costui come un intruso, un seccatore, un terzo incomodo che viene a interrompere un delizioso a tu per tu. La gelosia si ridurrebbe quindi all’irritazione che tutti noi proviamo allorché un nostro desiderio viene accidentalmente contrastato. La vera gelosia è infinitamente più ricca e più complessa. Comporta sempre un elemento di fascino nei confronti del rivale insolente». 4 Vd. C H I A R I N I 1978, p. 108. 5 Vd. K O N S T A N 2014, p. 5: «the theme of rivalry between son and father is deflected onto the contention between husband and wife over who has the right to determine the future of Casina». Cleostrata, impendendo l’adulterio del marito, rimuove anche l’ostacolo al desiderio del figlio: «blocking Lysidamus is thus a means to attain the resolution of both plot movements» (K O N S T A N 2014, p. 5). viceversa? ), figlio che peraltro non compare neppure tra le dramatis personae, come si apprende dal prologo: il vecchio l’ha infatti spedito all’estero (vv. 60-62) e Plauto non ha voluto farlo ritornare… (vv. 64-65). Quello del padre per Casina può essere ricondotto a una forma di desiderio triangolare e mimetico, in cui Lisidamo identifica nel figlio sia la figura del mediatore interno (il vecchio ama la stessa donna amata dal figlio) sia un ostacolo al soddisfacimento dei suoi piaceri (v. 61 impedimento sibi) 3 . Se sono padre e figlio a farsi ‘indirettamente’ la guerra per mezzo dei loro schiavi (cf. la metafora bellica dei vv. 50-51 nunc sibi uterque contra legiones parat / paterque filiusque clam alter alterum  4 ), non può sfuggire come in questa commedia l’emozione della gelosia sia veicolata soprattutto dal personaggio di Cleostrata, che soddisfa tutti i requisiti, come si vedrà, per rappresentare la moglie tradita (almeno in quelle che sono le intenzioni del coniuge) e gelosa. Tuttavia, potrebbe sembrare che il comportamento della matrona sulla scena non sia strettamente riconducibile a tale emozione, la cui manifestazione nei testi antichi non è sempre agevolmente dimostrabile. Del resto, almeno stando al prologo, Cleostrata architetta il suo piano, sì, ai danni del marito, ma per aiutare espressamente il figlio assente (v. 63), circostanza che estromette così Casina dal ruolo di rivale. La necessità di soccorrere il figlio emerge anche al v. 264 (opitulari), in cui è Cleostrata stessa a esprimersi in tal senso dinanzi a Lisidamo, celando la vera ragione del suo precedente acceso sfogo (vv. 244- 253) 5 . Eppure, supporre che Cleostrata sia preda della gelosia (sessuale) è ben 272 Chiara Battistella <?page no="273"?> 6 Vd. S A N D E R S 2014, pp. 31 e 40: «sexual jealousy is a lexically complicated script in Greek, in that it is rarely represented by one emotional label». Vd. anche K O N S T A N 2006, pp. 220-221. Sulla gelosia come malattia innominabile, vd. C A S T O N 2012, pp. 5-6, 11-12. 7 Vd. S A N D E R S 2014, pp. 29, 138-139. 8 Sulla ‘eccezionalità’ del personaggio di Cleostrata nel panorama comico plautino, vd. ora G O L D 2020, passim e soprattutto p. 171: «nowhere else in Plautine comedy do we find a clever woman, especially a matrona, controlling the action and directing her own version of a play». Vd. anche F O R E H A N D 1973, pp. 234-235: «the basic character types are common enough, but in the Casina Plautus is careful to give these stock elements exceptional features», e p. 241: «Cleustrata’s active opposition to her husband’s plan is exceptional». 9 Come constata la sua complice Mirrina ai vv. 860-861 nec fallaciam astutiorem ullus fecit / poeta atque ut haec est fabre facta ab nobis: «Cleostrata’s deception is an unsur‐ passed unicum» (B A R B I E R O 2020, p. 62). Vd. C H R I S T E N S O N 2019, p. 97. più che un sospetto, nonostante a sostegno di questa tesi non soccorra la presenza di spie lessicali designanti incontrovertibilmente tale emozione 6 (al v. 59 il prologo afferma che Cleostrata ha preso le parti del figlio propterea, cioè a causa dell’innamoramento di Lisidamo che evidentemente non le è sfuggito). In ogni caso, ciò non costituisce motivo di stupore, se è vero che la gelosia è spesso caratterizzata da un concorso di altre emozioni, tra cui spicca senz’altro l’ira, tant’è che appare più sensato parlare di «jealousy complex» 7 . Inoltre, il fatto stesso che il giovane, per il quale Cleostrata si darà così da fare nella commedia, non compaia nella vicenda, conferisce un ruolo di assoluta centralità al personaggio della matrona. Com’è stato notato, quest’ultima riveste una funzione drammaturgica quasi inedita, che si situa ben al di là di quella stereotipata di stock character e, nella fattispecie, della matrona gelosa 8 . La sua presenza scenica la rende un personaggio ‘degno’ dell’astuzia dei vari schiavi che, com’è noto, altrove nel teatro plautino si sostituiscono, con potente effetto metaletterario, al commediografo in persona 9 . 2. Scenate di gelosia in Plauto Prima di entrare nel merito della questione, ritengo valga la pena di considerare due ‘scene della gelosia’ nel corpus plautino, rispettivamente in Merc. 689ss. e Asin. 856ss. Nella prima, Dorippa si dispera a causa delle supposte contumeliae (v. 704) inflittele dal marito Lisimaco. Crede infatti che costui l’abbia tradita con una giovane, che la donna, di ritorno dalla campagna, ha trovato nella loro casa. A farle da guida è la schiava Sira: ei hac mecum, ut videas semul / tuam Al‐ cumenam paelicem, Iuno mea (vv. 689-690). Nell’acceso confronto con il marito, Dorippa-Giunone accusa il marito di odiarla (vv. 763-764 etiam negas? / palam istaec fiunt, te me odisse), per poi aggiungere (vv. 784-788): 273 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="274"?> 10 Simile copione è nei Menaechmi, in cui sopraggiunge il padre, nonché suocero di Menecmo I, chiamato in soccorso dalla figlia, vittima di un equivoco (aver scambiato Menecmo II per il proprio marito). Il vecchio si interroga sulle ragioni della chiamata e osserva: «deve aver avuto qualche contrasto col marito. È ciò che capita a quelle donne che pretendono la completa sottomissione del marito: la dote le rende orgogliose, arroganti. Quanto ai mariti, anch’essi spesso non sono incensurabili, e c’è un limite alla forza di sopportazione d’una donna» (vv. 765-769, trad. Scàndola). Anche nel caso della moglie di questa commedia, il motivo del litigio risiede nel fatto che il marito amat meretricem (v. 790). non miror si quid damni facis aut flagiti. nec pol ego patiar, sic me nuptam tam male measque in aedis sic scorta obductarier. Syra, i, rogato meum patrem verbis meis, ut veniat ad me iam simul tecum 785 Dorippa è in realtà caduta vittima di un fraintendimento, in quanto la cortigiana Pasicompsa è destinata non al marito, ma a un suo amico, il vecchio Demifone. Ignara di ciò, la donna va su tutte le furie (v. 796 uxor acerrumast) e manda la schiava a chiamare suo padre per l’oltraggio arrecato al suo matrimonio (cf. anche vv. 923-925) 10 . L’equivoco sarà presto svelato e la rottura ricomposta, ma è evidente come la sola vista della cortigiana nella casa sia sufficiente a suscitare l’ira di Dorippa (è definita irata ai vv. 923 e 954, propter istanc, cioè a causa di Pasicompsa). La matrona gelosa del Mercator, però, non prende iniziative ‘sceniche’ autonome, delegando semmai il padre, alla cui autorità rimette la gestione del vincolo nuziale creduto violato. È una Giunone dimidiata, complessivamente impotente di fronte all’Alcmena di turno. La sua reazione irata può essere plausibilmente ricondotta alla gelosia; tuttavia, Dorippa si presenta come un soggetto passivo che preferisce avvalersi dell’ausilio paterno piuttosto che escogitare un modo per punire personalmente Lisimaco. Analogamente, Artemona, la matrona dell’Asinaria, apprende dal parassita dell’infedeltà del marito, da lei considerato fino a poco prima amantem uxoris maxume (v. 857), ma rivelatosi un osorem uxoris suae (v. 859). Questa volta, però, sarà proprio la moglie a minacciare la punizione del fedifrago (v. 869 ne <ego> illum ecastor miserum habebo), servendosi innanzitutto dell’aiuto del parassita, che le consentirà di cogliere il vecchio in flagrante delitto (v. 876 … iam faxo ipsum hominem manifesto opprimas). Artemona scorge infatti all’interno di una casa il marito Demeneto mentre amoreggia con la cortigiana Filenio (vv. 883ss.), che egli dice di preferire alla propria consorte, soprattutto per l’alito soave contrapposto a quello di Artemona, peggiore dell’acqua di sentina (vv. 893-895). La matrona gli giura una (generica) vendetta ai vv. 897-898 (… sine, revenias 274 Chiara Battistella <?page no="275"?> 11 Demeneto si mostra preoccupato per la nottata che lo attende: male cubandum est: iudicatum me uxor abducit domum (v. 937). 12 Su Giunone come prototipo della gelosia divina, vd. e. g. K O N S T A N 2006, p. 228: «Perhaps the personality most consistently characterized by zelotupia is Hera, for her peevish reaction to the philandering of her husband, Zeus, and here, at least, it would seem to correspond to jealousy in the modern sense». Vd. anche pp. 229-230 e 232 sull’effet‐ tiva ‘gelosia’ di Era secondo lo studioso. 13 Cf. Plaut. Cas. 230, in cui è lo stesso Lisidamo ad applicare a sé e alla moglie gli appellativi di Giove e Giunone. Vd. anche C H R I S T E N S O N 2019, p. 29. 14 Sulla nozione (particolarmente vasta) di fides, anche in ambito comico, vd. C A S T O N 2012, pp. 141-145. La lealtà è inevitabilmente compromessa in presenza di un tradimento. modo domum, faxo ut scias / quid pericli sit dotatae uxori vitium dicere), minaccia ribadita poi, a brevissima distanza, ai vv. 902-903: ne illa ecastor faenerato funditat: nam si domum / redierit hodie, osculando ego ulciscar potissimum. È la vendetta ‘comica’ della dotata uxor, che farà irruzione e, prendendo a male parole Demeneto, lo costringerà a ritornare a casa (vv. 921 e 923), promettendogli in aggiunta un magnum malum (v. 936) 11 . In entrambi i casi, la reazione di queste matrone è innescata dalla presenza di una rivale che porta scompiglio nelle loro vite di donne sposate, disonorate dal tradimento dei mariti. Se di gelosia si può parlare, come già detto sopra, anche in questo caso tale identificazione avviene solo ‘indirettamente’, considerata la consueta mancanza di segnali lessicali, ma, soprattutto, quella di un piano di vendetta ben definito per mezzo del quale punire il colpevole e garantire il ripristino dell’ordine familiare. Artemona e Dorippa, pur lamentandosi - come farà Cleostrata - di aver fatto un cattivo matrimonio, sembrano sfruttare solo in piccola parte le potenzialità sceniche di cui darà al contrario prova la matrona gelosa nella Casina. 2.1. La gelosia di Cleostrata Plauto fa della matrona della Casina una vera e propria Giunone 12 , non solo di nome (come per Dorippa), ma anche di fatto, rendendola l’abile ideatrice della vendetta contro il marito 13 . In questa commedia, la situazione drammaturgica è tale da far apparire più sviluppato il ‘copione della gelosia’ (e anche più rappresentato lessicalmente) rispetto alle due opere menzionate sopra, in cui la presunta infedeltà del marito è in un caso soltanto un equivoco (Mercator), nell’altro la conseguenza di una gentile concessione del figlio nei confronti del vecchio (Asinaria). Si potrebbe persino ipotizzare che ci sia qui, da parte del commediografo, un tentativo di tematizzare questa emozione, pur con i vari limiti del caso. Un primo indizio può essere ricavato dal prologo, tipicamente informativo (recitato molto probabilmente dalla dea Fides  14 ), che, oltre a fornire 275 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="276"?> 15 Com’è stato notato, Casina è il personaggio in assoluto più assente della commedia pur nella sua onnipresenza (vd. G O L D 2020, p. 165). Vd. anche C H R I S T E N S O N 2019, pp. 89-90. 16 Cf. e. g. Plaut. Cas. 113, in cui Olimpione dichiara mea praedast illa. Sull’unicum, dal punto di vista giuridico e letterario, delle serviles nuptiae, vd. C H I A R I N I 1992, pp. 17-19, e, più recentemente, B A R B I E R O 2020, passim (in part. p. 63). gli antefatti utili alla comprensione la vicenda, mette il pubblico a parte delle ‘sensazioni’ di alcuni personaggi (vv. 58-62): senis uxor sensit virum amori operam dare; propterea una consentit cum filio. Ille autem postquam filium sensit suum eandem illam amare et esse impedimento sibi, hinc adulescentem peregre ablegavit pater. 60 Cleostrata sente che il marito ama Casina e altrettanto fa il vecchio, che si accorge dell’amore del figlio per la giovane 15 . Così, quanto la moglie cerca di favorire l’unione di Casina con il figlio per ostacolare il marito, tanto quest’ultimo cerca di togliere di mezzo il figlio rivale spedendolo all’estero per potersi godere la fanciulla (la competizione vòlta al possesso di Casina, come già osservato sopra, è scenicamente attuata per mezzo dei due schiavi Olimpione e Calino 16 ). La ‘percezione’ di Cleostrata e Lisidamo (sensit) è verosimilmente dettata dalla loro gelosia, rispettivamente nei confronti del marito e del figlio: il verbo sentio segnala la scoperta da parte dei due personaggi, resa però sicuramente possibile anche da un loro coinvolgimento emotivo nella vicenda. Questo verbo, soprattutto nella forma composta praesentio, sembra farsi spesso espressione di una sensazione o presentimento sorti in un contesto di gelosia. Se ne veda l’impiego in Verg. Aen. 4.296-298: at regina dolos (quis fallere possit amantem? ) praesensit, motusque excepit prima futuros omnia tuta timens […] Didone ha già subodorato, anche grazie all’intervento dell’impia Fama (vv. 298-299), l’intenzione di Enea di partire proprio in virtù del principio per cui ben difficilmente i sospetti di chi ama (amantem) sono errati, come osserva anche Servio nel suo commento ad loc.: praesensit ac si diceret, ante quam ille moliretur. Et nimia in hoc vis amantis exprimitur. Si può parlare di gelosia nel caso della regina cartaginese? Questo aspetto non è direttamente esplicitato nel testo, ma la reazione d’ira incontenibile a cui la regina si abbandona (cf. e. g. vv. 300-301 saevit inops animi totamque incensa per urbem / bacchatur, v. 376 heu furiis incensa feror) e il riferimento alla fides tradita (v. 373) inducono 276 Chiara Battistella <?page no="277"?> 17 Cf. Verg. Aen. 4.347-350 … si te Karthaginis arces / Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis / quae tandem Ausonia Teucros considere terra / invidia est? Didone non rinuncia a invocare una punizione contro Enea dopo la sua morte: … dabis, improbe, poenas (Verg. Aen. 4.386). 18 Cf. anche v. 22 e vd. P I A Z Z I 2007, ad loc. Per mutuare le parole di C A S T O N 2012, p. 9, «jealousy arises when we fear we have lost, or are in danger of losing, someone from whom we have expectations to a third party». 19 Peraltro, si noti che praesentio ricorre anche in Ov. Met. 1.610-611 coniugis adventum praesenserat inque nitentem / Inachidos vultus mutaverat ille iuvencam, quando Giove fiuta il pericolo dell’arrivo della sposa e trasforma Io in una giovenca. Sulla reazione gelosa di Giunone negli episodi di Io e Callisto rispettivamente, vd. W H E E L E R 2000, pp. 78-79. 20 Così C H I A R I N I 1992, p. 77. 21 Vd. C H I A R I N I 1992, p. 77; ma vd. anche C H A R I N I 1978, pp. 106 (Cleostrata è «infiammata dalla gelosia») e 115, e C H R I S T E N S O N 2019, p. 98. 22 Vd. C A S T O N 2012, pp. 95-97; S A N D E R S 2014, pp. 138-139. a pensare che sull’Ausonia … terra (v. 349), ricercata, se non bramata, da Enea, venga trasferita la figura di un’ipotetica ‘rivale’ colpevole di aver sottratto per sempre a Didone l’amato 17 (dietro questa terra si cela appunto il pericolo di una nuova sposa, elemento censurato dal personaggio virgiliano [una sorta di non detto], ma portato visibilmente in superficie nella lettera del ‘doppio’ ovidiano in Her. 7.17-18 alter amor tibi restat habendus et altera Dido: / quamque iterum fallas, altera danda fides  18 ). Sentio è utilizzato in un contesto di gelosia, per esempio, anche in Ov. Met. 2.466-467 senserat hoc olim magni matrona Tonantis / distuleratque graves in idonea tempora poenas, in cui proprio Giunone si è accorta già da qualche tempo del tradimento del marito con Callisto e medita di punire la rivale al momento opportuno 19 . La Cleostrata plautina indossa i panni della sposa vendicativa fin dal suo monologo d’entrata 20 in Cas. 150-155, in cui si dichiara pronta a punire il marito traditore: quando is mi et filio adversatur suo 150 animi amorisque causa sui, flagitium illud hominis, ego illum fame, ego illum siti, 152-154 maledictis, malefactis amatorem ulciscar 155 C’è chi sostiene che lo sfogo di Cleostrata, dapprima sulla porta di casa e successivamente in visita dalla vicina Mirrina, sia riconducibile all’ira più che alla gelosia 21 , anche se in effetti l’ira è una delle manifestazioni più appariscenti della gelosia stessa 22 . Tuttavia, si noti l’insistenza sul concetto di ‘amore’ riferito al marito ai vv. 151 e 155: essa è indicativa del fatto che si tratta di una questione amorosa, in cui la gelosia sessuale gioca verosimilmente un ruolo 277 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="278"?> 23 Si noti che l’ira può essa stessa essere prodotta da una sofferenza amorosa, quando per es. il desiderio non può essere soddisfatto (così l’innamorato è portato all’ira in rapporto all’amore, come si legge in Arist. Rhet. 2.2). 24 K O N S T A N 2006, p. 221, osserva come «what we fear in jealousy is not losing the person so much as the alienation of that person’s affection». Vd. anche S A N D E R S 2014, p. 29. 25 Il lamento di Cleostrata ha tratti da querela pre-elegiaca. 26 Sul problema testuale di questo verso, vd. M A C C A R Y , W I L L C O C K 1976, ad loc. rilevante 23 (la matrona non dichiara di sentirsi tradita nell’amore coniugale, ma in modo indiretto, attraverso l’accusa rivolta al marito di amare un’altra, evoca precisamente quella situazione 24 ). Nella scena successiva, allorché Cleostrata fa visita a Mirrina per metterla a parte delle sue sventure (v. 161 nunc huc meas fortunas eo questum ad vicinam  25 ), le confidenze a cui si abbandonano le due donne fanno emergere una iniziale diversità di pensiero. Da un lato Cleostrata denuncia le nefandezze del marito, dall’altro Mirrina la spinge a soprassedere, dal momento che a casa non le manca nulla. Nella scena in questione riaffiora il tema delle malae nuptae, presente anche in Plaut. Merc. 785 (cit. sopra), che rendono difficile la vita alle donne sposate (v. 176 domi et foris aegre quod sit, satis semper est). Mirrina si informa dunque sulle ragioni di tale malessere (vv. 186-190): †CLE. Vir† 185 Pessumis me modis despicatur domi. MY. Hem! CLE. Quid est? MY. Dic idem (nam pol hau satis meo corde accepi querellas tuas) opsecro. CLE. Vir me habet pessumis despicatam modis, nec mihi ius meum optinendi optio est 190 Cleostrata rivela che il marito la sta umiliando con il suo spregevole comporta‐ mento (pessumis … modis), un concetto che viene enunciato al v. 186 e poi iterato a breve distanza al v. 189 26 , con l’aggiunta che le è venuta meno la facoltà di far valere i suoi diritti (nec mihi ius meum optinendi optio est). In cosa consistano tali diritti ‘negati’ Cleostrata lo chiarisce subito dopo, confidando all’amica che il marito ha deciso di cedere al fattore contro il suo volere (v. 194 ingratiis) la giovane serva Casina, che la matrona dice di aver allevato a sue spese. Il vero nodo della questione è contenuto però nel v. 195: sed ipsus eam amat. Cleostrata, cioè, è consapevole di come quello delle nozze di Casina con il fattore sia solo un espediente escogitato dal marito per avere la giovane per sé. Il termine amat, di nuovo, chiama in causa - abbastanza prepotentemente a dire il vero - la sfera 278 Chiara Battistella <?page no="279"?> 27 F R A E N K E L 2007, p. 203, trova curioso che per prima cosa Cleostrata denunci la presunta intromissione del marito in quello che lei considera essere un suo diritto e solo in seconda battuta osservi come Lisidamo ami Casina («laconic remark»): «surely a wife whose husband is plotting to deceive her with the maid will first and foremost express her outrage, and not complain about the assault on her property rights, as if this were the most important thing, and only then make very causal mention of her husband’s unfaithfulness». Secondo Fraenkel, questa apparente contraddizione deriverebbe dal lavoro compiuto da Plauto su due diverse fonti («here two motifs [cioè i diritti di Cleostrata e l’amore di Lisidamo] have been cobbled together from two quite different sources»; vd. anche p. 199). Sulle ‘scelte’ di Plauto nei confronti dei modelli preesistenti, vd. e. g. C O D Y 1976; K O N S T A N 2014. Particolarmente utile B A R B I E R O 2020 per comprendere la ‘novità’ del progetto letterario e intellettuale plautino. 28 Su questo vd. C H R I S T E N S O N 2019, pp. 25-28. Sulla risposta di Mirrina all’amica, vd. F R A E N K E L 2007, p. 205: «the sermon about the good wife who should not have any peculium (private property) is very much in keeping with Roman sensibilities»; vd. anche F O R E H A N D 1973, p. 238: «Myrrhina’s advice is calculated to fit the pragmatic reality of Roman marriage». Sull’uxor dotata a Roma vd. S T R O N G 2016, pp. 32 e 58; vd. anche C H R I S T E N S O N 2019, pp. 27-28. 29 K O N S T A N 2014, p. 6, tratteggia Cleostrata in questa scena come «an independent and self-respecting woman». 30 È Lisidamo stesso a ricorrere al parallelismo con la coppia divina alla luce della sua stessa infedeltà. Vd. C H I A R I N I 1992, pp. 86-87: «chiama la moglie “mia Giunone”, assimilandola di fatto alla dea più tradita dell’intero pantheon, e se stesso “tuo Giove” (v. 230), identificandosi col dio adultero e donnaiolo per antonomasia». della gelosia sessuale 27 . Mirrina dissente tuttavia dalle esternazioni dell’amica a proposito della sua rivendicazione a disporre del possesso di Casina (v. 202 hoc viri censeo esse omne quicquid tuum est), suggerendole poi di non opporsi al marito, anzi di lasciare che ami e faccia ciò che più gli aggrada (vv. 206-207 sine amet, sine quod lubet id faciat, / quando tibi nil domi delicuum est) per evitare di essere cacciata di casa (v. 210 ei foras, mulier). Il ragionamento di Mirrina si basa verosimilmente sull’idea giuridica (ro‐ mana) che una moglie cum manu non possa vantare alcun reale diritto di possesso in presenza di un marito vivo 28 . L’amica cerca perciò di far desistere Cleostrata dall’ira, innescata - così pare - dall’impossibilità di esercitare un suo presunto ius (scil. su Casina, v. 190) 29 . Le coordinate entro cui questa scena deve essere collocata hanno senz’altro un carattere o, almeno, un sapore giuridico, che, tuttavia, passa in secondo piano nella scena seguente, in cui per la prima volta Cleostrata e Lisidamo si trovano faccia a faccia nel ruolo di ‘controparte’ umana della coppia divina Giunone-Giove (cf. vv. 230 e 331 30 ). Il marito tenta di rabbonire la sposa con battute adulatrici, ma la sua malafede non sfugge a Cleostrata, che intuisce come dietro alla ‘dichiarazione d’amore’ del v. 232 quam te amo! si celi la vera speranza di Lisidamo (frequente, peraltro, in commedia) che 279 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="280"?> 31 Si veda anche l’‘a parte’ di Lisidamo al v. 227 sed uxor me excruciat, quia vivit, con C H I A R I N I 1992, p. 89. 32 Il tema dell’eros, per quanto declinato secondo una prospettiva comica, è un tratto utile a definire lo scenario della gelosia. Vd. e. g. S A N D E R S 2014, pp. 143; 166 e oltre in queste pagine. 33 Cf. anche il v. 236: Lisidamo profuma di unguenti, circostanza che acquista un senso ancora più pregnante se si presta attenzione all’onomastica della commedia, soprattutto il significato di Casina, “la ragazza che sa di cannella”. Su questo vd. C H I A R I N I 1978, pp. 117-118; C H I A R I N I 1992, p. 86. 34 Sulla gelosia come esperienza emotiva ‘violenta’, vd. K O N S T A N 2006, p. 242. 35 Il modello si sarebbe concluso con il riconoscimento e la celebrazione delle nozze tra Casina e il giovane Eutinico, confinati qui solo a una menzione extrascenica nell’epilogo. Vd. e. g. C O D Y 1976, p. 453 e passim; O ’ B R Y H I M 1989; B A R B I E R O 2020. la moglie possa morire (vv. 233-234) 31 . Per questo replica alla sua offerta d’amore con la secca negazione nolo ames del v. 233 32 , per poi passare a rimproverarlo duramente per la sua frequentazione dei lupanari (vv. 236-246) 33 . La reazione verbale (e forse anche gestuale) della matrona è particolarmente veemente tanto che lo stesso Lisidamo la invita a contenersi (v. 250 comprime te, v. 252 iam domuisti animum …? ) 34 . Nello scambio successivo Lisidamo tenta di convincere Cleostrata ad acconsentire a che Casina venga data in sposa al fattore Olimpione anziché a Calino, lo scudiero del figlio. La matrona naturalmente ha già fiutato l’inganno, come lo stesso Lisidamo sospetta alla fine della scena (v. 277 advorsatur. Subolet hoc iam uxori, quod ego machino), eppure il pubblico assiste più a una rivendicazione delle sfere di competenza che a un ‘conclamato’ sfogo di gelosia: quia, si facias recte aut commode, / me sinas curare ancillas, quae mea est curatio (vv. 261-262). Cleostrata insiste che la cura delle serve spetta a lei: in realtà, l’esercizio di questo diritto produrrebbe come immediata conseguenza l’interferenza della moglie nei piani di Lisidamo. La giovane verrà assegnata per mezzo di un sorteggio a Olimpione, spingendo così Cleostrata (con la complicità di due donne, l’amica Mirrina e la schiava Pardalisca) ad architettare un ingegnoso ed esilarante piano di vendetta ai danni del marito. Durante la prima notte di nozze, dapprima Olimpione e poi lo stesso Lisidamo saranno infatti molestati da Calino travestito, a loro insaputa, da Casina in quello che si configura come un epilogo ‘nuovo’, verosimilmente diverso dall’originale difileo 35 . Il marito, magistralmente beffato, si vedrà inoltre costretto a supplicare Cleostrata di perdonarlo, circostanza che si avvererà più che altro per esigenze di natura drammaturgica (siamo pur sempre in una commedia, vv. 1005-1007): CLE. […] propter eam rem hanc tibi nunc veniam minus 280 Chiara Battistella <?page no="281"?> 36 Vd. K O N S T A N 2014, p. 10 («a strategist»). 37 Vd. S A N D E R S 2014, pp. 130, 140, 142. 38 Oltre a K O N S T A N 2006 e S A N D E R S 2014, si veda anche C A S T O N 2012 sul problema della terminologia antica, soprattutto pp. 9-14, anche se in generale la gelosia è rappresentata senza l'ausilio di marcatori verbali (p. 11). 39 Vd. S A N D E R S 2014, p. 138 (più in generale pp. 130-142); vd. anche S A N D E R S 2013, p. 43 e passim. 40 S I S S A 2017, p. 42, osserva: «it should be understood that the jealousy of the ancients was a protest against ingratitude, a call for a reaffirmation of reciprocity and dignity». gravate prospero, hanc ex longa longiorem ne faciamus fabulam. 1005 LYS. Non irata’s? CLE. Non sum irata. Come osserva David Konstan, la Casina si conclude all’insegna di un trionfo femminile su Lisidamo, la cui autorità di paterfamilias è fortemente messa in discussione dall’iniziativa di un’abile matrona con delle qualità da stratega 36 . 2.2. Amor e vendetta Per ritornare all’interrogativo di partenza, le parole e le azioni di Cleostrata in questa commedia possono essere associate o ricondotte all’emozione della gelosia? Si è già osservato sopra come (e ciò vale anche per la letteratura greca) un approccio di tipo lessicale sia in generale impraticabile 37 per l’evidente limite che spesso la gelosia non è esplicitamente rappresentata sotto il profilo linguistico nei testi 38 , anche se nella Casina possono in effetti essere individuati alcuni ‘momenti’ linguistici utili a tracciare un possibile scenario per questa emozione. Ritengo però sia necessario aggiungere un ulteriore tassello per corroborare l’idea che il personaggio della matrona sia animato nei pensieri e nei gesti da una forma di gelosia erotica. Questo tassello non intende essere intertestuale in senso stretto, ma piuttosto far emergere alcune analogie situazionali tra la commedia plautina e la Medea di Euripide in quella che appare come la definizione di un copione della gelosia («jealousy script»). Ed Sanders ha recentemente dimostrato come la Medea euripidea sia caratterizzata da una costellazione di emozioni, tra cui il dolore, l’ira e l’odio, ma come esse siano in definitiva parte costitutiva di un «jealousy complex» 39 . Quest'ultimo, pur senza smantellare apertamente il persistente tabù (culturale e scenico) della gelosia, delinea lo scenario entro cui tracciare la manifestazione di tale emozione, al centro della quale si situano i temi dell’eros e della vendetta 40 . In quella tragedia viene portata in scena la totale distruzione del nemico a opera della protagonista, che non riotterrà il marito (a differenza di quanto avviene 281 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="282"?> 41 Vd. S A N D E R S 2014, p. 140. 42 Vd. S A N D E R S 2013, p. 43: «Psychologists have noted that it often makes more sense to speak of an emotional episode or scenario than an emotion per se». 43 Così S I S S A 2017, p. 44. Si pensi al soldato Polemone nella Perikeiromene menandrea (soprattutto vv. 986-988). Vd. anche O W E N S 1992, p. 243, a proposito di Hor. Carm. 1.13 in cui Orazio darebbe sfogo a un eccesso di gelosia (una gelosia doppia, ‘amplificata’) con risvolti parodici (ma K O N S T A N 2006, p. 241, rimane incerto sul fatto che, nel caso specifico, si tratti per davvero di gelosia). 44 Vd. C A S T O N 2012, p. 16. 45 Konstan nega che nella tragedia euripidea si possa parlare di gelosia in senso proprio (vd. soprattutto K O N S T A N 2006, p. 233 e passim), ma S A N D E R S 2014, pp. 130-142, già citato sopra, argomenta in modo convincente come nella Medea vi siano i ‘requisiti’ necessari per definire gelosia (sessuale) ciò che la protagonista sperimenta nel dramma. Su vendetta e gelosia, vd. e. g. S A N D E R S 2013, p. 44. 46 Vd. S A N D E R S 2013, p. 43. nell’epilogo della Casina), ma si dichiarerà in ogni caso soddisfatta della sua vendetta 41 . Credo che anche nella commedia plautina, nonostante le evidenti differenze, ci siano i presupposti per individuare uno scenario della gelosia da ricostruire indirettamente 42 , nel senso che Plauto non ‘espone’, come fa con altri personaggi (per es. il giovane o il vecchio innamorato, il soldato), il personaggio di questa matrona al pericolo della zelotupia, che soprattutto in commedia tende a configurarsi come una passione ridicolmente possessiva 43 . Ruth Caston, nel suo importante studio sulla gelosia nell’elegia latina, puntualizza come questa emozione trovi effettivamente spazio nel genere comico, senza ricevere però grande enfasi o, in ogni caso, un’enfasi molto inferiore rispetto a quanto avviene nel mondo elegiaco 44 . Per quanto articolata o ‘tematizzata’ in modo imperfetto, tuttavia, la gelosia gioca un ruolo di una certa rilevanza nella Casina, in particolare in relazione alla vendetta (naturalmente comicissima) attuata da Cleostrata, il cui ethos appare non troppo dissimile da quello della Medea euripidea 45 . Identificare l’emozione della gelosia nella letteratura antica (ma non solo) significa innanzitutto partire dalla situazione, dalle percezioni e dai pensieri che animano un personaggio e che costituiscono il retroterra necessario all’insorgere dell’emozione stessa 46 . Si è già detto come Cleostrata si dimostri particolarmente sensibile all’amore del marito per un’altra donna (vv. 151, 155 e soprattutto 195), pur senza mai confessare il proprio nei suoi confronti, anzi: la matrona arriva al punto da rifiutare la (finta) offerta d’amore da parte di Lisidamo (v. 233), facendo trasparire piuttosto tutto il suo disappunto nei confronti del marito indecorosamente unguentatus (v. 240) e additato come frequentatore di lustra (vv. 242-243). Anche se questa accusa non corrisponde al vero (drammaturgico), perché semmai Lisidamo è interessato a una donna 282 Chiara Battistella <?page no="283"?> 47 Vd. S A N D E R S 2014, p. 12. 48 Tristis corrisponde a una serie di manifestazioni fisiche, tra cui scuotere il capo, guardare a terra, versare lacrime (c’è riscontro anche nella fisionomia di alcune maschere comiche): vd. I U R E S C I A 2019, pp. 35-36 e n. 83. 49 Cf. per es. lo sfogo della schiava Sira nel Mercator plautino a proposito della lex dura sotto cui vivono le donne (vv. 817-829). 50 Si aggiunga che Mirrina riveste la medesima funzione di ascolto e complicità (soprat‐ tutto successivamente) ricoperta dal coro nella Medea euripidea (cf. e. g. Plaut. Cas. 196-197). ben precisa, Casina, si tratta di un dettaglio funzionale alla definizione di un «jealousy script», alla base del quale ci sono tre componenti: l’eros, una relazione esclusiva (in questo caso suggellata dalle nuptiae) e la volontà di proteggere e ripristinare quell’esclusività perduta attraverso la punizione del marito colpevole 47 . Cleostrata, come già Medea, si sente vittima di un torto subito, di un’offesa (iniuria, come la definirà Lisidamo al v. 950 sul finale della commedia). La colpa del marito è duplice, come denuncia Cleostrata: da un lato egli disprezza la moglie (v. 186 pessumis me modis despicatur domi, v. 189 vir me habet pessumis despicatam modis), dall’altro la priva della possibilità di esercitare un suo diritto (scil. quello su Casina, come si è detto, nec mihi ius meum optinendi optio est, v. 190). Al v. 863 Lisidamo è definito un vecchio quo senex nequior nullus vivit, formulazione che trova una sorta di riscontro nei rimproveri mossi da Medea a Giasone, accusato di essere il peggiore degli uomini davanti al coro al v. 229 κάκιστος ἀνδρῶν e poi alla presenza di Egeo al v. 690, a cui Medea chiarisce le ragioni della sua afflizione: «mi fa ingiustizia (ἀδικεῖ) Giasone, senza aver subito alcunché da parte mia» (v. 692, trad. Cerbo, anche oltre). Medea è ora divenuta ἄτιμος (v. 696), non diversamente da quanto è accaduto a Cleostrata, che si percepisce come despicatam (cf. anche Eur. Med. 255 ὑβρίζομαι). Inoltre, si noti che la matrona è descritta come tristis nell’aspetto dai suoi interlocutori, da Mirrina al v. 173 e successivamente dallo stesso Lisidamo al v. 228. Questo aggettivo, nel suggerire lo stato d’animo della ‘mal maritata’ Cleostrata, sembra condensare in maniera concisa la descrizione ben più dettagliata che di Medea fa la nutrice prima del suo arrivo sulla scena (cf. vv. 24-29; 92-93) 48 . La tirata di Cleostrata, per quanto piuttosto convenzionale 49 , contro gli uomini che rendono le donne male nuptae (v. 175) presenta un punto di contiguità, credo, degno di nota con quella di Medea dinanzi alle donne del coro. Mi riferisco nello specifico ai versi in cui l’eroina definisce le donne la specie più sventurata, dato che, dopo aver comprato con grande dispendio di beni uno sposo, si ritrova ad avere anche un padrone del proprio corpo (vv. 230ss.). Medea aggiunge che «in questo c’è un rischio gravissimo: se il marito lo si prende cattivo oppure buono» (vv. 235-236) 50 , ponendo così il problema delle ‘cattive nozze’. Medea 283 La gelosia dell’uxor nella Casina di Plauto <?page no="284"?> 51 Nella tragedia è noto come a fare le spese della gelosia di Medea sia anche la rivale Creusa assieme al proprio padre; al contrario, la vendetta di Cleostrata si riversa interamente contro Lisidamo senza neppure sfiorare Casina (Cleostrata, come viene detto nel prologo, la considera infatti al pari di una figlia). 52 Sulla notevole concentrazione nella Medea di termini indicanti il letto, vd. S A N D E R S 2014, p. 132 («the bed is here placed at the center of their marriage»). Cf. anche Eur. Med. 1367-1368, in cui il termine λέχους può essere opportunamente reso con ‘gelosia’. 53 Amator è il modo in cui viene apostrofato Lisidamo dalla moglie anche nell’epilogo del dramma dopo la beffa di Calino travestito da Casina: iubeo te salvere, amator (v. 969). 54 Vd. C H R I S T E N S O N 2019, pp. 96-99. e Cleostrata, con i mezzi rispettivamente tragici e comici a loro disposizione, provano a reagire all’ingiustizia subita (ἀδικία/ iniuria), suggerendo come la loro vendetta sia in effetti dettata dalla gelosia erotica, di cui l’ira sembra essere sì una componente manifesta e persino marcata, ma a ben vedere ‘ancillare’: nessuna delle due, infatti, dichiara apertamente di essere gelosa del partner o di volerne rivendicare il possesso, aspetto che di fatto non trova spazio nei due drammi, eppure le punizioni inflitte a Giasone e Lisidamo scaturiscono entrambe dal loro aver violato l’eros coniugale (Cleostrata ricorre anche all’efficace neologismo dismarite per apostrofare Lisidamo nelle battute finali della commedia, v. 874) 51 . Per quanto Medea ai vv. 265-266 enunci una considerazione generale, quest'ultima la riguarda in prima persona: «ma quando le [scil. alla donna] accade di subire ingiustizia riguardo al suo letto (ἐς εὐνὴν ἠδικημένη), non vi è altro animo più sanguinario» 52 . Analogamente, la vendetta di Cleostrata è diretta contro Lisidamo, ma non tanto nella sua funzione di ‘usurpatore’ di uno ius (v. 190) quanto in quella di amator: flagitium illud hominis, ego illum fame, ego illum siti, / maledictis, malefactis amatorem ulciscar (vv. 152-155) 53 . Ciò è dunque riconducibile a un problema di eros. Poco importa poi che la gelosia della donna si confonda con il (o si sovrapponga al) terrore del riso dei nemici (Medea e. g. in Eur. Med. 797) o con la violazione di un presunto diritto da esercitare su di una schiava (Cleostrata in Plaut. Cas. 190 e 260-261): è solo un modo per dissimulare dietro a un altro profilo un’emozione ‘sgradita’, ma insopprimibile. Che differenza c’è pertanto tra la gelosia di Cleostrata e quella di Dorippa e Artemona, richiamata all’inizio di queste pagine? Forse nessuna in termini di ‘pura’ psicologia, verosimilmente parecchie in termini di risvolto scenico. Il personaggio della Casina, pur con tutti i limiti del caso, riesce infatti a conferire ‘consistenza’, per così dire, alla sua emozione, che valica i confini di un inconcludente lamento verbale, trovando piena realizzazione nell’esilarante piano di vendetta contro il marito (senza che la matrona indulga per questo alla violenza della tragedia euripidea: si tratta pur sempre di un’eroina comica 54 ). Cleostrata trasforma perciò la sua gelosia in emozione ‘produttiva’ (e a tratti 284 Chiara Battistella <?page no="285"?> 55 Vd. K O N S T A N 2014, p. 10: «Cleostrata will vindicate her claim to bestow Casina on the partner she chooses, and thus her own sphere of authority and control within the home». Nel mondo sottosopra della commedia, il successo della vendetta femminile sembra peraltro garantito dal ruolo che viene riconosciuto alla moglie in seno alla famiglia: cf. v. 409 … mea uxor imperium exhibet, ammette Lisidamo, contraddicendo in apparenza le precedenti lamentele di Cleostrata circa l’impossibilità di esercitare i suoi diritti sulle schiave di casa. Cf. anche le esilaranti raccomandazioni che Pardalisca dà a Casina (in realtà Calino travestito) prima delle nozze (vv. 815-824). Più che di un problema di auctoritas maschile si tratta dunque, nel caso di Cleostrata, di una questione di gelosia sessuale. 56 C H R I S T E N S O N 2019, p. 97, sottolinea le molteplici qualità di Cleostrata, tra cui anche la sua superiorità morale. Importanti considerazioni anche a p. 98 sulle motivazioni personali e sulle sfumature psicologiche del personaggio di questa matrona, «who seems not to be punishing Lysidamus for sheer theatrical pleasure». trasgressiva), che si esaurisce quasi fisiologicamente all’approssimarsi del finale (lieto). Ripristinato il suo controllo su Casina 55 , che andrà in moglie al figlio in quanto donna libera, Cleostrata arriva persino a concedere il suo perdono al marito (vv. 1000 e 1005), rendendo così possibile il recupero almeno temporaneo - si può pensare - dell’esclusività del loro destabilizzato rapporto 56 . Bibliografia B A R B I E R O 2020 E. A. Barbiero, “What’s New? The Possibilities of Novelty in Plautus’ Casina”, in S. Papaioannou, C. Demetriou (eds.), Plautus’ Erudite Comedy: New Insights into the Work of a doctus poeta, Cambridge 2020, pp. 51-72. C A S T O N 2021 R. Caston, The Elegiac Passion. Jealousy in Roman Love Elegy, Oxford 2012. C H I A R I N I 1978 G. 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Due to her condition of slave and lover of Agamemnon, Cassandra is presented as a melodramatic heroine in her double role as a prophetess not believed and half-mother (in fact, she gave Agamemnon a son during the journey). To act as a common thread to the story, a feeling of jealousy taking on, in the development of the drama, the most varied forms. In the final scene, Clytemnestra herself is seized by an uncontrollable desire to track down Orestes, who has been made to flee by Cassandra and for whom she fears the vengeance of Aegisthus. In this way, there is almost a coincidence between the two women, as if the condition of motherhood represented for both the only real motivation to live and fight. The objective of this contribution is an analysis on the expressive and scenic level of the feeling of jealousy that crosses the tragedy, dominating its protagonists. Keywords: Cassandra - Greek myth - reception - romantic tragedy - Adelaide Ristori. 1. Dal copione teatrale all’edizione a stampa: una breve premessa La ricostruzione della genesi di una rappresentazione teatrale e dei suoi aspetti scenici, in mancanza di una visione diretta, può opportunamente prendere le mosse dall’analisi del copione che ad essa ha condotto. Lo studio dei copioni, infatti, permette di individuare una fase intermedia che si colloca tra il momento della messa in scena e quello dell’ideazione di un testo drammaturgico: <?page no="290"?> 1 P E R R E L L I 2009, p. 51 (il riferimento è a Ruffini in B A R B A , S A V A R E S E 2005, pp. 268ss.). 2 «Il lavoro sul palcoscenico conduce […] a numerose modifiche del piano originale concepito a tavolino, costituisce un momento fortemente creativo e costruttivo, per nulla una meccanica traduzione di quanto fissato a monte […]. Molti drammaturghi romantici francesi […] pensano alla messinscena come al “vero” prodotto del loro lavoro, mentre vedono la pubblicazione della pièce come una creazione dimidiata, come un’opera incompleta», R A N D I 2012, pp. 7ss. 3 «Il sistema aveva ovvie motivazioni tecniche ed economiche, talora era persino fun‐ zionale alla necessità di tutelare l’utilizzo esclusivo di un testo, ma era soprattutto strutturalmente organico, da un lato, alla dimensione forte che implicava il primato capocomicale e una suddivisione in ruoli, più o meno autonomamente creativi, della compagnia e, da un altro, a una concezione debole dello spettacolo, accentrato attorno all’istruzione, che poteva anche essere severa o più o meno serrata, ma ben diversa dalla strutturata creazione (e cooperazione) critica della più consapevole regia moderna», P E R R E L L I 2009, p. 52. Porsi il problema del copione teatrale significa collocare la ricerca nello spazio fra il testo e la scena, il che implica di necessità l’attua‐ zione di quella ricognizione “dietro le quinte e dietro la ribalta” che lo stesso Ruffini denuncia come poco praticata dagli spettatori e dagli studiosi. Tuttavia, solo facendo ciò, possiamo tentare di renderci conto del processo di costruzione del personaggio attorno al copione stesso e “vedere al lavoro il ruolo e la parte, il testo e la scena, il ter‐ mine povero e il termine ricco” della dialettica che struttura il teatro, altrimenti pressoché impercettibile nello spettacolo realizzato 1 . Esiste, infatti, una certa differenza tra le versioni a stampa dei testi teatrali, concepite per successive letture e rielaborate dagli autori spesso alla luce dell’esperienza delle repliche e dei giudizi del pubblico e della critica, e quella riservata invece all’uso che ne hanno fatto gli attori e i capocomici, interpreti privilegiati del processo scenico e, in taluni casi, artefici delle scelte compiute nelle esecuzioni finali 2 . Era prassi piuttosto comune, nel sistema teatrale otto‐ centesco, che i testi destinati alle prove fossero di rado stampati e che le copie in circolazione fossero tre: una ad uso dell’istruttore; una seconda affidata al suggeritore, un personaggio chiave nella preparazione e nella realizzazione di uno spettacolo; e una terza che corrispondeva al manoscritto dell’autore e che, insieme con le cosiddette parti levate - ossia quelle sezioni dell’opera che corrispondevano a trascrizioni di singole parti e di attacchi che fungevano da collegamento tra le diverse scene ed erano indispensabili nel processo di memorizzazione -, veniva impiegata direttamente dagli attori 3 . Un prezioso archivio di copioni manoscritti, parti levate, lettere, bozzetti, minute, bozze per articoli, documenti iconografici, utili alla ricostruzione a 290 Francesco Puccio <?page no="291"?> 4 Straordinaria interprete della scena teatrale internazionale, Adelaide Ristori (1822- 1906) si è distinta per un’esperienza artistica strettamente connessa con una vicenda esistenziale votata al teatro e alla definizione di un metodo recitativo e imprenditoriale che fossero interrelati, fornendo, inoltre, l’occasione di approfondire le peculiarità di una pratica attorica che andava delineando in maniera sempre più netta le caratteris‐ tiche del Grande Attore (vd. B U O N A C C O R S I 1974 e B U O N A C C O R S I 2001). Il materiale conservato nel Fondo Ristori rappresenta, pertanto, uno strumento essenziale per comprendere anche il funzionamento dei meccanismi che hanno guidato una delle più avanzate realtà teatrali del XIX secolo, la Drammatica Compagnia Italiana. E un’interessante opportunità di conoscenza della Ristori artista e imprenditrice teatrale sono proprio i suoi Ricordi e Studi artistici (vd. R I S T O R I 1887; V A L O R O S O 2005), che «rappresentano la memoria scritta del suo lavoro di interprete […]. Piuttosto che enunciare dei precetti generali, l’attrice preferisce dunque fornire esempi concreti, illustrare le difficoltà incontrate di volta in volta e la maniera in cui era riuscita a superarle. Il carattere pratico degli studi li rende decisamente più interessanti di un trattato sull’arte della recitazione», Valoroso in F E L I C E 2006, p. 92. Sulla storia del teatro e dello spettacolo nell’Ottocento, tra i numerosi studi, si vedano: B U O N A C C O R S I 1974; A L O N G E 1988; M E L D O L E S I , T A V I A N I 1991; M O L I N A R I 1996; A L O N G E , D A V I C O B O N I N O 2000; B U O N A C C O R S I 2001; R A N D I 2006. Quanto agli studi dedicati alla figura della Ristori, se ne segnalano, tra gli altri: M E L D O L E S I 1970, pp. 5-14; G I O R C E L L I 1981, pp. 81-147; B U O N A C C O R S I 1981, pp. 156-188; B I G N A M I 1988; F A S A N O 1994; V I Z I A N O 2000; A L O N G E 2004, pp. 57-88; A L O N G E 2005; F E L I C E 2006; P U P P A 2006, pp. 125-142; V I Z I A N O 2013. 5 Le notizie sulla figura mitica di Cassandra si ricavano dalla Biblioteca dello Pseudo-Apol‐ lodoro (3.12, Epit. 5.16, 22 e 25, 6.23). In Omero, Cassandra si presenta come una giovane donna destinata al matrimonio, ma non sono riscontrabili riferimenti alle sue doti mantiche. In Il. 13.361-393, è una delle figlie di Priamo, promessa sposa del guerriero Otrioneo, alleato dei Troiani. Questi, giunto a Troia per ottenere la mano della donna, reca con sé i tradizionali doni per le nozze e promette a Priamo una sicura alleanza; ma il matrimonio non verrà celebrato a causa della morte dell’eroe per mano del cretese Idomeneo. Sempre in Il. 24.697-709, Cassandra è la prima ad avvistare il carro su cui giace il cadavere del fratello Ettore, riscattato da Priamo. In Od. 11.397-439, Agamennone, ormai ombra nell’Ade, racconta in prima persona a Odisseo come sia avvenuto il suo assassinio; compare qui anche Cassandra e l’eroe ne ricorda l’urlo terribile quando la donna viene colpita a morte (Od. 11.421-422). Nei poemi del posteriori dei meccanismi preparatori degli spettacoli e del lavoro degli attori è conservato nel Museo Biblioteca dell’Attore di Genova, dove tra i vari Fondi presenti, facciamo riferimento, per l’oggetto di questo contributo, a quello relativo ad Adelaide Ristori 4 , protagonista anche della Cassandra di Antonio Somma. L’opera, pur inserendosi in una diffusa operazione di ricezione del mito classico sulla scena moderna 5 , subisce significative variazioni rispetto agli ipotesti della tragedia greca, mostrando così un certo interesse di studio. Oltre al copione manoscritto completo della tragedia sono conservate, nel Fondo 291 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="292"?> cosiddetto ciclo epico, databili tra la fine dell’VIII e gli inizi del VI sec. a.C., le Ciprie (1.39.9-11 B E R N A B É ) sembrerebbero la prima fonte sulle qualità profetiche di Cassandra. Nell’Ilioupersis compare l’episodio in cui Aiace strappa con forza Cassandra dal tempio e trascina via insieme a lei la statua di Atena, macchiandosi così di hybris, poiché viola il diritto di asilo presso il tempio di un dio. Quanto alla lirica arcaica, Stesicoro si sarebbe occupato della figura di Cassandra nella sua Ilioupersis di cui restano alcuni frammenti (frr. 193-205 D A V I E S ); Pindaro la menziona come mantis nella Pitica XI (v. 33) e, in un frammento del Peana VIIIa (fr. 52i M A E H L E R ), Cassandra profetizza il compimento della triste sorte troiana. Nell’Agamennone eschileo Cassandra assume un ruolo essenziale: condotta ad Argo da Agamennone, è trattata con un certo rispetto e si sente a lui accomunata nella sventura di una morte imminente. Non creduta, e dunque non in grado di persuadere, come ella stessa rivela al Coro (Aesch. Ag. 1212), a causa della maledizione di Apollo, subisce una punizione che la isola dalla comunità. Il rapporto con il dio le è odioso, e la stessa divinazione è una “fatica terribile” (Aesch. Ag. 1215), che determina in lei una forma di sofferenza reale, non solo fisica, ma anche psicologica (vd. R E H M 1994; D E T I E N N E 1998; M I T C H E L L -B O Y A S K 2006; T O M A S E L L O 2012). Assente in Sofocle, sulla base dei testi che ci sono pervenuti - sebbene si possa supporre una sua presenza nei perduti Laocoonte e Sinone -, Cassandra si ritrova in Euripide. In Andr. 296-300, viene ricordata la profezia, non creduta, che ella compie al momento della nascita di Paride. In Hec. 87-89, la madre regina richiede l’intervento di Cassandra insieme con Eleno poiché in grado di interpretare i sogni. Nella parodo, il Coro racconta che, alla richiesta di Achille di immolare sulla sua tomba la vergine Polissena, Agamennone ha difeso la fanciulla per fedeltà verso Cassandra (Hec. 121-122). In Tr. 41-43, Poseidone fa riferimento all’oltraggio che Cassandra subisce da Aiace, che con violenza la trascina via dal tempio di Atena. In Euripide, Cassandra è una profetessa non creduta, ma non vi è un riferimento alla sua tormentata relazione con Apollo, così forte nell’Agamennone: l’Atride ha scelto consapevolmente Cassandra, la quale non è più, come in Eschilo, solo una schiava di guerra, ma una donna che, abbandonata forzatamente la condizione di sacerdotessa del dio, seguirà il re di Argo per condividerne il talamo come concubina (Tr. 250-252). Qui la divinazione della donna si presenta in una forma molto diversa da quella eschilea: è una chiaroveggenza mediata razionalmente. Inoltre, vi sono tutti gli elementi propri di un rituale bacchico (Tr. 308-341): il riferimento non alla luce del sole, ma a quella delle fiaccole, elemento tipico del rituale dionisiaco; il makarismos usato nei riti di iniziazione; la presenza di termini indicanti la danza, peculiarità delle baccanti; il grido del rituale bacchico; la liberazione delle insegne di sacerdotessa, uno sparagmos che si configura, al pari di una menade, come il culmine della performance (vd. C E R B O 2009). Ancora, in IA 757-761, il Coro parla di Troia come di un luogo in cui Cassandra agita i capelli biondi, sul capo una corona d’alloro, mentre come soffi fuoriescono i vaticini del dio, in una visione che avvicina la profetessa ad una menade. Nella produzione euripidea, del resto, in riferimento a Cassandra, è frequente l’uso di immagini bacchiche (Tr. 259, Hec. 120-122 e 676-677, El. 1030-1034, IA 757-761, Alex. fr. 62 g K A N N I C H T ), ad indicare la volontà di connotarla come una profetessa delirante, laddove in Eschilo si era presentata come una profetessa ispirata. Al III secolo a.C. appartiene, poi, l’Alessandra di Licofrone, un poema in trimetri giambici che si presenta come un’oscura profezia (vd. R O D R I G U E Z C I D R E 2003; M C N E L I S , S E N S 2016). Per una dettagliata e approfondita ricostruzione del mito di Cassandra e del suo cammino da Omero all’Ellenismo, vd. M A Z Z O L D I 2002. 292 Francesco Puccio <?page no="293"?> 6 Riporto di seguito la collocazione del materiale consultato (approfitto per ringraziare il dott. Gian Domenico Ricaldone del Museo Biblioteca dell’Attore per la sua disponibilità): manoscritto Cassandra, copioni 151; Cassandra A, parti levate 167/ a; Cassandra B, parti levate 167/ b; Tessandro, parti levate 165; Marsia, parti levate 166; Strofio, parti levate 167 bis. Delle due parti levate di Cassandra, l’una (indicata con la lettera A) presenta nu‐ merose cancellature e due indicazioni: «Per la Signora Adelaide Ristori» e «Compagnia Drammatica Italiana»; l’altra (segnata con la lettera B) non reca indicazioni specifiche, ma mostra una grafia più regolare e un minor numero di cancellature. Nella parte levata di Marsia si legge: «Marsia nella tragedia Cassandra. Per Sig. Cesare Ristori»; in quella di Tessandro: «Tessandro nella tragedia Cassandra. Per il Signor Brunone Lanata» e «Compagnia Drammatica Italiana»; nella parte levata di Strofio solo il titolo dell’opera: «Cassandra». Le parti levate sono tutte ben leggibili. 7 Strofio è il re della Focide, padre di Pilade e zio di Oreste, che aveva sposato la sorella di Agamennone e Menelao, come si apprende in Hyg. Fab. 117: Clytaemnestra Tyndarei filia Agamemnonis uxor cum audisset ab Oeace Palamedis fratre Cassandram sibi paelicem adduci, quod ementitus est ut fratris iniurias exsequeretur, tunc Clytaemnestra cum Ae‐ gistho filio Thyestis cepit consilium, ut Agamemnonem et Cassandram interficeret, quem sacrificantem securi cum Cassandra interfecerunt. At Electra Agamemnonis filia Orestem fratrem infantem sustulit, quem demandavit in Phocide Strophio, cui fuit Astyochea Agamemnonis soror nupta, “Clitemnestra, figlia di Tindaro e moglie di Agamennone, essendo venuta a sapere da Eace, fratello di Palamede, che il marito le avrebbe condotto in casa Cassandra come concubina - questi aveva mentito per vendicare la violenza subita dal fratello - decise insieme con Egisto, figlio di Tieste, di uccidere Agamennone e Cassandra; e così, lo uccisero con un’ascia, mentre stava sacrificando, e con lui Cassandra. Ma Elettra, figlia di Agamennone, salvò il fratello Oreste ancora bambino e lo inviò nella Focide presso Strofio, che aveva sposato la sorella di Agamennone, Astiochea” [trad. mia]. 8 Di Tessandro, eroe acheo tra quelli che, nascosti nel ventre del cavallo di legno, presero parte all’assalto notturno di Troia, leggiamo notizie in Verg. Aen. 2.254-267: et iam Argiva phalanx instructis navibus ibat / a Tenedo tacitae per amica silentia lunae / litora nota petens, flammas cum regia puppis / extulerat, fatisque deum defensus iniquis / inclusos utero Danaos et pinea furtim / laxat claustra Sinon. Illos patefactus ad auras / reddit equus laetique cavo se robore promunt / Thessandrus Sthenelusque duces et dirus Ulixes, / demissum lapsi per funem, Acamasque Thoasque / Pelidesque Neoptolemus primusque Machaon / et Menelaus et ipse doli fabricator Epeos. / Invadunt urbem somno vinoque sepultam; / caeduntur vigiles, portisque patentibus omnis / accipiunt socios atque agmina conscia iungunt, “E ormai la falange argiva, preparate le navi, andava / da Tenedo nei favorevoli silenzi della luna silenziosa / cercando i lidi conosciuti, quando la nave regia aveva alzato / fiamme; e difeso dai voleri ingiusti degli dei, / Sinone libera di nascosto i Greci richiusi nel ventre / e le prigioni di pino. Il cavallo aperto li riconsegna / all’aria e felici vengono giù dal cavo legno / i capi Tessandro e Stenelo, e il terribile Ulisse, / scivolati dalla fune lasciata cadere, Acamante e Toante, / e il pelide Neottolemo, e Macaone per primo, / e Menelao, e lo stesso costruttore dell’inganno Epeo. / Invadono la città addormentata nel sonno e nel vino; / le guardie vengono Ristori 6 , anche le parti levate di alcuni dei personaggi: due di Cassandra, una di Strofio 7 , una di Marsia e una di Tessandro 8 . 293 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="294"?> massacrate, e aprendosi, le porte accolgono / tutti i compagni e riuniscono le truppe alleate” [trad. mia]. 9 Per quanto concerne l’organizzazione della censura sugli spettacoli teatrali in Francia nel periodo del Secondo Impero, si vedano: H A L L A Y S -D A B O T 1862; H A L L A Y S -D A B O T 1871; B O ‐ N A S S I E S 1873. Per una prospettiva complessiva sulla censura teatrale nel periodo dell’Ancien Régime, si legga G A B R I E L -R O B I N E T 1965. Sulla censura teatrale in età romantica tra Italia e Francia, si veda F R A J E S E 2018. Quanto alla storia della censura dei repertori dei grandi teatri parigini tra 1835 e il 1906 (nel 1907 essa fu abolita definitivamente) sappiamo che: «En 1853, […] la direction des Beaux-Arts fut divisée, et c’est dire l’importance attribuée par le Second Empire aux théâtres et spectacles», K R A K O V I T C H 2003, p. 33. 10 A proposito di questo personaggio, egli stesso autore di teatro, si apprende che la sua attività di controllo e di amministrazione della Division des théâtres fu quella di un professionista tollerante, seppur autoritario, di cui si apprezzarono «les efforts de bienveillance, l’activité, le dévouement et l’esprit de conciliation», H A L L A Y S -D A B O T 1871, p. 29. Ed è proprio nel 1853 che tale struttura di controllo «devint alors direction à part entière sous la férule de Camille Doucet», K R A K O V I T C H 2003, p. 33. 11 W I L D 2021, p. 201. Inoltre, un entusiasta recensore dello spettacolo, quale Pier An‐ gelo Fiorentino - Théâtres, «Le Constitutionnel», Paris, 16 mai 1859 -, nel lodare la rappresentazione, si dichiara colpito proprio dal fatto che tutto sia “italiano” nella rappresentazione: «le poète, les artistes, le peintre, le souffleur, les comparses, et une partie du public». Il copione - complessivamente leggibile e analizzabile in tutte le sue parti, sebbene mostri talune cancellature e riscritture - è quello destinato alla censura, come si evince dal frontespizio del manoscritto, dove è apposto il visto della Division des théâtres di Parigi, una struttura preposta al controllo censorio degli spettacoli 9 . Ad essa viene consegnato il 9 maggio 1859, per essere poi restituito alla Compagnia, con l’indicazione del numero di protocollo (4921), col timbro e con la firma di un responsabile, riconoscibile in Camille Doucet, in data 11 maggio, il giorno antecedente la messa in scena 10 . Trattandosi, pertanto, del testo destinato al controllo preventivo dell’ufficio censorio, possiamo affermare che sia una versione, se non identica, almeno molto vicina a quella che avrebbero interpretato gli attori in occasione della prima rappresentazione, che fu recitata a Parigi, verosimilmente in italiano. Come si apprende, infatti, da un’indicazione contenuta nel Dictionnaire des théâtres parisiens (1807-1914), relativa al Théâtre des Italiens: L’opéra en langue italienne est, à quelques exception près, le seul genre exploité jusqu’en 1864 (année de la proclamation de la liberté des théâtres) sauf pendant les périodes d’été - généralement du 1 er avril au 1 er octobre - pendant lesquelles des ouvrages en langue étrangère autre que l’italien, soit lyrique, soit dramatique, sont autorisés 11 . 294 Francesco Puccio <?page no="295"?> 12 Della tragedia possediamo un’ulteriore edizione, tuttavia identica in tutte le sue parti alla versione a stampa in italiano del 1859, pubblicata postuma nel 1868, e contenuta nel volume delle Opere scelte di Antonio Somma curato da Alessandro Pascolato, per i tipi di Antonelli (Venezia, pp. 281-403). Ad auspicare l’uscita di questa raccolta delle opere di Somma, già qualche anno prima, era stato anche un anonimo recensore che - dalle colonne della «Rivista friulana di scienze, lettere, arti, industrie, commercio» 7/ 42, 1865, p. 211, in un articolo dal titolo Bibliografia veneta. Opere edite ed inedite di Antonio Somma -, si premurava di scrivere: «Difatti fu il Somma uno di quei pochi i quali in Italia nell’arte difficilissima della tragedia seppe seguire le classiche orme, lasciando pur travvedere che le magnanime aspirazioni della nostra epoca gli erano quotidiano alimento al cuore e al pensiero; e, quand’anche ciò non si volesse tenere qual commendevole pregio perché comune a tutti i veri scrittori non mestieranti, le Opere del Somma non potranno essere dimenticate in una completa storia della letteratura contemporanea». 13 Si veda, per una circostanza analoga, relativa ad un Otello shakespeariano rappresentato a Parigi, R A N D I 2009, p. 67. Della tragedia esistono anche un’edizione a stampa in italiano del 1859, uscita per i tipi di Cecchini (Venezia), e una dello stesso anno con traduzione francese a fronte, a cura di Costanzo Ferrari, pubblicata per i tipi di Lévy Frères a Parigi 12 . Le due pubblicazioni sono verosimilmente successive non solo al manoscritto, ma anche alla prima rappresentazione della tragedia. Dal frontespizio dell’edizione con traduzione francese a fronte, si ricava, infatti, che la «Cassandre» è una «tra‐ gédie en cinq actes, en vers italiens de A. Somma», che è stata «représentée au Théâtre Italien de Paris par la Compagnie Dramatique Italienne le 12 Mai 1859». Tale edizione mostra anche un maggior numero di analogie con il copione e con le parti levate rispetto all’edizione in italiano. Una considerazione che ci spinge a ritenere tale versione, sebbene destinata alla lettura, una sorta di prompt copy  13 - stampata subito dopo la rappresentazione della prima della tragedia, e ad essa molto aderente, come è accaduto per altre opere del repertorio dell’attrice -, 295 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="296"?> 14 La consuetudine, in base alla quale venivano preparati libretti a stampa del repertorio teatrale della Ristori che, accanto all’italiano, riportassero il dramma nella lingua del pubblico straniero, rispondeva ad una duplice esigenza: anzitutto, uno strumento di cui si serviva l’attrice-imprenditrice per agevolare la fruizione del testo da parte degli spettatori; in secondo luogo, un ulteriore espediente pubblicitario che aumentasse gli introiti della Compagnia. Pertanto, i libretti potevano essere utili sia perché ci si preparasse alla visione dello spettacolo, sia per offrire un testo da seguire nel corso della rappresentazione, e sia come occasione successiva di lettura, quale sembra essere stato il caso della Cassandra. Una conferma della diffusa presenza dei libretti si ritrova nel programma del Music Hall di New Haven, Farewell in America. Madame Adelaide Ristori. Great Tragedienne, preparato in occasione dell’arrivo della Compagnia nella città del Connecticut nel 1869, e conservato nel Fondo Ristori: «The librettos, or books of the Plays in which Madame Ristori will appear, will be presented in a new elegant form, both as regards absolute correctness in the original, and the translation - of Italian and English - but in their exact correspondence with the words of the performance, as delivered by Madame Ristori and her Company. These books are ready in advance of Madame Ristori’s appearance, and will be obtainable in time for all of her intending patrons to become familiar with each play prior to its production». E, a proposito dell’interesse con cui il pubblico si mostrava intento a seguire lo spettacolo e, allo stesso tempo, il testo sul libretto, il giornalista Enrico Montazio, che aveva preso parte alla tournée statunitense del 1867, riportava una divertita testimonianza: «Ed una strana particolarità delle recite italiane, è stato il grande spaccio dei libretti delle produzioni colla traduzione inglese a fronte. […]. Siccome ogni spettatore segue l’azione della scena attentissimamente sul libretto, così succede che giunto a fin di pagina, ciascuno svolta simultaneamente il foglio. È una specie del rumore prodotto da una cascata d’acqua», M O N T A Z I O 1869, pp. 163-164. 15 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, s. d., post 12 maggio 1859 - ante 24 agosto 1860. L’epistola, come le altre relative all’opera di Somma che saranno citate in seguito, è conservata nel Fondo Ristori. fornita di una traduzione che permettesse una più agevole comprensione del testo da parte del pubblico francese 14 . Da una lettera senza data indirizzata ad Adelaide Ristori, ma successiva al 12 maggio 1859 15 , si apprende che l’autore, tornato dalla Francia, aveva deciso di accogliere «le osservazioni ragionevoli della critica», e di introdurre modifiche «più notevoli nel II, III e V atto». Dato che nell’edizione in italiano del 1859 si trovano diversi cambiamenti, rispetto al copione, proprio negli atti II, III e V, è verosimile che le modifiche presenti in questa versione siano quelle a cui Somma allude nella lettera alla Ristori, e che, pertanto, anche questa pubblicazione sia posteriore alla rappresentazione parigina. In una successiva epistola (Venezia, 9 agosto 1860), antecedente la prima di Torino del 24 agosto 1860, Somma si premura di scrivere alla Ristori che, «oltre l’esemplare per la di Lei Signora», ne ha inviati, «a mezzo del D’Andrea», altri due, «uno pel Majeroni, l’altro per la Santoni»; e che: 296 Francesco Puccio <?page no="297"?> 16 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 9 agosto 1860. 17 Da una lettera di Somma indirizzata a Giuliano Capranica marchese del Grillo, marito di Adelaide Ristori (Venezia, 19 ottobre 1858), si apprende che il debutto sarebbe dovuto avvenire a Parigi, così da avere più tempo per le prove: «Così potremo far subito levar le parti, e, data lettura, concertarsi per l’andata in scena a Parigi, giacché per Torino, meglio pensandoci sopra, veggo che non avessimo tutto il tempo necessario per le prove. Resta dunque così inteso e d’accordo fra noi che io cedo a Lei e alla Sua Signora il diritto esclusivo di rappresentare e di far rappresentare questo mio nuovo lavoro, più il diritto di farlo stampare, con quella versione a fronte nella lingua che meglio crederanno e che io cedo loro ad un tempo ogni diritto d’autore sugli incassi comunque e dovunque […]. Ella può immaginarsi Sig. Marchese che ho mille ragioni per trasfondere nell’opera mia tutto me stesso, principalissima fra le quali di far cosa che meriti lo studio e l’interesse della Signora Adelaide, il cui talento si è già esercitato in tanti capolavori». 18 Tre le tragedie scritte da Somma, oltre alla Cassandra, e tutte ad essa antecedenti: Parisina (1835), Marco Bozzari (1847), La figlia dell’Appennino (1852). bisogna ricorrere ad uno di questi per trascrivere le parti giacché non si tratta come V.S. dice di pochi versi cambiati, ma si tratta di mutazioni essenziali nei dialoghi sia nella fine del II che del III che del V atto: le quali prestano tinte più forti per l’effetto delle rispettive situazioni. Del resto è questa l’edizione conosciuta a Torino e farebbe un cattivo senso l’udire sulla scena altra cosa nei momenti decisivi per la tragedia 16 . Possiamo ragionevolmente suppore che gli «esemplari» a cui Somma si riferisce siano copie dell’edizione in italiano, dal momento che contengono cospicui cambiamenti negli atti II, III e V; e che, stando alla testimonianza dell’autore, proprio questa versione vada utilizzata per le rappresentazioni torinesi («bi‐ sogna ricorrere ad uno di questi per trascrivere le parti»). Ma è dall’allestimento parigino curato dalla Ristori, attraverso la traduzione scenica adottata, e dal copione che ad esso è collegato, che prende l’avvio il nostro viaggio nella Cassandra di Antonio Somma. 2. Una Cassandra ottocentesca sulla scena tra gelosie e rivalità d’amore La tragedia debutta, dunque, a Parigi, il 12 maggio 1859 17 . Nonostante il ruolo da protagonista della Ristori, l’opera non riscuote un grande successo di pubblico: viene replicata solo quattro volte in Francia e nove in Italia, di cui l’ultima, il 19 gennaio 1870, a Firenze. Quanto all’autore, la sua esperienza teatrale non ha riguardato esclusivamente la scrittura di tragedie 18 : critico letterario per «La Favilla», direttore del Teatro Grande di Trieste, attivo protagonista dei moti 297 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="298"?> 19 «La partecipazione di Somma ai moti risorgimentali negli anni della sua attività teatrale (1835-1859) spiega la ricchezza di riferimenti all’attualità politica di tragedie che tuttavia mantengono un’ambientazione classica, storica o di sapore esotico. Dai più sporadici accenni nella Parisina ai più insistenti riferimenti nel Marco Bozzari, ne La figlia dell’Appennino e in Cassandra, il motivo patriottico trova espressione in accorate esortazioni dei personaggi a combattere e a sacrificarsi per la libertà e in riferimenti alla patria oppressa e alla nostalgia dell’esule», S P A R A C E L L O 2006, p. 72. Sul legame tra Risorgimento, melodramma e teatro, vd. M E C C O L I 1961. 20 L’opera è del 1859, ma già nel 1853, il Maestro aveva richiesto a Somma il libretto per un Re Lear che, però, non fu mai musicato (vd. I S O T T A 1978). 21 In merito alle scenografie, da una lettera che Francesco Righetti ha inviato al marchese Capranica (Torino, 30 luglio 1860), prima della rappresentazione torinese del 24 agosto 1860, apprendiamo che sono state allestite in tela e che hanno subito qualche danno durante il trasporto da Parigi: «Ho parlato a Moja, e si scusa dicendo che vi aveva preconizzato l’accaduto inconveniente, che l’imprimitura fu data bene, ma le scene in tela non vogliono essere piegate come quelle in carta, e ciò va fatto da chi ne abbia costante cura, ed esservi le stesse pieghe». 22 «L’inventario depositato al Carcano […] riassumeva in modo sintetico queste sceno‐ grafie: “Orizzonte Cassandra atto primo - due quinte bosco, e due quinte ruine - la città di Troja, un’onda. Per l’atto secondo troviamo un principale, fondale, due quinte; l’atto terzo idem; l’atto quarto un principale di reggia e uno di bosco - 2 quinte; l’atto quinto composto di un telone, due quinte - 4 porte laterali - uno specchio grande”», V I Z I A N O 2000, p. 310. 23 Da una lettera che Antonio Somma ha spedito a Giuliano Capranica (Venezia, 14 febbraio 1859), si ricava che l’autore, insieme con il manoscritto, ha inviato anche i disegni ispirati ai poemi omerici dello scultore e illustratore neoclassico John Flaxman, da tenere in considerazione per le scenografie e «da osservarsi precipuamente per ciò che riguarda il costume, nonché la musica che fa parte del dramma stesso». risorgimentali 19 , e librettista d’opera, ha collaborato con Francesco Dall’Ongaro e Antonio Gazzoletti per il libretto di Un duello sotto Richelieu, musicato da Federico Ricci, e con Giuseppe Verdi per la stesura del più celebre Un ballo in maschera  20 . Quando perviene all’elaborazione della Cassandra, pertanto, Somma ha già raggiunto una certa maturità drammaturgica - molto apprezzata dalla Ristori, come emerge dal loro carteggio -, che gli consente di costruire intorno ad una grandiosa figura del mito greco un dramma romantico ricco di pathos, animato dal conflitto permanente tra la protagonista e il mondo esterno. Le scenografie bidimensionali della tragedia vengono create dallo scenografo piemontese Angelo Moja 21 : le rovine fumanti di Troia con una barca nel mezzo, nel primo atto; l’ingresso della reggia di Argo, nel secondo; il tempio di Apollo, nel terzo; una loggia al piano terra, nel quarto; l’ingresso antistante il bagno del palazzo di Agamennone, nel quinto 22 . Sono suggestive e accurate, se prestiamo fede alla testimonianza di uno spettatore molto esperto, quale Théophile Gautier, che ne fornisce una descrizione particolareggiata 23 : 298 Francesco Puccio <?page no="299"?> 24 Théophile Gautier, Revue Dramatique, «Le Moniteur Universel», Paris, 16 mai 1859. Gautier mostra di avere molto gradito la rappresentazione, arrivando ad affermare che la tragedia di Somma non ha «la rigidité classique des pièces d’Alfieri: elle se reproche un peu du drame par le déplacement de la scène, une marche plus vive, une couleur locale mieux sentie, et cette compréhension de l’antique que l’on doit, chose bizzarre, au romantisme accusé à faux de n’aimer ni les Grecs ni les Romains». 25 Pier Angelo Fiorentino, Théâtres, «Le Constitutionnel», Paris, 16 mai 1859. Al di là dell’ammirazione per le scenografie, Fiorentino non esita, nel corso della sua recensione, a ritenere Somma un autore che può essere accostato addirittura ad Alfieri, grazie alla qualità drammatica dei suoi versi e all’interpretazione della Ristori che è stata «magni‐ fique de beauté, de grandeur et d’inspiration dans cette nouvelle figure si bien faite pour mettre en relief ses plus admirables qualités», al punto da renderne il successo «des plus éclatants». 26 Francisco Torrenta, Chronique Théatrale, «Quart d’heure. Gazette des gens demi-sé‐ rieux», tome troisième, Paris 1859, pp. 131-134. Non mancando di osservare come Somma si sia servito di uno stile degno di Sofocle e di Omero, e di avere evitato «le mouvement dramatique trop accentué, par une pièce enfin classique par la forme et les idées, moderne par l’harmonie et par les épisodes» (p. 132), Torrenta ritiene che questi sia riuscito in una non semplice impresa drammaturgica, anche grazie al fatto che «les artistes ont été à la hauteur de la pièce» (p. 134). Quand la toile en se repliant a laissé voir le théâtre, nous avons éprouvé une douce satisfaction: au lieu du portique vague sous lequel de temps immémorial les héros antiques se plantent vis-à-vis l’un de l’autre, flanqués de leurs confidents, pour débiter leurs longues tirades, un vrai décor se déroulait aux yeux. Sur une plage voisine de Troie, la mer empourprée par le soleil couchant venait découper ses franges et balançait les nefs à proue recourbée de la flotte argienne. […]. La décoration de cet acte est d’une architecture probable. On n’y voit ni colonnes d’un dorique primitif supportant des architraves à triglyphes simples, comme il convient à un palais pélasgique bâti sur des fondations cyclopéennes. […]. La vraisemblance est également observée dans le temple d’Apollon, contigu au palais où se passe l’acte suivant; la décorateur n’a pas commis la faute d’y employer la voute et les ordres d’architecture d’une invention bien postérieure à l’époque héroïque 24 . Anche per Fiorentino, le scenografie sono «très beaux» 25 ; e un altro recensore, Francisco Torrenta, dopo aver dedicato ampio spazio all’analisi della tragedia in un capitolo intero pubblicato nel terzo volume della Chronique Théatrale, «Quart d’heure. Gazette des gens demi-sérieux», afferma che «la mise en scène était magnifique. Il y a surtout un nouveau décor de M. Moja, de Turin, que tous les connaisseurs ont trouvé admirable» 26 . 299 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="300"?> 27 Nella stessa didascalia iniziale del copione, inoltre, si indicano, a sinistra, i resti «delle mura abbattute, a destra le falde selvose del monte Ida», mentre presso la riva «scorgesi la nave capitana parata a festa, e più in là e nel lontano orizzonte altri legni che vengono di mano in mano illuminati col cader delle tenebre», p. 3r. 28 p. 6v. 29 p. 7. Il primo atto è ambientato appena due giorni dopo la presa di Troia, nell’ora del tramonto presso la spiaggia antistante la città. La vicenda ha inizio con la rivelazione appassionata di Agamennone a Strofio - parti interpretate rispetti‐ vamente da Giacomo Glech e Pietro Boccomini - del suo sentimento d’amore per Cassandra. La storia sembra costruita, fin dall’inizio, in modo da orientare lo spettatore verso una direzione emotiva piuttosto precisa: la percezione di una distruzione che si è appena consumata con la caduta di Troia e, in una sorta di atmosfera di sospensione, il presagio di qualcosa di rovinoso che sta per accadere, come se i lutti e i dolori della guerra non si fossero ancora conclusi. Il senso di morte aleggia ovunque e, in attesa di impadronirsi dei vari personaggi coinvolti nella storia, quasi contrasta con l’immagine gioiosa della nave dell’Atride «parata a festa», come si sottolinea nel copione 27 . Nella seconda scena, giunge la notizia riferita da Tessandro - parte assegnata a Brunone Lanata - dell’inquietudine dello spettro di Achille che si aggira ancora per il campo nemico in cerca di vendetta, fino a quando non gli verrà offerto in sacrificio il sangue di Polissena. Il passaggio dal clima luttuoso a quello dell’abbandono e della partenza si compie subito dopo, quando nella terza scena si vede Agamennone riflettere da solo sul da farsi, prima di prendere il largo per tornare in patria. Da una didascalia che chiude la terza scena e introduce la successiva, si ricava un’indicazione importante sull’allestimento: «La scena resta vuota alcuni momenti»; è presente nel copione 28 e nella versione con testo francese a fronte 29 , ma manca nella versione a stampa in italiano, destinata ad un pubblico di lettori. Lo spazio scenico doveva restare vuoto per un breve tempo, dato che si preparava il primo ingresso di Cassandra e ci si avviava verso uno dei momenti più struggenti della storia: l’addio tra la profetessa e sua madre Ecuba, assegnata come schiava a Odisseo. La scelta non solo avrebbe accresciuto la suspense drammatica, ma avrebbe anche creato le condizioni adatte a polarizzare l’attenzione degli spettatori sull’attrice protagonista, intorno alla quale era stato costruito l’intero spettacolo. In una didascalia del copione di poco successiva, riportata accanto ad un’esc‐ lamazione che Cassandra rivolge a Ecuba, «Oh madre mia! », in apertura della quinta scena, ricaviamo un indizio interessante. A fare il suo ingresso è la madre regina (parte interpretata da Giuseppina Biagini), che, sorretta da un’ancella, 300 Francesco Puccio <?page no="301"?> 30 p. 7r. 31 p. 2v in A e B. 32 La circostanza sembra, tuttavia, richiamare la vicenda raccontata nell’Andromaca euripidea. Anche la sposa di Ettore, infatti, diventa madre dell’uomo che l’ha presa come schiava, ossia Neottolemo. Dalla loro unione nascerà Molosso, destinato a diventare re dell’Epiro. viene accolta da un abbraccio della figlia: «E restano avvinte senza che l’emozione permetta loro parola» 30 . Nelle parti levate di Cassandra la didascalia presenta un’ulteriore sottolineatura funzionale alla dinamica dei movimenti della Ristori e della Biagini, suggerendo che, a compiere per prima l’azione dell’abbraccio, sarebbe stata la Ristori: «Tra le sue braccia e restano avvinte senza che l’emozione permetta loro parola» 31 . Se Ecuba è avvolta dall’abbraccio di Cassandra, è ragionevole supporre che sia stata quest’ultima a dare l’avvio all’azione, in una stretta che, oltre a testimoniare l’ultimo contatto fisico possibile prima della dolorosa separazione, possa esprimere una volontà di appartenenza nella consanguineità che le unisce. Ma è anche un gesto che anticipa, pur in un diverso contesto, l’immagine che caratterizzerà le due donne nell’epilogo della tragedia, quando si ritroveranno ancora insieme in un evocativo passaggio nel mondo dell’aldilà. È indubbio che una buona parte del primo atto sia incentrata sull’attaccamento di Cassandra alla città distrutta e sulla violenza che ha avuto luogo da parte degli Achei, della quale è ancora vivo il triste ricordo; ma ci sembra che ad emergere, nella traduzione scenica del testo compiuta dalla Ristori, da questo abbraccio in poi, sia soprattutto il tema della maternità, che, declinato in varie coppie di personaggi (Ecuba/ Cassandra; Clitemnestra/ Oreste; Clitemnestra/ Ifigenia; Cassandra/ figlio), costituisce il vero filo rosso della messa in scena. Una maternità che, minacciata o proibita, perduta o messa in pericolo, accentuerà le rivalità e le gelosie tra Clitemnestra e Cassandra. Nel testo di Somma, e in maniera ancora più accentuata nella rappresentazione della Ristori, infatti, Cassandra non è solo una vergine violentata o una profetessa condannata a pronunciare profezie alle quali nessuno presta fede, ma una madre che, secondo un’innovazione assoluta rispetto al personaggio greco, dà alla luce un figlio, novello Atride, durante la navigazione di ritorno verso Argo 32 . Edouard Thierry, nella prima di due recensioni dedicate alla Cassandra, riconosce proprio nella forza del rapporto tra Ecuba e Cassandra un elemento sostanziale della rappresentazione. La bellezza e la nobiltà che caratterizzano la tragedia, infatti, emergono fin dalla prima scena, quando si manifesta l’inte‐ resse d’amore per la prigioniera troiana da parte dell’Atride, ma la «sévérité antique» che attraversa il dramma e che ad esso conferisce il pregio maggiore, raggiunge il culmine nel dialogo iniziale tra Ecuba e Cassandra e, in una sorta 301 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="302"?> 33 Edouard Thierry, Revue Dramatique, «Les Pays», Paris, 16 mai 1859. 34 p. 9r. 35 p. 3r in A e B. 36 p. 8. 37 p. 16. 38 Il celebre episodio è narrato in Verg. Aen. 2.228-267. di ricomposizione ideale, nell’epifania finale dell’ombra della regina, che quasi vuole chiamare a sé quella della figlia morente: L’idée des adieux d’Hécube et de Cassandre sur la plague où fume encore l’incendie de Troie, l’idée meme de l’ombre d’Hécube appa‐ raissant an dénouement de la pièce, pour attirer à elle l’ombre de sa fille expirante, la force du verset et le mouvement lyrique de la pensée, montrent dans M. A. Somma un vrai sang de poète tragique 33 . Nel corso della quinta scena, il copione riporta, nel lungo dialogo tra la regina troiana e sua figlia, il finale di una battuta di Cassandra che, dopo aver preso atto dell’ormai inevitabile disfatta della sua città, ridotta a un cumulo di macerie, recita: «Sepolcro / La fece il parto del fatal cavallo» 34 . La battuta è la stessa sia nelle parti levate di Cassandra 35 , sia nella versione con testo francese a fronte 36 , ma differisce nell’edizione a stampa in italiano, in cui si legge: «Sepolcro / È fatta e più non le riman che il nome» 37 . A Troia non resta altro che il nome, una constatazione vera, ma piuttosto generica, che elimina l’allusione alla vicenda dell’inganno del cavallo architettato da Odisseo, che aveva finito con il trasformare la città in una gigantesca tomba. La versione del copione appare più suggestiva e, con quel preciso riferimento al mito, permette allo spettatore di immaginare la scena virgiliana dei guerrieri achei calati dal ventre dell’animale di legno, pronti a seminare morte fra i Troiani addormentati e ubriachi 38 . Ma è soprattutto il fatto che la Ristori conservi il termine «parto», tanto nel copione, quanto nelle sue parti levate, a suggerire un richiamo che pare anticipare la condizione di madre, e non più solo di figlia, che caratterizzerà il suo personaggio dal secondo atto in poi. 302 Francesco Puccio <?page no="303"?> 39 Altri esempi analoghi di didascalie “parlanti” - in grado cioè di fornire delle indicazioni utili sui cambi di scena, sugli stati d’animo espressi, o sulla sequenza delle azioni compiute dagli attori -, presenti nel copione e nella versione a stampa con testo francese a fronte, ma assenti nell’edizione a stampa in italiano, riguardano il secondo atto: l’una si riferisce a Clitemnestra che, sul finale della scena seconda, sta per abbandonare il palcoscenico insieme con Egisto e, allora, l’autore si preoccupa di specificare «Via con Egisto. Marsia solo» (p. 21r); l’altra, invece, all’interno della scena quarta, riguarda Marsia, che dopo il ritorno della regina e uno scambio di battute, si allontana con l’indicazione «Marsia parte» (p. 22v); e il quarto atto, nel corso della scena seconda, alla fine di una lunga battuta pronunciata da Cassandra: «E mira lontano con angoscia crescente sin che prorompe d’un singulto» (p. 54v). 40 p. 16v. 41 p. 7r in A e B. 42 p. 4. Ancora nel primo atto, e più precisamente sul finale della sesta scena, introdotta dal rientro di Tessandro che viene ad annunciare alla profetessa che l’Atride ha scelto lei come concubina da portare in patria, una riflessione merita anche la didascalia conclusiva 39 . Nel copione è riportata una più ampia descrizione del modo in cui la protagonista e sua madre, sulla spiaggia di Troia e prima che i guerrieri Greci riprendano il mare per fare ritorno nelle rispettive terre, si separano dopo la dolorosa narrazione dello stupro: «Si scostano, ma poi avviandosi i loro sguardi s’incontrano e ritornano all’amplesso, formando gruppo nel mezzo. E intanto che Strofio e Tessandro si avanzano, si chiude la scena» 40 . Manca nelle versioni stampate, ma è presente nelle didascalie di entrambe le parti levate di Cassandra 41 , l’indicazione che i due personaggi facciano «gruppo nel mezzo», laddove l’attenzione dello spettatore si sarebbe concentrata, mentre il resto della scena, stando all’informazione contenuta nella didascalia, si sarebbe svuotato. Il sofferto dialogo tra Ecuba e sua figlia, che si sarebbero riviste solo alla fine della vicenda e in una condizione del tutto mutata, concentra lo sguardo del pubblico sul corpo unico che si è formato al centro della scena; e il ritorno all’abbraccio, gesto evocativo e scenicamente efficace, sembra sciogliere, anche se solo per un attimo, tutti i nodi emotivi che fino a quel momento si sono formati. Con il secondo atto muta l’ambientazione e si immagina sia trascorso un anno, come viene segnalato all’inizio dell’edizione con testo francese a fronte 42 : non siamo più sulla spiaggia di Troia disseminata di rovine, ma davanti al palazzo di Agamennone ad Argo, del quale, stando alle didascalie, si vede, sulla destra, la gradinata che porta all’interno. In questa sezione del testo, Marsia - una parte interpretata dal fratello della Ristori, Cesare -, utilizzando un espediente che richiama quello impiegato da Racine nella Fedra per l’annuncio dell’arrivo di Teseo, si premura di informare Clitemnestra ed Egisto - parti rispettivamente 303 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="304"?> assegnate a Carolina Santoni e ad Achille Majeroni - dell’imminente approdo della nave di Agamennone. Il figlio di Tieste è divenuto l’amante della regina nel periodo di lontananza del cugino dal talamo nuziale; insieme con lei, ha maturato propositi di vendetta e ora, temendo per la sua incolumità, ritiene opportuno allontanarsi immediatamente. I due tramano l’assassinio di Agamennone, si convincono reciprocamente della necessità di compiere quell’atto; inizia, così, ad emergere un aspetto interessante della caratterizzazione che Somma fa della regina, discostandosi in parte dal personaggio eschileo, in cui il proposito di vendetta prevale su ogni altro moto dell’animo: un sotterraneo, quanto implacabile, sentimento di gelosia. Si legge, infatti, nella prima scena del secondo atto del copione il seguente dialogo tra Clitemnestra ed Egisto: CLITEMNESTRA Perché disperi? A queste prode ancora Non s’affacciò. Che se l’offeso Olimpo Sui greci legni scatenò la furia De’ venti: e fama d’ogni parte corse Che per lo sdegno de’ celesti a tutti Il mar fu tomba: onde ti turbi e sogni Che la sua nave, la più rea di tutte, Nella ruina universal potesse Dall’abisso involarsi? EGISTO E qual decreto Altri conosce? CLITEMNESTRA Alcun. Ma perché il chiedi? D’altri paventi? EGISTO All’agitato mio Spirto perdona. Una crudel vicenda Di speranze e terrori il risospinge Dalle stelle all’abisso. CLITEMNESTRA E l’amor mio Non t’assecura! E pensi tu che quando 304 Francesco Puccio <?page no="305"?> 43 pp. 17r-18v. 44 p. 25r. Lo rivedessi ancor potrei gettarmi Nelle sue braccia ed obliarti? Ha forse Diritti su me colui, che le mie nozze Dimenticando d’amarezza sparse I più cari miei dì? Che stretto il ferro Mi vedovò: che la decenne assenza Ad emendar qui m’adducea da Troia L’amante sua Cassandra? Oh posso io mai Per chi la figlia mia con ampia fraude Sovra l’are immolò, pronto accusando Gli oracoli crudeli anzi che quella Sua smisurata ambizion d’impero: Per tal marito e per tal padre posso Altro provar che l’abbominio! 43 Gradualmente, come un veleno distillato goccia dopo goccia, la gelosia aumenta nel corso della vicenda, appena il re fa il suo ingresso trionfale con Cassandra, fino a diventare una vera e propria ossessione, quando la donna scoprirà, nel terzo atto, che la profetessa ha dato un figlio ad Agamennone. Ecco, allora, che la tragedia comincia a virare nella direzione di un dramma sentimentale in cui a scontrarsi non sono tanto due donne che condividono lo stesso uomo, e verso il quale provano sentimenti contrastanti, quanto due madri: l’una che lo è appena divenuta, e l’altra che ne è stata in parte privata dopo il sacrificio di Ifigenia, quel male “necessario” che aveva spinto l’Atride ad anteporre le ragioni della guerra a quelle della famiglia. Egisto viene convinto da Marsia a non abbandonare il palazzo, ma a nascon‐ dersi nel tempio vicino, dove sarà più semplice tenere d’occhio la situazione e procedere con il piano dell’omicidio del re, appena le circostanze lo permet‐ teranno. Dopo l’annuncio da parte dell’araldo nella sesta scena, si allestisce il momento dell’ingresso trionfale di Agamennone, «preceduto dai Sacerdoti, […] sul carro e gli sta allato Cassandra, lo seguono Tessandro, gli Anziani, le Guardie, e dietro la folla del popolo», come si legge nella didascalia della scena ottava del copione 44 . Il palcoscenico accoglie una moltitudine di personaggi, tra attori e figuranti, che lo occupano con un lungo movimento di ingresso e di attraversamento, che traduce molto bene, sul piano scenico, l’idea dei sudditi acclamanti il loro re di ritorno dalla guerra. È solo il primo di una serie di passaggi 305 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="306"?> 45 p. 28v. 46 p. 47. In Cassandra coesistono due distinte forme di divinazione e altrettante figure, quelle che Platone (Tim. 71d-72b) definisce mantis e prophetes: la prima agisce come fosse priva di ragione attingendo alla verità attraverso una veggenza ispirata dal dio e ad un invasamento che conduce alla rivelazione; la seconda si muove invece sul piano razionale, poiché si serve del ragionamento per distinguere le visioni e tradurle poi sul piano comunicativo (vd. M A Z Z O L D I 2002). 47 p. 19. 48 p. 8v in A e B. Rispetto alla restante sezione dei versi esaminati, le parti levate di Cassandra risultano coincidenti con il copione e con l’edizione a stampa con testo francese a fronte, non fornendo in questo caso, pertanto, spunti di riflessione aggiuntivi. della tragedia in cui, a riempiere lo spazio, non sono solo gli attori principali, ma anche quella schiera silenziosa, ma necessaria, di personaggi collaterali. Ed è interessante proprio un cambio di versi che ritroviamo nella scena successiva, la nona, durante il lungo monologo di apertura pronunciato da Cassandra, nel quale la donna, scesa dal carro ed entrata nell’atrio, si abbandona, con un’emozione crescente, a cupi pensieri sulla sua triste sorte. Nel copione, la battuta recita: «Dal giorno / Che sacrileghe mani han profanato / La giovinezza mia, che mi fu tolta / La libertà, potuto avrei la scienza / Dei vaticini in me serbar? » 45 ; la versione a stampa in italiano, servendosi di un’altra forma, pare attribuire un afflato poetico più pronunciato al contenuto: «Dal giorno / In cui barbare mani han profanato / La giovinezza mia, che mi fu tolta / La libertà, chi più mi schiude i cieli / All’estasi profetica? » 46 . Anche in questo caso, l’edizione a stampa con testo francese a fronte 47 coincide con la versione del copione tranne che per l’uso dell’aggettivo «barbare» in luogo di «sacrileghe», adope‐ rato invece solo nel copione e, vista anche la scelta fatta nelle parti levate che riportano la versione «barbare» 48 , verosimilmente messo da parte per la rappre‐ sentazione. In questo contesto, ad orientarci nella formulazione di un’ipotesi è proprio l’analoga occorrenza del termine, tanto nelle parti levate di Cassandra quanto nell’edizione con testo francese a fronte: è ragionevole pensare, infatti, che la Ristori, in vista dello spettacolo, abbia scelto le «barbare mani» e non le «sacrileghe». Sarebbe stata preferita, così, al posto di un riferimento esplicito alla violenza compiuta da Aiace, aggravata dal fatto di essere stata commessa nel tempio di Pallade, una più generica definizione (per quanto testualmente inesatta, dal momento che Cassandra, sebbene troiana, si esprime come una donna greca), dettata forse dalla necessità di non incorrere in una successiva censura e di allontanare dal personaggio della Cassandra/ madre l’immagine dello stupro subito. Ma è la decima scena, alla fine del secondo atto, la sezione che pone meglio in evidenza, il dramma di Cassandra come madre, su cui si abbatterà la terribile 306 Francesco Puccio <?page no="307"?> gelosia della rivale, che la Ristori intende far emergere sulla scena. Si tratta di un dialogo che vede coinvolti la protagonista e Strofio, che nel frattempo ha nascosto il figlio della donna all’interno del tempio, consapevole del rischio che il bambino avrebbe corso se Clitemnestra, accecata da una gelosia duplice verso l’amante e il figlio suo illegittimo, lo avesse trovato. Strofio è ricomparso in scena con l’atteggiamento rassicurante del saggio consigliere; i due sono presi da un animato dialogo nel quale l’uomo cerca di volgere l’animo di Cassandra a più miti consigli, facendola riflettere sull’inutilità del suo proposito di vendetta e sulla necessità di mostrarsi più benevola nei confronti di Clitemnestra, che vorrebbe ricevere notizie della sorella Elena. Nel copione si legge il seguente scambio di battute: STROFIO Gran desiderio ha di vederti. Suora D’Elena è certo che di lei novelle Sovra ogni cosa al mondo aver sospira. CASSANDRA Ma non da me. STROFIO Perché se nelle tue Case per ben due lustri ospite visse Elena - e tu la sola sei che possa Darle… CASSANDRA Deh dove il cor mi porti! STROFIO È duopo. Farlo tacere e del passato suo Nascondere le lacrime. CASSANDRA Non sai Che piaghe mi riapri! STROFIO So che madre Tu sei, so che il materno amore ogn’altro 307 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="308"?> 49 pp. 29r-30v. 50 pp. 19-20. 51 p. 9r in A e B. 52 pp. 3r-4v. 53 p. 31r. Supera sulla terra e che sul tuo Parto non debbe stendere le mani Questa rivale onnipotente. - Or dove, Senza corruccio della sua sorella Essa ti parli, non saprai tu dunque Al suo cospetto un istante almeno La rea cognata assolvere - un istante Gli sdegni tuoi dimenticar? CASSANDRA Sì tutto! Tutto…se fia che tu mi salvi il figlio! 49 Tale versione è la stessa presente anche nell’edizione a stampa con testo francese a fronte 50 , nelle parti levate di Cassandra 51 e nella parte levata di Strofio 52 , ed è piuttosto chiaro che qui Cassandra, anteponendo ad un sentimento di vendetta personale la sua condizione di madre, sarebbe disposta a fare qualunque cosa in nome di quel «materno amore» cui Strofio allude, finanche trovarsi al cospetto dell’odiata regina e fingere un atteggiamento conciliante. Maggiore è la caratterizzazione della maternità di Cassandra, più soffocante è la morsa della gelosia che attanaglia Clitemnestra. Con il terzo atto entriamo finalmente nello spazio interno del tempio attiguo alla reggia, un luogo che si aggiunge alle innovazioni introdotte da Somma, nella sua operazione di ricezione del mito, rispetto ad esempio all’Agamennone eschileo che aveva, invece, come fulcro dell’azione, il palazzo dell’Atride. Sul fondo del tempio, come si legge nella didascalia iniziale della prima scena riportata nel copione 53 , un cippo reca il nome di Ifigenia, richiamando immedi‐ atamente il legame con la vendetta che Clitemnestra ha covato nei lunghi anni di attesa del marito. Ancora una madre, ma stavolta privata della figlia e tormentata dal ricordo del sacrificio che gliel’ha brutalmente portata via. È qui che la donna, nella seconda scena, va a trovare Egisto, inizialmente solo, travestito da vecchio aruspice. La regina vuole che sia proprio il suo amante ad uccidere Agamennone 308 Francesco Puccio <?page no="309"?> 54 Che la tragedia sia impostata sul sentimento di gelosia di Clitemnestra - meno rilevante nel personaggio tragico portato in scena da Eschilo -, che conferisce alla sua vendetta per l’uccisione di Ifigenia un ulteriore approfondimento, lo dimostra anche il fatto che l’Atride, nel sonno del bagno, abbia mormorato il nome dell’amante troiana, come Egisto riferirà a Clitemnestra nella scena prima del quinto atto, rendendosi, così, a lei ancora più odioso. durante il banchetto, e tra i due ha luogo un teso dialogo nel quale il rancore e la gelosia della regina verso l’odiata amante prorompono in tutta la loro asprezza 54 . Si legge, infatti, nel copione: EGISTO Ma di Cassandra Nulla m’hai detto ancor, s’ella divise Il talamo reale CLITEMNESTRA (Fieramente interrompendolo) Oh non la tomba Dividerà! STROFIO Che, la risparmi? CLITEMNESTRA Atride Spento, col ferro il suo destino affretta. E sia pasto de’ cani! EGISTO Al tuo cospetto Mostrarsi osò? CLITEMNESTRA (Dopo breve sospensione, impallidendo fra l’ironia e lo sprezzo) Potea tacer la fama Che della sua beltà sì gran diffuse Strepito ovunque; onde la fulva chioma E gli occhi ardenti, e il roseo collo, e quanto La persona ha di vago in mille guise Divinizzò per essa, e de’ mendaci Rapsodi pronta careggiò la cetra! 309 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="310"?> 55 pp. 35r-36v. 56 p. 36v. 57 p. 37r. […] Però che i tratti dell’immonda razza Scolpiti porta; e non risponde, o solo Ne’ barbarici suoni: ancor che greco Favelli, e nata la diresti schiava Più che prole di re! 55 Ma la vera rivelazione avviene quando Clitemnestra viene a sapere da Egisto che c’è un altro piccolo Atride. È la svolta della vicenda, come si legge nel prosieguo del dialogo: EGISTO (Move leggermente verso l’altare esplorando, poi nel riaccostarsele e sottovoce) Pur non sai tutto O mia regina! Non potè lo sguardo Acutissimo tuo fra le tenebre Altro scovrir tesoro CLITEMNESTRA Quale? EGISTO Un figlio Al tuo sposo largì: novella speme Del retaggio di Pelope! CLITEMNESTRA Per questo Reduce a noi, degnò d’un bacio appena Oreste mio… 56 La gelosia della regina si colora di toni ancora più foschi. Cassandra non è solo una rivale d’amore, un’amante straniera che si è insediata nel palazzo, ma anche la madre di un altro figlio di Agamennone. Clitemnestra, a questo punto, non può che esigere la morte del bambino, segno tangibile dell’affronto che il marito le ha fatto. Esce di scena, dopo aver offerto la destra all’amante, che la bacia con «affettato fervore» 57 , come si premura di sottolineare nel copione 310 Francesco Puccio <?page no="311"?> 58 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 7 marzo 1859. 59 p. 12v in A e B. la didascalia conclusiva della seconda scena, piuttosto che con una sincera passione; dopo una breve permanenza del solo Egisto, nella terza scena, che si logora in preda al timore di ciò che dovrà essere compiuto, sopraggiunge Cassandra. Il dialogo tra Cassandra ed Egisto, che ha luogo nella quarta scena, è basato su un’iniziale finzione, in quanto l’uomo, novello Iago, si mostra a lei sotto le mendaci vesti dell’aruspice, del guardiano cui spetta il compito di tenere d’occhio i bui recessi del tempio. Egli finge compassione per le sorti della donna e si dichiara disposto ad aiutarla, facendo leva su un sentimento che li accomuna e che, parallelamente alla gelosia, attraversa tutta la tragedia: la vendetta. La cupa ambientazione, che fa da sfondo alla macchinazione di Egisto - in linea con le indicazioni di Somma, che in una lettera indirizzata alla Ristori, annota di aver avvisato Moja del fatto che «le due scene del III e V atto essere devono a notte, quella del I e IV cadere del dì, e di bel giorno quella del II» 58 -, sembra richiamare allegoricamente quel mondo dell’aldilà che ben presto la profetessa si avvierà a raggiungere, ma è anche il segno scenico inequivocabile di una progressiva solitudine del personaggio. Cassandra comprende, infatti, che l’uomo le sta mentendo, e così ad Egisto non resta che mutare propositi. Anche in questo caso, in mancanza della parte levata di Egisto, possiamo fare riferimento a quelle di Cassandra 59 , che presentano la medesima sequenza del copione, con l’argomentazione di Egisto ridotta ad un efficace susseguirsi di domande. Così, infatti, si legge nel copione: EGISTO (Mutando voce e con dispetto) Rifiuti? A sdegno prendi L’offerta mia? Che speri tu? Qual mira Ambiziosa al cor ti cuoce? Adunque Tu ami l’Atride se i parenti uccisi, Il rogo della patria, il nome tuo Dimenticasti e t’addormentasti abbietta Nelle braccia di lui? CASSANDRA Non più, bugiardo Accattone di complici. Va, porta 311 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="312"?> 60 pp. 43r-44v. L’edizione a stampa con il testo francese (p. 27) coincide con il copione, anche per quanto concerne la scelta dell’aggettivo che Cassandra utilizza per replicare ad Egisto, ossia «bugiardo», presente anche nelle parti levate (p. 12v in A e B), ma diverso dal «codardo» che si ritrova, invece, nella sola edizione a stampa in italiano (p. 75). 61 p. 44v. 62 p. 45r. L’empio disegno a chi t’ha compro. L’aure Tu qui dissacri con la rea parola. La tua sacerdotal maschera, appieno, Qual sei ti manifesta. Esci: è mortale La tua pietà! 60 Il breve dialogo tra i due si fa ancora più incalzante: Egisto tenta di aggredire Cassandra, ma la notte sopraggiunge repentinamente - come si apprende dalla didascalia riportata in chiusura di scena nel copione, «Le lampade d’un tratto s’ammorzano e tutto resta nella più fitta oscurità» 61 -, e appena la profetessa si rifugia ai piedi della statua di Apollo, l’uomo cade a terra, perdendo il pugnale. Una soluzione poco convincente sul piano della coerenza drammaturgica e della verosimiglianza che mostra, piuttosto, l’esigenza dell’autore di concludere qu‐ esta parte della vicenda e di spostare l’attenzione dello spettatore sul banchetto, che avrebbe dovuto rappresentare, nelle intenzioni della regina, il momento più adatto per uccidere Agamennone e la sua amante. Il quarto atto, pertanto, si apre, secondo la didascalia del copione, con la vista della «loggia terrena aperta e sorretta da pilastri in prospetto agli orti. […]. Le pareti e le colonne a festoni di fiori, e qua e là appesi a trofeo le spoglie dei difensori di Troia. […]. Nel mezzo la mensa reale a semicerchio. I due seggi di Clitemnestra e d’Atride alle due estremità e più elevati degli altri tre nel mezzo» 62 . Come nel primo atto la barca di Agamennone «parata a festa» stride accanto alle rovine di una terra distrutta, allo stesso modo, in questo quarto atto, la festosa sontuosità con cui è allestita la scena è in contrasto con le delittuose macchinazioni che si preparano. Lo spazio solenne dell’interno del palazzo reale, pur con la prospettiva visibile dei giardini esterni, introduce lo spettatore nel centro nevralgico del potere di Clitemnestra. Nel copione, la prima scena viene presentata dall’autore, attraverso una dettagliata descrizione, con numerosi figuranti: musici, citariste abbigliate con costumi frigi, giovani donne intente ad intrecciare ghirlande, guardie ferme davanti ai pilastri; e con diversi oggetti di scena: «anfore, strumenti musicali, 312 Francesco Puccio <?page no="313"?> 63 p. 45r. 64 Il Coro del copione avrebbe dovuto pronunciare questi versi: «Già tutta l’Ellade / Di pace i cantici / Destando esulta / Poi che l’ingiuria / Del biondo Paride / Non cadde insulta. / Ma dai pinacoli / Fumanti d’Ilio / Guizzar diletta / Fè nelle tenebre / Fino all‐ ’Olimpico / La gran vendetta! / Or tu dimentica / O bella Argolide / Le notti amare, / Se l’ostie brillano / Della vittoria / Sul greco altare. / E dolce libano / Fanciulle ed os‐ piti / Col re tornato / Che vinto l’Asia / Solcò sui vortici / Del mare irato», pp. 45r-46v. 65 p. 46v. 66 Louis Avenart, Premières Représentations, «Le Monde Dramatique», Paris, 19 mai 1859. In riferimento alla notevole qualità dell’arte attorica della Ristori, pur giudicando positivamente la tragedia nel suo complesso e degno di attenzione il lavoro dei vari interpreti, Avenart assegna alla protagonista il merito principale di avere animato ogni aspetto con il suo «souffle créateur», essendo stata proprio lei ad aver dato colore al personaggio di Cassandra: «Elle a coloré des plus chaudes nuances le rôle de Cassandre; elle l’a composé avec ce grand art dont elle possède le secret; des élans de terreur, de tendresse maternelle, de vengeance, partent de son coeur pour captiver lo spectateur fasciné, ébloui, charmé; elle parle, et sa voix soulève, et sa voix soulève des tonnerres d’applaudissements; elle fait un geste, et les fleurs pleuvent su sa tête». 67 Questa, invece, la versione che compare nell’edizione a stampa in italiano: «Or tu dimentica / O bella Argolide / Le notti amare, / Se l’ostie brillano / Della vittoria / Sul greco altare. / I suoi Priamidi / Dal mesto vortice / Pianga lo Xanto. / Tu lieta al ce‐ nere / Dei tuoi magnanimi / Consacra il canto. / Ancor terribile / Dei loro spiriti / Da danza esulta, / Dove l’ingiuria / Del biondo Paride / Non cadde insulta. / Ma dai pina‐ coli / Fumanti d’Ilio / Raggiar dilette / Per l’altra tenebra / Sino all’Olimpico / Le tue vendette! », pp. 78-79. armi, vasi ed altre ricche suppellettili disposte intorno» 63 . Alla presentazione di questa moltitudine di personaggi e di oggetti, segue una breve parte corale che, se nel copione si mostra leggibile, ma segnata da una cancellatura 64 , nella versione a stampa con traduzione francese viene eliminata. La scena, infatti, suggestivamente costruita per creare un macabro effetto di tensione, ha subito inizio con una battuta di Egisto, al termine della quale l’uomo, come se si stesse preparando a celebrare un funesto rito sacrificale, «liba dall’ampio, inghirlandato cratere, poi versa sulla fiamma che più vivace risplende, e compiuta la cerimonia, ritirasi dietro la quercia. Tutti i convitati s’assidono. Marsia presso Clitemnestra, nell’atto che dagli orti una musica festiva preludia al banchetto», come suggerisce la didascalia del copione 65 . A sostenere l’ipotesi, formulata sulla base del testo della didascalia, che una musica lieta fosse intonata per dare avvio al banchetto, il cui tavolo dominava frontalmente il palcoscenico, è anche un’indicazione contenuta nella recensione di Louis Avenart, il quale ci informa che appena «le banquet a lieu, les harpes retentissent» 66 . Nell’edizione a stampa in italiano, invece, la parte corale viene conservata 67 : mentre alla lettura le sezioni liriche d’impianto corale possono funzionare, alla rappresentazione risultano inevitabilmente lente e pesanti, e pertanto poco 313 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="314"?> 68 p. 49r. 69 p. 84. 70 p. 30. gradite agli spettatori. Il testo utilizzato, inoltre, posto non all’inizio dell’atto, come ipotizzato nel copione, ma solo dopo la battuta pronunciata da Egisto, risulta in parte diverso, sebbene presenti talune strutture liriche analoghe e proponga, allo stesso modo, il tema portante di una vendetta feroce che necessita di essere consumata. La scena è, dunque, affollata e si percepisce una tensione crescente nella sequenza delle azioni, un senso febbrile di attesa che precede l’imminente sven‐ tura; l’ingresso di numerosi personaggi che riempiono lo spazio e l’incalzante ritmo della musica suonata dalle citariste, che doveva aver assunto un ruolo particolarmente rilevante, traducono bene lo stato di confusione che, agitando la regina, condizionerà la sua successiva scelta di annullare il piano e di rinviarlo ad un’occasione più propizia. Ne deriva che l’inizio della seconda scena - che nel copione coincide con l’ingresso di Cassandra, che la didascalia si preoccupa di specificare dapprima essere entrata e poi, con «le giovani schiave che eseguono un preludio, attratta dalle armonie del monte natio, non vista» 68 , essere rimasta in attesa sul fondo -, venga di poco posposto nella versione a stampa in italiano 69 e in quella con traduzione francese 70 . In entrambi i testi, infatti, l’attacco è collocato in un passaggio di maggiore intensità, quando Cassandra, come suggerisce la didascalia comune a tutte le versioni, accorre «dal fondo, nell’atto che strappa di mano la cetra ad una delle suonatrici», in procinto di lasciarsi andare alla fase di estasi profetica: CASSANDRA (Accorrente dal fondo, nell’atto che strappa la cetra di mano ad una delle suonatrici) Io! CLITEMNESTRA Cassandra! MARSIA L’indovina! EGISTO (Dal fondo tra sé) 314 Francesco Puccio <?page no="315"?> 71 pp. 49r-50v. 72 p. 49r. Or quale Destino avverso a noi la tragge. ATRIDE E giungi Desiderata. CASSANDRA (Con amara e mal espressa ironia) Al genial banchetto L’auspice musa degg’io: degg’io L’inno ridir delle vittorie vostre? E quest’aure allegrar del più giulivo Brindisi che l’udito alla regina Accarezzasse mai. STROFIO (Sommessamente accostandola) Deh non tradirti Rammenta il figlio 71 . Nel copione si preferisce considerare come momento d’inizio della scena quello in cui la profetessa si accinge a parlare, pronunciando questa rapida battuta: «O musica, dal mio nascere appresa / Fra l’ombre dei perduti orti materni! » 72 ; e forse non è un caso che, come battuta di attacco, la Ristori scelga proprio quella in cui vengono richiamati gli «orti materni», quei luoghi d’infanzia dai quali la sua Cassandra è stata violentemente strappata. Né ci saranno altri giardini in cui potrà rifiorire la sua maternità. Le gelosie e i rancori che Clitemnestra ha covato e nutrito in tutto questo lungo tempo di assenza del marito dalla reggia faticano ormai ad essere celati, e diventano ulteriore terreno in cui alimentare l’odio, preparando alla vendetta finale. La seconda scena è il momento dello scontro tra le due donne che, finalmente, arrivano ad una resa dei conti. A questo punto, Cassandra rattrista il banchetto con il ricordo di Elena e delle terribili sventure che si sono abbattute sulla sua amata città. La tensione cresce, l’ira di Clitemnestra nei confronti del marito aumenta, e la situazione diviene insostenibile, al punto che la regina, temendo che i suoi propositi siano ormai compromessi, decide che non è più il momento 315 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="316"?> 73 p. 56v. 74 p. 6v. 75 p. 18v in A e B. 76 p. 34. 77 p. 94. adatto per portare a compimento il suo piano omicida e, insieme con tutti gli altri che la seguono, abbandona la scena. Cassandra, rimasta da sola con Strofio, e fortemente turbata da quanto accaduto, sente che la sua fine si avvicina. Ed è in questa fase che uno scambio di battute tra Cassandra e Strofio si presenta in un modo nel copione 73 , nelle parti levate di Strofio 74 e di Cassandra 75 , e nell’edizione con testo francese a fronte 76 , ma in un altro nella versione a stampa in italiano 77 . Nel copione, infatti, si legge: «CASSANDRA È la regina, anzi la suora / D’Elena ell’è. STROFIO Né la paventi? E puoi / Tutta versarle arditamente in volto / L’amarezza dell’animo? ». Nell’edizione a stampa in italiano troviamo un testo in parte diverso e, in questo caso, più ellittico: «CASSANDRA Più, che ella non pensi. STROFIO E puoi / Tutta versarle arditamente in volto / L’amarezza dell’animo? ». Sembra quasi che la battuta di Cassandra, recitata, esiga di sottolineare, in una ricerca di complicità con gli spettatori, chi sia nei fatti la regina greca, ossia la sorella di quella stessa Elena che ha causato la guerra di Troia. Sono ancora una volta i legami di sangue quelli a cui la Ristori intende fare riferimento nella caratterizzazione del suo personaggio. Clitemnestra, prima di essere la moglie di Agamennone, è la sorella di Elena. Dunque è lì, tra le maglie dei legami familiari - riguardino essi madri e figli o sorelle -, che ci sembra prenda forma il lavoro più profondo che la Ristori intende impostare per il suo spettacolo; è lì che la ricerca di sympatheia con il suo pubblico ci sembra possa trovare una più compiuta realizzazione. A Cassandra non resta, allora, che profetizzare la propria morte, quella di Agamennone, e di pregare Strofio, ormai suo prezioso confidente, di portare in salvo il piccolo Oreste e di allevarlo presso il suo palazzo, certa che la mano di Egisto si abbatterà anche su di lui, senza alcuna pietà. Ed è proprio il quarto atto quello in cui, per Edouard Thierry - come il critico sottolinea nella seconda delle due recensioni dedicate allo spettacolo -, lo spessore artistico della Ristori emerge in tutta la sua grandezza. Grazie al lungo monologo incentrato sul racconto della caduta di Troia - sulle note delle citariste troiane che la riportano, in un momento di estasi sublime, tra le mura della sua patria -, infatti, il talento dell’attrice «parts des notes les plus argentines et les plus aigues du clavier dramatique pour descendre aux notes les plus graves et les plus profondes», al 316 Francesco Puccio <?page no="317"?> 78 Edouard Thierry, Revue Dramatique, «Les Pays», Paris, 23 mai 1859. Il critico rileva, inoltre, come la Compagnia sia nell’insieme ben strutturata e perfettamente in grado di sostenere la prova della Ristori. Quanto alla caratterizzazione dei personaggi, essa avrebbe forse richiesto un maggiore approfondimento da parte dell’autore. E ciò si evince dalla poca efficacia di un personaggio come Egisto, sostenuto dalla recitazione di Achille Majeroni; o dalla sostanziale freddezza e monotonia di Clitemnestra, anch’ella valorizzata dal talento, dalla bellezza e dall’uso sapiente della voce di un’attrice quale Carolina Santoni; o dall’opaca immagine di Ecuba, compensata dallo slancio appassionato e dalla dizione corretta di Giuseppina Biagini. 79 p. 59r. 80 p. 35. 81 p. 62v. punto che Thierry conclude di non avere mai assistito a nulla «de plus beau, de mieux étudié ni de mieux inventé au théâtre» 78 . Il quinto atto, con la scena collocata davanti all’ingresso antistante il bagno dove si consumerà l’omicidio di Agamennone, racconta il terribile epilogo della tragedia, con il compimento del delitto da parte dei due complici, e il suicidio di Cassandra che arriverà a toccare il punto più alto della climax emotiva che si è progressivamente costruita. Da uno spazio aperto, quale la spiaggia di Troia, nel primo atto, si è passati, nel corso della rappresentazione, ad ambientare la vicenda in luoghi sempre più chiusi e ristretti, quasi a voler suggerire una sorta di angusta spirale concentrica che comprime i personaggi e i loro stati d’animo. La scena presenta Egisto e Clitemnestra pronti all’azione, ma diffidenti e guardinghi per il timore di essere scoperti, con la regina che, come indicato nella didascalia iniziale della prima scena del copione, «S’accosta a lui circospetta e a bassa voce come in tutto il dialogo» 79 ; un dettaglio prezioso che, inserito anche nell’edizione con testo francese a fronte 80 , fornisce un’indicazione sulla modulazione della voce del personaggio in questa parte del dramma. Con la terza scena ci avviamo al tanto atteso scontro tra le due donne, una situazione che conferisce al testo una notevole forza scenica e un’opportunità di esibizione per la Ristori e la Santoni: da un lato Cassandra, straziata dal dolore e dal ricordo del suo passato, ma soprattutto preoccupata per la sorte del figlio, che ormai si avvia verso una morte inevitabile. È una madre disperata che si accorge di non poter fare più nulla per proteggere il suo bambino; dall’altro Clitemnestra, madre anch’ella che, recuperando il modello eschileo, si erge però furiosa, accecata da una gelosia incontenibile e da una volontà di vendetta che non riesce a trovare requie. Una serie di didascalie presenti nel copione e nelle parti levate, ma non nel testo a stampa, ci guida in questo percorso esegetico. La prima - omessa nella versione a stampa in italiano, ma riportata nel copione 81 , nelle parti levate di 317 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="318"?> 82 p. 21r. 83 p. 20v. 84 p. 37. 85 p. 22v in A; p. 21r in B. 86 p. 39. 87 p. 64v. Cassandra A 82 e B 83 e nell’edizione con il testo francese a fronte 84 , riguardante l’inizio del lungo monologo in cui la profetessa predice la propria morte - ci presenta un «solennemente» che rafforza l’attacco patetico del personaggio e ne orienta il tono della recitazione. Casi analoghi nella scena terza riguardano altre due didascalie inserite a corredo delle battute pronunciate da Cassandra, presenti nel copione, nelle sue parti levate - che modificano appena in «D’un grido straordinariamente» 85 -, e nell’edizione con testo francese 86 , ma non nell’edizione a stampa in italiano, a indicare, nella climax ascendente, l’esigenza di sottolineare una finalità recitativa molto precisa: la Cassandra della Ristori è una madre alla quale non resta altro che la morte, nel momento in cui verrà privata della sua unica ragione di vita, il figlio. Così, infatti, si legge nel copione: CASSANDRA (D’un grido straziante) È tardi. È troppo tardi ormai! (Poi sciogliendosi da loro) Lasciatemi. EGISTO No! CASSANDRA (Fremente) È tardi! 87 . E non fa molta differenza che il figlio sia stato concepito con l’odiato aggressore, aspetto che, peraltro, Somma non si preoccupa di approfondire. Questa Cas‐ sandra non verrà uccisa dalla mano omicida di Clitemnestra e del suo complice, ma sceglierà volontariamente la morte, non potendo tollerare una vita senza il suo bambino. La quarta scena introduce un altro elemento di novità rispetto alla tragedia greca, ossia il tentativo da parte di Egisto - presentato dalla didascalia iniziale 318 Francesco Puccio <?page no="319"?> 88 p. 64v. 89 p. 38. 90 Cassandra si è resa protagonista di un’azione estrema, ossia il finto rapimento di Oreste con la complicità di Strofio. 91 p. 65r. 92 p. 22v. 93 p. 21r. 94 p. 39. del copione 88 e dell’edizione con testo francese a fronte 89 con la spada sguainata e in uno stato d’animo allucinato -, di uccidere Oreste, convinto che il piccolo, una volta cresciuto e incattivito dal rancore, possa esigere vendetta. Somma attribuisce al cugino di Agamennone una caratterizzazione più sfaccettata di quella che il mito ha tramandato: questi non è solo un amante in cerca di rivalsa per l’orribile delitto che lo zio Atreo aveva macchinato contro il fratello Tieste, dandogli in pasto le carni dei figli, ma anche un abile, quanto spietato, uomo politico che, attraverso subdoli sotterfugi, è capace di tramare perfino alle spalle della sua regina. Ancora nella quarta scena, dopo una concitata sequenza che vede coinvolti i tre personaggi che rappresentano il nodo dell’azione fin qui allestita - Cassandra, ormai prossima al compimento dell’atto estremo del suicidio 90 , Egisto e Clitemnestra, sempre più divorati dall’odio -, prima dell’attacco del lungo monologo della profetessa, quale si legge nel copione 91 , nelle parti levate di Cassandra A 92 e B 93 e nell’edizione con testo francese 94 , assistiamo ad un serrato dialogo tra Cassandra e Clitemnestra: CASSANDRA Io sì: son io che Oreste Rapìa, che a Strofio l’affidai: ma il feci Sol per salvarlo. (A Clitemnestra) Allora che Atride al sacro Cenere d’Ilio, ed alla madre mia Tormi potè, nol niego, entro ogni fibra Della vendetta il desiderio m’arse […]. CLITEMNESTRA Finisci. CASSANDRA Una segreta simpatia mi vinse. CLITEMNESTRA 319 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="320"?> 95 p. 66v. 96 E, dunque, non desta meraviglia il giudizio di un critico come Jules Janin, il quale, dopo aver proposto nella sua recensione allo spettacolo (La Semaine Dramatique, «Journal des Débats», Paris, 16 mai 1859), una lunga divagazione sui contenuti mitici, riserva alla Ristori una serie di elogi appassionati, convinto che la sua interpretazione, soprattutto in quest’ultima parte del dramma, sia arrivata «au moment où la tragédie expirait parmi nous et se couchait pour cinquante ans dans le cercueil de Rachel». E dir vorresti? CASSANDRA Che per questo appunto Io lo spiai, te lo rapìa, l’ho salvo. CLITEMNESTRA (Attonita) Salvo? E da chi? 95 È un testo costruito su uno scambio di frasi serrate, che traduce, nell’essenzi‐ alità e nell’impeto del linguaggio, la tensione emotiva raggiunta: siamo in un passaggio decisivo del dramma, quando le due donne, tratteggiate come rivali d’amore, prim’ancora che come nemiche di schieramenti contrapposti, si scoprono accomunate, seppur per un breve momento, da un sentimento di maternità messo in pericolo. Anche Clitemnestra, dopo aver perduto Ifigenia, rischia di restare senza Oreste. Il tema delle madri “tragiche”, quasi monumentali nella potenza delle loro passioni, su cui ci sembra la Ristori abbia voluto concentrarsi, emerge con forza ancora maggiore in questo finale di tragedia, offrendoci una prospettiva interessante di come l’attrice abbia scelto di tradurre sulla scena il suo personaggio. Vengono messe in luce, ormai, l’impossibilità di una conciliazione e l’irreversibilità delle azioni compiute, pur nell’illusoria alleanza di due madri spaventate dalla sorte dei rispettivi figli 96 . Costantemente in scena, il desiderio di vendetta è animato nella tragedia di Somma dalle pulsioni più svariate: dalla gelosia d’amore, quella che Clitemnestra prova nei confronti della rivale; alla smania di potere, quello che Egisto cerca meschinamente di esercitare; fino alla fuoriuscita di rancori privati e di miseri sotterfugi - ben incarnati dal personaggio di Marsia, infido cortigiano detentore di un linguaggio fatto di frasi interrotte e di sussurri, pronto a tutto pur di assecondare le macchinazioni della sua sovrana - che regolano i meccanismi drammatici dei singoli atti. Clitemnestra è presa da un irrefrenabile desiderio di 320 Francesco Puccio <?page no="321"?> 97 Da questo punto di vista, la rappresentazione della regina si allontana sia dalla tradi‐ zione eschilea, se si considera che nell’Agamennone incarna l’implacabile espressione di una legge superiore che ammette solo la vendetta come atto perseguibile, sia da quella senecana nell’omonima tragedia, in cui l’omicidio del marito sembra aver mutato Clitemnestra in una spietata furia anche contro il figlio Oreste. 98 «La tragedia si risolve dunque in una sorta di conciliazione cristiana di tipo manzoniano, che tuttavia non sollecita la riflessione dello spettatore, ma mira, attraverso l’esaspera‐ zione del dato patetico, al suo totale coinvolgimento emotivo, secondo un procedimento tipico del dramma per musica romantico», S P A R A C E L L O 2006, p. 77. 99 p. 68v. 100 Theodore Anne, Cassandra, «Revue et Gazette des Théâtres», Paris, 15 mai 1859. 101 Jules de Prémaray, Théâtres, «La Patrie», Paris, 16 mai 1859. rintracciare il figlio Oreste 97 : si assiste, così, quasi ad una sovrapposizione tra i due personaggi femminili, come se la condizione della maternità rappresentasse, per entrambe, l’unica vera motivazione per vivere e continuare a lottare. Cassandra accetterà di morire solo quando si sarà resa conto di essere stata ormai privata del figlio da Egisto, e di non avere più alcuna ragione di resistenza 98 . Accolta dall’epifania dolente della madre, a lei Ecuba sarebbe riapparsa nuovamente dopo il dialogo del primo atto, sebbene stavolta, a quanto si legge nella didascalia del copione, nella forma di un «funereo lenzuolo e colle braccia levate ad accoglierla dall’ultima quinta a sinistra nel punto in cui si abbassa la tela» 99 . Ecco, di nuovo, la madre tornare ad essere figlia e, in un ricongiungimento immaginario, perché possibile solo dopo la morte, sperare che un qualche ordine possa essere ristabilito. 3. Dal debutto parigino alla prima torinese: la breve vita della Cassandra Come si è detto, dopo le quattro rappresentazioni parigine, la Cassandra non incontrò un grande riscontro. Se favorevoli si erano rivelati alcuni giudizi, negativi furono, invece, quelli di altri critici francesi come Theodore Anne, che la definì un’opera il cui impianto narrativo risultava privo di elementi caratterizzanti, al punto da essere una «tragédie ordinaire, fait avec la simplicité ancienne», compensata soltanto dalla presenza quasi costante della Ristori sulla scena, in grado di creare «la vie et le mouvement» 100 ; o come Jules de Prémaray, secondo il quale l’autore sembrava più un «poète lirique qu’un dramatique», che aveva utilizzato «une langue pure et belle, quoique un peu efféminée» 101 , al punto che l’intero dramma era privo di una sua propria originalità, con un primo atto in cui si assisteva al penoso dialogo tra Ecuba e la figlia, che si rifaceva di fatto tanto alle Troiane quanto all’Oreste di Euripide. 321 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="322"?> 102 Adelaide Ristori a Carlo Balboni, Parigi, 13 maggio 1859. 103 La cura dei costumi, come accaduto per le scenografie, suggestiona lo sguardo attento di Théophile Gautier che, sempre nella recensione sopra citata, fa riferimento a veri e propri «joyaux de style asiatique […]. Ainsi ajustée, elle nous rappelait les miniatures des plus anciens manuscrits de l’Enéide, que peut-être elle a consultées, et où retrouvent des costumes troyens». E a proposito dei quattro costumi ricordati dalla Ristori, «solo due vengono riprodotti nelle immagini fotografiche conosciute. In ambedue l’attrice portava in capo il berretto frigio […]. Il primo costume era disadorno e composto da una gonna e da un peplo apparentemente dello stesso colore. Il secondo, che probabilmente veniva indossato nel IV atto e si è conservato, è composto da una gonna arricciata di colore rosso con ricami in oro, da un peplo color cobalto anch’esso ricamato in oro e fermato sulle spalle da quattro bottoni di passamaneria d’oro. Esso veniva completato da un pettorale e una cintura in oro e pietre preziose», V I Z I A N O 2000, p. 11. 104 Vd. V I Z I A N O 2000, p. 81. Eppure la Ristori si era dichiarata soddisfatta dell’esito della prima parigina, tanto che il giorno successivo si era affrettata a scrivere all’amico Carlo Balboni che la tragedia di Somma, meritevole di essere rappresentata più che letta, era: puro greco stile magnifico elevatissimo. Io ho dei costumi che sono una bellezza per conseguenza che mi costano un orrore. Ne ho 4! […]. Cassandra ha avuto un esito splendidissimo. Moja a Torino ha fatto delle scene splendidissime - i costumi sono da spettacolo d’opera 102 . E proprio la scelta dei costumi ha sempre rappresentato un elemento essenziale nell’attività teatrale dell’attrice 103 , oltre che uno strumento utile alla costruzione del personaggio, come dimostra anche un’altra testimonianza relativa alla Cassandra. In un manoscritto autografo, minuta di un articolo scritto nel 1892, forse per un quotidiano 104 , ricorda, infatti, l’attrice: Somma, un nostro distintissimo poeta, che ora non è più, compose per me la tragedia classica Cassandra in cinque atti, ad ognuno dovevo cambiare di costume - e trattandosi in ciascun atto quel personaggio in diversa condizione di condizione e di spirito, la mia ricerca dei modelli più in armonia colle diverse situazioni della tragedia mi tormentava il cervello di giorno e di notte! Recandomi a Napoli a recitare, andai un giorno a visitare i famosi studi che rac‐ chiudono tanti tesori d’arte. In una delle rinomate sale della scultura, fui colpita dalla bellezza di due statue rituali in due nicchie e trovando i loro costumi così adatti a due situazioni del mio nuovo personaggio, d’altro non mi preoccupai che del mezzo di poterli copiare. […]. Da Napoli mi recai a Parigi per un corso di rappresentazioni, e subito feci chiamare la prima costumière. […]. Come prevedevo, dopo due giorni essa tornò con dei modelli impossibili. Io allora […], chiamata la mia 322 Francesco Puccio <?page no="323"?> 105 Anche questo manoscritto - n. 2 articoli di Adelaide Ristori. a) Precetti, b) Parte seconda, fasc. 14C - è conservato nel Fondo Ristori. L’attenzione con la quale la Ristori si occupava di ogni dettaglio che riguardasse il personaggio e l’allestimento dello spettacolo non sorprende, come nei suoi Ricordi l’attrice lascia intendere in molteplici occasioni: «Mia esclusivamente era la direzione artistica in tutte le sue particolarità. Da me partiva ogni ordine, ogni disposizione; mi occupava di tutte quelle grandi e piccole cose che ogni artista sa comprendere, e le quali concorrono a far completa la riuscita di uno spettacolo», Ristori in V A L O R O S O 2005, p. 89. 106 Antonio Somma a Giuliano Capranica, Venezia, 9 agosto 1860. 107 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Perugia, 18 agosto 1860. piccola cameriera, mi feci portare molti giornali, la feci salire sopra una sedia, e con spille e forbici, tagliai, appuntai, piegai, facendo restare a bocca aperta la mia buona costumière […]. Così usava fare per gli altri costumi - e portavo loro tanto amore, che sono da me conservati e custoditi religiosamente, e la di cui vista richiama alla mia memoria i più dolci ricordi 105 . Dopo la rappresentazione parigina, come ricordato in precedenza, Somma ap‐ portò delle modifiche al copione che avrebbero fatto parte del testo da utilizzare per il debutto al Teatro Carignano di Torino del 24 agosto 1860, uno spettacolo al quale egli non avrebbe partecipato, come ebbe modo di spiegare a Giuliano Capranica, a causa del mancato rilascio del passaporto 106 . Pur impossibilitato a recarsi lì, Somma si dichiarava soddisfatto del lavoro di sistemazione effettuato sul copione. In un’altra lettera inviata alla Ristori, ancora antecedente il debutto torinese, ma quando l’attrice era già arrivata a Torino per le prove, l’autore tornava sul motivo della sua assenza e, pur essendone rammaricato, si diceva rassicurato dal pensiero che la sua tragedia fosse in ottime mani: Mia Gentilissima, sino a questa mattina io vissi nella lusinga di ottenere un passaporto per trasferirmi costì, ma […] mio malgrado e con tutto il mio vivo rammarico, non posso più muovermi. È ben vero che la mia venuta a Torino per la direzione delle prove non era necessaria giacché delle prove a Parigi ne abbiamo fatte assai: e gli attori san tutti il fatto loro, ma la mia presenza sarebbe stata l’espressione d’una premura e d’un riguardo verso il pubblico innanzi al quale va a prodursi l’opera mia; e poi vi sono tutti quei motivi ch’Ella con tanto senno e bontà ha svolti nella cara sua, con cui me ne porse l’invito. […]. In mezzo al rincrescimento però in cui tiro giù questa lettera mi è di grande conforto che la Cassandra stia nelle di lei mani 107 . 323 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="324"?> 108 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 1 settembre 1860. 109 Adelaide Ristori ad Antonio Somma, Genova, 3 settembre 1860. La messa in scena torinese, però, non ottenne i risultati sperati, come si apprende da una lettera che Somma, informato da un amico sulla riuscita dello spettacolo, spedì alla Ristori pochi giorni dopo 108 , dolendosi del fatto che la parte di Strofio, interpretata da Pasquale Tessero al posto di Pietro Boccomini, morto ad Amsterdam il 2 luglio, ne fosse uscita impoverita; che la Santoni avesse «tradito l’effetto dell’atto V» con una recitazione piuttosto monotona e priva di slanci appassionati; e che anche Majeroni, con un atteggiamento distaccato e poco coinvolgente, non avesse creato un dialogo con il pubblico, finendo per indisporlo. A questa lettera, la Ristori rispose dopo soli due giorni 109 e, senza contraddire le osservazioni di Somma, addossò però buona parte della responsabilità agli «ignoranti, i maligni, gli inetti, gli autori fischiati», ossia a tutti coloro i quali erano stati da lei rifiutati per mettere in scena le loro opere e, dunque, pronti a vendicarsi alla prima occasione propizia. Nel corso della lettera, la Ristori si lamentava anche del fatto che, nella «Gazzetta di Torino» (Rivista Drammatica, 26 agosto 1860), fosse comparsa una recensione nella quale tanto la Cassandra quanto la Bianca Maria Visconti fossero stati considerati due testi di poco valore, dal momento che ai due autori, Somma e Giacometti, era stata imposta la struttura delle tragedie. Si legge, infatti, nel quotidiano torinese: Temiam forte che la Cassandra del Sig. Somma sia nata a un parto colla Bianca Maria Visconti; se non è la gemella ha con questa stretto vincolo di origine, perocchè anch’essa ci ha proprio l’aria d’essere un canevaccio ricamato intorno all’immagine della Ristori. […]. Nell’uscir dal teatro udii - e ci vantiamo esatti cronisti - parecchi tra gli spettatori domandarsi che cosa allo stringer del conto s’era fatto e detto su quelle scene. […]. Udii nel primo atto Cassandra confortar sé e la madre dell’esiglio e della schiavitù alla quale n’andava col vincitore Atride, col pensiero della vendetta, coi più fieri giuramenti di vendicarsi; e poi vennero il secondo e il terzo atto, cala sul quarto il sipario, e nulla più vedemmo o udimmo di quella promessa e vagheggiata vendetta. Agamennone cade ucciso da Clitemnestra! E Cassandra? Giunge in punto per incontrar Clitemnestra che esce dalle stanze del trafitto marito, e per mettersi con essa in un diverbio che, malgrado le pompe del verso e la gran clamide, ricorda - cel perdoni l’autore - la Baruffe Chiozzotte; e ciò che è ben più grave, tiene innanzi agli spettatori per lunghe scene una donna intrisa del sangue del trucidato consorte, a garrir colla rivale sulle colpe e i 324 Francesco Puccio <?page no="325"?> 110 L’anonimo recensore, del quale si leggono solo le iniziali (G. P., forse riconducibili al direttore Giovanni Piacentini), dopo l’ironica critica al dramma di Somma, accusato di inconsistenza e inverosimiglianza drammaturgica e di una retorica ampollosa, finalizzata solo ad arricchire la recitazione della protagonista, conclude poi la lunga tirata con una riflessione sull’arte drammatica e la natura del genere tragico: «Si va ripetendo che i nostri tempi, pel modo nel quale si comprende l’arte drammatica, non consentono più la tragedia coll’artifiziale o convenzionale, come dicono, suo linguaggio, coi sesquipedalia verba e il coturno. […]. Ma se dobbiamo avere tragedie, ridateci, preghiamo, Alfieri, ridateci Nicolini. La tragedia, pare a noi, s’ha a riguardare come un dipinto degli antichi maestri. Mettete innanzi una di quelle tele, e per quanto certe maniere di dipingere, quelle corone e frange in pretto oro ci paiono ora quasi stranezze e contrarie all’arte, pure trasportandoci a quel tempo, troviamo ragion d’ammirare e lodare. Ma se invece ci presenta una fredda imitazione di quella maniera, un’antichità fatta ora contro i precetti moderni dell’arte, il nostro giudizio […] la ravvisa e giudica una vera stranezza e un anacronismo». 111 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 9 settembre 1860. 112 Il riferimento di Somma è qui rivolto ad Achille Majeroni che, nel giudizio dell’autore, sembra riprendere nel suo Egisto i modi recitativi già impiegati per il personaggio di Oloferne nella Giuditta di Giacometti. misfatti domestici! Veniamo ai conti: chi più ne ha, più ne metta. E intanto di là sta un cadavere ancora caldo, e dalle mani che vi gesticolano sotto gli occhi vedete gocciolare il sangue. Questa scena lunga, strascicata tra studiate metafore, ed ampollosi versi, vi dà la nausea 110 . Un’accusa che l’attrice naturalmente respingeva, sottolineando nella stessa lettera del 3 settembre 1860 - indignata del fatto che nessun «vero scrittore di coscienza e vero italiano» avesse mosso alcuna obiezione -, di essere certamente in grado di dare consigli a un autore che avesse voluto scrivere un testo per lei e per la sua Compagnia, in virtù della «sua profonda conoscenza scenica e del cuore umano». In una successiva epistola, sempre indirizzata all’attrice 111 , Somma tornò sulla questione, che doveva essere stata per lui particolarmente spiacevole, e ribadì che trovava infondate e ingiuste le critiche che erano state mosse alla sua tragedia, soprattutto il fatto che l’opera fosse stata considerata priva di alcuna finalità, in quanto «quando si parla di scopo, non si può intendere che d’uno scopo morale, religioso, sociale nel significato della moderna società». Inoltre, si chiedeva, in ragione della natura mitica della Cassandra, se anche per la Mirra alfieriana, appartenente allo stesso genere, si dovesse parlare di scopo. Quanto poi alla mancanza di effetto, che pure gli era stata imputata, l’autore si limitava a notare che sarebbe stata un’accusa fondata se tutti gli attori avessero cercato di imitare la Ristori, ma ciò non era accaduto, e solo il dialogo «tra il sig. Oloferne 112 da un lato e quella buona pasta del Tessero dall’altra doveva passare 325 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="326"?> 113 Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 19 settembre 1860. Le cose, tuttavia, non sembrano volgere in meglio e il suo rapporto con la critica nazionale non muta, tanto che in una successiva lettera inviata all’attrice (Venezia, 24 ottobre 1860), Somma continua a dolersi dello «sporco intrigo per parte di italiani». 114 Interessante osservare come, ben prima della rappresentazione al Teatro Carignano, «Il Filodrammatico» - settimanale pubblicato dall’Accademia Filodrammatica Romana, nella sezione Drammatica, n. 35, 7 marzo 1860 -, dopo avere dato conto della Bianca Maria Visconti di Giacometti, «prodotta al teatro reale di Madrid […], opera veramente degna di uno scrittore italiano, che ottenne le simpatie di tutti i pubblici che giudicarono finora i suoi teatrali lavori», scritta per Adelaide Ristori, che ebbe «sulle scene madrig‐ liesi un esito brillantissimo e completo», chiosasse, in riferimento al debutto parigino del 1859, che «al contrario pochissimo incontro ebbe la Cassandra del Somma» (p. 140). 115 Così, infatti, si esprime Cassandra nella seconda scena del quarto atto del copione: «O suoni, / Melanconici e cari! O dolci e piante / Rive dello Scamandro a cui quel metro / Chiama l’addolorata anima mia: / E a voi che torno alfin! Io ti respiro / O divo etere mio! Come sei bella / O mia convalle, e che profumi spandi. / […]. / Io ti riveggio / O sacro bosco i cui recessi allegra / La cornamusa e dell’antico cedro / Sotto la chioma alle tue fonti alfine / Spengo la sete dell’esilio», pp.  52v-53r. 116 Come scrive Clément Caraguel - Les Théâtres, «Le Charivari», Paris, 16 mai 1859 -, Somma ha attribuito alla Cassandra un messaggio politico sotteso di libertà e volontà di riscatto dalla dominazione straniera. E, a tale proposito, i poeti italiani non possono essere biasimati se vogliono «conserver une liberté que ne leur laisserait pas un despotisme ombrageux du moment où il s’agirait de sujets modernes et surtout nationaux. […]. C’est à quoi je songeais en entendant M.me Ristori dire avec una mélancolie ineffable ce beau passage de son rôle de Cassandre: “Depuis que des mains sacrilèges ont profané ma jeunesse, depuis qu’on m’a ravi ma liberté, comment aurais-je conservé le don de prophétie? […]. Ma chaine a tout rongé, hélas! […]”. Ces vers dans la pensée du poète ne s’adressajent-ils pas à l’Italie? ». dal metodo freddo e scolorito al genere grottesco». Unica osservazione della quale Somma fece tesoro, dopo la rappresentazione torinese, fu la riduzione della lunghezza del testo: nel consigliare alla Ristori il taglio di un’ottantina di versi, come si ricava da un’altra lettera indirizzata all’attrice 113 , ne eliminò poi quasi centocinquanta, affinché la tragedia non eccedesse nella durata e potesse rientrare «nelle proporzioni d’uso», premurandosi, infine, che venissero ben rappresentate «l’oscurità alla fine del III atto e quella benedetta apparizione alla chiusa», proprio quella trovata scenica così poco apprezzata dall’implacabile recensore dello spettacolo torinese 114 . Dal percorso fin qui intrapreso, è possibile pervenire a qualche riflessione conclusiva anche sul testo di Somma. Quest’opera non porta in scena una coppia amorosa, come accade in altre sue tragedie, quali La figlia dell’Appennino, o il Marco Bozzari, in cui il languido e struggente addio alla famiglia evidenzia la natura “romantica” del protagonista; eppure, la Cassandra non evita occasioni di profondo lirismo, soprattutto nella malinconica rievocazione di una patria ormai irrimediabilmente perduta 115 , a causa di un tirannico conquistatore 116 , e 326 Francesco Puccio <?page no="327"?> 117 «Oltre che trarre ispirazione dagli stilemi tipici del dramma per musica, la tragedia di Somma partecipa dell’ibridismo linguistico e stilistico del libretto, accogliendo le mol‐ teplici suggestioni che animavano la cultura romantica. In questo contesto, la presenza del linguaggio tragico di Alfieri è determinante; il recupero va in direzione analoga a quello operato dai librettisti della prima metà dell’Ottocento: essi avevano attinto, oltre che alle vicende e ai personaggi del tragediografo settecentesco, alla sua lingua poetica, mutuandone elementi stilistici quali gli enjambement associati all’inversione del periodo, l’uso di esclamative e interrogative retoriche, un lessico ricercato. In particolare venne privilegiato il dialogare rotto e spezzato, che rispondeva alle esigenze di patetismo e spettacolarità proprie del genere melodrammatico», S P A R A C E L L O 2006, p. 77. 118 Nella Parisina i versi utilizzati sono i settenari, nel Marco Bozzari gli endecasillabi, i decasillabi, i senari e i quinari, isolati o accoppiati, e gli ottonari; ne La figlia dell’Appennino, invece, i decasillabi, i senari e i quinari accoppiati; nella Cassandra, infine, ancora i senari, i settenari soli e con gli endecasillabi (vd. S P A R A C E L L O 2006, p.   81). 119 Giova forse ricordare la distanza tra la dimensione scenica e quella letteraria, un aspetto che suggerisce di trattare le scritture drammaturgiche anzitutto come testi che hanno abitato i teatri, vissuto nei gesti, negli oggetti e nelle parole degli attori, e trovato uno spazio di riflessione nelle emozioni degli spettatori, prim’ancora che in quelle dei lettori. nel tentativo disperato di una maternità impossibile da vivere. Come si riscontra negli altri drammi di Somma, anche nella Cassandra sono rintracciabili talune affinità con l’opera lirica 117 , evidente conseguenza del retaggio dell’autore, tanto nel modo in cui vengono trattati i temi drammatici, quanto nella scelta dello stile poetico, in cui si richiama la peculiarità del verso alfieriano, sebbene con una maggiore propensione alla dimensione patetica e melodiosa 118 . Al frequente impiego di lunghi monologhi, caratterizzati da un ricercato periodare ipotattico, si alternano dialoghi serrati e concitati. E ciò contribuisce a dimostrare che Somma, oltre ad essere un valido poeta, sembra conoscere piuttosto bene le tec‐ niche della scrittura drammaturgica e i meccanismi che regolano l’allestimento di una rappresentazione teatrale 119 . La sua produzione teatrale, tuttavia, non conta riprese né riscritture nel Novecento, né la stessa Cassandra può vantare allestimenti che vadano al di là dell’esperienza della Ristori di cui si è dato conto in questo studio. Essa rientra in una di quelle numerose operazioni di ricezione di temi e miti della classicità che attraversano la scena moderna, talvolta mediante azioni di fedele ripresa, tal altra attraverso percorsi di adattamento e di rifacimento che mirano ad offrire nuove soluzioni di rappresentazione. Una spiegazione di questo silenzio sulle opere di Somma, non riscontrabile, ad esempio, sulla produzione di Alfieri, cui egli pure si ispira nella caratterizzazione dei personaggi e nella composizione formale, può forse essere ascritta alla specifica natura della sua scrittura - di gran lunga meno efficace e valida del modello -, intrisa di un gusto romantico e di 327 La Cassandra di Antonio Somma. Gelosie e rivalità d’amore in una tragedia ottocentesca <?page no="328"?> una propensione al melodramma ormai lontani dalla sensibilità contemporanea, alla quale, tuttavia, non può non essere riconosciuta una qualità scenica degna di riflessione. Bibliografia 1. Documenti d’archivio citati - Fondo Ristori, Museo Biblioteca dell’Attore di Genova a. Copione - Cassandra, copioni 151. b. Parti levate - Cassandra A, parti levate 167/ a. - Cassandra B, parti levate 167/ b. - Marsia, parti levate 166. - Strofio, parti levate 167 bis. - Tessandro, parti levate 165. c. Manoscritti di Adelaide Ristori - Mie teorie e precetti sull’arte drammatica, fasc. 11C. - N. 2 Articoli di Adelaide Ristori. a) Precetti, b) Parte seconda, fasc. 14C. d. Fotografie - Adelaide Ristori in Cassandra, fotografia 6, album 10. e. Lettere - Antonio Somma a Giuliano Capranica, Venezia, 19 ottobre 1858. - Antonio Somma a Giuliano Capranica, Venezia, 14 febbraio 1859. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 7 marzo 1859. - Adelaide Ristori a Carlo Balboni, Parigi, 13 maggio 1859. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, s. d., post 12 maggio 1859 - ante 24 agosto 1860. - Francesco Righetti a Giuliano Capranica, Torino, 30 luglio 1860. - Antonio Somma a Giuliano Capranica, Venezia, 9 agosto 1860. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Perugia, 18 agosto 1860. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 1 settembre 1860. - Adelaide Ristori ad Antonio Somma, Genova, 3 settembre 1860. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 9 settembre 1860. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 19 settembre 1860. - Antonio Somma ad Adelaide Ristori, Venezia, 24 ottobre 1860. 328 Francesco Puccio <?page no="329"?> 2. 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Vita romanzesca di una primadonna dell’Ottocento, San Miniato 2013. W I L D 2012 N. Wild, Dictionnaire des théâtres parisiens (1807-1914), Lyon 2012. W I L E S 1997 D. Wiles, Tragedy in Athens. Performance Space and Theatrical Meaning, Cambridge 1997. 334 Francesco Puccio <?page no="335"?> Autori Chiara Battistella è professore associato di Lingua e letteratura latina all’Uni‐ versità di Udine. I suoi principali interessi di ricerca vertono sulla letteratura latina di età augustea, tra epica ed elegia, in particolare su Ovidio, a cui ha dedicato diversi lavori. Si è occupata anche del teatro tragico di Seneca, soprattutto della Medea e specialmente in relazione al tema delle emozioni. Pietro Berardi è dottorando in Filologia e letteratura dell’antichità (XXXVI ciclo) presso il Dipartimento di studi umanistici della Università degli studi di Bari “A. Moro”. Sotto la supervisione dei Proff. Piero Totaro (Bari) e Bernhard Zimmermann (Freiburg i.B.) lavora a una tesi dal titolo “Drammi dionisiaci eschilei: edizione critica, traduzione e commento delle testimonianze e dei frammenti”. È stato due volte Visiting student presso la Faculty of Classics della University of Oxford, sotto la supervisione del Prof. Dr. Gregory O. Hutchinson e della Dr.ssa Daniela Colomo. È attualmente impegnato nel gruppo di ricerca, coordinato dal Prof. Piero Totaro, che per l’Accademia dei Lincei prepara la nuova Edizione nazionale dei frammenti di Eschilo (il dott. Berardi si occupa dei drammi della Licurgia). I suoi interessi di ricerca vertono principalmente sui testi frammentari della tragedia attica, indagati sotto il profilo ecdotico, esegetico e drammaturgico; sulla tradizione manoscritta eschilea; sul corpus scoliastico aristofaneo; su metodi e forme della parodia tragica. Enrico Cerroni è assegnista di ricerca in Lingua e letteratura greca presso la Sapienza Università di Roma e insegna a contratto Civiltà bizantina presso l’Università degli Studi “G. d’Annunzio” di Chieti-Pescara. I suoi interessi com‐ prendono lo studio del lessico e dello stile dei testi greci letterari, esteso ai risvolti semantici. In tale prospettiva, valorizza anche problemi come la traduzione in lingue moderne e la ricezione. Si situano in questo orizzonte la monografia di prossima pubblicazione per i “Quaderni dei Seminari Romani di Cultura Greca” sulle traduzioni e la fortuna del fr. 10 W. di Tirteo in Italia dalla fine del Settecento al 1940 e l’appendice sulle traduzioni dei lirici greci in Italia prima di Quasimodo, compresa nel volume Lirici greci (Salerno editrice, 2015). È autore di ricerche sugli slittamenti semantici e sul lessico greco delle emozioni, condotte in una prospettiva diacronica che valorizza il greco medievale e moderno. <?page no="336"?> Mattia De Poli è ricercatore a tempo determinato (Rtd-B) di Filologia classica presso l’Università degli studi di Torino, dove insegna Metrica greca e latina. Si è occupato di tragedia attica, in particolare di Euripide, dal punto di vista cri‐ tico-testuale, metrico e drammaturgico e attualmente collabora con il progetto Kom-Frag, diretto dal prof. B. Zimmermann (Freiburg i.B.), per il quale sta curando un volume su alcune commedie frammentarie di Menandro. Sara Di Paolo, dopo la laurea triennale in Lettere presso l’Università degli studi di Padova con la tesi “L’emozione della paura in tre tragedie sofoclee: Trachinie, Elettra, Edipo re” (2016), ha conseguito la laurea magistrale in Lettere classiche e storia antica presso lo stesso Ateneo con una tesi sulle epifanie divine nel teatro sofocleo (2019). Vasiliki Kousoulini ha conseguito il Dottorato di ricerca in Filologia classica presso il Department of Philology della National and Kapodistrian University of Athens (Grecia). Nel corso dei suoi studi è stata Visiting research student presso il Department of Classics and Ancient History della University of Durham (UK). Dopo il dottorato, è diventata Adjunct lecturer presso la Open University of Cyprus e ricercatrice post-doc presso il Department of Philology della National and Kapodistrian University of Athens, e attualmente è Adjunct Lecturer alla University of Patras. Le sue pubblicazioni comprendono una monografia sulla ricezione antica di Alcmane (A History of Alcman’s Early Reception: Female-Voiced Nightingales, Newcastle upon Tyne) e diversi articoli in riviste peer-reviewed. I suoi interessi di ricerca includono l’epica e la lirica greca arcaica, la tragedia greca e la letteratura ellenistica. Roberta G. Leotta è dottoranda in Classics all’Università di Edimburgo (UK). Il suo lavoro di tesi riguarda la fenomenologia della gelosia nel mondo romano, investigata da una prospettiva integrata, sia letteraria che linguistico-cognitiva (titolo provvisorio: “The Phenomenology of Jealousy in Ancient Rome. Meta‐ phors, Scenarios, and Embodied Experiences”). Tali interessi di ricerca nascono dai suoi studi in Antropologia del mondo antico condotti presso l’Università di Siena e si collocano all’intersezione tra diverse discipline: la letteratura classica, la linguistica cognitiva applicata alle lingue antiche, gli studi antropologici e filosofici sulle emozioni. Isabella Nova si è laureata in Lettere classiche nel 2011 presso l’Università Cattolica di Milano, dove ha conseguito il Dottorato di ricerca in Letteratura greca nel 2015. Le sue ricerche si sono concentrate soprattutto sulla diffusione dei poemi omerici nel V secolo a.C., con particolare attenzione alla ripresa di episodi del mito troiano nella tragedia greca e nell’iconografia. La formazione 336 Autori <?page no="337"?> scientifica in questo ambito è stata consolidata durante il periodo di ricerca svolto a Parigi presso l’EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales). Isabella Nova è stata successivamente beneficiaria di una borsa di studio elargita dal CUC (Centro Universitario Cattolico, con sede a Roma) e, dopo alcuni anni di insegnamento nelle scuole secondarie di secondo grado (sulla classe di concorso A013, latino e greco), dal 2019 è assegnista di ricerca in Letteratura greca presso l’Università Cattolica di Milano. Ilaria Ottria è assegnista di ricerca presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove ha ottenuto pure il titolo di dottore di ricerca in Letteratura, arte e storia dell’Europa medioevale e moderna. In precedenza, è stata allieva del corso ordinario in Storia antica e filologia classica presso la stessa Scuola Normale Superiore e ha conseguito la laurea triennale in Lettere classiche e la laurea magistrale in Filologia e storia dell’antichità presso l’Università di Pisa. Nel 2020 ha svolto un periodo di ricerca presso l’École Normale Supérieure de Lyon. Ha partecipato a vari convegni in Italia e all’estero e ha pubblicato lavori dedicati a Dante e ad alcuni autori latini (Apuleio, Stazio, Virgilio e soprattutto Ovidio), con particolare attenzione alla ricezione delle loro opere nella letteratura italiana tra Medioevo e Rinascimento. Si è anche interessata alla fortuna dei classici nella produzione teatrale e operistica e ad alcuni esempi di relazione tra letteratura e arti figurative. Collabora con la rivista Fogli e Parole d’Arte. Sonia Pertsinidis è ricercatrice presso il Centre for Classical Studies della Australian National University. È autrice del volume Theophrastus’ Characters: A New Introduction (Routledge Focus on Classical Studies, London and New York 2018). Si interessa in particolare dei legami fra Teofrasto e Menandro. Ha pubblicato articoli sulle commedie di Aristofane (Fabula 50, 2009) e sulla tragedia greca (Humanities 10, 2021). Oltre al teatro greco, un altro ambito privilegiato di studio è la favola greca, su cui ha recentemente pubblicato un articolo (Antichthon 54, 2020) e un capitolo nel volume Speaking Animals in Ancient Literature, pubblicato a cura di H. Schmalzgruber (Winter Verlag 2020). Attualmente sta preparando una monografia sulle favole mitiambiche di Babrio per la collana Brill Mnemosyne Supplements (pubblicazione prevista per il 2023). Francesco Puccio, laureato in Filologia, letterature e civiltà del Mondo antico (Università di Napoli “Federico II”), dottore di ricerca in Antropologia, storia e teoria della cultura, curriculum in Antropologia del mondo antico (Università di Siena), assegnista di ricerca in Storia del teatro antico greco e latino presso l’Università di Padova, è attualmente Rtd-A presso il Dipartimento dei Beni Culturali del medesimo Ateneo. Si occupa di teatro antico greco e latino e della sua permanenza sulla scena moderna. Regista, drammaturgo, studioso della 337 Autori <?page no="338"?> ricezione del teatro antico nel mondo contemporaneo e di questioni relative alla messa in scena dei testi teatrali, è ideatore e direttore artistico dell’Antico fa testo, compagnia teatrale e progetto di ricerca sul mito classico e sulla valorizzazione dei beni culturali attraverso i linguaggi performativi. Ha realizzato progetti per il teatro nelle aree archeologiche e nei siti museali del territorio nazionale. Dirige un laboratorio sulla tragedia greca presso l’Università degli studi di Padova, nell’ambito di un progetto di didattica innovativa rivolto agli studenti. Pietro Vesentin è dottorando in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie presso l’Università degli studi di Padova, ove si è formato. Attualmente sta la‐ vorando a un progetto di ricerca sul soprannaturale nei romanzi latini. Al centro del suo interesse vi sono infatti il Satyricon di Petronio, le Metamorfosi di Apuleio e l’Historia Apollonii regis Tyri, investigati con un approccio metodologico che integra narratologia, intertestualità, analisi simbolica, antropologia letteraria e psicologia storica. 338 Autori <?page no="339"?> DRAMA - Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption herausgegeben von Bernhard Zimmermann Bisher sind erschienen: Band 3 Thomas Baier (Hrsg.) Generationenkonflikte auf der Bühne Perspektiven im antiken und mittelalterlichen Drama 2007, 252 Seiten, €[D] 54,00 ISBN 978-3-8233-6268-5 Band 4 Athina Papachrysostomou Six Comic Poets A Commentary on Selected Fragments of Middle Comedy 2008, VI, 304 Seiten, €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6378-1 Band 6 Christopher Meid Die griechische Tragödie im Drama der Aufklärung „Bei den Alten in die Schule gehen“ 2008, 136 Seiten, €[D] 39,90 ISBN 978-3-8233-6419-1 Band 7 Markus A. Gruber Der Chor in den Tragödien des Aischylos Affekt und Reaktion 2009, 570 Seiten, €[D] 78,00 ISBN 978-3-8233-6484-9 Band 8 Matteo Taufer (Hrsg.) Contributi critici sul testo di Eschilo Ecdotica ed esegesi 2012, 276 Seiten, €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6686-7 Band 9 Sotera Fornaro L’ora di Antigone dal nazismo agli ‚anni di piombo‘ 2012, 172 Seiten, €[D] 48,00 ISBN 978-3-8233-6712-3 Band 10 Mattia De Poli Monodie mimetiche e monodie diegetiche I canti a solo di Euripide e la tradizione poetica greca 2012, 210 Seiten, €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6726-0 Band 11 Stefano Novelli Anomalie sintattiche e costrutti marcati: l’anacoluto in Eschilo 2012, VI, 325 Seiten, €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6786-4 Band 12 Andrea Rodighiero Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle 2012, 236 Seiten, €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6787-1 Band 13 Lothar Willms Transgression, Tragik und Metatheater Versuch einer Neuinterpretation des antiken Dramas 2014, XIV, 934 Seiten, €[D] 128,00 ISBN 978-3-8233-6828-1 <?page no="340"?> Band 14 Nuala Distilo Il Prologo dell Ifigenia in Aulide di Euripide Problemi di attribuzione e tradizione testuale euripidea 2013, 152 Seiten €[D] 39,99 ISBN 978-3-8233-6816-8 Band 15 Claudia Michel Homer und die Tragödie Zu den Bezügen zwischen Odyssee und Orestie-Dramen (Aischylos: Orestie ; Sophokles: Elektra ; Euripides: Elektra ) 2014, 263 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6899-1 Band 16 Sarah Henze Adel im antiken Drama Eugeneia bei Aischylos, Sophokles und Euripides 2015, 277 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6914-1 Band 17 Joan Josep Mussarra Roca Gods in Euripides 2015, 236 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6958-5 Band 18 Maria Jennifer Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Commento a Ennio, Medea exul; Pacuvio, Medus; Accio, Medea sive Argonautae 2016, XII, 242 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-8003-0 Band 19 Valerio Pacelli Teodette di Faselide - Frammenti Poetici Introduzione, testo critico, traduzione e commento 2016, 268 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-8004-7 Band 20 Bastian Reitze Der Chor in den Tragödien des Sophokles Person, Reflexion, Dramaturgie 2017, 796 Seiten €[D] 98,00 ISBN 978-3-8233-8095-5 Band 21 Beatrice Gavazza Agatone e la tragedia attica di fine V sec. a.C. Studio delle testimonianze e dei frammenti 2021, 312 Seiten €[D] 78,00 ISBN 978-3-8233-8475-5 Band 22 Mattia De Poli, Pietro Vesentin Il mostro degli occhi verdi Studi sulla gelosia nel teatro antico (e moderno) 2022, 338 Seiten €[D] 78,00 ISBN 978-3-8233-8548-6 <?page no="341"?> ISBN 978-3-8233-8548-6 www.narr.de I personaggi di molte tragedie e commedie antiche, greche e latine (Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca, Menandro, Plauto), ma anche di drammi moderni ispirati al mondo classico (Lorenzo il Magnifico, Antonio Somma) agiscono in preda alla gelosia. Spesso nell’antichità questa emozione non è stata identificata da una parola specifica, ma la situazione permette comunque di riconoscerla. Dee e dei, donne e uomini ne possono essere affetti e agiscono di conseguenza: l’esito delle loro azioni è spesso catastrofico per sé e per gli altri e non sempre è possibile simpatizzare con le persone gelose. Dodici studi, organizzati in ordine cronologico all’interno di tre sezioni tematiche (“Il lessico della gelosia”, “La divina gelosia”, “Donne vs. uomini: sesso, sangue e gelosia”), indagano questa comune emozione umana attraverso l’opera teatrale.