eJournals Italienisch 45/90

Italienisch
ita
0171-4996
2941-0800
Narr Verlag Tübingen
10.24053/Ital-2023-0023
101
2024
4590 Fesenmeier Föcking Krefeld Ott

«Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri

101
2024
Christine Ott
Gloria Putrone
ita45900041
«Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri A cura di Christine Ott e Gloria Putrone Francesca Melandri, nata nel 1964 a Roma, prima di dedicarsi alla narrazione ha lavorato con successo come sceneggiatrice. Si è fatta conoscere nel 2010 con il romanzo Eva dorme (Milano: Mondadori 2010; traduzione in tedesco: Eva schläft, München: Blessing 2011), che esplora la storia politica dell’Alto Adige attraverso una storia familiare. Più precisamente, racconta di una famiglia mancata: Gerda, sudtirolese di lingua tedesca e ragazza-madre negli anni sessanta, sua figlia Eva, Vito, carabiniere di Reggio Calabria, che ama Eva come se fosse suo padre ma che non può sposare Gerda perché la sua posizione - di carabiniere - non glielo permette. Sullo sfondo della storia impossibile tra Vito e Gerda si dipana la violenta politica fascista di italianizzazione dell’Alto Adige, che costringeva i sudtirolesi di lingua tedesca a partire per la grande Germania o a restare, dichiarandosi italiani, la ripressione violenta delle rivendicazioni d’autonomia nei primi anni Sessanta, per arrivare al 1998, in cui in seguito agli accordi di Schengen non c’è più «alcun confine fisico a separare il Südtirol dall’Austria, la sua Terra Madre perduta» (p. 357). Questo romanzo non è solo stato tradotto in diverse lingue ma ha vinto vari premi letterari, tra i quali anche il Premio Rhegium Julii per l’Opera Prima. Nel 2012 viene pubblicato Più alto del mare (Milano: Rizzoli), romanzo che vince il Premio Campiello (Über Meereshöhe, München: Blessing 2012). Il libro, ambientato nel 1979 sull’isola dell’Asinara, narra dell’incontro tra un uomo e una donna provenienti da mondi diversissimi, ma che si trovano entrambi sull’isola per visitare i famigliari (lui il figlio, lei il marito) rinchiusi nel carcere di massima sicurezza. Il contesto storico in cui la vicenda si sviluppa è quello degli anni bui del terrorismo rosso, culminato con l’assassinio di Aldo Moro. La trilogia sulla storia politica dell’Italia si è infine conclusa con il romanzo Sangue giusto, Milano: Rizzoli 2017 (Alle, außer mir, Berlin: Wagenbach 2018). Qui l’autrice percorre un arco che va dal coinvolgimento del fascismo nella colonizzazione dell’Africa ai destini dei rifugiati che oggi sbarcano a Lampedusa. DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 1 Eva dorme (2010), Più alto del mare (2012), Sangue giusto (2017). Il 29 novembre 2023, Francesca Melandri ha tenuto presso la Goethe-Univer‐ sität Frankfurt e su invito del RMU-Italienforum, la seconda Frankfurt Ginzburg Lecture, dal titolo La pelle viva della storia. In occasione della sua visita a Francoforte, l’autrice ha concesso un’intervista a cui hanno partecipato Gloria Putrone, Christine Ott e Isabella Terán. Gloria Putrone Il Suo romanzo Sangue giusto è apparso nel 2017, quasi 80 anni dalla fine dell’occupazione fascista in Etiopia. Cosa l’ha spinta al Suo impegno letterario su proprio questo capitolo della storia italiana? Francesca Melandri Per esempio, il rapporto poi con l’Etiopia tornata indipendente, tornata auto‐ noma e il rapporto postcoloniale con l’Africa negli anni 1980. E oggi con le persone che da questo continente arrivano da noi. Io ho raccontato la storia di un ragazzo etiope, ma potrebbe essere di tante altre parti, e quindi di questa inversione di direzione spaziale del colonialismo dall’Europa a lì; e adesso invece è da lì a noi nella forma di persone che arrivano. Però questo è il tema, il tema non è il colonialismo italiano, il tema non è l’occupazione fascista italiana e non è neanche il fascismo. È un rapporto con l’altro della nostra civiltà europea e siccome io sono italiana l’ho raccontata nella sua declinazione italiana. E il perché… perché in realtà cosa mi ha spinto… la stessa domanda su qualsiasi mio libro. A me del passato in sé non è che interessi tanto. Sì, certo sono curiosa, leggo i libri di storia perché mi fa piacere sapere le vicende del mondo, ma non mi basterebbe. A me il passato interessa nella misura in cui mi racconta qualcosa, e non necessariamente mi spiega, ma mi illumina qualcosa del presente. Quindi, anche in questo senso il mio romanzo fondamentalmente non è un romanzo storico, ma un romanzo sul nostro presente. Questo mi interessa di più, e questo fa parte del progetto complessivo dei tre romanzi. 1 Sono per me tre romanzi sul presente dell’Italia, illuminato da tre punti di vista, appunto di durata storica, diversa. Questo è il mio vero interesse. Isabella Terán Adesso Lei sta pensando a un lavoro in cui tratterà anche la guerra in Ucraina. Quali sono le problematiche quando si parla della storia contemporanea? DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 42 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone 2 In occasione della Frankfurt Ginzburg lecture che Francesca Melandri ha tenuto presso la Goethe-Universität Frankfurt il 29.11.2023. Francesca Melandri In realtà non è nemmeno storia contemporanea, è proprio attualità, non è storia, è il presente. Tanto per dare un attimo l’idea: come stavo raccontando, 2 sto lavorando a questo, diciamo, dittico dei genitori, quindi questo sarà quello su mio padre e mio padre (io sono una figlia nata molto tardi) era abbastanza anziano e lui era della generazione che ha fatto la Seconda Guerra Mondiale. Lui era sull’Ostfront, sul fronte orientale, quindi lui era in Russia e in Ucraina con l’esercito fascista ovviamente, alleato dei tedeschi, della Wehrmacht. Mio padre era del 1919, proprio quella generazione di ventenni poveracci che si sono beccati la Seconda guerra mondiale nel pieno della loro giovinezza. E quindi quando è scoppiata questa guerra, quando la Russia ha invaso l’Ucraina nel febbraio del 2022, quasi due anni fa, io sentivo questi posti, Karkhiv, Sumi, e mi suonavano molto familiari. Da sempre ho pensato che un giorno avrei scritto di quell’episodio della vita di mio padre, della sua esperienza sull’Ostfront, ma non avevo ancora bene capito come farlo. Nel senso che è una storia che è stata raccontata già tante volte. Lui ha anche scritto un libro su questo, quindi non era per me così utile che io raccontassi pari pari quella storia. Era già stata raccontata ed erano molti anni che aspettavo di avere un’idea su come farne un racconto che interessasse anche a me. In che cosa quella storia lì ha senso che la racconti io. Io non sono un reduce di quella guerra e quando appunto è scoppiata la guerra in Ucraina, quando la Russia ha invaso l’Ucraina, ho pensato ecco! Adesso ho una mia profonda motivazione. La profonda motivazione è questo… sconcertante senso di storia che si è avviluppata su sé stessa e che è come un buco temporale in cui la contemporaneità pare ricascare nel buio del Novecento. Le trincee a Bakhmut o Avdiivka, pensavamo fossero una cosa del passato e invece sono di nuovo il presente. È un po' la risposta opposta a quella che dicevo prima sul rapporto con il passato. Questo nostro presente mi serve per illuminare anche il passato. È un po’ lo stesso gioco di specchi ma al contrario. E viceversa. Il passato che ha vissuto mio padre mi serve per provare a capire il nostro presente. Questa è la mia risposta. Non è una risposta universale. Non credo che ci sia una formula con cui uno può dire adesso vi spiego come si parla degli avvenimenti del presente. Questo è solo quello che sto facendo io. Gloria Putrone Una frase che si incontra più volte nel romanzo Sangue giusto è la seguente: «Noi habesha dei talian sappiamo tante cose. Ma loro di noi non sanno nulla, DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 «Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri 43 neanche di quando c’erano anche loro.» Secondo Lei qual è il motivo per questa ignoranza? Francesca Melandri È un motivo strutturale. Il dominato sempre, questo in tutte le strutture di dominio - da quelle coloniali a quelle di classe a quelle di genere, tutte - il dominato sa e deve sapere per la propria sopravvivenza molto di più del dominante che non il contrario. Mi spiego: il dominante dà le regole del gioco, e se il dominato non le segue può subire una punizione anche molto violenta. Il dominato deve capire molto bene le intenzioni, le modalità, la comunicazione e quindi anche la lingua del dominante. Il padrone si può permettere di non sapere niente dello schiavo, può permettersi infatti di non considerarlo come persona, può permettersi di non sapere neanche come si chiama. Può permetterselo perché tanto le regole della violenza schiavistica le determina il padrone. Può imporre allo schiavo la sua lingua e lo fa. Può imporre allo schiavo i suoi costumi, i propri costumi. Lo schiavo deve imparare invece le nuove regole e la lingua del dominante perché, se non le capisce e le fraintende e non fa quello che gli è stato richiesto, rischia molto. Rischia di essere appunto punito con violenza se non addirittura ucciso. Quindi da sempre, anche nei rapporti di genere, per le donne in una società dai ruoli di genere rigidi e oppressivi, la donna deve capire molto bene che cosa vuole l’uomo per compiacerlo, per assecondarlo, per stare al suo gioco. Se non lo asseconderà, se non lo capirà, se non starà al suo gioco verrà punita. Queste sono le regole della dominazione patriarcale. Mentre l’uomo, sempre all’interno di questi rapporti così diciamo arcaici e oppressivi, non ha nessun obbligo di capire come funziona la donna, cosa vuole, cosa pensa, non ha nessun obbligo. È proprio una questione strutturale tra chi opprime e chi è oppresso. Non è nulla di nuovo, non è nulla di specifico e non è tipico del rapporto nelle colonie tra il colonizzatore e il colonizzato, ma di tutti i rapporti di oppressione. Per questo sono i colonizzati che imparano la lingua del colonizzatore e non il contrario. Gloria Putrone La figura di Ilaria Profeti da una parte è molto colta, è un’insegnante, una persona apparentemente del tutto corretta che potrebbe servire da esempio positivo in qualsiasi situazione. Dall’altra parte c’è la sua relazione con Piero, deputato nel partito di destra, e la sua fiducia verso il presunto nipote al quale ha creduto sin dall’inizio. Qui si intravede una doppia morale. Qual è stato il Suo pensiero dietro a questa figura ambigua? DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 44 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone Francesca Melandri Lei mi perdonerà, ma mi viene di rispondere con una domanda. Ma non è rivolta a Lei personalmente, ma in generale. Potrei farla a Christine Ott, potrei farla a me stessa. Lei si reputa una persona che è sempre perfettamente coerente in tutte le Sue manifestazioni emotive, intellettuali, sentimentali, di valori? Io non credo. Sicuramente io non mi percepisco così. Però quello che voglio dire è che siamo esseri umani, non siamo robot, non siamo cartoon e quindi tutti abbiamo in qualche misura delle cose, delle parti che confliggono tra di loro, delle ambivalenze. L’ambivalenza è ciò che ci rende umani. Anche il più illuminato dei santi percorre un percorso di conoscenza della propria ambivalenza. Ilaria è ambivalente in questa maniera qui. Io intorno a me vedo negli esseri umani tanta incongruenza, tanta ambivalenza e francamente la trovo una fonte di ricchezza e interesse più che di severo giudizio, non so come dire. Christine Ott Se posso intromettermi: si può anche vedere proprio in questa relazione tra Piero e Ilaria un’utopia perché entrambi appaiono più umani. Francesca Melandri Assolutamente sì! Adesso nel caso di Piero, il suo, diciamo, difetto, che è quello di essere membro del partito di Berlusconi, è molto chiaramente descrivibile. In altre relazioni con persone che amiamo, alle quali vogliamo bene, i difetti sono più magari personali, per motivi di comportamento; ma anche lì potrei fare la domanda: ma davvero (mi sembra che qui siamo tutte donne), davvero ci siamo tutte sempre solo innamorate di persone perfette? Non credo e onestamente non ve lo auguro (ride). È l’incontro con l’imperfezione dell’altro quello che poi ci rende anche noi stesse o noi stessi più umani, più umane. Quindi non ci trovo nulla di eccezionale. Gloria Putrone La Sua tecnica narrativa mi fa venire in mente lo stile di Gustave Flaubert con i suoi principi dell’impersonnalité, impassibilité e impartialité. Anche raccontando il destino più triste o l’esperienza più brutta - e in Sangue giusto ne incontriamo parecchie -, non c'è alcun giudizio da parte sua. Cosa c’è dietro questa neutra‐ lità? Francesca Melandri Innanzi tutto grazie mille del paragone molto lusinghiero. Flaubert diceva «Ma‐ dame Bovary, c’est moi», no? Allora io potrei anche dire «lo Stegener Opa, c’est DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 «Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri 45 3 Madame Bovary, protagonista dell’omonimo romanzo di Gustave Flaubert; Stegener Opa: il protagonista a cui F. M. fa riferimento nella Frankfurt Ginzburg Lecture (2023), La pelle viva della storia (inedito); Attilio Profeti, uno dei personaggi principali di Sangue giusto e soldato chiamato in Etiopia durante la Seconda Guerra Mondiale; Rodolfo Graziani, figura storica, generale durante le guerre coloniali italiane. moi» 3 ; «Attilio Profeti, c’est moi». E perfino, «Rodolfo Graziani, c’est moi». E quella è tosta. È tosto dire «Rodolfo Graziani, c’est moi». L’azione che fa questo tipo di romanziere o di romanziera, questa ambiziosissima intenzione. Mica è detto poi che riesca sempre. Non so se ci riesco sempre, però l’ambizione è quella di appunto esplorare qualsiasi espressione dell’animo umano come interessante in sé. Gloria Putrone Nella scelta delle Sue figure Lei lavora secondo un principio che definisce ‘em‐ patia radicaleʼ. Quali sono i limiti dell’empatia radicale e come si distingue da una simpatia? Francesca Melandri Quando parlo di empatia radicale è molto diverso dalla simpatia perché appunto sempre per parlare di Rodolfo Graziani, di simpatia non me ne fa proprio per niente. L’empatia radicale, io penso che abbia a che fare con la capacità di mantenere all’intero il proprio pensiero due idee contemporaneamente. John Keats la definiva negative capability. Cosa vuol dire negative capability? La capacità di mantenere in maniera non necessariamente equidistante, ma diciamo equanime, due opinioni, due percezioni del mondo che si ritengono entrambe vere, in cui si crede, ma che sono in contrasto tra loro. Faccio l’esempio che ci riguarda e che ho già fatto anche durante la conferenza, sempre per parlare di Rodolfo Graziani. Su Rodolfo Graziani posso mantenere due opinioni. La prima è che le sue azioni sono deprecabili, e che io le giudico senza esitazione come terribili, negative. E allo stesso tempo, idea numero due, atteggiamento numero due, posso allo stesso tempo considerarlo un essere umano la cui manifestazione terrena della sua vita è meritevole di essere conosciuta o almeno esplorata. Conosciuta forse è troppo - diciamo: esplorata. E queste due cose sono diverse, quasi in profonda opposizione, ma sono compatibili. Ora, qualcuno potrebbe obiettare che non è possibile provare empatia radicale verso Attilio Profeti perché Attilio Profeti era un Täter. Ecco, questo è esatta‐ mente il contrario di quello che penso io. Per me Attilio Profeti è molto più interessante e complicato di un Täter. Però diciamo che lo sia, Attilio Profeti o il personaggio X, lo definiamo un Täter, un colpevole di qualcosa, e questa DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 46 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone è l’opinione numero uno. Poi però rimane valido il mio desiderio di provare interesse verso questa persona in quanto essere umano. E queste due cose sono compatibili. Quella visione lì, secondo la quale non si può provare empatia radicale per un Attilio Profeti, è l’espressione di una visione del mondo in cui è pensabile e legittima solo una opinione alla volta, solo un pensiero alla volta. E la mia obiezione non è che quella opinione sia sbagliata, anzi, posso anche essere d’accordo. Ma la mia obiezione è che noi esseri umani siamo più ricchi di così, siamo più vasti di così, abbiamo più spazio dentro di noi di così e possiamo lasciare entrare anche qualcos’altro. Christine Ott Infatti a noi sembra che non bisognerebbe confondere quello che ha definito come empatia con la simpatia. Francesca Melandri Comunque obiezioni del genere sono interessanti, perché uno ci può riflettere sopra. Come anche sul dire «Io per me stessa, per me stesso sono certa/ certo di come mi comporterò in certe situazioni.» È certo un modo di ragionare assolu‐ tamente legittimo. Ma che non è come ragiono io. Certe volte mi piacerebbe anche poter ragionare così, ma le realtà in cui poi vengono inseriti gli esseri umani sono infinitamente più complicate di così. Christine Ott A me quello dell’empatia radicale sembra un concetto magnifico che ha fatto capire tante cose. La mia domanda sull’appropriazione è un po' una reazione alla wokeness, al voler essere a tutti i costi dalla parte di chi è ‘giusto’, o ‘giusta’, e che ha dei lati molto problematici e minacciosi. Viviamo infatti in un periodo in cui spesso alle scrittrici bianche/ occidentali che affrontano temi postcoloniali si rimprovera l’appropriazione dei punti di vista degli ‘altriʼ. In quest’ottica una scrittrice dovrebbe parlare solo di quello che appartiene alla sua cultura. Quali sono i problemi quando invece si vogliono integrare i punti di vista degli altri? Francesca Melandri Sì, molto minacciosi, molto giudicanti e molto sterili. Eppure non è una domanda che va dismissed. È legittima questa riflessione anche solo per dire che uno non è d’accordo. Anche sugli argomenti dell’empatia radicale. Io ho notato una cosa. È un’osservazione molto poco scientifica. Non è avvallata da dati, da ricerche, è molto aneddotica e come tale ve la do. È un’impressione, diciamo. Io ho l’impressione che, e ho una domanda se la mia impressione è vera o comunque diciamo verosimile, cioè che questo tema dell’appropriazione culturale mi pare che venga portato avanti in massima parte più da persone di origine europea - DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 «Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri 47 quello che definiamo ‘bianche’ - e in particolare da donne ‘bianche’, molto più che da persone di origine non europea e questo mi ha incuriosita. Anche perché anch’io sono una donna ‘bianca’, no? Allora, è interessante perché potrebbe voler dire tante cose. Potrebbe voler dire che i maschi bianchi neanche si pongono il problema. Però non è vero, perché ci sono tanti uomini che stanno facendo una riflessione su questo. Ma vedo che le più dure, le più rigide, le più pronte a giudicare sull’ortodossia dell’appropriazione culturale sono spesso donne. Donne dei mestieri intellettuali, quindi non proletarie, quindi anche di status sociale buono. Ma ci sento da qualche parte una difesa di un’ortodossia da parte del gruppo delle donne ‘bianche’, non disagiate economicamente, che sono da sempre state il secondo rango. Il primo rango sono gli uomini bianchi non disagiati economicamente. E l’ortodossia, qualsiasi essa sia - sicuramente l’ortodossia patriarcale - il compito di trasmetterla e poi di sanzionare chi trasgredisce è storicamente sempre molto affidata alle donne, a questo secondo rango del potere. Ma queste sono domande che mi faccio, non sono conclusioni. E sono domande anche che pongo a voi, tra l’altro. Sono domande aperte. Come voi sapete, e adesso faccio un parallelo molto estremo, le mutilazioni dei genitali femminili, nei paesi dove vengono praticate, vengono mantenute, perpetrate dalle donne. La difesa delle regole, magari queste nuove regole della wokeness, da parte di un certo tipo di donna, mi colpisce sempre. Mi colpisce, perché a me interessano sempre di più le strutture tra gli esseri umani. Sono quelle da cui possiamo imparare. E c’è (e lo do proprio come domanda, non come conclusione), come un enhancement dei ruoli di potere. Christine Ott Io direi che - osservando soprattutto la realtà anglofona - ho l’impressione che ci sia questa ‘garaʼ (e non è neanche originale quello che dico) per chi è il meno privilegiato di tutti. Infatti ha più potere di parola chi può dimostrare di appartenere a più gruppi minoritari sottoprivilegiati, più sono meglio è. Francesca Melandri Ma è interessante che questa gara non è tanto fatta da chi è veramente svantaggiato, ma da persone che non sono svantaggiate per niente, se non per un motivo, che è quello di genere, e che si arrogano il diritto di parlare per altri. Allora ripeto, la mia è un’osservazione molto aneddotica. Sono molto inte‐ ressata a sapere i pareri degli altri su questa cosa. Ma mi sembra di osservare un meccanismo di difesa del potere da parte del secondo rango del potere che è come tradizionalmente il potere si manifesta. DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 48 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone Christine Ott È comunque una cosa su cui sto riflettendo dunque sono sicuramente interessata a continuare a parlare di questo. Francesca Melandri Il tema dell’appropriazione è comunque un tema importante. La mia risposta penso di averla già data alla conferenza, se volete ve la riformulo. Ed è un po' questa che ho già anche anticipato prima quando parlavo di mio padre. In fondo sarebbe un’appropriazione temporale, quella di parlare di una guerra che non è stata la mia. Che diritto ho io di raccontare della guerra di mio padre, no? Che per altro è già stata raccontata da lui e tanti altri. Ecco, la mia risposta, ma anche questa non è normativa, è proprio una risposta personale, individuale e sono molto interessata a sentire le risposte degli altri, è di entrare nelle teste di qualsiasi altro essere umano e siccome io non riconosco le differenze di genere o di color di pelle o di classe come effettive barriere tra gli esseri umani, non penso che ci dividano. Cioè, ci dividono nella pratica, abbiamo poi esperienze molto diverse, ma non penso che creino categorie diverse e sicuramente non penso che creino gerarchie tra gli esseri umani. Certamente non lo credo. Dunque, io penso che appunto «Homo sum, humani nihil a me alienum puto», come diceva Terenzio e quindi, essendo io un essere umano, ogni esperienza umana mi riguarda. In realtà poi io dirò di più: io sono un essere vivente quindi io sento che mi riguarda anche l’esistenza degli animali e delle piante. Anche di loro vi posso parlare. Quindi io penso di avere, rivendico il diritto del mio sentirmi in comunione con qualsiasi essere umano, qualsiasi essere vivente. Con gli esseri non viventi, ecco, identificarmi in una roccia mi viene difficile, ma magari un giorno ci riuscirò, non lo so (ride). L’unica cosa che è molto importante è che la mia motivazione sia autentica e non oppressiva, non dominante, non prepotente, non di sostituzione della mia voce a quella di qualcun altro. Ma sia una sincera e onesta offerta della mia voce che racconta quelle cose. Christine Ott Grazie, abbiamo bisogno di risposte così decise. Francesca Melandri Perché io sento a volte nelle opere che definirei di appropriazione culturale un altro elemento. L’elemento di sfruttamento economico. Quello sì è da considerare ed è molto importante. Io definirei, non so se chiamarlo appropriazione culturale, comunque, se di una cultura diversa, di un'esperienza altra, voglio prendere solo quello che è cool, bello, vendibile, ma non riconosco il prezzo che viene pagato per quella coolness, quel valore, il prezzo di essere stati oppressi, di essere stati perseguitati, DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 «Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri 49 di essere stati come categoria, appunto, che ha subito persecuzioni. Allora li sto facendo appropriazione culturale. Faccio un esempio pratico. Mia madre era di Torino. La famiglia di mia madre, gli antenati di mia madre, erano ebrei sefarditi, dalla Spagna dopo la cacciata del 1492, la cacciata di Isabella di Spagna. Quindi andarono verso est e si fermarono in Piemonte e infatti c’è una grande comunità ebraica in Piemonte. Solo che gli antenati di mia madre si erano convertiti già da molte generazioni e quindi non erano più praticanti dell’ebraismo da parecchie generazioni. Quindi da molte generazioni non sono, non erano più tecnicamente di origine ebraica. E durante l’occupazione nazista, durante le deportazioni degli ebrei con l’avallo dei fascisti locali, la mia famiglia non ha avuto nessuna persecuzione. Non rientravamo in quella categoria. Anche se uno guardasse al ‘sangue’, qualsiasi cosa significhi, probabilmente ci saremmo rientrati. Quindi, se io dicessi «Eh, ma anch’io sono un po' ebrea! », se io dicessi questo, io prenderei dell’ebraismo le cose cool. Siamo in effetti tutti bravi con le lingue. Stereotipiche qualità ebraiche. Però, né io, né mia madre, né mia nonna, né la mia bisnonna, abbiamo fatto l’esperienza fondativa della esperienza dell’identità ebraica che è quella di subire l’antisemitismo. Non abbiamo mai conosciuto la persecuzione in quanto ebrei. In altre parole, noi da generazioni non abbiamo più pagato il prezzo dell’essere ebrei. Soprattutto non lo stiamo pagando ora. Se io quindi mi dicessi «Eh, ma sono un pò ebrea anch’io! » farei una smaccata operazione di appropriazione culturale perché prenderei solo i vantaggi stando ben tranquilla che non devo pagare gli svantaggi. Ecco: questa è appropriazione culturale. Gloria Putrone Dai ringraziamenti alla fine del libro Sangue giusto ho ricavato l’immensa quan‐ tità di persone che l’hanno accompagnata durante il Suo lavoro investigativo. Ha incontrato anche degli ostacoli? E dopo la pubblicazione qual è stata la risonanza da parte dei governi? Francesca Melandri Diciamo, l’ostacolo in Italia non è la persecuzione o la censura. Ma qui dovrei parlare, ma questo non riguarda me o il mio lavoro o neanche i temi di cui parlo io, ma dovrei parlare, ma andrei fuori tema, del degrado del dibattito culturale italiano, che è molto superficiale, molto disattento. I governi non hanno nessun interesse. Per i governi la letteratura è così poco rilevante; non è un loro problema. Certo, poi nei regimi totalitari è diverso, ma io non vivo in un regime totalitario, quindi, non è proprio una cosa che considerano minacciosa o meritevole di critica. DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 50 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone Gloria Putrone Dal punto di vista dei lettori: che cosa desidera che i lettori capiscano o imparino da questa storia transgenerazionale? Francesca Melandri Questo non è come io mi pongo rispetto ai miei lettori. Non ho un’agenda di cose che i miei lettori devono provare, capire, pensare o sentire. Sono la coautrice di un romanzo di cui il mio coautore, la mia coautrice è chi mi legge. E quella persona, quel lettore, quella lettrice avrà un’esperienza che è unica, personale, di valore oppure non di valore, gli piace o non gli piace, gli dà qualcosa, non gli dà qualcosa e su questo io non solo sono molto consapevole di non avere controllo, ma non desidero avere controllo. Non è il mio compito secondo me. Gloria Putrone E per ultimo: Gramsci nei suoi Quaderni del carcere scrive «Tutti gli uomini sono intellettuali […] ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali». Come descriverebbe la Sua funzione da scrittrice nella società? Francesca Melandri Diciamo che potrei rispondere un po’ allo stesso modo. Che funzione io ho o non ho nella «società, non sono io che lo devo dire, è la società che me lo deve riconoscere. È come essere autorevoli. L’autorevolezza non è che uno un giorno si sveglia e sale su una scaletta e dice «Io sono autorevole! » No, non funziona così. Sono gli altri che ti attribuiscono autorevolezza, quindi anche qui, uno può mettere nel mondo i propri pensieri, i propri scritti, le proprie opere, poi se questo ha una funzione o no nella società, è la società che lo decide. Però, per dire una cosa in più: io scrivo sempre solo se su qualche tema, qualche vicenda, qualche fenomeno (e questo vale sia per i romanzi oppure in forma più breve per gli articoli e riguarda quindi, per esempio, quello che succede nella politica contemporanea), se ritengo che quello che io penso, le cose che ho da dire, ancora non siano state dette da nessuno. Cioè se quella cosa lì che io penso, non l’ho ancora letta da nessuna parte. E se penso che possa essere interessante, allora mi viene di scrivere un articolo. Ma se la mia opinione l’hanno già detta in tanti, ecco, quella non è la mia funzione di dire sì, sì, anch’io penso questa cosa, sì sì, anch’io faccio del gruppo di persone cool che pensa questa cosa. Perché quello è purtroppo lo fanno già in tanti. Sarebbe un ribadire chi sono io. «Anche io sono così! Anche io penso così! » Ma sarebbe di fatto un articolo su di me, non su quell’argomento. E io non ho nessun interesse a partecipare così al dibattito pubblico. Per questo io scrivo molti meno articoli di tanti miei colleghi. Però, chi mi legge, ecco magari non condivide neanche una parola di quello che scrivo, però una cosa la garantisco: se scrivo qualcosa è perché veramente ci ho pensato su. DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 «Scrivere sul passato per raccontare il presente»: A colloquio con Francesca Melandri 51 Opere di Francesca Melandri Piedi freddi. Milano: Bompiani 2024. [Kalte Füße, trad. di Esther Hansen. Berlin: Wagen‐ bach 2024.] Sangue Giusto. Milano: Rizzoli 2017. [Alle, außer mir, trad. di Esther Hansen. Berlin: Wagenbach 2018.] Più alto del mare. Milano: Rizzoli 2012. [Über Meereshöhe, trad. di Bruno Genzler. München: Karl Blessing Verlag 2012 e Berlin: Wagenbach 2019.] Eva dorme. Milano: Mondadori 2010. [Eva schläft, trad. di Bruno Genzler. München: Karl Blessing Verlag 2011 e Berlin: Wagenbach 2018.] DOI 10.24053/ Ital-2023-0023 52 A cura di Christine Ott e Gloria Putrone