Medea sulla scena tragica repubblicana
Commento a Ennio, "Medea exul"; Pacuvio, "Medus"; Accio, "Medea sive Argonautae"
0718
2016
978-3-8233-9003-9
978-3-8233-8003-0
Gunter Narr Verlag
Maria Jennifer Falcone
Il volume offre un commento ai frammenti delle tragedie latine di età repubblicana incentrate su diverse fasi del mito di Medea: la Medea exul di Ennio, il Medus di Pacuvio, la Medea sive Argonautae di Accio. Nell'introduzione vengono prese in esame questioni inerenti la ricezione e la fortuna del mito nel mondo romano e la sua riproposizione sulla scena. Ciascuna tragedia è analizzata sotto l'aspetto della tradizione testuale, della drammaturgia e del possibile rapporto con i modelli greci; i frammenti vengono proposti in un nuovo ordine che tiene conto della loro possibile successione nello sviluppo originario della trama e il testo è corredato da una nuova traduzione e da un apparato critico, uno dei fontes e uno di loci paralleli. Il commento è incentrato sui contesti di trasmissione, sui problemi critico-testuali, su metrica, lingua, stile e strutturazione retorica dei versi; dove possibile si tenta un confronto con il modello greco e si avanzano considerazioni su aspetti di drammaturgia e performance, al fine di un tentativo, pur sempre incerto, di ricostruzione dei drammi.
<?page no="0"?> I SBN 978-3-8233-8003-0 www.narr.de Il volume offre un commento ai frammenti delle tragedie latine di età repubblicana incentrate su diverse fasi del mito di Medea: la Medea exul di Ennio, il Medus di Pacuvio, la Medea sive Argonautae di Accio. Nell’introduzione vengono prese in esame questioni inerenti la ricezione e la fortuna del mito nel mondo romano e la sua riproposizione sulla scena. Ciascuna tragedia è analizzata sotto l’aspetto della tradizione testuale, della drammaturgia e del possibile rapporto con i modelli greci; i frammenti vengono proposti in un nuovo ordine che tiene conto della loro possibile successione nello sviluppo originario della trama e il testo è corredato da una nuova traduzione, da un apparato critico e da uno dei fontes. Il commento è incentrato sui contesti di trasmissione, sui problemi critico-testuali, su metrica, lingua, stile e strutturazione retorica dei versi; dove possibile si tenta un confronto con il modello greco e si avanzano considerazioni su aspetti di drammaturgia e performance, al fine di un tentativo, pur sempre incerto, di ricostruzione dei drammi. DRAMA 18 Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Maria Jennifer Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Commento a Ennio, Medea exul; Pacuvio, Medus; Accio, Medea sive Argonautae DRAMA 18 Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Bernhard Zimmermann (Hrsg.) <?page no="1"?> Medea sulla scena tragica repubblicana <?page no="2"?> DRAMA Neue Serie · Band 18 Herausgegeben von Bernhard Zimmermann Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption <?page no="3"?> Maria Jennifer Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Commento a Ennio, Medea exul; Pacuvio, Medus; Accio, Medea sive Argonautae <?page no="4"?> Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Gedruckt auf säurefreiem und alterungsbeständigem Werkdruckpapier. © 2016 · Narr Francke Attempto Verlag GmbH + Co. KG Dischingerweg 5 · D-72070 Tübingen Internet: www.narr.de E-Mail: info@narr.de Printed in Germany ISSN 1862-7005 ISBN 978-3-8233-8003-0 Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http: / / dnb.dnb.de abrufbar. Gedruckt mit Unterstützung der Stiftung „Humanismus heute“. <?page no="5"?> Ai miei genitori. A Jessica, a Serena. How objects are handed on is all about story-telling. I am giving you this because I love you. Or because it was given to me. Because I bought it somewhere special. Because you will care for it. Because it will complicate your life. Because it will make someone else envious. There is no easy story in legacy. What is remembered and what is forgotten? There can be a chain of forgetting, the rubbing away of previous ownership as much as the slow accretion of stories. E. de Waal, The Hare with Amber Eyes <?page no="7"?> Premessa Il presente lavoro è la rielaborazione della tesi di dottorato che ho discusso a Padova nell ’ aprile del 2012, a conclusione di un percorso di ricerca con programma di co-tutela condotto presso l ’ Università degli Studi di Padova e la Albert- Ludwigs-Universität di Freiburg i.Br. tra il 2009 e il 2011. Devo molto alle due sedi in cui ho lavorato durante gli anni del dottorato: a Padova ho potuto usufruire di una delle più fornite biblioteche di filologia classica e della generosa assistenza del personale e ho avuto la possibilità di ampliare i miei interessi con docenti e colleghi sempre disponibili; a Friburgo ho potuto fare ricerca con intensa serenità in una vivace realtà internazionale e ho imparato molto su come si affronta un lavoro scientifico su testi frammentari anche grazie alla partecipazione come uditrice ad alcuni degli incontri del gruppo di ricerca di KomFrag (Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie). La revisione del lavoro è stata condotta principalmente presso il dipartimento di Filologia Classica, Papirologia e Linguistica storica dell ’ Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, lo stesso in cui mi sono formata. Sarebbe difficile dire quanto ho appreso da docenti, colleghi e amici in tanti anni ed è impossibile rendere conto di una familiarità iniziata nell ’ ottobre del 2003, quando da matricola fuori sede trovavo tra le aule e le biblioteche un nuovo mondo in cui crescere. Quanto io debba a Giuseppe Aricò, che mi ha avviata con passione allo studio dei frammenti durante gli anni universitari, non si può misurare: con signorile e anche ironica severità mi ha trasmesso il suo rigore e la sua tenacia, mi ha fatto capire che una grande passione può diventare realmente fertile solo se accetta di essere regolata e mi ha insegnato con l ’ esempio che l ’ umiltà è la virtù più grande per un filologo come per un uomo. Lorenzo Nosarti è stato un supervisore attento e generoso, con cui ho avuto la possibilità di discutere singoli problemi e imparare molto soprattutto sul piano della critica del testo e della metrica arcaica: la sua costante disponibilità, le lunghe chiacchierate e il suo positivo sguardo verso il futuro sono un tesoro prezioso per me. Ringrazio Bernhard Zimmermann, che ho avuto la fortuna di conoscere da studentessa Erasmus nel 2005 e che da allora mi onora della sua stima e del suo supporto, per aver voluto ora accogliere il mio lavoro nella collana da lui diretta, ma anche per il contagioso ottimismo che mi trasmette ad ogni incontro. Un particolare ringraziamento va a Luigi Galasso, che ha letto il testo nella sua forma finale con scrupolo e attenzione, mi ha fornito preziosi suggerimenti e ha accompagnato le ultime fasi della revisione con grande entusiasmo e positività. Questo lavoro sarebbe molto diverso senza l ’ attenta lettura che ne hanno fatto, nella sua totalità o anche solo in parte, alcune persone: Andrea Bagordo (mio secondo supervisore nel programma di co-tutela); Thomas Baier; Luigi Castagna; VII <?page no="8"?> Rita Degl ’ Innocenti Pierini; Eckard Lefèvre. Inoltre, ho avuto la possibilità di presentare risultati parziali della ricerca in diverse occasioni, ricevendone stimoli e migliorando le mie argomentazioni: nel novembre 2011 a Roma (primo seminario per dottorandi e dottori di ricerca in studi latini organizzato dalla CUSL), ho potuto approfondire la tradizione del fr. 6 di Ennio in relazione alle Saturae menippeae di Varrone; nel gennaio 2012 a Innsbruck (Metageitnia XXXIII) mi sono occupata della drammaturgia della Medea exul enniana e dell ’ interpretazione del fr. 5; a Santiago de Compostela nel maggio 2012 (convegno Poetic Language and Religion in Greece and Rome) ho approfondito l ’ uso del linguaggio sacrale nei frammenti tragici relativi al mito di Medea; nel giugno 2015 a Milano, nell ’ ambito del seminario diretto da Massimo Gioseffi, ho presentato una parte dei frammenti pacuviani; infine, a novembre 2015 a Roma (terzo seminario CUSL) ho presentato i frr. 20 - 28 del Medus e ho ricevuto preziosi suggerimenti dal mio interlocutore, Marco Filippi. Un grazie speciale è per Francesco Paolo: poter condividere con lui ogni giorno l ’ impegno filologico (e ‘ frammentario ’ ) è per me una stimolante occasione di crescita scientifica, ma soprattutto è meraviglioso sapere che, quando chiudiamo i libri, abbiamo ancora molte cose da raccontarci, sognare e vivere insieme. Milano, febbraio 2016 Premessa VIII <?page no="9"?> Indice Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . VII Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 Medea sulla scena tragica latina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3 La magia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 Magia e ringiovanimento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 Medea, Angitia e i serpenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6 L ’ amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 L ’ innamoramento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 Una pietas sopraffatta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14 Captiva o in fuga? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15 Inutilità della sapientia in amore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 La magia al servizio di Giasone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 L ’ abbandono da parte di Giasone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17 La ferocia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18 Absirto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19 Creusa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20 L ’ infanticidio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21 Cruenta Maenas . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22 Nota al testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 Conspectus editionum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24 La Medea exul di Ennio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 29 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Titolo e problema del doppio dramma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 Frammenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 32 Rapporto con Euripide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Svolgimento della trama e drammaturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 Caratterizzazione dei personaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 34 Lingua, metro e stile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35 Testo e commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36 Fr. 1 (= fr. I, 246 - 254 Vahl. 2 = fr. CIII, 208 - 216 Joc. = F 89 TrRF) 36 Fr. 2 (= fr. II, 255 - 256 Vahl.2 = fr. CXI, 237 - 238 Joc. = F 96 TrRF) 44 Fr. 3 (= fr. III, 257 - 258 Vahl. 2 = fr. CVI, 222 - 223 Joc. = F 91 TrRF) 48 Fr. 4 (= fr. XIV, 281 Vahl. 2 = fr. CXVI, 245 Joc. = F 100 TrRF) 51 IX <?page no="10"?> Fr. 5 (= fr. IV, 259 - 261 Vahl. 2 = fr. CV, 219 - 220 Joc. = F 90 TrRF) 53 Fr. 6 (= fr. V, 262 - 263 Vahl. 2 = fr. CIX, 232 Joc. = F 93 TrRF). 57 Fr. 7 (= fr. VIII, 273 Vahl. 2 = fr. CV, 221 Joc. = F 90 TrRF) . . . 59 Fr. 8 (= fr. VI, 264 - 265 Vahl. 2 = adesp. 34 TrRF) . . . . . . . . . . . 61 Fr. 9 (= fr. VII, 266 - 272 Vahl. 2 = CVIII, 225 - 231 Joc. = adesp. 71 - 72 - 73 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64 Fr. 10 (= fr. XII, 279 Vahl. 2 = fr. CXV, 244 Joc. = F 99 TrRF) . . 69 Fr. 11 (= fr. IX, 274 - 275 Vahl. 2 = adesp. 136 TrRF) . . . . . . . . . . 71 Fr. 12 (= fr. X, 276 - 277 Vahl. 2 = CIV, 217 - 218 Joc. = adesp. 25 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 74 Fr. 13 (= fr. XI, 278 Vahl. 2 = fr. CVII, 224 Joc. = F 92 TrRF) . . . 77 Fr. 14 (= fr. XVII, 287 - 288 Vahl. 2 = fr. CXII, 239 - 240 Joc. = F 94 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 79 Fr. 15 (= fr. XIII, 280 Vahl. 2 = fr. CXIV, 243 Joc. = F 98 TrRF) . 84 Fr. 16 (= fr. XV, 282 - 283 Vahl. 2 = fr. CXIII, 241 - 242 Joc. = F 97 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 86 Fr. 17 (= fr. XVI, 284 - 286 Vahl. 2 = fr. CX, 234 - 236 Joc. = F 95 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 89 Il Medus di Pacuvio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 93 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Titolo e frammenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Il soggetto del dramma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 Svolgimento della trama e drammaturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 Caratterizzazione dei personaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 100 Lingua, metro e stile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 101 Testo e commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 102 Fr. 1 (= fr. II, 219 - 220 Ribb. 3 = fr. III, 253 - 254 D ’ A. = 162 Schierl) 102 Fr. 2 (= fr. XVI, 235 Ribb. 3 = fr. XXVIII, 287 D ’ A. = 188 Schierl) 104 Fr. 3 (= fr. I, 218 Ribb. 3 = fr. V, 256 D ’ A. = 161 Schierl) . . . . . 105 Fr. 4 (= fr. III, 221 Ribb. 3 = fr. I, 251 D ’ A. = 163 Schierl) . . . . 109 Fr. 5 (= fr. VIII, 226 Ribb. 3 = fr. II, 252 D ’ A. = 165 Schierl) . . 110 Fr. 6 (= fr. IV, 222 Ribb. 3 = fr. IV, 255 D ’ A. = 168 Schierl) . . . 112 Fr. 7 (= fr. VI, 224 Ribb. 3 = fr. VI, 257 D ’ A. = 169 Schierl) . . . 113 Fr. 8 (= fr. VII, 225 Ribb. 3 = fr. VII, 258 D ’ A.= 164 Schierl) . . 115 Fr. 9 (= fr. X, 228 Ribb. 3 = fr. VIII, 259 D ’ A. = 166 Schierl) . . 116 Fr. 10* (= fr. inc. XXXV, 396 Ribb. 3 = fr. XIII, 265 D ’ A. = 175* Schierl) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 Fr. 11* . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 Fr. 12 (= fr. inc. XXXVI, 397 Ribb. 3 = fr. IX, 260 D ’ A. = 171*** Schierl = adesp. 11 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121 Fr. 13 (= fr. XI, 229 Ribb. 3 = fr. X, 261 D ’ A. = 172 Schierl) . . . . 123 Indice X <?page no="11"?> Fr. 14 (= fr. XII, 230 - 231 Ribb. 3 = fr. XI, 262 - 263 D ’ A. = 173 Schierl) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 124 Fr. 15 (= fr. XIII, 232 Ribb. 3 = fr. XII, 264 D ’ A. = 174 Schierl) . 126 Fr. 16 (= fr. XVII, 236 Ribb. 3 = fr. XV, 267 D ’ A. = 176 Schierl) . 127 Fr. 17 (= fr. XVIII, 237 Ribb. 3 = fr. XIV, 266 D ’ A. = 177 Schierl) 128 Fr. 18 (= fr. V, 223 Ribb. 3 = fr. XXVII, 286 D ’ A. = 170 Schierl) . 130 Fr. 19 (= fr. XV, 234 Ribb. 3 = fr. XXV, 284 D ’ A. = 187 Schierl) . 131 Fr. 20 (= fr. XIV, 233 Ribb. 3 = fr. XVI, 268 D ’ A. = 180 Schierl) . 132 Fr. 21 (= fr. inc. inc. LXXIX, 146 Ribb. 3 = XVII, 269 D ’ A. = 179*** Schierl = adesp. 104 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . 134 Fr. 22 (= fr. XIX, 238 Ribb. 3 = fr. XVIII, 270 D ’ A. = 178 Schierl) 137 Fr. 23 (= fr. inc. inc. CII, 189 - 192 Ribb. 3 = fr. XIX, 271 - 274 D ’ A. = 181*** Schierl = adesp. 57 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139 Fr. 24 (= fr. XX, 239 Ribb. 3 = fr. XXI, 276 D ’ A. = 183 Schierl) . 143 Fr. 25 (= fr. XXI, 240 Ribb. 3 = fr. XX, 275 D ’ A. = 182 Schierl) . 145 Fr. 26 (= fr. XXII, 241 - 242 Ribb. 3 = fr. XXII, 277 - 278 D ’ A. = 184 Schierl) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 Fr. 27 (= fr. inc. inc. XCV, 174 - 175 Ribb. 3 = XXIII, 279 - 280 D ’ A. = 185*** Schierl = adesp. 62 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 Fr. 28 (= fr. inc. inc. CI, 186 - 188 Ribb. 3 = fr. XXIV, 281 - 283 D ’ A. = 186*** Schierl = adesp. 7 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 Fr. 29 (= fr. IX, 227 Ribb. 3 = fr. XXVI, 285 D ’ A. = 167 Schierl) 151 Fr. 30 (= fr. XXIII, 243 Ribb. 3 = fr. XXIX, 288 D ’ A. = 189*** Schierl = adesp. 3 TrRF) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 La Medea sive Argonautae di Accio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 Titolo e frammenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 I modelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 157 Svolgimento della trama e drammaturgia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158 Personaggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159 Lingua, metro e stile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 Testo e commento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 161 Fr. 1 (= fr. I, 391 - 402 R. 3 = fr. I, 467 - 478 Dangel) . . . . . . . . . . 161 Fr. 2 (= fr. II, 403 - 404 Ribb. 3 = fr. II, 480 - 481 Dangel) . . . . . . 166 Fr. 3 (= fr. III, 404 - 405 Ribb. 3 = fr. III, 481 - 482 Dangel) . . . . . 169 Fr. 4 (= fr. IV, 407 Ribb. 3 = fr. IV, 483 Dangel) . . . . . . . . . . . . . 172 Fr. 5 (= fr. VI, 409 - 410 Ribb. 3 = fr. V, 484 - 485 Dangel) . . . . . . 174 Fr. 6 (= fr. VIII, 412 - 413 Ribb. 3 = fr. VI, 486 - 487 Dangel) . . . . 175 Fr. 7 (= fr. VII, 411 Ribb. 3 = fr. VII, 488 Dangel) . . . . . . . . . . . . 177 Fr. 8 (= fr. XII, 417 Ribb. 3 = fr. XIV, 495 Dangel) . . . . . . . . . . . 178 Fr. 9 (= fr. XIV, 419 Ribb. 3 = fr. XV, 496 Dangel) . . . . . . . . . . . 180 Indice XI <?page no="12"?> Fr. 10 (= fr. XIII, 418 Ribb. 3 = fr. X, 491 Dangel) . . . . . . . . . . . . 182 Fr. 11 (= fr. X, 415 Ribb. 3 = fr. XI, 492 Dangel) . . . . . . . . . . . . . . 183 Fr. 12 (= fr. IX, 414 Ribb. 3 = fr. XII, 493 Dangel) . . . . . . . . . . . . 185 Fr. 13 (= fr. XI, 416 Ribb. 3 = fr. VIII, 489 Dangel) . . . . . . . . . . . . 186 Fr. 14 (= fr. V, 408 Ribb. 3 = fr. XIII, 494 Dangel) . . . . . . . . . . . . . 187 Fr. 15*(= fr. inc. inc. XCII 165 - 171 Ribb. 3 ) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 188 Fr. 16 (= fr. XVI, 421 Ribb. 3 = fr. XVI, 497 Dangel) . . . . . . . . . . 191 Fr. 17 (= fr. XV, 420 Ribb. 3 = fr. IX, 490 Dangel) . . . . . . . . . . . . 193 Fr. 18 (= fr. XVII, 422 - 423 Ribb. 3 = fr. XVII, 498 - 499 Dangel) . 194 Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 Edizioni critiche dei frammenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197 Studi e strumenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 198 Concordanze delle edizioni dei frammenti . . . . . . . . . . . . . . . . 225 Index testium . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227 Index metrorum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231 Nomi e cose notevoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232 Passi discussi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 237 Index verborum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 241 Indice XII <?page no="13"?> Introduzione 1 1 I frammenti tragici della Medea exul di Ennio, del Medus di Pacuvio e della Medea sive Argonautae di Accio sono citati in questa introduzione secondo la numerazione proposta nel lavoro. <?page no="15"?> Medea sulla scena tragica latina Il personaggio di Medea permette uno sguardo trasversale su tre autori che hanno trattato momenti diversi di questa saga e così messo in luce aspetti differenti della figura e delle vicende ad essa legate. Se, infatti, la Medea exul di Ennio ripercorre da vicino la trama dell ’ omonimo dramma euripideo, con il Medus Pacuvio mette in scena il ritorno dell ’ eroina in Colchide secondo una versione rara del mito, e, al contrario, la Medea sive Argonautae di Accio è incentrata sull ’ abbandono della patria e della famiglia da parte di Medea e sulla sua partenza con Giasone 2 . Evidente sin dai primi versi del dramma, modello della tragedia enniana è la Medea di Euripide, che l ’ autore latino ‘ traduce ’ per la scena romana apportando alcune modifiche, che sembrano tanto più interessanti proprio in quanto inserite in una trama (per quello che ci è dato di verificare) molto vicina all ’ originale e permettono una proficua analisi del vertere e un ’ individuazione di elementi di romanizzazione e attualizzazione. Più difficile stabilire le fonti e i possibili modelli di Pacuvio: la trama del Medus non trova riscontro in nessuna delle tragedie greche a noi giunte per intero o in frammenti. Particolarmente evidente nel caso di Accio, ma con tracce anche negli altri due tragici, il parallelo con Apollonio Rodio offre interessanti spunti di ricerca sulle modalità di drammatizzazione di un racconto epico da una parte e sulla caratterizzazione del personaggio di Medea come maga dall ’ altra. Nella grande messe di studi relativi all ’ affascinante figura di Medea e alla saga degli Argonauti 3 , i frammenti tragici latini non paiono molto valorizzati. Ma, nonostante la natura frammentaria della tradizione impedisca considerazioni certe, sembra tuttavia che molti dei temi legati a Medea nella letteratura latina possano trovare riscontro già nella produzione tragica di età repubblicana, come risulterà più evidente nel commento ai singoli frammenti e nelle introduzioni ai tre drammi. In particolare, tre aspetti della raffigurazione di Medea a Roma sembrano essere già presenti nei testi scenici repubblicani: a) La magia. L ’ eroina è la maga per antonomasia e appare legata soprattutto agli episodi di ringiovanimento. La presenza di questo tema appare costante in tutte le fasi della produzione letteraria (e iconografica) già a partire dall ’ ambito italico e può essere spiegata alla luce delle analogie 2 La scelta di rappresentare diverse fasi dello stesso mito da parte dei tre tragici è stata da tempo notata dalla critica. Cfr. almeno Dondoni 1958; Arcellaschi 1990; Nosarti 1999, 53 - 78; Cowan 2010; Boyle 2014, lxix - lxxii. 3 Difficile dominare la bibliografia relativa al mito di Medea. Cito solo alcune monografie ‘ classiche ’ e raccolte di studi: per l ’ iconografia, oltre alle voci del LIMC, Galli 1906; per la presenza letteraria Mallinger 1897; Boselli 1905; Goedhart 1911; Caracappa 1921; Séchan 1927; von Fritz 1959; Dräger 1993; Clauss - Johnson 1997; Uglione 1997; Gentili - Perusino 2000; Lopez - Pociña 2002; Cipriani 2005; De Martino 2006; Zimmermann 2009; Bartel - Simon 2010; Corrigan 2013; Manuwald 2013. 3 <?page no="16"?> che la figura mitica sembra mostrare con alcune divinità ctonie, e in particolare con la dea Angitia (su cui cfr. infra). b) L ’ amore. L ’ attenzione alle fasi dell ’ innamoramento (che denunciano una dipendenza degli autori latini da Apollonio Rodio) permette di approfondire i rapporti (e lo scontro) con la famiglia d ’ origine, presentando la partenza dalla Colchide come una scelta volontaria oppure anche quasi come una cattività di Medea, preda dello straniero Giasone. Viene dato rilievo al tema della fragilità della donna di fronte a Eros, in particolare in opposizione alla sua sapientia magica, da lei inutilizzabile come difesa. Infine, la vicenda dell ’ abbandono di Giasone avvicina Medea a eroine elegiache come Arianna o Ipsipile (particolarmente interessante il parallelo con quest ’ ultima, per la comune esperienza con Giasone), rendendola paradigmatica anche in questo senso. c) La ferocia e i delitti. La celebre definizione oraziana dell ’ Ars Poetica (v. 123) sit Medea ferox invictaque fa riferimento ai numerosi e terribili delitti di cui l ’ eroina colchica si macchia in nome dell ’ amore per Giasone: l ’ omicidio di Absirto, quello di Pelia, l ’ uccisione di Creusa e, infine, l ’ infanticidio. La natura cruenta di Medea fa sì che si affermi anche una sua caratterizzazione come menade. La magia Magia e ringiovanimento La figura di Medea si lega in modo particolare con il tema della magia 4 e la rappresentazione dell ’ eroina come maga sembra avere un ’ importanza notevole a Roma 5 . La donna e la sua regione di provenienza, la Colchide, sono dunque elementi, potremmo dire topici, spesso presenti nei contesti poetici in cui si parli in qualche modo di magia. Importante notare come i poteri magici siano visti da una parte come spaventosi, pericolosi e negativi, ma al contrario anche come positivi, iatrici e curativi. Tutte le abilità solitamente attribuite alle maghe (necromanzia, conoscenza dei carmina, capacità di tirare giù la luna dal cielo e di nascondere il carro del sole), per esempio, ricorrono in relazione a Medea nella celebre rappresentazione di Ov. met. 7 e epist. 6, 85 - 96 (in cui la focalizzazione di Ipsipile fa sì che sia messa in risalto soprattutto la magia nera), e la rappresentazione dell ’ eroina colchica come maga viene valorizzata in modo particolare soprattutto dai poeti di età augustea, ma anche da quelli successivi 6 . Una possibile 4 Tema, questo, molto caro agli autori latini: cfr. in particolare Fahz 1904 e Tupet 1976. 5 Le osservazioni di Caracappa 1921, 101 e 114, sembrano in questo senso tuttora valide. 6 In età augustea cfr. Hor. carm. 2, 13, 8 e epod. 17, 35; Manil. 5, 34s.; in seguito Val. Fl. 6, 439 - 453 (cfr. Fucecchi 1997, ad loc.; Elm 2007, 56s.) e 275s. con le parole di Anausi in punto di morte, che si riferisce al potere curativo della magia; Stat. Theb. 4, 505s. e 549 - 551, mentre in 9, 610s. e 734s. si fa riferimento alla Colchide come terra di maghe; Claud. carm. 3, 145 - 153. Introduzione 4 <?page no="17"?> traccia del tema della magia bianca sembra essere presente già nei testi drammatici repubblicani, in particolare nel fr. 16 del Medus pacuviano (possum ego istam capite cladem averruncassere), mentre un legame con le arti divinatorie e i prodigi è evidenziabile sulla base del fr. 9 della Medea sive Argonautae di Accio (principio extispicium ex prodigiis congruens ars te arguit): non è possibile spingersi oltre in assenza di ulteriori materiali. Uno degli episodi di magia più noti nel panorama latino a proposito di Medea è quello del ringiovanimento di Esone 7 , legato anche all ’ inganno teso da Medea ai danni delle figlie di Pelia: trasformato davanti a loro un ariete in agnello e forte della sua fama di maga, infatti, la donna le convince ad uccidere il loro padre, prospettando loro la possibilità di far ringiovanire anche lui. L ’ episodio negativo di Pelia, del resto, è altrettanto noto nel mondo antico 8 e compare molto spesso nella letteratura latina (per esempio nelle Peliades di Gracco e poi, soprattutto in Ov. met. 7, 297ss., di cui si ricorda Sen. Med. 670 - 848 9 ); a esso è riferito un momento parodico dello Pseudolus di Plauto ai vv. 868 - 872 10 . Il discorso fa parte di una gag tra Ballione e il cuoco che, essendo stato appena ingaggiato, vuole mettere in mostra la sua arte utilizzando linguaggio e stile elevati (si noti, ad esempio, l ’ elemento paratragico Neptuni pecudes al posto di pisces al v. 834). In questo passo egli si paragona a Medea nell ’ atto di ringiovanire Pelia. La menzione di questo personaggio è stata interpretata in modi diversi: a) Plauto farebbe confusione e intenderebbe qui Esone oppure Giasone 11 ; b) il passo testimonierebbe una variante del mito per cui Medea avrebbe realmente ringiovanito Pelia 12 ; c) il cuoco plautino mescolerebbe volutamente le carte per confondere Ballione (mal) celando dietro le sue promesse una minaccia 13 . Sembra che la fama di cui godevano i miti del ringiovanimento in generale e dell ’ uccisione di Pelia in particolare possa confermare l ’ interpretazione del passo come confusione consapevole da parte del poeta 14 e ciò sembra possibile anche tenendo conto di un particolare del momento scenico plautino, cioè del fatto che si sta festeggiando il compleanno di Ballione. 7 Il tema è anche uno dei più rappresentati nella pittura vascolare magno-greca, cfr. Dugas 1944, 5ss., ma la sua fama è messa bene in evidenza, in letteratura e nelle arti figurative, anche da Giusti 1928, 169 - 171 e Masselli 2009. 8 Per la presenza del mito di Pelia nella letteratura greca cfr. da ultimo Burkert 2009, soprattutto 156. 9 Su questo cfr. Gamberale 2008, 625 - 630 e bibliografia ivi citata. 10 Questi i versi: quia sorbitione faciam ego hodie te mea / item ut Medea Peliam concoxit senem, / quem medicamento et suis venenis dicitur, / fecisse rursus ex sene adulescentulum: / item ego te faciam. In realtà già al v. 193 Ballione fa riferimento al mito argonautico, augurandosi per il suo compleanno di essere proclamato “ re Giasone ” , cfr. Bianco 2006, 59. 11 Così Willcock 1987, sulla base del confronto con Cic. sen. 83, in cui il riferimento a Pelia è sicuramente errato; anche secondo Powell 2006, 262s. sia per Cicerone sia per Plauto si deve pensare a un errore, la cui genesi è da individuare in un filone mitologico romano corrente. 12 Così, tra gli altri, Sturtevant 1979 (= 1932); Dugas 1944, 8s. 13 Così Arcellaschi 1990, 120 ss. 14 L ’ episodio, infatti, è inserito in un contesto in cui sono presenti termini afferenti alla sola sfera semantica della magia (striges, v 820; veneficus, v. 872) o anche a quella della cucina (herbae, Medea sulla scena tragica latina 5 <?page no="18"?> Agli episodi riusciti di Esone o dell ’ ariete o, più in generale, alla capacità magica di Medea in relazione agli incantesimi di ringiovanimento fanno riferimento diversi passi (eleg. in Maecen. 1, 107 - 113; Manil. 5, 465 - 468 15 ; Lucan. 6, 440 - 442 16 ; probabilmente anche Val. Fl. 6, 444s. 17 ), e soprattutto Ov. met. 7, 159ss. Per quanto riguarda i frammenti tragici repubblicani, un riferimento all ’ uccisione di Pelia, con la menzione delle figlie e quindi con l ’ allusione all ’ inganno teso ai loro danni, si ha nel fr. 12 di Ennio (quo nunc me vortam? quod iter incipiam ingredi? / domum paternamne anne ad Peliae filias? ), che traduce i vv. 502 - 504 del modello euripideo. Medea, Angitia e i serpenti 18 La rappresentazione di Medea come maga, dunque, gode di molta fortuna a Roma. Le ragioni di questa predilezione potrebbero essere legate anche a una possibile associazione tra l ’ eroina colchica e una divinità italica, Angitia. Due testimonianze di età imperiale raccolgono una tradizione secondo cui il mito di Medea si collegava in qualche modo con il culto di Angitia. Nei Collectanea di Solino (2, 28 - 30), infatti, si legge: C. Coelius Aeetae tres filias dicit Angitiam Medeam Circen: Circen Circeios insedisse montes, carminum maleficiis varias imaginum facies mentiantem: Angitiam vicina Fucino occupavisse ibique salubri scientia adversus morbos resistentem cum dedisset homines vivere deam habitam: Medeam ab Iasone Buthroti sepultam filiumque eius Marsis imperasse. Medea e Angitia, dunque, sarebbero sorelle, figlie di Eeta (come Circe, che viene fatta risiedere nelle regioni occidentali, nel territorio situato tra il Lazio meridionale e la Campania) 19 . L ’ altra fonte è il commento di Serv. Aen. 7, 750: passim; sorbitio, v. 868). Inoltre, il riferimento a un episodio mitico negativo, come quello di Pelia, potrebbe essere confermato dalla scelta di concoquere (v. 869) preferito a recoquere (più abitualmente utilizzato in contesti legati al ringiovanimento, cfr. Catull. 54, 5; Hor. sat. 2, 5, 55): concoquere, infatti, ricorre anche in Accio, trag. 220s. Ribb. 3 (concoquit / partem vapore flammae . . .) in riferimento alla preparazione della cena tiestea. Forse eccessivo leggere nel brano una parodia del Medus di Pacuvio, sulla scorta di Arcellaschi 1990, 120 - 124, ipotesi non del tutto esclusa da Bianco 2006, 59 n. 16. 15 Che Manilio si riferisca ad Esone e non a Pelia è stato dimostrato da Flores 1966, 82s. e da Baldini Moscadi 1993, 226. 16 Cfr. Sannicandro 2010, 208, che sottolinea l ’ allusione lucanea all ’ episodio delle Metamorfosi di Ovidio. 17 . . . recoquit fessos aetate parentes / datque alias sine lege colus, su cui cfr. Caviglia 1999, 507 e 601s. Concordo con Caviglia (ed Ehlers) nel preferire al tràdito recolit (v. 444) la proposta di Gronovius recoquit, più comprensibilmente adeguato in un contesto di ringiovanimento, ma il problema è complesso: per recolit si pronuncia Fucecchi 1997, 95 - 97, che nota anche (97) come il verso possa essere riferito sia a Esone sia a Pelia. 18 Riporto qui parzialmente, dopo opportuna risistemazione, quanto ho discusso in Falcone 2011, cui rimando per maggiori dettagli e più ampia documentazione. 19 Il passo di Solino è discusso brevemente da Arcellaschi 1990, 436s., che riporta il nome della dea come Anguitia e suggerisce (437) che l ’ ingresso di Medea nel mondo culturale romano sia Introduzione 6 <?page no="19"?> Medea quando relictis Colchis Iasonem secuta est, dicitur ad Italiam pervenisse, et populos quosdam circa Fucinum ingentem lacum habitantes, qui Marrubii appellabantur quasi circa mare habitantes, propter paludis magnitudinem, docuit remedia contra serpentes: quamquam alii Marrubios a rege dictos velint. hi ergo populi Medeam Angitiam nominaverunt ab eo quod eius carminibus serpentes angerent. ab his nunc Umbronem venisse dicit, non regem, sed ducem. sunt autem isti Marsorum populi. In questo caso le figure di Medea e Angitia appaiono completamente sovrapposte. Particolarmente interessante risulta un aspetto della vicenda mitica e sovrannaturale di Medea: il suo legame con i serpenti, rappresentato (a) dall ’ episodio dell ’ incantamento del draco e (b) dal carro, cui si aggiungono alcuni, più rari, cenni alla sua abilità di incantatrice di serpenti (in particolare, in Ov. met. 7, 203 ed epist. 6, 97s.; Hyg. fab. 26). Esso potrebbe costituire un elemento comune tra Medea e Angitia, dea marsica legata a un culto locale (diffuso intorno all ’ attuale zona del Fucino, in Abruzzo). Medea e l ’ incantamento del draco Mentre in Pindaro (Pyth. 4, 249s.) è Giasone a uccidere il drago con l ’ astuzia, l ’ episodio ha invece per protagonista assoluta Medea nel racconto di Apollonio Rodio (4, 144 - 166), che diventa il modello di riferimento principale per gli autori latini. Il poeta ellenistico riserva particolare attenzione alla tecnica utilizzata da Medea per addormentare il serpente ( “ attento ” e “ dagli occhi insonni ” [v. 128], come poi spesso sarà definito anche nei testi latini): dopo l ’ invocazione del Sonno e di Ecate (vv. 146 - 148), la giovane cosparge di filtri gli occhi del draco utilizzando un ramoscello di ginepro appena colto, e mentre Giasone stacca il vello dalla quercia, continua a cospargere di droghe la testa del serpente 20 . Pare che l ’ episodio fosse noto nella penisola italica, se è corretta l ’ interpretazione corrente relativa ad un ’ anfora del Pittore di Amsterdam, proveniente quasi sicuramente da Cerveteri e risalente alla metà del VII secolo a. C., in cui è rappresentata una donna dal capo coperto che sta davanti a un serpente a tre teste 21 . L ’ incantamento del draco, cui fanno spesso riferimento gli scrittori latini 22 , è già presente sulla scena tragica repubblicana. Medea, infatti, lo rievoca nel primo verso del fr. 11 attribuito alla Medea exul di Ennio (attribuzione, questa, preferibile a quella acciana per le argomentazioni discusse infra nel commento ad loc.): non avvenuto per via iconografica ed etrusca, prima che letteraria e greca. Senza voler escludere l ’ importanza degli Etruschi, pare che la stretta connessione di Angitia con i Marsi renda la questione molto più complessa di quanto non mostri lo studioso francese, e che l ’ attenzione vada spostata su altre popolazioni italiche, abbandonando la prospettiva panetrusca. 20 Sull ’ episodio cfr. Livrea 1973, 51 - 59 e Fränkel 1968, 466; per le tecniche di incantamento dei serpenti cfr. anche Giusti 1928, 162 - 168; Tupet 1976, 194s. 21 Cfr. LIMC VI/ 1 (1992), s. v. ‘ Medeia ’ (Schmidt), 388, 2* e 396. 22 In particolare Prop. 3, 11, 11; Ov. epist. 6, 13s., 37, 97s., 101s. e 12, 4, 17s., 23, 49s., 60, 103s., 107 - 110; Ov. met. 7, 149 - 156; Sen. Med. 472s., 681 - 684 e 703s.; Val. Fl. 8, 58 - 108. Medea sulla scena tragica latina 7 <?page no="20"?> commemoro quod draconis saevi sopivi impetum / non quod domui vim taurorum et segetis armatae manus. I versi sembrano costituire la resa di Eur. Med. 475 - 482, da cui si discostano per un dettaglio non trascurabile: l ’ ordine cronologico, infatti, è rovesciato da Ennio mediante l ’ uso di uno hysteron proteron, figura retorica che si accompagna a quella della preterizione (sottolineata dal non anaforico) e che pone all ’ inizio proprio l ’ episodio del draco, a sottolineare il rapporto affettivo che legava Medea e il mostro, di ascendenza apolloniana, poi tematizzato da Valerio Flacco (in particolare nel monologo di 8, 92 - 108, in cui Medea compiange il corpo del draco umanizzato, simbolo del tradimento familiare 23 ). Il carro di Medea La rappresentazione di Medea sul carro è stata ipotizzata sulla base degli scolii e dell ’ iconografia relativa all ’ eroina colchica già per la scena finale della Medea di Euripide (vv. 1317 ss.) 24 , criticata - come è noto - da Aristotele (poet. 1254 b 1 - 2) per il fatto che, grazie all ’ espediente del carro, la lysis avviene attraverso un elemento esterno alla trama. Medea sul carro trainato da serpenti costituisce una delle rappresentazioni iconografiche più frequenti in ambito italico (le raffigurazioni, su vasi falisci o provenienti dall ’ Italia meridionale e su urne etrusche, datate dal V al III secolo a. C., rappresentano la donna sul carro con i cadaveri dei figli e a volte Giasone o altre figure 25 ). La celebrità della scena è tale che la rappresentazione appare spesso slegata dal momento della fuga conseguente all ’ assassinio dei figli e il carro diventa quasi un attributo della donna, un segno distintivo che la contraddistingue a livello iconografico, come risulta da tre terrecotte di età ellenistica provenienti dall ’ Italia centrale o meridionale, ora conservate a Napoli, Berlino e Bologna, in cui Medea è rappresentata alla guida del carro, senza armi né cadaveri, semplicemente come maga 26 . Non stupisce, dunque, la frequenza con cui ricorre nei testi letterari latini 27 sin dall ’ età repubblicana. In particolare, i frammenti 11*, 12 e 13 del Medus di Pacuvio contengono riferimenti evidenti al carro trainato da serpenti, di cui forniscono via via sempre più precisi dettagli: il primo frustulo (invehens alitum anguium curru) sembra descrivere l ’ arrivo di Medea, ed è una sequenza ad andamento cretico trasmessa da Cic. rep. 3, 14 (sull ’ opportunità di considerare il testo un frammento pacuviano, cfr. infra il commento ad loc.); il secondo (angues ingentes alites iuncti 23 Cfr. per questo passo Pellucchi 2012, 114 - 116 e 158 - 168 e Lazzarini 2012, 130 - 142, che parla di “ consapevole variazione del modello ” (130) e si sofferma molto sull ’ umanizzazione del draco: significative soprattutto le espressioni cari . . . draconis (v. 92); miserande (v. 99); immemor oro mei (v. 103). 24 Cfr. Matelli 2009, 308s. (con ulteriore bibliografia). 25 Si tratta delle figure 35 - 41 del LIMC (VI/ 2). 26 Sono le figure 43 - 45 del LIMC (VI/ 2). 27 Cfr. Ov. met. 7, 217 - 221, 234, 350; trist. 3, 8, 3s.; Hor. epist. 3, 14; Sen. Med. 1022 - 1025; Luc. 9, 727 - 731; Val. Fl. 5, 453s.; Aug. conf. 3, 6, 11; soliloq. 2, 15, 29; epist. 7, 2, 4; retract. 1, 1; Drac. Rom. 10, 24. Introduzione 8 <?page no="21"?> iugo) offre una descrizione sommaria degli animali legati al giogo (sull ’ attribuzione al Medus, comunemente accolta dalla critica, cfr. infra); il terzo (linguae bisulcis actu crispo fulgere) si sofferma su un particolare degli stessi dracones, vale a dire il rapido movimento delle lingue biforcute 28 . Che la presenza del carro di Medea sulle scene avesse una qualche importanza sembra essere confermato dalle numerose critiche all ’ inverosimiglianza ed eccessiva spettacolarità di questa rappresentazione: in particolare, si ricordano Lucil. 604 K. (= 587 M.): nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis e Cic. inv. 1, 27, testimone del fr. 12 di Pacuvio (da cui dipendono Mar. Victorin. rhet. 1, 19, p. 202 H = p. 67 Riesenweber 29 e Aug. soliloq. 2, 15 29 30 ): fabula est in qua nec verae nec veri similes res continentur, cuiusmodi est: angues . . . iugo. Il medesimo intento criticoletterario, con ascendenza tragica, si può ipotizzare anche a proposito del fr. 284 Astbury del Marcipor varroniano (dixe regi Medeam advectam per aera in raeda anguibus), che con ogni verisimiglianza potrebbe riferirsi proprio alla scena del Medus di Pacuvio ricostruibile sulla base dei frammenti 11* - 13 31 . Angitia e i Marsi La maggior parte delle informazioni a noi giunte sulla dea Angitia provengono da materiale epigrafico 32 , cui si aggiungono un ’ unica immagine cultuale (un bronzetto proveniente dal Fucino, conservato per un certo periodo presso il museo di Avezzano e oggi disperso, che rappresenta una donna con un serpente attorcigliato attorno a collo e braccia 33 ) e alcuni testi letterari (su cui cfr. poco oltre). Del nome sono attestate diverse forme: oltre ad Angitia e alla variante grafica Ancitia, si trovano Anagtiai (solo al dativo) in osco, An(a)c(e)ta e Anacta in peligno, e il plurale Ancites, considerato normale nel caso di divinità ctonie 34 ; a queste forme si aggiunge Anguitia, che tuttavia non ricorre nelle iscrizioni ed è 28 A questi testi si potrebbe aggiungere il fr. 13 della Medea sive Argonautae di Accio (perite in stabulis frenos immittens feris): l ’ esegesi del testo è però incerta (cfr. infra, commento ad loc.) e sulla base del testimone sembra doversi escludere l ’ attinenza con il carro di Medea che, come è noto, non era trainato da cavalli, bensì da dracones. 29 Fabulam dicit esse quae nihil veri nec veri simile continet, et dat exemplum: cuiusmodi est: angues . . . iugo. 30 A. Sed tamen solet falsum dici etiam, quod a veri similitudine longe abest. R. Non enim, cum dicitur iunctis alitibus anguibus Medeam volasse, ulla ex parte res ista verum imitatur, quippe quae nulla sit nec imitari aliquid possit ea res, quae omnino non sit. R. Recte dicis; sed non adtendis eam rem, quae omnino nulla sit, ne falsum quidem posse dici. Si enim falsum est, est: si non est non est <falsum>. A. Non ergo dicemus illud de Medea nescio quod monstrum falsum esse? R. Non utique; nam si factum est, quomodo falsum est, si non est factum, quomodo monstrum est? A. Miram rem video. Itane tandem cum audio: angues . . . iugo, non dico falsum? 31 Ho sostenuto questa tesi in Falcone 2015, 41 - 45, cui rimando per ulteriori dettagli sulla presenza del mito di Medea nella Menippea. 32 Per una raccolta del corpus epigrafico cfr. Ernout 1965, 195 - 199; Rocca 1994; Letta 1999. 33 Su cui cfr. Fernique 1883; la riproduzione della tavola si trova anche in Falcone 2011, 97. 34 Per la forma plurale sono state fornite diverse interpretazioni, su cui cfr. Falcone 2011, 87 n. 23. Medea sulla scena tragica latina 9 <?page no="22"?> evidentemente una grafia paretimologica sviluppatasi per mettere in risalto il rapporto con anguis. In parte del materiale epigrafico ascritto al dossier della dea ricorre la dedica ad An(a)c(e)ta Cerria, ma la questione dell ’ identificazione tra Angitia e questa figura senz ’ altro legata a Cerere è molto dibattuta; altrettanto problematica e discussa, infine, l ’ associazione con Angerona, fondata su un ’ unica testimonianza riportata da Boccaccio (genealog. deor. 4, 15) 35 . Anche l ’ etimologia del nome è controversa. Angitia viene considerato ora equipollente di Indiges, con riferimento alla sua natura di ‘ datrice di vita ’ 36 , ora corradicale di alcuni termini, quali angor e angere (e ancora anguis, evidentemente paretimologico). Sembra ragionevole pensare che, essendo la divinità legata a un culto provinciale, il nome non abbia nulla in comune con i termini latini cui viene in seguito associato e che possa essere legato alla toponomastica (si è pensato in particolare ad Anagnia, fondazione marsica, alla leggendaria città di ’Αγχίση , fondata insieme con Capua da un ecista troiano, forse lo stesso Enea, e ad Anxur, nonché al nome proprio Ancus), denunciando la natura gentilizia della divinità stessa 37 . La provenienza delle epigrafi permette di evidenziare la diffusione del culto riservato ad Angitia non solo tra i Marsi, ma anche tra tutti i popoli sabellici e anche, forse, tra Umbri e Oschi: centro principale doveva essere l ’ attuale Luco dei Marsi, presso il Fucino (come dimostrano i ritrovamenti archeologici nel territorio del lucus Angitiae, alcuni ex voto fittili e due basi bronzee 38 qui rinvenuti, nonché CIL 9, 3885); il culto è testimoniato, sempre in Abruzzo, anche presso Civita d ’ Antino (CIL 1, 1763), Furfo (CIL 9, 3515), Pentima (Vetter 211) e Sulmona (CIL 9, 3074 e Vetter 204 - 208), e si estendeva fino ai Sabini di Trebula Mutuesca (odierna Monteleone Sabino, in provincia di Rieti), dove sorgeva ancora nel I secolo d. C. un santuario della dea 39 , agli Oschi, come testimonia un ’ iscrizione su anello aureo dedicato alla dea proveniente da Aesernia 40 , e probabilmente agli Umbri, se è legato ad Angitia l ’ uso di Acetus nelle Tavole Iguvine. La dea non entrò mai nel pantheon ufficiale, ma le si riservarono a lungo culti in forma privata anche a Roma 41 . Per quanto riguarda i testi letterari, Vibio Sequestre (geogr. 200: Angitiae vel Anguitiae <. . .> Lucaniae) parla di un nemus dedicato ad Angitia, menzionato anche da Virgilio, Aen. 7, 759s. (te nemus Angitiae, vitrea te Fucinus unda, / te 35 Per ulteriori dettagli su Anaceta Cerria e Angerona rinvio a Falcone 2011, 87s. e note 24 e 25. 36 Cfr. LEW, s. v. 2. Indiges. 37 Su Anagnia fondazione marsica, cfr. Schol. Ver. Aen. 7, 689: [Ana]gniam habitant Marsorum coloni. Su ’Αγχίση cfr. Letta 1993, 34s. 38 Su cui cfr. Letta 1999. 39 Da qui proviene un ’ iscrizione datata al I sec. d. C., su cui cfr. Rocca 1994, 224s.: ]ngitiae sacr P. Calestro Agr[3. 40 Paris, Cabinet des Médailles, Collezione Froehner (inv. Fr. V, 246): Stenis.Kalaviis.G<aavieis> / Anagtiai.Diiviiai. / dunum.deded. 41 Cfr. Wissowa 1912, 49s. Introduzione 10 <?page no="23"?> liquidi flevere lacus) 42 ; ma la più lunga menzione della dea in poesia è in Silio Italico (8, 497 - 500: Aeetae prolem Angitiam mala gramina primam / monstravisse ferunt tactuque domare venena / et lunam excussisse polo, stridoribus amnes / frenare ac silvis montes nudasse vocatis), in un contesto relativo ai Marsi, dei quali è citata la conoscenza delle arti incantatorie (in particolare ai vv. 495 - 497). La menzione siliana è particolarmente interessante perché cronologicamente costituisce la prima testimonianza diretta di un legame parentale tra Angitia ed Eeta 43 : in questo caso non è chiaro se si tratti di totale sovrapposizione come in Servio, o se Angitia vada considerata un ’ altra figlia di Eeta come in Solino. Il passo è molto significativo, dal momento che al suo interno convergono tutti gli elementi che ci interessano: le figure di Eeta e di Angitia, le erbe, i carmina, i serpenti, e soprattutto i Marsi. Questa popolazione, nota fino ai tempi di Agostino per la professione di incantatori di serpenti, grazie ai contatti con la Campania greco-etrusca (confermati dal ritrovamento nella zona di monete campane della zecca di Cuma e di Phistelia), aveva ripreso o rielaborato, in epoca anteriore alla Guerra Sociale e dunque senza mediazione romana, miti e culti greci (per i miti si ricordi quello di Marsia o quello di Circe e Medea, collegate ad Angitia, con cui condividevano i caratteri solari 44 , mentre per i culti basti ricordare la dea Vesuna, legata probabilmente a Demetra, la stessa Angitia, e poi Ercole, Apollo e i Dioscuri) e aveva mantenuto la propria autonomia rispetto ai Romani sul piano religioso, diversamente che sul piano linguistico, onomastico, istituzionale e militare 45 . I rapporti con Roma iniziarono molto presto, certamente almeno nel 340 a. C., come risulta da una testimonianza liviana (9, 45, 8), e i Marsi divennero presto fedeli alleati dei Romani, come pare evidente dalla cosiddetta lamina di Caso Cantovios (CIL I 2 , 5) che riporta una dedica per il santuario della dea Angitia da parte di un contingente marsico che aveva combattuto al fianco dei Romani. Il legame di Medea con la dea dei Marsi, come nota Tupet 46 , può rivestire particolare interesse se si pensa che le donne di questa popolazione erano note per intonare le neniae, dei canti di magia curativa, anche probabilmente amorosa. Non mancano passi letterari nei quali il legame tra Medea e i Marsi sembra essere stato valorizzato (come, probabilmente, Ov. ars 2, 101s. 47 ). Una serie di indizi permette di ritenere Angitia una divinità ‘ ellenizzata ’ dai Marsi. Gli elementi su cui si innestò l ’ accostamento della dea con la famiglia di Eeta, e in particolare con Medea, sono molteplici e si possono ricondurre a due filoni fondamentali: quello celeste e quello ctonio. Per quanto riguarda il primo, è 42 Secondo Horsfall 2000, 493s. il riferimento al nemus di Angitia “ is altogether in keeping both with the tone of the passage and with what is known of Italic religion ” . 43 Cfr. anche Spaltenstein 1986 e Ariemma 2000, ad loc. 44 Si veda in proposito Letta 1972. 45 Cfr. Letta in Campanelli 2001, 145. 46 Tupet 1976, 195 ss., in particolare 197. 47 Per questa ipotesi cfr. Falcone 2011, 95. Medea sulla scena tragica latina 11 <?page no="24"?> verisimile pensare che l ’ associazione tra le figure sia stata favorita anche dalla comune discendenza solare 48 , sottolineata dai Marsi anche nel 91 a. C. nel giuramento di fedeltà a Livio Druso, in cui il Sole è invocato come ‘ progenitore della stirpe ’ 49 . Forse più forti e immediatamente individuabili sono però gli elementi ctonii, che legavano Angitia ai serpenti e alla magia, e che furono poi particolarmente valorizzati a Roma in ambito letterario e antiquario, specializzando la figura della dea marsica e caratterizzandola in maniera sempre più simile a Medea 50 . A queste osservazioni si può anche aggiungere la tradizione di un legame dei Marsi con il figlio di Circe e Ulisse, Marso, dal quale avrebbero appreso l ’ arte di incantare i serpenti (come risulta da Plin. nat. 7, 15 e 25, 11 e Gell. 16, 11, 1 - 2 51 ). È evidente, dunque, un tentativo di collegare questa popolazione legata alla sfera del magico con le maghe mitiche per antonomasia, Medea e Circe appunto, utilizzando o meno il tramite di Angitia. Medea e Angitia Può riuscire utile riassumere gli elementi comuni alle due figure e verisimilmente già valorizzati in relazione a Medea dai tragici repubblicani: - la condivisione di elementi ctonii e solari. Per quanto riguarda Angitia, la coesistenza di celeste e ctonio sembra potersi dedurre dagli attributi cerria e diiviia che ricorrono nel materiale epigrafico. La dimensione ctonia, oltre che dal rapporto privilegiato con i serpenti, è sottolineata dal legame con Ecate, mentre la valorizzazione del legame di Medea con il Sole è evidente nelle invocazioni che la donna rivolge al suo avo, già nei testi teatrali repubblicani: in particolare, in Ennio, frr. 15 (Sol, qui candentem in caelo sublimat facem) e 17 (Iuppiter tuque adeo summe Sol, qui res omnis spicis, / quique tuo <cum> lumine mare terram caelum contines, / inspice hoc facinus, prius quam fiat: prohibessis scelus! ), in Pacuvio, fr. 1 (. . . te, Sol, invoco, ut mihi potestatem duis / inquirendi mei parentis), e in Accio, frr. 8 (tun dia Mede ’ s, cuius aditum pervixi usque adhuc? ) e 9 (principio extispicium ex prodigiis congruens ars te arguit). 48 Letta 1993, 33, avanza l ’ ipotesi, suggestiva ma difficilmente dimostrabile (anche in forza delle considerazioni fatte sopra sulle caratteristiche della dea Angitia), che proprio l ’ elemento solare sarebbe stato valorizzato per primo da parte dei Marsi. 49 Cfr. ancora Letta 1993, 34. 50 Sull ’ influenza di Medea per la caratterizzazione di Angitia in ambito letterario cfr. Ernout 1965, 196 e n. 1; Santi 1994, 244 - 248. 51 Questo è il passo di Gellio: Gens in Italia Marsorum orta esse fertur a Circae filio. Propterea Marsis hominibus, quorum dumtaxat familiae cum externis cognationibus nondum etiam permixtae corruptaeque sunt, vi quadam genitali datum ut et serpentium virulentorum domitores sint et incentionibus herbarumque sucis faciant medelarum miracula. In Sol. 2, 30, come visto, sarebbe invece un figlio di Medea ad aver regnato sui Marsi. Introduzione 12 <?page no="25"?> - il legame con i serpenti e i metodi incantatori 52 : si veda quanto discusso supra; in particolare, il tema ricorre nel fr. 11 della Medea enniana e nei frr. 11* - 13 del Medus di Pacuvio. - lo stretto rapporto di entrambe le figure con la magia e con quegli elementi ambivalenti della natura (quali le erbe o il veleno dei serpenti), che sono utilizzati con valenza benefica da parte di Angitia e, in alcuni episodi, anche di Medea, e che rendono le maghe delle figure bifronti capaci di aiutare ma anche danneggiare. In relazione a questo aspetto, si può citare il fr. 16 del Medus (possum ego istam capite cladem averruncassere), in cui un personaggio (verisimilmente Medea, cfr. infra, commento ad loc.) dichiara il suo potere iatrico-magico. - il legame con i sacerdozi femminili, che pare possa dedursi, nel caso di Angitia, soprattutto dall ’ epigrafe di Sulmona, e che coinvolge Medea in prima persona in qualità di sacerdotessa di Ecate, a cui potrebbe riferirsi, in modo volutamente elusivo, la difficile espressione caelitum camilla del fr. 15 del Medus, e che potrebbe essere celata dietro il riferimento al templum Cereris del fr. 14 della Medea exul di Ennio 53 . L ’ amore L ’ innamoramento Il tema dell ’ amore gioca un ruolo fondamentale per il mito di Medea, essendo - in positivo e in negativo - il motore delle azioni e degli incantesimi stessi dell ’ eroina. In nome del suo amore per Giasone Medea mette la sua sapientia al servizio della causa degli Argonauti, parte con loro scegliendo di diventare una donna straniera in terra d ’ altri piuttosto che la regina nella sua patria, uccide suo fratello Absirto. Una volta giunta in Grecia, sempre per amore di Giasone ringiovanisce Esone e inganna le figlie di Pelia. Per vendicarsi infine dell ’ amore non più corrisposto, del tradimento e dell ’ abbandono, ricorre ancora alla magia e fa morire Creusa, arrivando persino ad uccidere i propri figli. La donna maga e la donna preda d ’ amore sono dunque strettamente legate nel mito e nei racconti che di esso hanno fatto i poeti latini. L ’ innamoramento è presentato tradizionalmente come la resa di fronte a una potenza sovrannaturale, contro cui nulla si può fare: così nel monologo di Ov. met. 7 (in particolare vv. 7 - 18 e 55: maximus . . . deus est) 54 e in Valerio Flacco, in cui le fasi 52 Sulla presenza di riferimenti alle tecniche incantatorie e all ’ utilizzo dei veleni dei serpenti nella letteratura latina cfr. Tupet 1976, 187 - 199, con una ricca antologia di passi; sul tactus, elemento comune a molte rappresentazioni letterarie dell ’ incantamento del draco, cfr. ancora Tupet 1976, 192 e n. 6. 53 L ’ interpretazione e la stessa attribuzione del frammento sono discusse, ma proprio la menzione di Cerere potrebbe costituire uno spunto interessante per la sua contestualizzazione, cfr. commento ad loc. 54 Cfr. Bessone 1997, 36 - 41 e Kenney 2011 ad loc. Medea sulla scena tragica latina 13 <?page no="26"?> appaiono come ‘ dilatate ’ in più tempi, fino alla decisione di utilizzare le proprie arti magiche in favore di Giasone (in particolare il primo incontro a 5, 350ss.; il secondo, la teichoskopia, a partire da 6, 503; il terzo, decisivo, a 7, 396ss.) 55 . Il ricordo dell ’ innamoramento è poi presente nei testi incentrati sul momento dell ’ abbandono da parte di Giasone, a partire dalla Medea di Euripide (soprattutto ai vv. 475 - 508, in cui Medea rinfaccia all ’ uomo ciò che ha fatto per lui). In particolare, si ricordino l ’ intera epistola 12 di Ovidio e soprattutto i vv. 449 (pro te solebam fugere) e 496s. (I. Medea amores obicit? M. Et caedem et dolos) della tragedia senecana. Che la rievocazione delle prime fasi della vicenda amorosa tra Giasone e Medea avesse spazio anche sulle scene tragiche latine repubblicane sembrano testimoniarlo il fr. 10 della Medea enniana (utinam ne umquam, Mede, cordis cupido corde pedem extulisses), con il difficile poliptoto di cor (su cui cfr. il commento); il fr. 13 della stessa tragedia (tu me amoris magis quam honoris servavisti gratia), in cui Giasone accusa la donna di non poter vantare alcun diritto, in quanto fu mossa da un sentimento incontrollato e non istituzionale (cfr. infra, commento ad loc.) e il fr. 27 del Medus di Pacuvio (sull ’ attribuzione e i problemi relativi al testo cfr. infra, commento ad loc.), pronunciato con certezza da Medea in un dialogo con il padre: coniugem / illum, Amor quem dederat qui plus pollet potiorque est patre. Una pietas sopraffatta La Medea di Valerio Flacco, disperata, chiede a un certo punto di essere liberata dagli aspera ... / ... dubiae ... incendia mentis (7, 242s.), l ’ ardente lacerazione interiore che il contrasto tra pudor e amor genera in lei. Una donna combattuta, insieme pia e nocens, è figura capace di ispirare elaborazioni letterarie intrise di quella retorica degli opposti che rientra appieno e in ogni epoca nel gusto latino. A dare ampio spazio a questo tema è proprio il poema di Valerio Flacco, in cui la pietas verso la famiglia, ma anche verso la patria e la divinità di Ecate assume un carattere fondamentale, creando la solidissima base di una resistenza all ’ innamoramento 56 , che può essere vinta soltanto dall ’ intervento congiunto di due divinità, che prendono l ’ aspetto di Calciope e di Circe e così forniscono a Medea exempla interni alla sua stessa famiglia; il contrasto interiore non si calma neppure dopo la decisione finale e Medea si mostra consapevole di aver gettato tra le mani di Giasone non solo le sue arti magiche, ma anche la sua patria, la sua buona fama e il suo onore (7, 458s.). Questo aspetto della caratterizzazione del personaggio potrebbe essere stato approfondito da Valerio Flacco sulla base di stimoli derivatigli dalla tradizione letteraria sia greca (basti pensare a Pindaro, Pyth. 4, 218 e Ol. 13, 53, in cui Medea 55 Su questi luoghi cfr. in particolare Salemme 1991, soprattutto 25 - 36; Fucecchi 1997, passim; Elm 2007, soprattutto 56, 68 - 88. 56 Significativi soprattutto 5, 216 - 221; 5, 336 - 338; 7, 103s., 140 - 144 e 340; 8, 335 - 369, su cui cfr. Caviglia 1999, in particolare 69s.; 96s.; 484 e n. 89. Introduzione 14 <?page no="27"?> per amore dimentica il rispetto dovuto alla famiglia) sia latina, e quindi, forse, anche dai tragici di età repubblicana. Particolarmente rilevanti sembrano le analogie con il Medus di Pacuvio, che per Valerio potrebbe costituire un precedente interessante, che non sembra essere stato fino ad ora sufficientemente valorizzato dalla critica 57 , e in cui la donna appare come figlia pia, che torna in Colchide ad aiutare suo padre 58 . Infatti, nella profezia di Giove (Val. Fl. 5, 683 - 687) viene preannunciato che Perse sconfiggerà Eeta dopo la partenza di Giasone; trascorsa una vita in povertà, ormai anziano, Eeta sarà però aiutato da sua figlia e da un nipote greco e si impossesserà nuovamente del regno (vv. 685 - 687: donec et Aeeten inopis post longa senectae / exilia, heu magnis quantum licet, impia, fatis, / nata iuvet Graiusque nepos in regna reponat), cioè, in sostanza, ciò che avviene nel Medus 59 . Altrettanto interessante, se letto alla luce della profezia appena citata, 8, 10 - 15, in cui Medea rivolge un ’ allocuzione retorica al padre, immaginando di poterlo abbracciare per l ’ ultima volta prima di fuggire, e conclude augurandogli una lunga e serena vecchiaia e un potere saldo (vv. 14s.: tu precor haec longa placidus mox sceptra senecta / tuta geras meliorque tibi sit cetera proles). Captiva o in fuga? Medea, terribile maga, per amore sceglie di seguire Giasone, lei straniera, e raggiungere la Grecia. La tradizione letteraria antica, però, approfondisce la storia partendo anche da una focalizzazione molto diversa: Medea, giovane e corteggiata principessa di Colchide, viene ingannata e rapita da Giasone, straniero, che la conduce via con sé. È il topos del raptor virginum e della captiva, che trova il suo modello archetipico in Paride ed Elena di Troia. Per quanto riguarda i testi greci, la prospettiva di Pindaro sembra rimanere ambigua (Pyth. 4, 250: κλέψεν τε Μήδειαν σὺν αὐτᾷ ), e particolamente rilevante è la trattazione della questione da parte di Erodoto (1, 2, 1 - 3), che cita l ’ episodio di Medea all ’ interno di una prima serie di scaramucce tra Occidente e Oriente, costituite proprio da reciproci prelevamenti di fanciulle (Io da una parte, Medea dall ’ altra, e poi ancora Elena), e conclude con la valutazione negativa del rapimento ma soprattutto della vendetta che ne consegue, in quanto i saggi sanno che, se le donne in questione non avessero voluto, non sarebbero state rapite (1, 4, 2). Nella Medea di Euripide il cenno al rapimento di Medea è fugace (vv. 252ss., in particolare v. 256: ἐκ γῆς βαρβάρου λελησμένη ), così come in Apollonio Rodio, in cui ricorre in 4, 35 - 40; 400 e 440ss. (con lo sviluppo della similitudine con una ληιάς ). 57 Per questo rapporto e la ricostruzione della trama di Pacuvio, cfr. introduzione al Medus, pp. 95 - 101. 58 Non si può escludere che questo elemento possa essere stato approfondito anche da Accio, nella cui tragedia (che metteva in scena l ’ abbandono della Colchide) la pietas filiale avrebbe potuto costituire un tema fecondo di contrasti drammatici (di cui, purtroppo, non ci è giunta traccia). 59 Cfr. Wijsman 1996, 300; Caviglia 1999, 520s.; Spaltenstein 2004, 559s.; Carderi 2008, 218. Nessuno, tuttavia, richiama la tragedia pacuviana come possibile precedente. Medea sulla scena tragica latina 15 <?page no="28"?> In ambito latino, se non mancano rapide allusioni in Ovidio (per es. met. 7, 21s.), in Valerio Flacco il tema del rapimento, cui è dato ampio spazio (per es. cfr. 6, 495 - 502; 7, 48 - 50; 7, 146; 8, 261 - 284; 8, 393 - 399) 60 , si intreccia con quello della fuga volontaria (in particolare in 8, 10; 202 - 205; 415 - 419) e le due interpretazioni convivono dolorosamente nella patetica allocuzione della madre a Medea già in fuga in 8, 150 - 156. Diversamente, sulla scena tragica latina repubblicana, l ’ abbandono della patria e della famiglia da parte di Medea sembra essere presentato sempre solo come volontario (e semmai, come visto supra, viene sottolineata la forza irresistibile di Amor nell ’ elaborazione della decisione). Riferimenti e tracce si possono riscontrare in tutti e tre i drammi, in particolare a) nella Medea di Ennio: l ’ espressione domo efferret pedem al v. 8 del prologo, richiamata anche da pedem extulisses nel fr. 10; la menzione, sia pure in un ’ espressione gnomica, della lontananza dalla patria nel fr. 5 (patria procul); l ’ opzione impossibile di un ritorno a casa all ’ interno di una serie di interrogative con riferimento a delitti commessi consapevolmente da Medea nel fr. 12 (domum paternam); b) nel Medus di Pacuvio: nel fr. 27 la dichiarazione della potenza di Amor e nel fr. 28 (per i problemi di attribuzione cfr. commento ad locc.) l ’ esplicita ammissione dell ’ abbandono riferita da Medea a Eeta (cum te expetebant omnes florentissimo / regno reliqui . . .); c) nella Medea sive Argonautae di Accio la fuga cruenta della donna, che rallenta l ’ inseguimento del padre smembrando il cadavere di suo fratello (fr. 15*). Inutilità della sapientia in amore Medea è descritta come esperta e pericolosa già da Euripide, soprattutto nel dialogo con Creonte (in particolare ai vv. 285 e 298 - 305), in cui è evidenziata la sua σοφία . Nei frammenti tragici latini si trovano tracce di diverse competenze a lei attribuite o attribuibili, come il suo potere iatrico (Pacuvio, fr. 16 citato supra), o i poteri magici e gli incantesimi realizzati (cfr. quanto detto supra), o ancora la sua abilità retorica (messa in luce da lei stessa con l ’ espressione tanta blandiloquentia nel fr. 9 di Ennio e nell ’ intero fr. 12 acciano: nisi ut astu ingenium lingua laudem et dictis lactem lenibus). Il paradosso di una maga, esperta e sapiente, incapace di usare a proprio vantaggio i suoi poteri è un tema che ricorre anche altrove. A un vero e proprio incantesimo d ’ amore praticato da Afrodite ai danni di Medea, che resta impotente di fronte alle forze sovrannaturali, faceva già riferimento Pindaro (Pyth. 4, 210ss.), con l ’ utilizzo tradizionale della ἴ υγξ , e del resto il tema viene sviluppato molto anche a Roma, come visto supra. Il topos dell ’ inutilità della sapientia o della magia in amore diventa poi usuale in età augustea 61 , e costituisce un Leitmotiv del poema 60 Il topos, inoltre, viene proiettato su Circe in 7, 120 e 218 - 220. 61 Con Orazio (che tuttavia non ricorre all ’ exemplum di Medea), Tibullo (1, 2, 43ss.; 2, 4, 55 - 60), Properzio (1, 1, 19s.; 2, 4, 7), Ovidio (rem. 261s., su Medea e Circe, e soprattutto ars 2, 101ss.). Introduzione 16 <?page no="29"?> di Valerio Flacco, che presenta spesso Medea come maga le cui arti a nulla le giovano (5, 397s.; 6, 469 - 474; 6, 668 - 680). Sulla scena tragica repubblicana, questo tema è sviluppato da Ennio in una celebre sententia (fr. 7, su cui cfr. commento ad loc.): qui ipse sibi sapiens prodesse non quit, nequiquam sapit, il cui modello più prossimo è stato individuato in un frammento attribuito all ’ Egeo di Euripide (905 Kannicht: μισῶ σοφιστήν , ὅστις οὐχ αὑτῷ σοφός ), ma lo spunto era già presente nella Medea di Euripide (vv. 303s. in particolare). La magia al servizio di Giasone Innamoratasi di Giasone, Medea usa per lui la sua magia. Dell ’ episodio di Pelia, ambientato già in Grecia, si è discusso supra. Molto presenti nei testi letterari gli atti magici legati al recupero del vello con conseguente fuga dalla Colchide. I compiti affidati a Giasone da Eeta, irrealizzabili senza l ’ aiuto sovrannaturale della donna, erano tre: l ’ aggiogamento dei tori, la guerra contro i nati dalla terra e l ’ incantamento del draco, custode insonne del vello (su quest ’ ultimo cfr. supra). Essi ricorrono insieme in Eur. Med. 475 - 482 e sono ampiamente narrati da Apollonio Rodio (3, 1284ss. e 4, 143ss.). La compresenza dei tre episodi caratterizza diversi testi latini: Ovidio, met. 7 (ai vv. 1ss. viene sottolineato come il motore delle azioni di Medea sia l ’ amore, e ai vv. 100ss. sono narrati i tre episodi); Valerio Flacco, in cui all ’ uso della magia di Medea al servizio di Giasone si fa riferimento da diverse angolazioni 62 con una narrazione caratterizzata dalla presenza costante di Medea 63 ; Properzio (2, 34, 8 e 3, 11, 9 - 12). A uno o più degli episodi fanno riferimento anche Marziale (spect. 28, 7) e Lucano (4, 549ss.) 64 . Gli episodi compaiono tutti insieme sulla scena tragica latina arcaica, in particolare nel fr. 11 attribuito alla Medea exul enniana 65 : non commemoro quod draconis saevi sopivi impetum / non quod domui vim taurorum et segetis armatae manus. Il testo risulta particolarmente interessante per l ’ ordine con cui la sequenza è presentata (cfr. supra e commento ad loc.). L ’ abbandono da parte di Giasone L ’ abbandono da parte di Giasone costituisce la causa scatenante delle terribili vicende di Corinto, ed è pertanto l ’ antefatto delle tragedie incentrate su questo 62 Si parla dell ’ obiettivo di Giunone e Venere in 7, 165 - 169 e 185s.; dell ’ inettitudine di Giasone in 4, 621 - 623 (profezia di Fineo) e 8, 333ss. (accuse di Stiro); la stessa Medea dichiara la necessità di avere maggiore forza per realizzare gli incantesimi e invoca Ecate in 7, 352 - 370. 63 Cfr. in particolare 7, 584 - 586; 589; 590; 596 - 600; 625s.; 632; 637s. 64 Su cui cfr. Sannicandro 2010, 207s., che nota la funzione paradigmatica del mito di Medea, il cui nefas è superato da quello di Vulteio e dei suoi uomini, i quali - al contrario dell ’ eroina del mito - non provano timore di fronte al delitto commesso. 65 Per i problemi di attribuzione e l ’ analisi completa del frammento rinvio al commento. Medea sulla scena tragica latina 17 <?page no="30"?> momento del mito, a partire dalla Medea di Euripide; non mancano tuttavia riferimenti in altri testi, in cui si narra l ’ innamoramento alludendo al triste destino che attende la donna; infine, esso diventa tema principale dei componimenti elegiaci in cui compare la figura di Medea. Particolarmente interessanti sono gli sviluppi di questo tema nelle Metamorfosi di Ovidio, in particolare 7, 92 - 94 66 , e nella dodicesima e sesta epistola delle Heroides, nell ’ ultimo caso con l ’ interessante apporto dato dalla focalizzazione sul punto di vista di Ipsipile 67 (che sarà recuperato da Stat. Theb. 5, 454 - 485 68 ), probabilmente anche nella perduta Medea (cfr. fr. 1: servare potui: perdere an possim rogas? ); in Properzio (2, 21, 11s.; 2, 24, 45s.; 4, 5, 41); soprattutto, in Valerio Flacco (in particolare, 7, 385 - 387; 7, 472 - 487 e 501 - 508; 8, 46 - 54 e 202 - 216). Alcuni riferimenti al tema del tradimento di Giasone si possono individuare già nella Medea exul enniana. La nutrice accenna in maniera vaga alla sofferenza della sua padrona nel fr. 1 (v. 9: . . . animo aegro, amore saevo saucia) e più esplicitamente nel fr. 3 (v. 2: . . . Medeai miserias). L ’ abbandono è poi evidentemente la causa dell ’ ira che la donna si dichiara pronta a liberare nel fr. 9 (v. 5: . . . ego iram omnem recludam . . .), ed è inoltre argomento del dialogo tra Medea e Giasone, in cui quest ’ ultimo si giustifica (fr. 13: tu me amoris magis quam honoris servavisti gratia) e presenta la decisione come lecita, in quanto nessun legame coniugale ufficiale e riconosciuto dalla società ha mai unito i due (per questa interpretazione cfr. commento ad loc.). La ferocia In poesia viene dato ampio spazio ai numerosi delitti di cui si macchia Medea, qui presentati nell ’ ordine in cui avvengono nel mito 69 . La ferocia di Medea, manifestatasi soprattutto nelle vicende corinzie, diventa proverbiale, e come tale compare ad esempio in Apuleio (met. 1, 10) e in Sidonio Apollinare (carm. 11, 68), ma anche nelle Argonautiche di Valerio Flacco non mancano luoghi in cui i delitti corinzi vengono preannunciati con insistenza 70 . 66 Quid faciam, video, nec me ignorantia veri / decipiet, sed amor. Servabere munere nostro / servatus promissa dato, in cui è rilevante il poliptoto verbale servabere / servatus che sottolinea la speranza della reciprocità e del mantenimento delle promesse. 67 Sulle epistole cfr. Heinze 1997; sulla particolare situazione cronologica di epist. 6 cfr. anche Leigh 1997; sullo strettissimo legame tra le due epistole cfr. Bloch 2000; un approfondito commento all ’ epist. 12 è Bessone 1997, con riferimenti puntuali anche all ’ epist. 6. Per ulteriore bibliografia rinvio a Falcone 2011 a, 494 n. 28. 68 Il passo è ricco di riferimenti all ’ epistola ovidiana. Per un ’ indagine relativa ai rapporti intertestuali tra i due testi e alla diversa caratterizzazione del personaggio di Ipsipile si veda ora Falcone 2011 a. 69 Non riporto qui l ’ uccisione di Pelia, già presente nella sezione relativa agli episodi di ringiovanimento. 70 Per un catalogo dei passi cfr. Fucecchi 1997, 19 e n. 28; cfr. anche Caviglia 1999, 94. Introduzione 18 <?page no="31"?> Absirto Alla vicenda fa rapido cenno Euripide nella Medea (ai vv. 167: αἰσχρῶς τὸν ἐμὸν κτείνασα κάσιν ; e 1334s.: κτανοῦσα γὰρ δὴ σὸν κάσιν παρέστιον / τὸ καλλίπρῳρον εἰσέβης Ἀργοῦς σκάφος ). L ’ episodio era verisimilmente oggetto di drammatizzazione nella Medea sive Argonautae acciana, se si accoglie l ’ attribuzione del fr. 15*, un testo relativamente lungo a tinte espressionistiche in cui è descritto lo smembramento del cadavere di Absirto, operato da Medea allo scopo di rallentare l ’ inseguimento di Eeta (cfr. commento ad loc.); il frammento è citato da Cicerone (nat. deor. 3, 66 - 67) e imitato in diverse fasi della letteratura latina, a partire da Ovidio (trist. 3, 9 su cui vd. infra). L ’ episodio è presentato con alcune variazioni nelle fonti antiche: a) Medea porta con sé il fratello, lo uccide, lo taglia a pezzi e ne disperde le membra nel fiume Fasi o in mare. È questa la versione attestata da Apollodoro (1, 9, 24) 71 e Schol. Ap. Rh. 4, 223 - 230, in cui sono riportate alcune ulteriori testimonianze: Ferecide (F.Gr.Hist. 3 F32 a - b), sull ’ età infantile di Absirto, l ’ uccisione in nave e lo smembramento nel fiume; Sofocle (Scyth. fr. 546 R.), sul fatto che Absirto sarebbe un fratellastro di Medea, figlio di un ’ altra madre; infine, sempre Sofocle (Cholch. fr. 343 R.), sull ’ uccisione di Absirto in casa e non sulla nave (una versione, dunque, molto diversa da quella attestata dalla maggior parte delle fonti); b) Medea inganna il fratello, già adulto e inviato dal padre a guidare l ’ inseguimento, e lo assassina insieme a Giasone presso il tempio di Artemide. È la versione di Ap. Rh. 4, 454 - 481, in cui lo smembramento del cadavere è assente ed è sostituito con il μασχαλισμός compiuto da Giasone, che taglia le estremità del corpo della vittima (vv. 477 - 481) 72 ; Absirto viene ucciso da Giasone anche secondo la versione nota a Igino (fab. 23, 4, in cui si dice che Medea seppellisce il fratello) 73 . L ’ episodio di Absirto è presente in non molti testi latini successivi al frammento attribuito ad Accio: nelle Heroides di Ovidio è declinato in maniera diversa da 71 Il brano narra dell ’ inseguimento di Eeta, che è rallentato dalla ricerca dei brandelli del corpo di Absirto barbaramente ucciso da Medea e seppellito dal padre nel luogo che prenderà per questo il nome di Tomi. 72 ἥρως δ ' Αἰσονίδης ἐξάργματα τάμνε θανόντος , / τρὶς δ ' ἀπέλειξε φόνου , τρὶς δ ' ἐξ ἄγος ἔπτυσ ' ὀδόντων , / ἣ θέμις αὐθέντῃσι δολοκτασίας ἱλάεσθαι· / ὑγρὸν δ ' ἐν γαίῃ κρύψεν νέκυν , ἔνθ ' ἔτι νῦν περ / κείαται ὀστέα κεῖνα μετ ' ἀνδράσιν Ἀψυρτεῦσιν . Sulla presenza di questo gesto in Apollonio cfr. Schaaf 2014, 276 - 284, secondo il quale i dettagli relativi alla morte di Absirto possano avere una funzione prolettica rispetto agli omicidi che Medea sarà destinata a compiere in seguito (in particolare, l ’ assassinio di Pelia). 73 Nihilominus cum profecti essent, Absyrtus timens patris praecepta persecutus est eos in insulam Minervae; ibi cum sacrificaret Minervae Iason et Absyrtus intervenisset, ab Iasone est interfectus. Cuius corpus Medea sepulturae dedit, atque inde profecti sunt. Colchi, qui cum Absyrto venerant, timentes Aeetam illic remanserunt oppidumque condiderunt, quod ab Absyrti nomine Absorin appellarunt. Medea sulla scena tragica latina 19 <?page no="32"?> Ipsipile (epist. 6, 127 - 130) e da Medea stessa (epist. 12, 113 - 116) 74 . Particolarmente rilevante ai fini dell ’ attribuzione del frammento ad Accio, Ov. trist. 3, 9 contiene elementi interessanti relativi ai particolari dell ’ uccisione: il fianco innocente ferito con la spada (vv. 25s., con la struttura chiastica del v. 26 che isola il verbo perforat nel centro del verso: innocuum rigido perforat ense latus); lo smembramento del corpo e lo spargimento delle membra in luoghi diversi (vv. 27s., con il poliptoto verbale divellit divulsaque membra); la cura con cui Medea si occupa di ogni particolare neu pater ignoret (v. 28) e pone il capo insanguinato e le mani senza vita (pallentesque manus sanguineumque caput, v. 29) in alto su uno scoglio, bene in vista per il padre, che così potrà sapere del luctus novus (v. 30) e rallenterà il suo inseguimento. La Medea di Seneca accenna all ’ omicidio del fratello in diversi momenti del dramma: vv. 130 - 132; 451 - 454; 910s.; 936; 967 - 971 75 . Il paradigma di Absirto è utilizzato anche da Lucano (1, 95 e 10, 464 - 467) 76 e da Petronio (108, 14). Valerio Flacco non tratta l ’ argomento, ma - come per altri episodi cruenti successivi alla vicenda narrata nei libri a noi pervenuti - sembrerebbe alludervi in 5, 338 e 8, 136. Creusa La cruenta morte di Creusa rientra tra i delitti corinzi di cui si macchia la Medea di Euripide. La descrizione dell ’ assassinio di Creusa con l ’ incendio della reggia nella Medea di Seneca si trova ai vv. 817 - 819 e 879s. (con l ’ icastica narrazione del messaggero: periere cuncta, concidit regni status. / nata atque genitor cinere permixto iacent) 77 . Il tema è presente anche in Orazio (epod. 3, 9 - 14 e 5, 61 - 66 78 ) e Properzio (2, 16, 30), nonché in Valerio Flacco, 5, 444 - 454 (la descrizione del portale del tempio di Ea) e 8, 234 - 236, in cui è stabilito un rapporto tra le tristi nozze di Medea e quelle di Creusa. Unica traccia della presenza di questo tema sulla scena tragica repubblicana si trova nell ’ ultimo verso del fr. 9 della Medea exul, in cui l ’ eroina colchica macchina, probabilmente in un dialogo con il coro, le modalità di vendetta ai danni di Creonte, dal quale ha ottenuto di procrastinare di un giorno la partenza per 74 Sull ’ omissione strategica del nome di Absirto nelle due epistole ovidiane cfr. Huskey 2004, 274 - 280. 75 Sui riferimenti ad Absirto in Seneca cfr. Costa 1973 ad locc., Gamberale 2008, 623; Boyle 2014, 159s.; 249; 357; 369s. 76 Su cui cfr. Nosarti 2009, 53. 77 Sull ’ immediatezza della scena, in opposizione alle lunghe scene di messaggeri nel teatro greco, cfr. Costa 1973, ad loc. e Boyle 2014, 344 - 347. 78 L ’ episodio ricorre anche in Properzio 2, 16, 30, in cui il poeta esorta Cinzia, che lo ha tradito con un pretore proveniente dall ’ Illiria, a diffidare dei doni dei barbari, ricordandole due exempla mitici: quello di Erifile e quello di Creusa. Introduzione 20 <?page no="33"?> l ’ esilio. Le espressioni che si possono riferire alla morte di Creusa sono racchiuse all ’ interno di un verso caratterizzato da un ’ interessante strutturazione retorica: mihi maerores, illi luctum, exitium illi, exilium mihi. I due termini luctum ed exitium sono accostati e incorniciati dall ’ anafora del dativo, riferito a Creonte: l ’ uccisione della figlia è così inserita tra le azioni di vendetta che Medea sta pianificando, ben consapevole del dolore a cui esporrà anche se stessa, espresso dalla posizione enfatica a inizio e fine verso del pronome anaforico mihi. L ’ infanticidio L ’ episodio dell ’ infanticidio, giunto a Roma nella forma codificata da Euripide, trova largo spazio nella letteratura latina. L ’ episodio è ampiamente trattato nella Medea di Seneca, in particolare ai vv. 926 - 977 (che si concludono con l ’ assassinio del primo figlio) e 982 - 1025 (che culminano con l ’ omicidio del secondo, davanti a un Giasone spectator) 79 . Si tratta di uno degli elementi proverbialmente associati alla figura di Medea (così nel Culex, vv. 249s.; in Stat. silv. 2, 1, 141s.) e spesso sfruttati in chiave misogina 80 : si vedano Prop. 3, 19, 17s.; Iuv. 6, 627 - 653; Sen. Phaedr. vv. 563s. e 697. In Valerio Flacco gli episodi corinzi sono solo accennati nel corso di ambigue profezie e all ’ infanticidio si fa riferimento in 5, 338 - 340 e 453s. Il tema doveva godere di particolare fama anche nelle arti figurative, come risulta dalla testimonianza di Aetna 595 che probabilmente descrive il celebre quadro di Timomaco fatto arrivare a Roma da Cesare nel 44, oppure uno meno noto di Aristolao (attestato da Plinio, nat. 35, 11, 136s.). La fama dell ’ infanticidio dura a lungo, come testimonia la presenza di questo episodio nei componimenti dell ’ Anthologia latina riferiti al mito di Medea, in particolare il carme 91 Sh. - B. del Codex Salmasianus 81 , e il carme 220 di Coronato. Per quanto riguarda il teatro repubblicano, il tema doveva essere presente nella Medea exul di Ennio, in cui il fr. 16 faceva presumibilmente parte di una scena molto patetica tra la madre e i figli: salvete, optima corpora! / cette manus vestras measque accipite! L ’ interpretazione metrica del frustulo è incerta, ma se si accetta l ’ ipotesi che si tratti di un canticum (cfr. infra, commento ad loc.), si può pensare che l ’ elemento musicale accrescesse l ’ effetto di trascinamento emotivo, già individuabile dalla struttura del secondo verso del frammento, in cui l ’ ordo verborum sembra rendere evidente l ’ intreccio delle mani. Il frammento, dunque, può essere contestualizzato nell ’ ambito di una scena successiva alla decisione e 79 Il tema della spettacolarità del male è caro a Seneca, anche nella sua produzione filosofica. Sui passi della Medea, oltre a Costa 1973 e Boyle 2014 ad locc. cfr. anche Trombino 1990, pp. 111s.; Chaumartin 2002; Dangel 1990 e 2008. 80 L ’ uso della figura di Medea in contesti misogini è attestato almeno a partire dal Γεροντοδιδά σκαλος di Varrone, cfr. Falcone 2015, 46 - 50. 81 Cfr. Zurli 2007, 73 - 78 e bibliografia ivi citata. Ad altri episodi del mito si riferiscono i carmi 34 e 39 Sh. - B.(De Iasone et Medea e De Creonte et Medea). Medea sulla scena tragica latina 21 <?page no="34"?> precedente all ’ esecuzione del delitto, in cui la madre vive emozioni alternanti e complesse. Cruenta Maenas Ai vv. 849 - 851 della Medea di Seneca viene ripresa la celebre iunctura del prologo enniano amore saevo, e lo stato di furor dell ’ eroina colchica è direttamente associato a quello di una baccante: quonam cruenta maenas / praeceps amore saevo / rapitur? Nella stessa tragedia, la caratterizzazione dell ’ eroina come menade invasata è delineata in maniera chiara dalla nutrice ai vv. 382ss. (con i termini chiave entheos e maenas), ma anche dal coro più avanti (v. 862: huc fert pedes et illuc). La rappresentazione di Medea come donna cruenta e feroce, insieme alla sua origine straniera, fanno sì che l ’ eroina venga descritta come baccante in diversi testi letterari latini 82 : nelle Metamorfosi di Ovidio, 7, 257s. la maga, presa dal dio, è mostrata con i capelli scarmigliati tipici delle menadi (passis Medea capillis / bacchantum ritu); nel fr. 2 della Medea (feror huc illuc, vae plena deo) è evidenziato in maniera chiara il legame con il tema dell ’ invasamento bacchico, che viene sviluppato dal poeta anche altrove 83 . L ’ accostamento di Medea a una baccante è presente anche in Valerio Flacco, in particolare a 6, 756 e 8, 446s. Oltre al rapporto con i serpenti e alla provenienza orientale, un elemento che accomuna la figura di Medea a una menade è l ’ oreibasia: la valorizzazione letteraria di questa analogia potrebbe fornire un altro parallelo tra l ’ eroina colchica e la divinità di Angitia 84 e favorire l ’ ipotesi di una caratterizzazione ‘ bacchica ’ di Medea. Una prima traccia di questo interessante percorso letterario può forse essere individuata già nei tragici latini, in particolare nel fr. 15* attribuito alla Medea sive Argonautae di Accio, in cui lo smembramento del cadavere di Absirto può ricordare in filigrana lo sparagmós dionisiaco. 82 Alcune suggestioni nella direzione di un auspicabile sviluppo di questo tema, relativamente a diversi personaggi, si trovano in Gazich 2008. Complessa la questione (ora riassunta da Horsfall 2013, 627 - 629) relativa a plena deo e alla sua possibile ascendenza virgiliana (intesa come variante d ’ autore, poi scartata), suggerita dall ’ espressione Vergilianum ‘ plena deo ’ di Sen. suas. 3, 5: sembra condivisibile la ricostruzione di Berti 2007, 282 - 290, che considera l ’ espressione una parafrasi della rappresentazione della Sibilla nel sesto libro dell ’ Eneide, per la quale il retore sceglie una formula in uso nel gergo delle scuole di retorica che potrebbero averla derivata da Ovidio per il tramite del suo amico Gallione. In ogni caso, i debiti della Medea ovidiana verso la Sibilla virgiliana (indipendentemente dall ’ esistenza o meno della variante plena deo) dovevano essere presumibilmente ben riconoscibili. 83 Per esempio in epist. 12, 211. Su questo e altri passi e sul tema di Medea baccante si vedano Bessone 1997, 282 e soprattutto Gazich 2008, 693 - 697. 84 Su questo cfr. Falcone 2011, 96 n. 78. Introduzione 22 <?page no="35"?> Nota al testo Le questioni relative alla contestualizzazione dei frammenti e alla ricostruzione della trama, anticipate nell ’ introduzione, sono approfondite nel commento ai singoli testi. Sono fornite le concordanze con le principali edizioni critiche: per Ennio con Vahlen 1903 2 , con Jocelyn 1967 e Manuwald 2012 (TrRF); per Pacuvio con Ribbeck 1897 3 , D ’ Anna 1967 e Schierl 2006; per Accio con Ribbeck 1897 3 e Dangel 1995; a queste si aggiunge Schauer 2012 (TrRF) per i frammenti incerti. Al testo del frammento seguono l ’ indicazione del metro, la traduzione, il testo dei fontes, l ’ apparato critico. Sono sempre segnalati in apparato i casi in cui mi discosto dalle edizioni critiche precedenti; le ragioni sono discusse nel commento. La traduzione è da intendersi come primo orientamento esegetico: le scelte sono state finalizzate all ’ interpretazione del testo e vanno lette, pertanto, alla luce del commento. L ’ estensione del testo dei fontes è a volte più ampia rispetto alle edizioni dei frammenti tragici: segnalo, a titolo di esempio, la citazione di Cic. nat. deor. 2, 89, in cui sono riportati i primi tre frammenti della Medea di Accio, e da cui è possibile trarre importanti informazioni relative al contesto prologico del dramma. L ’ edizione critica di riferimento delle testimonianze è segnalata qui di seguito nel Conspectus editionum. Al fine di non appesantire la consultazione, si è scelto di riportare nell ’ apparato solo lezioni e proposte ritenute rilevanti e/ o discusse nel commento. Per la stessa ragione sono state tralasciate le varianti ortografiche, quali i nessi consonantici assimilati o dissimilati (Pac. fr. 9: attolat/ adtolat e attigat/ adtigat; Acc. fr. 7: immani/ inmani); le varianti grafiche come quum per cum (Enn. fr. 17; Acc. fr. 6); segni di lunga (ei per i lunga in numerosi frammenti 85 ); le desinenze normalizzate (come tristes per tristis, desinenza di accusativo plurale, Acc. fr. 6). In questi casi, si è scelta la lezione della maggior parte dei codici e degli editori. Per evitare confusione con le sigle dei codici, i nomi degli editori sono siglati in maniera più estesa (per esempio Ribbeck: Ribb. e non R.; Vahlen: Vahl. e non V.). Il commento presenta la seguente struttura: possibile contestualizzazione del frammento all ’ interno della trama del dramma; indicazioni sul testimone; questioni critico-testuali e metriche 86 ; confronto con il modello greco (ove presente); elementi linguistici e fonostilistici e analisi delle figure retoriche. 85 Questa abitudine è da notare soprattutto nei primi editori ed è costante, per esempio, nell ’ edizione enniana di Planck 1807. 86 Per quanto riguarda l ’ analisi metrica, si utilizzano le sigle e la terminologia adoperate da C. Questa, La metrica di Plauto e di Terenzio, Urbino 2007. 23 <?page no="36"?> Conspectus editionum Un (*) precede l ’ edizione critica di riferimento; le altre edizioni indicate sono state utilizzate per verifiche in casi particolarmente problematici. I fontes sono presentati in ordine alfabetico, sulla base delle indicazioni del Thesaurus linguae latinae, Index librorum scriptorum inscriptionum ex quibus exempla afferuntur, Lipsiae 1990 2 . Si rinvia alle prefazioni delle edizioni di riferimento per le indicazioni relative ai sigla dei codici. Aug. soliloq. Sancti Aureli Augustini Opera. Sect. I pars IV. Soliloquiorum libri duo, de inmortalitate animae, de quantitate animae. Recensuit W. Hörmann, Vindobonae 1986. Char. gramm. *Flavii Sosipatri Charisii Artis grammaticae Libri V. Edidit C. Barwick. Editio stereotypa correctior editionis prioris. Addenda et corrigenda collegit et adiecit F. Kühnert, Lipsiae 1964. Grammatici Latini ex recensione H. Keilii. Vol. I, Lipsiae 1857. Cic. Att. M. Tulli Ciceronis Epistulae ad Atticum libri I - VIII, edidit D. R. Shackleton Bailey, Stutgardiae 1987. Cic. Cael. M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 23. Orationes In P. Vatinium testem, Pro M. Caelio. Edidit T. Maslowski, Stutgardiae et Lipsiae 1995. Cic. de orat. M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 3. De oratore. Edidit K. F. Kumaniecki, Leipzig 1969. Cic. fat. M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 46. De divinatione. De fato. Timaeus. Ottonis Plasberg schedis usus recognovit W. Ax, Lipsiae 1938. Cic. fam. M. Tulli Ciceronis Epistulae ad familiares libri I - XVI, edidit D. R. Shackleton Bailey, Stutgardiae 1988. Cic. fin. *M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 43. De finibus bonorum et malorum. Recensuit C. Moreschini, Monachii et Lipsiae 2005. M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 43. De finibus bonorum et malorum. Recognovit Th. Schiche, Lipsiae 1915. 24 <?page no="37"?> Cic. inv. *M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 2. Rhetorici libri duo qui vocantur de inventione, recognovit E. Stroebel, Lipsiae 1915. Cicéron, De l ’ invention. Texte établi et traduit par G. Achard, Paris 1994. Cic. nat. deor. * M. Tulli Ciceronis Scripta quae manserunt omnia. Fasc. 45. De natura deorum. Post O. Plasberg edidit W. Ax, Lipsiae 1933. Cicéron, De natura deorum. 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Sulla base di questo dato di fatto e tenendo conto anche della difficoltà di individuare una precisa corrispondenza con Euripide per alcuni frammenti di Ennio (in particolare il fr. 14) e della vicinanza di uno dei versi a un frammento dell ’ Egeo di Euripide (fr. 7), parte della critica 87 ha presupposto l ’ esistenza di due distinti drammi enniani incentrati su due diverse fasi del mito. Il primo, con titolo Medea exul, sarebbe consistito in una traduzione della Medea di Euripide; il secondo, con titolo Medea, avrebbe costituito una rielaborazione dell ’ Egeo di Euripide, a noi pervenuto solo in frammenti, che sarebbe stato ambientato ad Atene (come dimostrerebbe la menzione della città nel fr. 14). Tuttavia, questa ipotesi non sembra essere sufficientemente motivata 88 , mentre appare al contrario più probabile pensare a un ’ unica tragedia 89 , sul modello della Medea di Euripide. Infatti, il titolo Medea exul ricorre tre volte in Nonio (due per il fr. 2; una per il fr. 6) e una in Probo (fr. 17); il semplice Medea è presente invece in tutti gli altri casi, e pertanto anche nelle due occorrenze in fontes più antichi (Cic. fin. 1, 4 per il fr. 1; Varro ling. 7, 9 per il fr. 14), e poi una volta in Donato e due in Prisciano per il fr. 1; cinque volte in Nonio per i frr. 4, 10, 14, 15 e 16. L ’ ipotesi di una Medea exul corinzia opposta a una Medea ateniese, dunque, non sembra essere confermata dallo stato della tradizione, soprattutto se si osserva la precisa corrispondenza con versi della Medea di Euripide di molti dei frammenti enniani trasmessi sotto il titolo Medea: è il caso del celeberrimo fr. 1 (traduzione pressoché letterale del prologo euripideo), ma anche del fr. 16 (la scena di Medea con i figli), per menzionare solo i casi più espliciti. Ancora meno probanti appaiono le osservazioni connesse con presunte difficoltà di contestualizzazione dei frr. 7 e 14 (al cui commento rinvio per un ’ analisi più ampia del problema). Nel primo caso, infatti, ci troviamo di fronte a un verso sentenzioso: il rinvio all ’ ipotesto dell ’ Egeo di Euripide è più che verisimile, ma si può anche pensare all ’ inserzione nel discorso di una sententia divenuta celebre grazie alla sua presenza in quella tragedia: proprio la natura 87 In particolare Elmsley 1822, 50s.; Welcker 1841, 1373 e 1376 - 1378; Ribbeck 1875, 157 - 159; Jocelyn 1967, 342 - 346; Lennartz 1994, 158; Boyle 2006, 71; Boyle 2014, lxix s.; per ulteriore documentazione cfr. Manuwald 2012, 187 e anche Manuwald 2015, 16s. 88 Come nota Nosarti 1999, 55, l ’ onus probandi spetta a chi ipotizza la presenza di due diversi drammi e le motivazioni addotte sembrano tuttora insufficienti. 89 L ’ ipotesi di una sola tragedia è della maggior parte degli studiosi a partire dallo Stephanus: Planck 1807, 67 - 73; Bergk 1844, 225; Pascal 1900, 46 - 49; Vahlen 1903 2 ; Skutsch 1905, 259; Drabkin 1937, 7 - 14; Arcellaschi 1990, 48 - 58; Nosarti 1999, 54s.; Lefèvre 2001, 40s. (= Lefèvre 2015, 127); Rosato 2005, 41 - 47. Ulteriore documentazione in Manuwald 2012, 187. 31 <?page no="44"?> proverbiale del dettato mette in guardia da considerazioni più generali. Nel secondo caso, la menzione di Atene è inserita in un contesto caratterizzato dalla presenza di tre verbi all ’ imperativo: l ’ intero frammento, dunque, potrebbe essere inteso come una versione ampliata, con inserzione di un excursus su Atene, dei vv. 723 - 730 del modello euripideo. Una contestualizzazione, dunque, non è impossibile nell ’ ambito della Medea corinzia, e anzi si potrebbero riconoscere anche in questo testo alcune modalità tipiche della tecnica traduttiva di Ennio, individuabili in diversi altri frammenti. Rimane il fatto che i titoli tràditi sono due 90 : probabilmente, l ’ attributo exul si è inserito a un certo momento nella tradizione, forse per marcare un elemento importante nel dramma (la caratterizzazione di Medea come ‘ profuga ’ ), oppure per distinguere la Medea enniana da altre elaborazioni, quali la Medea sive Argonautae di Accio, ambientata in Colchide, patria di Medea. Frammenti I frammenti trasmessi con indicazione certa del titolo del dramma (Medea o Medea exul) sono nove: 1, 2, 4, 6, 10, 14, 15, 16, 17. Sette altri (3, 5, 7, 9, 12, 13) sono trasmessi in diverse opere ciceroniane, tutti senza indicazione esplicita di autore e titolo dell ’ opera. Nella maggior parte dei casi, comunque, la lettura del contesto in cui è inserita la citazione, l ’ individuazione di una precisa corrispondenza con l ’ ipotesto euripideo, la menzione di un personaggio all ’ interno del frammento o della persona loquens nel contesto della citazione rendono pressoché certa l ’ attribuzione alla Medea exul. Due casi appaiono più problematici. Il primo è il fr. 8, trasmesso da Cicerone, che lo introduce con l ’ espressione illae minae e che sembra fare riferimento al tema dell ’ una dies concessa a Medea per organizzare la sua partenza e poi sfruttata per realizzare la sua vendetta: il frammento è accompagnato dalla citazione di altri frustuli, e l ’ attribuzione è discussa (per maggiore documentazione cfr. commento ad loc.). Il secondo, il fr. 11, è trasmesso in due luoghi da Carisio: in questo caso il confronto con Eur. Med. 475 - 482 e il tema trattato (il ricordo delle imprese compiute a favore di Giasone) rendono comunque verisimile l ’ attribuzione enniana. I frammenti sono presentati secondo un ordine che rispecchia la corrispondenza con il modello euripideo, dal momento che si ritiene che le modifiche apportate da Ennio all ’ ipotesto non interessassero tanto la struttura dell ’ opera, e che il poeta abbia piuttosto operato dall ’ interno, adattando il dramma al gusto e agli interessi del nuovo pubblico. In assenza di ulteriori elementi, questa non può che essere, come è ovvio, un ’ ipotesi di lavoro, e non si pretende di offrire che qualche spunto per una ricostruzione, sia pure ‘ frammentaria ’ , della drammaturgia enniana. 90 E la situazione appare leggermente diversa rispetto ai doppi titoli veri e propri, come Medea sive Argonautae di Accio (cfr. introduzione al dramma di Accio, p. 157). La Medea exul di Ennio 32 <?page no="45"?> Rapporto con Euripide La Medea enniana “ ricalca sostanzialmente la cronotopologia di quella euripidea ” 91 . Il lavoro della critica, interessata da sempre al problema dell ’ originalità della letteratura latina e al tema della ‘ traduzione artistica ’ , si è concentrato molto sul rapporto di Ennio con Euripide 92 e in particolare sugli effetti di Pathetisierung e di Romanisierung. Sulla base dei pure scarni frammenti pervenuti, si possono individuare alcuni elementi (politici, sociali e culturali) particolarmente cari al pubblico romano: il tema dell ’ esilio e delle difficoltà cui è esposto l ’ esule (fr. 12); quello dei rapporti con la patria e la famiglia (frr. 1; 5; 16); il tema delle relazioni sociali (frr. 2; 13); quello, molto attuale nella Roma repubblicana, dell ’ abilità retorica (fr. 9); quello del tiranno (fr. 8); il problema della sapientia (fr. 7). A queste tematiche sembra si possa aggiungere uno spiccato interesse religioso, che potrebbe essere ricondotto alla caratterizzazione di Medea come maga e alle sue analogie con alcune figure divine italiche 93 (frr. 15; 17). Svolgimento della trama e drammaturgia Il prologo (fr. 1) era affidato alla nutrice, che - sola sulla scena - malediceva la spedizione argonautica. Ad esso faceva seguito una scena dialogica tra la nutrice stessa e il pedagogo (frr. 2; 3 e quasi sicuramente 4). I frammenti 5 e 6 sembrano riconducibili a un dialogo di Medea con il coro, cui seguivano lo scontro con Creonte (frr. 7 e 8) e un nuovo dialogo con il coro (frr. 9 e 10). Dopo l ’ atteso confronto con Giasone (frr. 11; 12; 13), Medea rimaneva verisimilmente sola sulla scena, dove arrivava probabilmente Egeo: la presenza di questo personaggio sembra verisimile e confermata dall ’ interpretazione del fr. 14 come esortazione a Medea a raggiungerlo ad Atene, dove avrebbe trovato sicuro rifugio. Rivolgendosi ancora a Egeo, o rimasta ancora sola in scena, Medea invocava il Sole, suo avo (fr. 15). Non mancava una pateticissima scena con i bambini (fr. 16), con l ’ intervento del coro, che si augurava ancora che il delitto potesse ancora essere evitato (fr. 17). Sotto il profilo drammaturgico si possono notare alcuni elementi che denotano una sapiente combinazione di uso del modello e suo adattamento alla tecnica drammatica latina, a noi nota soprattutto grazie ai testi completi delle commedie. In particolare, notevole è la scelta - già euripidea - di affidare l ’ inizio del dramma a personaggi minori, quali la nutrice e il pedagogo. Possiamo avere ragione di credere che l ’ attesa intorno al personaggio di Medea fosse ulteriormente sotto- 91 Nosarti 1999, 54. 92 Particolarmente significativi in questo senso sono stati due lavori della seconda metà degli anni Trenta: Drabkin 1937, e soprattutto Röser 1939; a questi va aggiunto Dondoni 1958 e, sia pure non incentrato sul mito di Medea, Traina 1974, fondamentale sul piano metodologico. Cfr. anche Rosato 2005, che offre una sintesi critica delle posizioni avanzate dagli studiosi precedenti. 93 Cfr. introduzione generale, pp. 6 - 13. Introduzione 33 <?page no="46"?> lineata da Ennio, con un incremento della suspence: una traccia di questa ipotizzabile soluzione potrebbe essere costituita dal ritardo con cui è menzionato il nome della protagonista nel fr. 1 (al cui commento si rimanda). Il poeta doveva riservare, poi, una particolare attenzione al tema della macchinazione, con una Medea che - sotto il profilo drammaturgico - sembra presentare notevoli analogie con la figura del servus in commedia: sempre in scena dal suo ingresso in poi (almeno in base ai frammenti a noi pervenuti, salvo pensare a intermezzi corali), man mano che l ’ azione drammatica procede, elabora soluzioni diverse, inganna abilmente l ’ interlocutore, realizza il piano approfittando della situazione. Ennio adatterebbe, dunque, il modello euripideo alla drammaturgia romana utilizzando schemi analoghi a quelli comici, come, appunto, le scene di macchinazione. Sulla base dei frammenti a noi pervenuti, infine, è verisimile pensare che grande importanza drammaturgica avessero in questa tragedia gli scontri verbali tra due personaggi, con un progressivo incremento del pathos: un primo dialogo, in tono minore, interessava nutrice e pedagogo; un secondo dialogo, più significativo, vedeva come protagonisti Medea e Creonte (e l ’ abile Medea ne riusciva vincitrice); un terzo, decisivo scontro verbale era quello tra la protagonista e Giasone, seguito - come pare - da un dialogo con Egeo, dal quale forse Medea traeva lo spunto finale per l ’ elaborazione della sua vendetta. Sulla base di alcuni frammenti (fr. 17 e quasi certamente fr. 10), possiamo presupporre la presenza del coro, formato (così suggerisce il fr. 5) dalle donne di Corinto, come in Euripide. Il pathos doveva incrementarsi particolarmente nella scena dell ’ addio ai bambini. Per quanto riguarda lo spettacolo teatrale, si può ipotizzare che Medea entrasse in scena con le mani ‘ imbiancate con il gesso ’ nelle prime fasi del dramma (la questione, piuttosto complessa, è discussa nel commento al fr. 5). Dal momento che nella scena di più alto patetismo a noi pervenuta la protagonista stringe le mani dei figli prima dell ’ infanticidio (fr. 16), si può - in via del tutto ipotetica - pensare ad una valorizzazione di questa parte del corpo in funzione drammaturgica. Caratterizzazione dei personaggi Protagonista assoluta dello spettacolo è Medea: la si attende con suspence e viene descritta come in preda alla follia d ’ amore e come misera (frr. 1; 3). Si mostra poi abile retore in grado di piegare a suo favore l ’ interlocutore, rovesciando massime popolari (frr. 5; 7), facendo leva sulla comunanza di genere (fr. 6), salvo poi svelare i suoi intrighi e dare sfogo alla sua proverbiale ira (fr. 9). Si presenta anche come esule (fr. 12) e rinfaccia a Giasone le azioni commesse per lui (fr. 11). Una certa attenzione sembra essere riservata al suo legame privilegiato con il Sole (frr. 16 e 17). Lo spessore degli altri personaggi appare meno facilmente delineabile: Giasone sembra il portavoce di una mentalità tradizionale legata al concetto di matrimonio (fr. 13); il pedagogo, ma soprattutto la nutrice, sono legati a Medea da un rapporto non solo istituzionale ma anche personale piuttosto forte (frr. 1; 2); Creonte La Medea exul di Ennio 34 <?page no="47"?> potrebbe rientrare a pieno titolo nella tipologia del tiranno quale è elaborata nel dramma latino arcaico (fr. 8); le donne corinzie, che costituisono il coro, appaiono caratterizzate come delle matrone romane (fr. 5). Discussa, ma molto verosimile, è la presenza del personaggio di Egeo (fr. 14); certa è invece la comparsa dei bambini, che dovevano essere protagonisti di una scena fortemente patetica (fr. 16). Lingua, metro e stile Numerosi frammenti della Medea enniana sono citati in trattati di retorica. Pur rinviando al commento per un ’ analisi esaustiva dei fatti fonostilistici, linguistici e metrici, può essere utile menzionarne qualcuno. Notevole l ’ attenzione riservata all ’ ordo verborum, con parallelismi (fr. 11) e chiasmi (interessanti in particolare l ’ ultimo verso del fr. 9 e il fr. 16); a figure retoriche di posizione e di suono come hysteron proteron (fr. 11) e anafore (fr. 5); all ’ uso di giochi sinonimici o paretimologie (fr. 1), ma anche di allitterazioni (per esempio frr. 2; 7; 14), omeoteleuti (in particolare honoris/ amoris al fr. 13), omeoarti (fr. 4: aures aucupant), poliptoti (frr. 9; 10); alla scelta di strutture retoriche quali il cumulo di interrogative (fr. 12) o le sententiae (frr. 5; 6; 7; 9), con la funzione di incrementare il pathos o accrescere l ’ effetto di suspence. Sotto il profilo lessicale, ad un ’ attenzione alla precisione e alla concretezza (si pensi ad abies del fr. 1) si accompagna una certa predilezione per il linguaggio elevato e arcaizzante (si ricordi, almeno, la desinenza bisillabica -ai, più frequente nell ’ epica, al fr. 3), e, in particolare, per i termini appartenenti alla sfera sacrale (frr. 16; 17); il linguaggio religioso influenza anche gli aspetti strutturali e fonostilistici (basti ricordare l ’ abbondanza di tricola, per esempio ai frr. 5; 17). Sono riscontrabili inoltre alcuni interessanti elementi stilistici che sembrano essere stati mutuati dal genere epico: al fr. 1, per esempio, è di sapore epico la descrizione del tronco che cade a terra abbattuto dalle scuri. I metri utilizzati sono senari giambici e settenari trocaici, anapesti e metri lirici. Spesso la scelta di sostituire i trimetri del modello con cantica (frr. 5; 16), una risorsa prettamente teatrale sfruttata dai poeti latini nel loro lavoro di rielaborazione, contribuisce a incrementare il pathos della scena. Particolarmente proficua risulta l ’ analisi delle incisioni, che si combinano sapientemente con le figure di suono o valorizzano alcuni elementi rilevanti (basti qui citare gli esempi di errans al fr. 1 e di cernere/ parere al fr. 6). Introduzione 35 <?page no="48"?> Testo e commento Fr. 1 (= fr. I, 246 - 254 Vahl. 2 = fr. CIII, 208 - 216 Joc. = F 89 TrRF) ia 6 utinam ne in nemore Pelio securibus caesa accidisset abiegna ad terram trabes, neve inde navis inchoandi exordium coepisset, quae nunc nominatur nomine Argo, quia Argivi in ea delecti viri 5 vecti petebant pellem inauratam arietis Colchis, imperio regis Peliae, per dolum. Nam numquam era errans mea domo ecferret pedem Medea, animo aegro, amore saevo saucia. Oh, se nel bosco del Pelio quel tronco d ’ abete, tagliato dalle scuri, non fosse caduto a terra, e da qui non avesse avuto inizio la costruzione della nave, che ora ha il nome Argo, perché, su di essa, il fior fiore degli eroi argivi sottraeva con l ’ inganno ai Colchi la pelle d ’ oro dell ’ ariete, per ordine del re Pelia. Ché non avrebbe mai sollevato il piede da casa, raminga, la mia padrona Medea, dall ’ animo malato, ferita da un amore crudele (a) Rhet. Her. 2, 34: item vitiosa expositio quae nimium longe repetitur . . . hic id, quod extremum dictum est, satis fuit exponere, ne Ennium et ceteros poetas imitemur, quibus hoc modo loqui concessum est: utinam . . . saucia. nam hic satis erat dicere, si id modo quod satis esset curarent poetae: ‘ utinam ne era errans mea domo efferret pedem Medea animo aegro amore saevo saucia ’ . (b) Cic. inv. 1, 91: remotum est quod ultra quam satis est petitur . . . huiusmodi est illa quoque conquestio: utinam . . . trabes. longius enim repetita est quam res postulabat. (c) Cic. Cael. 18: . . . conduxit in Palatio non magno domum. quo loco possum dicere id quod vir clarissimus, M. Crassus, cum de adventu regis Ptolemei quereretur, paulo ante dixit: utinam . . . Pelio, ac longius mihi quidem contexere hoc carmen liceret: nam . . . errans, hanc molestiam nobis exhiberet Medea . . . saucia. sic enim, iudices, reperietis quod, cum ad id loci venero, ostendam, hanc Palatinam Medeam eamque migrationem huic adulescenti causam sive malorum omnium sive potius sermonum fuisse. (d) Cic. fin. 1, 4: in quibus hoc primum est in quo admirer, cur in gravissimis rebus non delectet eos sermo patrius, cum idem fabellas Latinas ad verbum e Graecis expressas non inviti legant. quis enim tam inimicus paene nomini Romano est, qui Enni Medeam aut Antiopam Pacuvi spernat aut reiciat, quod se isdem Euripidis fabulis delectari dicat, Latinas litteras oderit? . . . 5: an ‘ utinam . . . 36 <?page no="49"?> nemore ’ nihilo minus legimus quam hoc idem Graecum, quae autem de bene beateque vivendo a Platone disputata sunt, haec explicari non placebit Latine? (e) Cic. Tusc. 1, 45: qui ostium Ponti viderunt et eas angustias per quas penetravit ea quae est nominata Argo . . . arietis. (f) Cic. nat. deor. 3, 75: utinam igitur ut illa anus optat ne . . . trabes, sic istam calliditatem hominibus di ne dedissent. . . (g) Cic. fat. 34: itaque non sic causa intellegi debet ut quod cuique antecedat id ei causa sit sed quod cuique efficienter antecedat, nec quod in campum descenderim id fuisse causae cur pila luderem . . . ex hoc genere illud est Enni utinam . . . trabes. licuit vel altius: utinam ne in Pelio nata ulla umquam esset arbor. etiam supra: utinam ne esset mons Pelius. similiterque superiora repetentem regredi infinite licet. neve . . . cepisset. quorsum haec praeterita? quia sequitur illud: nam . . . saucia. (h) Cic. top. 61: hoc igitur sine quo non fit ab eo in quo certe fit diligenter est separandum. illud enim est tamquam utinam . . . Pelio. nisi enim accidissent abiegnae ad terram trabes, Argo illa facta non esset, nec tamen fuit in his trabibus efficiendi vis necessaria. at cum in Aiacis navim crispisulcans igneum fulmen iniectum est, inflammatur navis necessario. (i) Varro ling. 7, 33: sic dictum a quibusdam ut una canes, una trabes ‘ remis rostrata per altum ’ . Ennius: utinam . . . trabes. cuius verbi singularis casus rectus correptus ac facta trabs. (l) Quint. inst. 5, 10, 84: recte autem monemur causas non utique ab ultimo esse repetendas, ut Medea: utinam . . . Pelio. quasi vero id eam fecerit miseram aut nocentem, quod illic ceciderint abiegnae ad terram trabes. (m) Iulius Victor rhet. 12, 415, 24: vitiosum genus argumentationis . . . ut remotum, quod ulterius quam satis est petitur, ut: si in nemore Pelio non cecidissent trabes, hoc scelus factum non esset. (n) Donatus, Ter. Phorm. 157: utinam ne Phormio. vetus elocutio utinam, ut Ennius in Medea: utinam . . . trabes. (o) Hier. epist. 127, 5, 2: hanc multos post annos imitata est Sophronia et aliae, quibus rectissime illud Ennianum aptari potest: utinam . . . Pelio. (p) Prisc. GL II 320, 15: vetustissimi tamen etiam trabes pro trabs proferebant. Ennius in Medea: utinam . . . trabes. (q) Prisc. GL III 423, 35: nec solum comici huiuscemodi sunt usi iambis sed etiam tragici vetustissimi, ut Ennius in Medea: utinam . . . pedem. 2. caesa accidisset abiegna] caesae codd.(a)(b)(g)(h)(q) V(n) sectae rell. codd.(n) caesa K(p) cesa F(i) cessa GL(p) accidissent BP(a) H 3 (b) plerr. codd.(f) B 1 (g) AaV(h) -et r(p) saccidissent F(i) accedissent H(a) M(b) V(g) -et K(p) cecidissent P 2 CE(a) J(b) B 2 (f) A 2 B 2 (g) OjbcdLb(h) codd.(n)(q) -et h Coloniensis(p) concidissent S 2 i(b) abiegnae EBPCP 2 (a) P 3 in marg.(b) A(g) codd.(q) abiegna codd.(p) ad igne H(a) abigne P 1 (a) abiaegne V(g) || 3. inchoandi b(a) codd.(g) -ae CP 2 d(a) -a B(a) codd.(q) alii(a) aliter || 4. coepisset bdH 2 PC(a) AV(g) A(q) cepisset M(a) B p (g) V(q) caepisset Bl(a) || 5. quia Argivi in ea (in ea add. K c ) delecti (KV 2 B: dilecti GRV 1 ) viri recte tradidit (e)] Fr. 1 37 <?page no="50"?> qui (qua PB) Argivi in eadem lecti viri M(a) qua Argivi delecti viri E(a) qua vecti Argivi dilecti viri codd.(q) || 6. vecti petebant pellem] petebant illam pellem codd.(q) || 8. habent BC(a) codd.(g) (sed haec ferret A v V p ) nec non codd.(c)(usque ad errans) codd. (q) || 9. animo aegro codd.(c)(g) aegra H(c) Il frammento costituisce uno dei testi più celebri del teatro tragico latino repubblicano. Si tratta del prologo della tragedia di Ennio 94 , affidato alla nutrice, che traduce, con alcune importanti modifiche, i primi versi del dramma euripideo (Med. 1 - 8: Εἴθ᾽ ὤφελ᾽ Ἀργοῦς μὴ διαπτάσθαι σκάφος / Κόλχων ἐς αἶαν κυανέας Συμπληγάδας , / μηδ᾽ ἐν νάπαισι Πηλίου πεσεῖν ποτε / τμηθεῖσα πεύκη , μηδ᾽ ἐρετμῶσαι χέρας / ἀνδρῶν ἀριστέων οἳ τὸ πάγχρυσον δέρος / Πελίᾳ μετῆλθον . οὐ γὰρ ἂν δέσποιν᾽ ἐμὴ / Μήδεια πύργους γῆς ἔπλευσ᾽ Ἰωλκίας / ἔρωτι θυμὸν ἐκπλαγεῖσ᾽ Ἰάσονος ). Trasmesso da numerosi fontes, è stato molto imitato, integralmente o in singole iuncturae, in tutte le fasi della letteratura latina 95 , il che costituisce una conferma della sua posizione iniziale in ragione della frequenza di citazioni sulla base della memoria incipitaria 96 . Diverse le ragioni per le quali il testo viene citato: nella maggior parte dei casi si tratta di un esempio che illustra il vizio argomentativo per cui si va a scovare la causa troppo remota di un fatto (così in Rhet. Her.; Cic. inv.; Cic. fat.; Quint. inst.; Iulius Victor.); particolarmente interessante è il caso di Cic. fin., in cui il frammento è inserito nel celebre discorso sulle fabellae ad verbum e Graecis expressae; al tema della necessitas di un evento si riferisce sempre Cicerone invece in top., mentre in Tusc. la citazione (limitata al solo gioco etimologico dei vv. 5 - 6) è stimolata dalla menzione della celebre nave Argo; i casi di Cic. Cael. e nat. deor. servono rispettivamente per esemplificare proverbialmente la radice di ogni male 97 e il desiderio irrealizzabile di trovarsi in condizioni diverse (allo stesso scopo il frammento è citato da Girolamo). In tutti gli altri casi sono questioni linguistiche (sul valore singolare di trabes e sulla sua forma o sull ’ uso di utinam ne) o metriche (sull ’ uso dei versi giambici) a giustificare la citazione dei celebri versi di Ennio. Il testo presenta una serie di lezioni, sulle quali il lavorio della critica è stato unanimemente accolto e non sembra si debba discutere oltre. Alcune questioni meritano, invece, ancora qualche attenzione. Le testimonianze (i) e (p) non lasciano dubbi sulla necessità di scegliere una forma singolare per l ’ espressione caesa accidisset abiegna del v. 2, essendo il plurale un ’ evidente lectio facilior originatasi sulla base dell ’ uso più tardo di trabes; inoltre il singolare è confermato da πεύκη di Eur. Med. 4, nonché da alcuni loci 94 Non condivisibile, e rimasta giustamente isolata, l ’ ipotesi di Fraenkel 1932 (confutata da Monaco 1950) che anteponeva a questo i frammenti successivi sulla base dell ’ idea che il prologo fosse dialogico. 95 Impossibile dare conto in una nota della fortuna di questo testo a partire almeno da Catull. 64. Su questo vasta bibliografia; cfr. almeno Arkins 1982. 96 Cfr. anche Jocelyn 1969, 350 e Rosato 2005, 48. 97 Ma la questione è in questo caso piuttosto complessa: cfr. Austin 1960 ad loc. La Medea exul di Ennio 38 <?page no="51"?> posteriori (Ov. am. 2, 11, 2: Peliaco pinus vertice caesa e Phaedr. 4, 7, 6s.: utinam nec umquam Pelii in nemoris iugo / pinus bipenni concidisset Thessala, in particolare) 98 . Mentre sembra da escludere cecidisset (accolto solo dal Colonna 99 ), difficile rimane la scelta tra accedisset e accidisset, su cui gli editori rimangono divisi: con qualche dubbio, si sceglie qui di seguire Jocelyn 100 . Non c ’ è da dubitare della terminazione -i di inchoandi trasmessa da tutti i codici di (g) e pienamente giustificabile sul piano linguistico (si veda infra), mentre inchoandae, accolto dai primi editori e ancora da Ribbeck, sembra facilior. Non necessario nemmeno preferire cepisset a coepisset, trasmesso dalla maggior parte dei codici 101 . I vv. 5 - 6 sono ricostruiti sulla base dell ’ ottimo testo fornito da (e). Al v. 9 la iunctura preferibile sulla base dell ’ usus arcaico è animo aegro (cfr. Enn. scen. 392 Vahl. 2 = 335s. Joc.: animus aeger semper errat; Acc. vv. 71s. Ribb. 3 : ita territa membra animo aegroto / cunctant subferre laborem) 102 , e non animo aegra, pure testimoniato da parte della tradizione e utilizzato in alcuni dei testi successivi che imitano Ennio, nonché accolto - tra gli altri - da Ribbeck e Heurgon. È da aggiungere, poi, che le questioni di tradizione del testo relative a questo frammento (in particolare per quanto riguarda gli ultimi due versi) sono strettamente legate al fr. 10, per cui si veda infra 103 . Il frammento è in senari giambici, con incisioni semiquinarie, escluso il v. 9, in cui la semisettenaria isola da una parte i tre termini allitteranti in ‘ a ’ e dall ’ altra i due in ‘ s ’ , separando espressivamente il sintagma ‘ amore saevo ’ . Anche ai vv. 4 - 5 i giochi etimologici sono racchiusi all ’ interno dell ’ emistichio, mentre al v. 8 l ’ incisione accentua l ’ iperbato tra era e mea, enfatizzando l ’ allitterazione era errans. Vista la relativa lunghezza del frammento e la certezza del modello, la critica si è spesso cimentata nella valutazione della tecnica del vertere enniano in questo testo. La tematica è stata trattata in maniera approfondita, per cui mi soffermo qui solo su alcuni elementi 104 . La resa enniana dei versi euripidei si caratterizza (a) per 98 Cfr. Nosarti 1999, 56; sul passo di Fedro cfr. anche Pellucchi 2008. 99 Lo stesso Ribbeck, che pure aveva accolto cecidisset, si decide per accedisset a partire dalla seconda edizione. 100 Un problema analogo si trova al v. 88 Vahl. dell ’ Andromacha enniana: cfr. Vahlen 1903 2 , ad loc.; Drabkin 1937, 54s.; Heurgon 1958, 172; Nosarti 1999, 56 e n. 11. 101 Come nota Nosarti 1999, 58, in risposta all ’ obiezione di Jocelyn 1967, ad loc. secondo il quale exordium coepere avrebbe paralleli solo in epoca tarda, la iunctura è garantita dal confronto con Plaut. Cas. 651 (exordiri coepit) e Ter. Andr. 709 (narrationis incipit. . . initium); del resto, coepisset è difficilior. 102 Cfr. Vahlen 1903 2 , ad loc. 103 In particolare, questo secondo frammento è stato ritenuto da parte della critica come coincidente con gli ultimi versi del frammento prologico e le differenze sarebbero dovute a una citazione mnemonica. 104 Oltre alle note presenti nei primi (in particolare Colonna e Planck) e nei recenti editori, fondamentale Röser 1939; da ricordare almeno Grilli 1965; Desbordes 1979; Brooks 1981, Fr. 1 39 <?page no="52"?> alcune notevoli modificazioni, (b) per una serie di aggiunte e (c) per alcune significative censure rispetto al modello. (a) - Rinuncia allo hysteron proteron presente in Euripide, in cui la menzione del taglio del pino sul Pelio fa seguito a quella dell ’ impresa delle Simplegadi. Ciò è stato spiegato ora come un desiderio di maggiore precisione da parte di Ennio, ora come un ossequio alle teorie sulle cause e alle critiche che erano state mosse ad Euripide proprio per via di questa inversione, ora, infine, come uno degli elementi che servono a veicolare un messaggio diverso e una diversa focalizzazione interna della vicenda 105 . Una scelta pienamente consapevole e più rilevante rispetto alla rinuncia in blocco ai primi due versi (come vuole Lennartz) da parte di Ennio può essere confermata dal fatto che in altri luoghi Ennio mostra di non disdegnare affatto lo hysteron proteron e anzi di inserirlo laddove mancava nel modello: non mi sembra che sia stata finora evidenziata, per esempio, l ’ importanza in questo senso di un confronto con il fr. 11 (per cui si veda il commento ad loc.), che fornisce una pietra di paragone tanto più interessante in quanto riscontrabile proprio all ’ interno del medesimo dramma (per le questioni relative all ’ attribuzione del frammento si rimanda ancora al commento). - Sostituzione del pino euripideo 106 con l ’ abete. Anche in questo caso, piuttosto che giustificare la scelta sulla base dello stile si preferisce ritenerla del tutto funzionale alla veicolazione di un messaggio diverso e condividere dunque l ’ ipotesi che Ennio voglia qui caratterizzare l ’ impresa argonautica come una spedizione militare, essendo l ’ abete il legno utilizzato all ’ epoca per la costruzione delle navi da guerra 107 . (b) - Per dolum: l ’ aggiunta conferma la presentazione del viaggio degli Argonauti da parte della nutrice in modo assolutamente negativo. Sebbene si sia anche pensato che l ’ inganno potesse essere riferito agli ordini di Pelia (che 180s.; Lennartz 1994, passim; Nosarti 1999; Gullo 2011. Una sintesi con esaustiva rassegna bibliografica (fino al 2005) si trova in Rosato 2005, 49 - 66, cui si rimanda. 105 La prima ipotesi è avanzata da Terzaghi 1928, p. 181. Le critiche mosse a Euripide da Timachida sono testimoniate dallo scolio ad loc. (II 140, 10ss. Schwartz) e ricordate, a proposito della scelta enniana, già da Leo 1912, 98; Drabkin 1937, 23; Röser 1939, 5; a questa ipotesi si allineano Jocelyn 1967, ad loc., che rinvia anche alle teorie esposte da Cic. inv. 1, 29 sulla narratio lineare, e Lennartz 1994, 183s., che ha il difetto di assolutizzare le sue considerazioni. L ’ ultima ipotesi, proposta da Fantuzzi 1989, 126ss. è stata confermata poi con ulteriori considerazioni da Aricò 1998, 84; Nosarti 1999, 60 - 63. 106 Mantenuto, poi, nella tradizione latina successiva ad Ennio: cfr. in proposito Rosato 2005, 53s. 107 La giustificazione stilistica è stata proposta da Röser 1939, 8s., ma proprio i brani proposti dallo studioso a sostegno della sua ipotesi (ann. 175 - 179 Sk. = 187 - 191 Vahl. 2 e scen. 151 - 155 Vahl. 2 ) sembrano suggerire una conoscenza precisa da parte del poeta dei diversi tipi di piante. La seconda ipotesi, perfettamente in linea con le altre considerazioni sulla focalizzazione interna dei versi pronunciati dalla nutrice, è stata avanzata da Jocelyn 1967, ad loc.; Nosarti 1999, 56; Biondi 1980, 129 - 131; Galasso - Montana 2004, 264, ed è rifiutata da Gullo 2011, 147s. che pensa a una probabile scelta legata al valore traslato di ‘ abete ’ non attestato anche per ‘ pino ’ nel greco, valore che sarebbe stato trasferito volontariamente in latino da Ennio (ipotesi già esposta da Golzio 1979, 181 - 183 e note 25 e 29). La Medea exul di Ennio 40 <?page no="53"?> apparirebbe dunque come figura negativa di un tiranno), questa interpretazione sembra sminuire la portata dello scarto enniano rispetto al modello: si ritiene dunque più probabile l ’ interpretazione (e la conseguente interpunzione del testo) di per dolum come legato a petebant (imperfetto durativo), con l ’ espressione cioè di un evidente giudizio di merito da parte della nutrice a favore della padrona: i Greci, privi di metis, avrebbero compiuto un ’ impresa grazie alla metis di una Medea ingannata 108 . - Paretimologia di Argo ai vv. 4 - 5. L ’ etimologia scelta non è nessuna di quelle comuni (che riconducevano il nome ora alla città di Argo ora all ’ aggettivo ἀργός ora al nome del costruttore) 109 , bensì è una versione piuttosto rara, attestata in uno scolio all ’ Odissea (Od. 12, 70 = I, 535 Dind.) 110 . La scelta, favorita anche dal valore generale di ‘ greci ’ che aveva all ’ epoca il termine Argivi, è ancora una volta in linea con la focalizzazione del frammento, in cui la vicenda viene lasciata su un piano esclusivamente umano 111 ; la sua presentazione, poi, che sembra avere un andamento prosastico, risulta interessante per la concatenazione sintattica che stabilisce: nella subordinata di secondo grado introdotta da quia, infatti, la nutrice continua l ’ esposizione cronologica degli eventi, e dunque la relativa dei vv. 4 - 5 non rimane isolata, e la menzione dell ’ etimologia di Argo viene sfruttata per portare avanti la narrazione 112 . - Errans (v. 8): un ’ aggiunta sinora poco valorizzata dalla critica 113 , la cui importanza è sottolineata dalla sua posizione all ’ interno del verso: il termine, infatti, chiude enfaticamente l ’ emistichio, inserendosi a cavallo dell ’ incisione all ’ interno del sintagma era mea (termini che trovano entrambi, invece, esatta corrispondenza nell ’ originale euripideo; soprattutto era risulta interessante in bocca alla nutrice, cfr. le considerazioni relative al nesso erilis corporis nel commento al fr. 2). Errare, che ha ambiguo valore fisico e morale 114 , suggerisce il tema dell ’ erotomania di Medea nonché quello del suo esilio, sicuramente 108 Alla prima ipotesi pensava già Colonna ad loc., seguito in ultimo da Lennartz 1994, 185; ad una costruzione volutamente ambigua pensa Desbordes 1979, 57, cui pare conformarsi Rosato 2005, 56. Sulla seconda ipotesi, accolta dalla maggior parte degli editori, si veda Nosarti 1999, 58 - 60, cui si devono le considerazioni sulla forte carica polemica dell ’ espressione per dolum; una sfumatura ostile di petebant è affermata da Gullo 2011, 136s. 109 Per la prima etimologia cfr. Etym. m. 136, 31 G.; per la seconda Hes. theog. 998; Varro Men. 15 Ast.; Varro At. fr. 2 Bl. 2 Si vedano ancora Roscher e RE, s. v. ‘ Argos ’ . 110 ᾽Αργὼ ] ἡ ἀργὴ κατ’ἀντίφρασιν . ἢ ὅτι τοὺς ᾽Αργείους εἶχε . Cfr. Leo 1912 2 , 98; Traina 1986, 133; Fantuzzi 1989, 120; Nosarti 1999, 59; Gullo 2011, 149. 111 Cfr. anche Galasso - Montana 2004, 264. 112 Nella strutturazione del periodo “ läßt sich aber gleichzeitig die geschickte Hand des E. erkennen ” , notava già Röser 1939, 6. L ’ ipotassi sarebbe influenzata dall ’ esegesi a Euripide secondo Bitto 2013, 227s. 113 Qualche osservazione in proposito solo in Traina 1974, 49 n. 1 e Nosarti 1999, 60 n. 22; gli altri commentatori si limitano a notare l ’ allitterazione era errans. 114 Come nota già Traina 1974, ibidem. Fr. 1 41 <?page no="54"?> importante nel dramma enniano (come vedremo nel corso del commento, per esempio al fr. 5) 115 . (c) - La “ censura delle Simplegadi ” 116 : il taglio va inteso come una scelta pienamente consapevole da parte di Ennio, con lo scopo di oscurare, passandola sotto silenzio, l ’ unica impresa che gli Argonauti hanno compiuto senza l ’ aiuto di Medea 117 . - L ’ assenza del nome di Giasone nell ’ ultimo verso 118 : si tratta di un caso di Pathetisierung, che contribuisce alla focalizzazione esclusiva sul personaggio di Medea, caratterizzata già da subito come in preda a mania erotica, come malata e ferita, ingannata e abbandonata. Alcune note di dettaglio: il termine nemus (v. 1, in nemore Pelio) ricorre spesso in contesti sacrali, ed è da intendersi come singolare poetico 119 : la scelta di un vocabolo proprio della sfera sacrale potrebbe contribuire a disegnare l ’ impresa della costruzione della nave già di per sé come empia. Nell ’ espressione navis inchoandi exordium (v. 3) navis va inteso come soggetto al nominativo (piuttosto che come genitivo legato a incohandae di parte della tradizione). In questo modo si evita il passaggio dal concreto all ’ astratto (exordium), mentre il gerundio può essere inteso con senso passivo ( ‘ d ’ essere costruita ’ , ‘ della costruzione ’ ) 120 : con questo espediente stilistico Ennio può fare un rapido riferimento alla solennità connessa con la nave Argo, senza soffermarvisi (il tema è topico, cfr. considerazioni relative al fr. 6 della Medea di Accio). Un ulteriore elemento di concretezza è dato dall ’ immagine sottesa a securibus caesa, cioè quella del tronco tagliato dalle scuri che cade a terra, e che sembra consona ad un linguaggio epico (cfr. per esempio ann. 175 Sk. = 187 Vahl. 2 : incedunt arbusta per alta, securibus caedunt): del resto le intersezioni tra stile epico e tragico, che costituiscono un tema di rilievo già per la tragedia greca (si pensi alla struttura formale e linguistica delle rheseis, per esempio), promettono risultati interessanti soprattutto per un autore come Ennio, che si dedicò ad entrambi i generi. Tra le espressioni sovrabbondanti e pleonastiche 121 che in questi versi descrivono l ’ inizio della costruzione di Argo sembra particolarmente significativa la scelta di termini 115 Da segnalare anche le aggiunte ad terram (v. 2) e arietis (v. 6), meno rilevanti però sul piano del senso. 116 La fortunata espressione costituisce il titolo dell ’ importante contributo di Fantuzzi 1989, ripreso da Gullo 2011, 143 - 145. 117 “ Tacerla del tutto è molto di più che metterla sotto cattiva luce ” , nota Nosarti 1999, 62. In effetti il cosiddetto nefas argonautico assume rilevanza solo con Seneca (in particolare Med. 301 - 379), non ancora con Ennio: cfr. Desbordes 1979, 81; Biondi 1984, 204 ss.; Fantuzzi 1989, 128; Nosarti 1999, 62 n. 27. 118 Cfr. Drabkin 1937, 25; Aricò 1998, 84. 119 Cfr. già Jocelyn 1967, ad loc.; Galasso - Montana 2004, 264. 120 L ’ esegesi, proposta da Cassata Contin 1967, è accolta da Calboli 1993 e confermata da Nosarti 1999, 57. 121 Per qualche altro esempio di tautologia in Ennio cfr. Drabkin 1937, 59s. Si veda anche Nosarti 1999, 56s. La Medea exul di Ennio 42 <?page no="55"?> come incohare (raro in tragedia e appartenente alla sfera sacrale: cfr. Serv. ad Aen. 6, 252: est verbum sacrorum) 122 e di un nesso del linguaggio alto come exordium coepisset. Nunc nominatur nomine (v. 4) è figura etimologica e allitterante appartenente al linguaggio giuridico 123 . In delecti viri / vecti (vv. 5 - 6) è da segnalare rima e allitterazione a ponte in enjambement. Con pellem inauratam arietis (v. 6) si fa riferimento al vello d ’ oro. L ’ aggettivo è piuttosto raro (ricorre, con il valore opposto di non aurata, in Titin. com. 1 Ribb. 3 : inauratae atque inlautae mulieris; torna poi in Catull. 81, 4 in riferimento alle statuae inauratae) e potrebbe essere stato ispirato a Ennio da uno scolio a Eur. Med. 5 (II p. 142 Schw. cod. B: . . . τοῦτο (scil. τὸ δέρας ) οἱ μὲν ὁλόχρυσον εἶναί φασιν , οἱ δὲ πορφυροῦν . . .): ad ogni modo, il termine ricorre più frequentemente in contesti legati all ’ arte scultorea 124 . L ’ allitterazione nam numquam (v. 8) sottolinea il focus su Medea, e pone l ’ attenzione sul sacrificio affrontato dalla protagonista abbandonando la casa paterna (l ’ espressione domo efferret pedem è di grande efficacia espressiva): il tema della rinuncia per amore alle convenzioni sociali e alla propria patria è uno dei fulcri attorno a cui doveva ruotare il dramma enniano (cfr. le accuse di Giasone al fr. 13 e il commento ad loc., nonché gli insistenti riferimenti alla patria: frr. 5; 10; 12 e commenti ad locc.). Del resto, l ’ abbandono della casa paterna, tema presente in Apollonio Rodio più che in Euripide, doveva essere di grande interesse per i Romani, se Pacuvio e Accio sceglieranno di tornare ‘ a casa di Medea ’ rispettivamente dopo e prima delle vicende rappresentate da Ennio 125 , e costituirà uno dei motivi principali del dramma di Seneca nonché dell ’ epos di Valerio Flacco. v. 9: da notare l ’ intersezione di allitterazione trimembre e bimembre a cavallo dei sintagmi animo aegro / amore saevo / saucia, abbinata al gioco delle incisioni (su cui cfr. supra), e la posizione enfatica del nome proprio di Medea. Dell ’ esclusione del nome di Giasone si è già detto: la presenza esclusiva del nome della protagonista, e l ’ attesa della sua menzione aprono una finestra di indagine interessante sulla funzione dei nomi propri nei prologhi 126 , e di quello di Medea in particolare, tenendo conto della funzione che esso svolgerà poi in Ovidio, ma soprattutto nella tragedia senecana, dove, come è noto, diventa il simbolo del superamento di sé nel male. Il verso, in cui animo aegro può essere inteso come ablativo di qualità (come in Accio, vv. 71s. Ribb. 3 , vd. supra) oppure come dipendente da errans (sulla base del confronto con Enn. scen. 392 Vahl. 2 = 335s. 122 Cfr. Jocelyn 1967, ad loc. 123 Un elenco delle allitterazioni presenti nella Medea di Ennio si trova in Drabkin 1937, pp. 55s. 124 Per il passo catulliano cfr. Ellis 1876 ad loc., che rinvia anche a Cic. Verr. 2, 46, 114; Pis. 11, 25, cui si possono aggiungere Liv. 40, 34; Amm. Marc. 14, 8, 8. Per il riferimento allo scolio euripideo cfr. Grilli 1965, 189; Nosarti 1999, 58. 125 Cfr. per es. Cowan 2010. 126 Sono noti studi di questo genere a proposito della commedia, cfr. per esempio Traina 1986 e Petrone 2009, 13 - 41 e bibliografia ivi citata. Fr. 1 43 <?page no="56"?> Joc., vd. supra; questa soluzione, tuttavia, sembra meno probabile, se si pensa a Eur. Med. 432: μαινομένᾳ κραδίᾳ ), è stato più volte imitato 127 . Per esempio, del saevus amor di Medea si ricorderà Virgilio in ecl. 8, 47s. (saevus amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus), in cui ricorre anche il tema delle mani macchiate di sangue (si vedano i frr. 5 e 16 con relativi commenti). Una Medea abbandonata, dunque, la cui nutrice dà l ’ avvio al dramma utilizzando delle espressioni (utinam ne e saevus amor) che non a caso godranno di molta fortuna in campo elegiaco. Fr. 2 (= fr. II, 255 - 256 Vahl. 2 = fr. CXI, 237 - 238 Joc. = F 96 TrRF) ia 6 antiqua erilis fida custos corporis, quid sic te extra aedis exanimata eliminas? antica custode fidata della persona della padrona, perché ti sei precipitata sconvolta, in questo modo, fuori di casa? Non. 38 M (= 56 L): eliminare , extra limen eicere. Pacuvius Duloreste (134) . . . Pomponius Concha (33) . . . Ennius Medea Exule (214) antiqua . . . eliminas? Accius Meleagro: . . . Non. 292 M (= 452 L): eliminari est exire. Ennius Medea Exule (214) antiqua . . . eliminas? Accius Phoenissis (592) . . . idem Meleagro (448) . . . Varro Serrano, περὶ ἀρχαιρεσιῶν (459) . . . 1. erilis codd. Non. 38 plerr. edd. herilis ms. Fabri Stephanus edilis (ae-) codd. Non. 292 | corporis B A poris L 1 Non. 38 || 2. sic te Mercerius plerr. edd. sit codd. utrobique sic B Non. 292 | exanimata Paris. 7577 Non. 38 plerr. edd. examinata codd. utrobique om. B Non. 292 exanimatam Joc. exanima te Lennartz | eliminas ms. Fabri Non. 292, 20 plerr. edd. elimina codd. Non. 38 -at codd. Non. 292 Joc. eliminans Lennartz Il frammento, come il suo modello euripideo (Med. 49 - 51: παλαιὸν οἴκων κτῆμα δεσποίνης ἐμῆς , / τί πρὸς πύλαισι τήνδ’ ἄγουσ’ ἐρημίαν / ἕστηκας , αὐτὴ θρεομένη σαυτῇ κακά ), doveva far parte del prologo ed essere pronunciato dal pedagogo dopo il monologo iniziale della nutrice. È questa l ’ opinione della maggior parte degli editori e commentatori a partire da Stephanus 128 . Diversamente intendono Maas e Fraenkel 129 : il primo, concentrandosi sul valore di exanimata, attribuisce il frammento al contesto della catastrofe, mentre il secondo, non considerando il presente eliminas un resultativo, ritiene che Ennio abbia scelto un prologo dialogico, e sposta di conseguenza più avanti il fr. 1. Le due ipotesi non sembrano condivisibili: il termine exanimata può trovare un corrispettivo negli scolii 127 Cfr. per es. Apul. Met. 4, 32, 4: Psyche aegra corporis, animi saucia. 128 Si veda per esempio Ribbeck 1875, p. 150. 129 Cfr. Maas 1932 e Fraenkel 1932. La Medea exul di Ennio 44 <?page no="57"?> euripidei relativi al prologo ed è comunque perfettamente in linea con lo stile drammaturgico dei poeti latini di età repubblicana (vd. infra); inoltre, anche senza tenere conto del valore resultativo di eliminas, la fortuna di cui godette il fr. 1 sembra - come già sottolineato - più spiegabile pensando a un testo incipitario. La collocazione, peraltro, è confermata anche dal rapporto così stretto con Euripide. Nonio cita due volte i versi, sempre in relazione al verbo eliminare. Il frammento è attribuito a Ennio, ed è riportato anche il titolo dell ’ opera, che ricorre nella forma Medea exule 130 . Al v. 1 la lezione erilis sembra preferibile alla variante grafica herilis e al deteriore edilis sia sulla base del confronto con δεσποίνης ἐμῆς del v. 49 della Medea di Euripide (proposto già dai primi commentatori come modello di questi versi enniani) sia per la presenza significativa di questo aggettivo in Plauto (particolarmente interessante Asin. 655, custos erilis, già presente nei commenti di Colonna e Planck). Al v. 2 i codici riportano sit extra aedis examinata elimina (Non. 38 M) o eliminat (Non. 292 M). Sit, che evidentemente non dà senso, è stato corretto da Mercerius in sic te, mentre sic era preferito dai primi editori, nonché da Osann, Bothe e più recentemente da Lennartz. Te è necessario perché il verbo eliminare è qui usato con valore transitivo-riflessivo. Aedis è la forma tràdita e pare non si debba dubitarne, tanto più che compare, sempre connessa con il verbo eliminare, anche nel verso di Pomponio (com. 33 Ribb. 3 : vos istic manete: eliminabo extra aedis coniugem) trasmesso nei medesimi due contesti noniani. La sezione più problematica del verso è quella finale. Exanimata è la soluzione preferita da tutti gli editori a partire da Mercerius e ad esclusione di Jocelyn, che propone exanimatam concordato con te (e non con custos), conseguentemente alla sua scelta eliminat (su cui vd. infra) 131 . Paleograficamente forse più economica, la soluzione di Lennartz (1994, 208 n. 109), che corregge la lezione tràdita in exanima te (il che implica naturalmente la scelta del solo sic per sit), non è tuttavia accettabile: le occorrenze di exanimus nei testi di età repubblicana sono soltanto due (Pac. 233 Ribb. 3 e Acc. 596 Ribb. 3 , quest ’ ultima riportata da Lennartz nella sua argomentazione, e tra l ’ altro con problemi di tradizione proprio riguardo al termine exanimum), e del resto lo stesso Lennartz mostra una certa prudenza. Eliminas è la soluzione scelta dalla maggior parte degli editori ad eccezione di Jocelyn, che preferisce eliminat (di cui il quid iniziale sarebbe soggetto), e Lennartz, che propone invece il participio eliminans. La soluzione di Jocelyn sembra poco convincente sia perché implica un uso di quid come soggetto di un verbo transitivo altrove attestato solo una volta in testi di questo periodo (Ter. Eun. 162), sia perché la forma eliminat potrebbe essere stata influenzata dalla pericope precedente 130 Più precisamente, il titolo ricorre correttamente in tutti i codici di Non. 292 (tranne B: mede) e in H 2 PG 2 E di Non. 38 (G 1 mede; L 2 metea, FH 1 L 1 et ea). 131 Proposta ora ripresa da Manuwald 2012, 212s. e dubitanter in apparato da Mazzacane 2014 ad Non. 38 M. Fr. 2 45 <?page no="58"?> examinata 132 . Più complesso il discorso relativo al participio eliminans: le ragioni addotte da Lennartz contro l ’ uso enniano del presente resultativo non sembrano del tutto convincenti anche se affascina l ’ idea di una corrispondenza sintattica con il greco ἄγουσα 133 . Il primo verso presenta un ’ incisione semiquinaria, che rimarca l ’ iperbato erilis corporis (entrambi in fine di emistichio), abbinata ad un ’ incisione secondaria semisettenaria che interviene sull ’ unità sintagmatica fida custos mettendo in rilievo il concetto più importante, cioè fida ( ‘ la fedele ’ ) 134 . Ennio traduce il modello euripideo abbastanza fedelmente, modificando però il senso mediante l ’ inserimento di una più forte sottolineatura del rapporto tra schiava e padrona, che rispecchia l ’ interesse romano per la familia 135 , evidente nelle scelte lessicali e fonostilistiche operate dal poeta. Il primo verso, antiqua erilis fida custos corporis, è caratterizzato da una sequenza di tre aggettivi (il secondo dei quali è legato in forte iperbato al nome cui si riferisce) seguiti da due sostantivi allitteranti (custos, corporis) 136 . Antiqua corrisponde al παλαιόν euripideo e ha in questo contesto un valore positivo e onorifico 137 . Erilis, riferito a corporis (con un valore di corpus per indicare la persona identico a quello dell ’ attico δέμας ), è un aggettivo (qui usato al posto del genitivo erae), utilizzato sia in commedia (ricorre 11 volte in Plauto, con custos in Asin. 655) sia in tragedia per lo più riferito a persone (filius, filia, concubina, amica), ma anche ad astratti (metus in particolare) in contesti patetici 138 , e si trova solo qui con corpus; significativa anche la sua posizione nel verso: l ’ aggettivo, che denota la relazione sociale, è infatti incastonato tra gli altri due che denotano invece quella interpersonale, sottolineando così un rapporto di fedeltà che dura da molto tempo. Fida non è abitualmente utilizzato per gli schiavi (in riferimento ai quali il latino generalmente preferisce fidelis, cfr. Serv. auct. Aen. 1, 113: quidam velint fidum amicum, fidelem servum dici), ma è epiteto comune per custos. La sua 132 Come notano Lennartz 1994, 208 e Rosato 2005, 68. 133 Lennartz 1994, 209s., confutato già da Rosato 2005, 71 ss. 134 Ma si vedano le considerazioni di Questa 2007, 334 sull ’ importanza della performance attoriale in casi di questo tipo. 135 Röser 1939, 11. 136 Sulla funzione dell ’ allitterazione in clausola come sottolineatura dello spirito diverso del frammento enniano, in cui si parla di padrona e custode vigile piuttosto che di possesso materiale, cfr. Grilli 1965, 207. Ad una più generica funzione di Pathetisierung pensava già Röser 1939, 10. 137 Cfr. ThlL s. v., col. 179, 24 ss. e Jocelyn 1967, 377 138 Si veda per il significato ThlL s. v., col. 786, 28 ss.; per l ’ uso dell ’ aggettivo al posto del genitivo di nomi comuni cfr. Wackernagel 1924, pp. 71 - 72 (= Wackernagel 2009, 488); Hofmann - Szantyr 2002, 60s.; Hofmann 2003, 326 - 328 e con nomi propri Austin 1964, ad Aen. 2, 543; per l ’ uso poetico in contesti elevati Löfstedt 1933, pp. 91 ss. con integrazioni e correzioni di Haffter 1934, 121s., n. 6. Sugli astratti in tragedia cfr. Traina 1991. La Medea exul di Ennio 46 <?page no="59"?> presenza, intesa ora come elemento del tutto innovativo rispetto al modello ora come semplice sviluppo di connotazioni già presenti nel greco παλαιόν 139 , costituisce un tratto di romanizzazione dal momento che fa riferimento a quel concetto di fides che era alla base dei rapporti non solo tra servi e padroni ma in generale tra uomini di ogni grado sociale 140 . Non si esclude tuttavia la possibilità che il nesso possa essere stato suggerito al poeta dal confronto con il greco, in cui pure è attestato: si veda per esempio Xen. Mem. 2, 1, 32 ( πιστὴ φύλαξ : il contesto è il discorso della Virtù, che si paragona alla fedele custode delle case dei padroni, nell ’ apologo di Eracle al bivio). Particolarmente interessante (e variamente interpretata) la scelta di utilizzare custos a proposito della nutrice: per Jocelyn e Vogt - Spira (2000, 271) l ’ uso di custos invece che di ancilla sarebbe dovuto al particolare statuto di Medea, che anche sotto questo profilo non veniva accostata ad una matrona; Lennartz, invece, basandosi sul confronto con i vv. 21s. Ribb. 3 di Nevio (vos, qui regalis corporis custodias / agitatis), attribuisce al termine un valore militare e considera deludente rispetto al modello l ’ immagine scelta da Ennio 141 . In realtà, lo spettro semantico del termine custos è talmente ampio che non sembra necessario ricorrere a questo tipo di immagine sulla spinta del parallelo neviano, ma è preferibile attribuire ad esso un valore neutro 142 , come per esempio in Plaut. Truc. 812: tu bona ei (scil. erae) custos fuisti. Forse non necessario in questo caso ricorrere agli scolii, come proposto da Bitto (2013, 228), che pensa all ’ influenza di Schol. Eur. Med. 49, in cui è presente l ’ espressione παλαιὰ θεράπαινα . Infine, non si esclude una possibile allusione del poeta allo statuto divino (o quanto meno regale) di Medea, dal momento che molto numerosi sono i passi in cui custos è riferito a dei 143 (il nesso custos corporis ritornerà in Paul. Nol. carm. 24, 719 e Hymni Christ. 58, 10). Ν el secondo verso, anche questo caratterizzato da nessi allitteranti (extra. . . exanimata eliminas) 144 , quid corrisponde esattamente al τί del modello greco, e ha il normale valore di cur. Diversamente, come già accennato, Jocelyn lo interpreta come soggetto di eliminat: il costrutto è tuttavia molto raro. Il participio exanimata ricorre molto spesso in ambito teatrale repubblicano soprattutto comico (dieci volte in Plauto e otto in Terenzio), quasi sempre in contesti di timore e paura ed è spesso legato a verbi che indicano fuga o movimenti impulsivi 145 , quasi come 139 Per la prima ipotesi cfr. Gualandri 1965, 400 e Lennartz 1994, 202s. Lo studioso non esclude la possibile rielaborazione enniana di un verso euripideo che poteva aver trovato nel materiale esegetico a sua disposizione (Eur. Hipp. 267, in cui la nutrice è detta πιστή ). Per la seconda ipotesi cfr. Galasso - Montana 2004, 266. 140 Cfr. Citti - Mactoux 1989, in part. 28. Ad un senso di maggiore umanità pensano numerosi critici: cfr. Drabkin 1937, 26; Galasso - Montana 2004, 266. 141 Rispettivamente Jocelyn 1967, 377 e Lennartz 1994, 202, seguito da Rosato 2005, 72. 142 Per cui cfr. ThlL s. v., col. 1576, 3 ss. 143 Per cui cfr. ThlL s. v., col. 1576, 72 ss. 144 Cfr. Traglia 1986, 325 n. 150. 145 È il caso di Plaut. Asin. 265; Aul. 208; Casin. 630 e Ter. Hec. 364; Phorm. 731. Fr. 2 47 <?page no="60"?> segnale scenico dell ’ ingresso di un personaggio. Proprio la presenza di questa spia linguistica che sembra segnalare una precisa struttura drammaturgica della scena, in cui viene descritto l ’ arrivo rapido di un personaggio sconvolto, può costituire un ulteriore elemento a favore della lezione exanimata eliminas scelta per altre ragioni dalla maggior parte degli editori. Rimangono valide e interessanti le osservazioni di Lennartz (su intuizione già di Fraenkel) 146 sul possibile parallelo greco di exanimata (considerato una novità introdotta da Ennio rispetto al modello da Drabkin 147 ), da trovare non tanto nelle parole αὐτὴ θρεομένη σαυτῇ , come pensava lo Stephanus (e, tra gli altri, Coppola e recentemente Jocelyn), quanto in uno scolio euripideo (Schol. Eur. Med. 56: πέπληγμαι τὴν ψυχήν ). Il verbo eliminare, che etimologicamente è connesso con limen, ha in questo frammento valore transitivo riflessivo 148 . Il verbo di movimento è accompagnato da extra, preposizione con l ’ accusativo che indica il movimento di uscita da un ambiente chiuso 149 . Eliminas va inteso come presente logico o resultativo 150 e così corrisponderebbe al perfetto ἕστηκας del modello, e il presente indicativo contribuirebbe a incrementarne il pathos 151 . Fr. 3 (= fr. III, 257 - 258 Vahl. 2 = fr. CVI, 222 - 223 Joc. = F 91 TrRF) ia 6 cupido cepit miseram nunc me proloqui caelo atque terrae Medeai miserias. ora mi ha presa, me sventurata, una voglia di urlare a cielo e terra le sventure di Medea Cic. Tusc. 3, 63: sunt autem alii, quos in luctu cum ipsa solitudine loqui saepe delectat, ut illa apud Ennium nutrix: cupido . . . miserias. 1. miseram plerr. codd. miseriam G | proloqui codd. prosequi Scriverius in marg. prosequier Planck || 2. Medeai Erasmus Medeae codd. caelo atque terrae Medeae miseras vices Camerarius Medeae caelo atque terrae miserias Manucius Il frammento, come il suo modello euripideo (Med. 56 - 58: ἐγὼ γὰρ ἐς τοῦτ’ ἐκβέβηκ’ ἀλγηδόνος , / ὥσθ’ ἵμερός μ’ ὑπῆλθε γῇ τε κοὐρανῷ / λέξαι μολούσῃ δεῦρο δεσποίνης τύχας ), faceva parte del prologo, ed era pronunciato dalla nutrice, 146 Cfr. rispettivamente Lennartz 1994, 203s. e Fraenkel 1932, 355. 147 Drabkin 1937, 26. 148 Sul valore di eliminare con l ’ analisi del contesto noniano cfr. De Rosalia 1997, in part. 177. Ovviamente valore intransitivo intende chi sceglie sic. 149 Così Frobenius 1909, 48. 150 Cfr. Monaco 1950, 252. Così intendono quasi tutti gli editori e commentatori, ad eccezione di Lennartz 1994, 209s. 151 Così Rosato 2005, 71s. La Medea exul di Ennio 48 <?page no="61"?> come risulta dalla testimonianza ciceroniana, probabilmente in risposta al pedagogo (fr. 2). Cicerone riporta il testo nelle Tusculanae, in un contesto in cui vengono criticati gli eccessi delle manifestazioni di lutto, e lo attribuisce a Ennio con indicazione della persona loquens; la citazione del nome proprio della protagonista nel secondo verso del frammento non lascia dubbi riguardo all ’ attribuzione alla Medea exul. Il testo del v. 1 è abbastanza sicuro. Scriverius in nota e Planck nel testo riportano una lezione prosequi (corretta da Planck in prosequier con la desinenza arcaica dell ’ infinito 152 ) di cui non danno però ulteriori indicazioni e che non risulta in nessuno dei codici ciceroniani. Proloqui, inoltre, è confermato dal greco, in cui c ’ è λέξαι . Al v. 2 il testo dei manoscritti, che riportano il trisillabico Medeae, non può essere accolto per il metro. La fortunata ed economica soluzione Medeai restituisce un quadrisillabo ed è attribuita dagli editori di Ennio a Turnebus, ma risulta già formulata da Erasmo ed è di gran lunga preferibile alle proposte caelo atque terrae Medeae miseras vices di Camerarius e Medeae caelo atque terrae miserias di Manuzio (che proponeva in alternativa terrai al posto di terrae, soluzione evidentemente analoga a Medeai), che presupponevano difficili integrazioni o traslazioni 153 . La desinenza bisillabica in -ai non si trova altrove in tragedia, ma è ben attestata in Plauto e ricorre sei volte negli Annales e una negli Heduphagetica 154 . Il primo senario presenta incisione semiquinaria e semisettenaria, quest ’ ultima da considerarsi principale, in modo da mantenere in posizione enfatica a fine emistichio nel primo verso e a fine verso nel secondo i termini miseram e miserias. Raro è lo schema metrico del secondo verso, che presenta incisione semiquinaria, nonché decimo elemento bisillabico preceduto da una lunga (come normalmente accade in questi casi) 155 . Ennio avrà inteso mantenere miserias in posizione enfatica a fine verso come τύχας nel modello euripideo, mettendo altresì in risalto il gioco verbale con miseram del primo verso (pure in rilievo in quanto posto in mezzo alle due incisioni). Miseria, del resto, per la sua struttura peonica, ricorre spesso in latino in posizione finale di versi giambici 156 . Notevole, infine, tenendo conto anche della solennità della desinenza, risulta il cumulo di longa che caratterizza il nome proprio Medeai. Il frammento è tra i meglio aderenti al testo euripideo, come notava già Planck parlando di verba “ accurate e Graecis expressa ” 157 . Ciononostante, è da notare che 152 Cfr. Planck 1807, 82, confutato da Osann 1816, 108 e 112. 153 Per maggiori dettagli cfr. Manuwald 2012, 203. 154 Per la presenza in Plauto cfr. Leo 1912, 342 - 357. Per le occorrenze enniane, invece, cfr. Drabkin 1937, 66 - 68; Catone 1964, 61s.; Jocelyn 1967, 364; Skutsch 1985, 61. Sull ’ alternanza -ae/ -ai cfr. Osann 1816, 109s. 155 Cfr. Lindsay 1922, 272; Questa 2007, 338. Sulla norma di Lange - Strzelecki cfr. Nosarti 1999, 127ss. e soprattutto 131. 156 Cfr. Acc. trag. 622 R. 3 ; Cic. fr. 69, 19; 70, 24; 76, 2; Phaedr. 4, 1, 3 e fab. App. 7, 6. 157 Planck 1807, 81. Ma si veda anche Galasso - Montana 2004, 266; Rosato 2005, 75. Fr. 3 49 <?page no="62"?> la sintassi latina è semplificata rispetto al greco, con prevalenza della paratassi in luogo dell ’ ipotassi 158 , e che il tono di “ pathetische Sentimentalisierung ” 159 nell ’ ambito della familia conferma l ’ empatia che caratterizza il rapporto tra la nutrice e la sua padrona quale si va evidenziando in questa prima parte del dramma enniano. Ennio, inoltre, inverte le posizioni di rilievo a cavallo tra i due versi 160 , scambiando anche la disposizione dei dativi all ’ interno del medesimo sintagma: in questo modo caelo rimane in posizione enfatica come in greco e soprattutto viene rispettata la sequenza normale per il latino, con ‘ cielo ’ prima di ‘ terra ’ (cfr. per esempio Ter. Ad. 789s.: ei mihi! quid faciam? quid agam? quid clamem aut querar? / o caelum, o terra, o maria Neptuni! . . . e Cic. carm. fr. 6, 32 Bl. 2 : ipse deum genitor caelo terrisque canebat). Nel testo latino non c ’ è corrispondenza per μολούσῃ δεῦρο : ciò è stato interpretato da Lennartz 161 come una deliberata omissione da parte di Ennio, che, leggendo negli scolii ad loc. che il dativo era un solecismo, lo avrebbe evitato volontariamente; ovviamente questo è probabile, ma bisogna sempre tenere conto della frammentarietà del testo tràdito e non escludere la possibilità che Ennio avesse tradotto il participio greco nel verso immediatamente successivo o precedente, a noi non pervenuti. Al v. 2 è verisimile pensare che il poeta non modificasse il greco δεσποίνης ma che utilizzasse la variante Μηδείας testimoniata dai codd. P 2 VLP di Euripide 162 . La scelta del plurale miserias può essere dettata dalla volontà di meglio aderire al modello 163 , ma si può interpretare anche come un plurale poetico. Cupido cepit . . . proloqui (v. 1): con l ’ infinito è costrutto raro, forse suggerito dal greco 164 , e presuppone il trattamento del nesso cupido cepit come perifrasi poetica per il semplice cupio, ma non sembra particolarmente problematico; l ’ uso di cupido est, cupido incedit ed espressioni simili con l ’ infinito, infatti, è molto attestato; inoltre il latino arcaico è caratterizzato da una certa libertà nella scelta tra infinito o gerundio 165 . Proloqui ricorre spesso in Plauto, quasi sempre a fine verso (per la sua comoda struttura metrica), e un ’ altra volta in Ennio, nel Telefo (v. 337 Vahl. 2 = 285 Joc.: te ipsum hoc oportet profiteri et proloqui). Quello di rivolgere il lamento per le proprie sventure al cielo e alla terra (e anche al mare, come in Ter. Ad. 790) è un topos delle scene relative alla sofferenza 158 Cfr. Röser 1939, 12; Grilli 1965, 208; Classen 1992, 128; Rosato 2005, 75. 159 Röser 1939, 12s. 160 Cfr. Grilli 1965, 208. 161 Lennartz 1994, 192. 162 Lennartz 1994, 168, ma già Coppola 1940 e ora Bitto 2013, 228s. 163 Così Frobenius 1909, 8. 164 La critica è divisa sull ’ interpretazione del costrutto come grecismo sintattico. Per una sintesi si veda Biondi 1979, 19. Favorevoli a questa interpretazione Norden 1927, ad Aen. 6, 163; Rosato 2005, 76. Contrari, invece, Leumann - Hofmann, 579 b; Röser 1939, 12 n. 10; Fischer 1973, 9, n. 60. Si condivide qui la posizione di Jocelyn 1967, ad loc.: “ Ennius is unlikely to have retained the Greek syntax if it was grossly inconsistent with contemporary Latin usage ” . 165 Si vedano Drabkin 1937, 65s.; Jocelyn 1967, 364; Traglia 1986, 325, n. 151. La Medea exul di Ennio 50 <?page no="63"?> d ’ amore, e dunque la sua presenza nell ’ ambito del discorso della nutrice mette bene in luce l ’ empatia tra la donna e la sua padrona, confermando il legame affettivo evidenziato anche nel fr. 2 (cfr. commento ad loc.). Questo legame era già presente nel modello greco, ma doveva essere particolarmente caro alla sensibilità di Ennio, il quale lo mette in luce in questi versi mediante l ’ inserimento di un gioco verbale del tutto assente in greco, quello tra miseram e miserias. Esso evidenzia “ l ’ unità patetica di lei miseram per le miserias della sua signora ” 166 e risulta tanto più interessante se si tiene conto della rarità di questa trasposizione empatica. I giochi verbali in cui si utilizzano lessemi della famiglia di miseria sono molto presenti in commedia. Ci si vuole qui limitare a quelli in cui vengono utilizzati, come in Ennio, l ’ aggettivo miser e il sostantivo miseria, escludendo gli altri, pur numerosi, con l ’ avverbio misere (per esempio Plaut. Pseud. 4) o il verbo misereor (per esempio Plaut. Rud. 277): Plaut. Capt. 130 (propter sui gnati miseriam miserum senem); Epidic. 526s. (si quid est homini miseriarum quod miserescat, / miser ex animost); Truc. 466 (. . . ea illi miserae miseriast); di questi, solo il primo non presuppone identità tra il miser e chi soffre le miseriae, ma a ben vedere in questo caso si tratta di un padre addolorato per le sventure del proprio figlio: il dolore della nutrice enniana è, dunque, particolarmente significativo. Interessante è anche Acc. trag. 622s. Ribb. 3 (nam huius demum miseret, cuius nobilitas miserias / nobilitat . . .), in cui il gioco verbale, su due versi, è combinato con allitterazione, paronomasia/ figura etimologica e chiasmo (miseret nobilitas miserias nobilitat): la combinazione di figure retoriche, infatti, caratterizza anche questo frammento di Ennio, in cui sono presenti due allitterazioni trimembri, in cui due termini sono contigui e il terzo è richiamato a distanza (cupido cepit caelo e miseram Medeai miserias) 167 , intrecciate tra loro mediante una struttura chiastica: cupido cepit miseram . . . / caelo . . . Medeai miserias. Fr. 4 (= fr. XIV, 281 Vahl. 2 = fr. CXVI, 245 Joc. = F 100 TrRF) ia 6 fructus verborum aures aucupant vel tr 7 le orecchie hanno catturato il succo del discorso Non. 467 M (= 748 L): aucupavi, activum positum pro passivo. Titinius Veliterna (151) . . . Plautus Truculento (964) . . . idem Menaechmis (570) . . . Ennius Medea (218) fructus . . . aucupant. Accius Astyanacte (165) . . . idem Medea (407) . . . fructus codd. fluctus Iunius in marg. fremitus Montepess. Müller | aucupant codd. aucupat Osann aucupavi Delrius | <sed frustra> add. Vahl. 2 in app. 166 Grilli 1965, 208. 167 Come nota Grilli 1965, 208. Evidenzia la iunctura allitterante cupido cepit anche Biondi 1979, 20. Fr. 4 51 <?page no="64"?> Vista la brevità del frustulo e la genericità del contenuto si è molto discusso sulla sua contestualizzazione. Si accetta qui la proposta, avanzata da Skutsch e recentemente difesa con nuovi argomenti da Aricò 168 , di intendere il verso come la resa di Eur. Med. 67 ( ἤκουσά του λέγοντος , οὐ δοκῶν κλύειν ): a parlare sarebbe il pedagogo, che rivelerebbe alla nutrice di aver sentito della condanna di Medea 169 . Ciò permetterebbe di mantenere il testo tràdito e di interpretare letteralmente il verbo aucupare nel senso di ‘ tendere l ’ orecchio ’ 170 . Il verso, trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma (Medea), è incompleto: potrebbe essere un frustulo di senario giambico ovvero di settenario trocaico, mutilo della parte iniziale, come induce a pensare la presenza di cretico finale. Il testo sembra sicuro: tuttavia, la critica ha proposto un emendamento e un ’ integrazione. Fructus, lezione quasi univoca dei codici, è stato corretto da Iunius in fluctus: sulla base di questo intervento il testo è stato inteso come la resa degli anapesti della parodo euripidea (vv. 131 - 133: ἔκλυον φωνάν , ἔκλυον δὲ βοὰν / τᾶς δυστάνου / Κολχίδος ; la differenza metrica non costituirebbe un problema) 171 . L ’ integrazione sed frustra, proposta da Vahlen, farebbe pensare alla traduzione dei vv. 772s. del modello ( ἤδη δὲ πάντα τἀμά σοι βουλεύματα / λέξω· δέχου δὲ μὴ πρὸς ἡδονὴν λόγους ) 172 : non sembra sufficientemente dimostrabile sul piano critico-testuale (e opportunamente può essere mantenuta solo in apparato), e in ogni caso il rapporto con l ’ ipotesto proposto non sembra pienamente convincente 173 . Sulla scorta delle altre occorrenze in epoca arcaica, con fructus verborum si intende il piacere, ma soprattutto l ’ utilità tratti dall ’ ascolto 174 . Sulla base di questo valore, Petrone ha proposto il confronto con i vv. 199s. del modello ( καίτοι τάδε μὲν κέρδος ἀκεῖσθαι / μολπαῖσι βροτούς ), in cui è presente il motivo del κέρδος legato all ’ ascolto di canti per consolare le sofferenze 175 . La chiave di lettura del frammento sembra stare però altrove, e in particolare nell ’ uso del termine aucupant: lo suggerisce anche la strutturazione fonostilistica, dal momento che l ’ omeoarto in aulega i termini aures e aucupant (con forma attiva). Il verbo è metaforico (e molto usato soprattutto in ambito comico 176 ), e trasferisce sul piano concreto della pratica della caccia il concetto astratto dell ’ origliamento di un 168 Skutsch 1968, 172, accettato da Arcellaschi 1990, 60; Rosato 2005, 77s.; Aricò 2013, 17 - 21. 169 Anche Petrone 2001 mantiene il testo tràdito ma pensa alla resa dei vv. 199s. euripidei, il cui contenuto è però un po ’ troppo distante da quello enniano (cfr. infra). Dondoni 1958, 89 pensa alla corrispondenza con il v. 316 ( λέγεις ἀκοῦσαι μαλθάκ᾽ ). 170 Si vedano comunque le osservazioni di Rosato 2005, 77. 171 Fluctus è accolto da Gualandri 1965, 118s. che propone diversi paralleli greci. 172 La prima ipotesi è di Ribbeck 1875, 151; Leo 1910, 15; Gualandri 1965, 118s. La seconda, avanzata da Vahlen ad loc., è difesa da Röser 1939, 27. 173 Per una sintesi della questione cfr. ora Aricò 2013, 17s. 174 Cfr. ThlL s. v. ‘ fructus ’ . Così Rosato 2005, 78. 175 Petrone 2001, su cui cfr. Aricò 2013, 18s.. 176 Cfr. Plaut. As. 881; Mil. 990 e 994s.; Most. 472s.; Stich. 102. Altri loci in Aricò 2013, 20. La Medea exul di Ennio 52 <?page no="65"?> discorso. Situazione più frequente in commedia, questa idea di origliare non manca però nella Medea di Euripide, e l ’ uso di aucupare sembra dunque confermare la provenienza di questo verso enniano da un discorso del pedagogo, traduzione dei vv. 67ss. del modello. Il vertere di Ennio consisterebbe in questo caso in un ’ accentuazione della concretezza espressiva mediante la scelta di un verbo metaforico relativo a una pratica diffusa in epoca arcaica, quella della caccia agli uccelli: probabilmente in questo modo si valorizzava analogamente anche il topos antico delle parole ‘ alate ’ 177 . Fr. 5 (= fr. IV, 259 - 261 Vahl. 2 = fr. CV, 219 - 220 Joc. = F 90 TrRF) ? <. . .> Corinthum arcem altam <. . .> matronae opulentae, optumates! *** tr 7 Multi suam rem bene gessere et publicam patria procul, tr 8 Multi, qui domi aetate agerent, propterea sunt improbati. Ricche e nobilissime matrone, [che abitate] l ’ alta rocca di Corinto. . . molti gestiscono bene i beni propri e quelli pubblici anche lontano dalla propria patria; molti, vivendo sempre a casa, per questo sono biasimati Cic. fam. 7, 6, 1: tu modo ineptias istas et desideria urbis et urbanitatis depone et, quo consilio profectus es, id adsiduitate et virtute consequere. hoc tibi tam ignoscemus nos amici quam ignoverunt Medeae ‘ quae C. a. a. habebant m. / o. optimates ’ , quibus illa ‘ manibus gypsatissimis ’ persuasit ne sibi vitio illae verterent quod abesset a patria. Nam ‘ multi . . . improbati ’ . quo in numero tu certe fuisses nisi te extrusissemus. 1. hunc versum non habent Stephanus Columna Delrius Jocelyn | quae et habetis add. Politianus plerr. edd. | Corinthum codd. Corinthi Rutgers Corinthiam Vossius | ne mihi vitio vertite, quod absim a patria mea add. Rutgers ne mihi vitio vos vortatis, a patria quod absiem add. Elmsley alii similiter || 3. multi, qui d. a. agerent codd. domi qui a. egerunt Muretus multique qui d. a. agerent Vossius Il frammento va attribuito al dialogo tra Medea e le donne del coro, e corrisponde (con notevoli e interessanti differenze, che modificano il senso e riflettono una diversa caratterizzazione del personaggio di Medea) ai vv. 214 - 218 della Medea di Euripide 178 : Κορίνθιαι γυναῖκες , ἐξῆλθον δόμων / μή μοί τι μέμψησθ᾽ : οἶδα γὰρ πολλοὺς βροτῶν / σεμνοὺς γεγῶτας , τοὺς μὲν ὀμμάτων ἄπο , / τοὺς δ᾽ ἐν θυραίοις : οἱ δ᾽ ἀφ᾽ ἡσύχου ποδὸς / δύσκλειαν ἐκτήσαντο καὶ ῥᾳθυμίαν . Nell ’ epistola di Cicerone in cui è trasmesso il testo, le parole di Ennio sono inserite e adattate con una notevole fluidità, il che rende difficile il recupero del 177 Come notano già Jocelyn 1969, 382; Classen 1993, 70 e non esclude Aricò 2013, 20 n. 26. 178 Il primo a riconoscere il modello fu Poliziano, Misc. cap. 27. Fr. 5 53 <?page no="66"?> frammento 179 . L ’ epistola è diretta a Trebazio Testa, interlocutore che ricorre spesso nell ’ epistolario ciceroniano 180 , in cui è spesso amichevolmente accusato di pigrizia, e che è esortato a non provare nostalgia per Roma mentre è al seguito di Cesare nelle Gallie. Il tono della lettera è particolarmente scherzoso, e dunque i versi enniani sono riportati con intento umoristico 181 . Due sono i problemi principali, di cui si è occupato recentemente Leonardo Fiorentini con conclusioni convincenti 182 : l ’ attribuzione a Ennio o a Cicerone e l ’ esatta interpretazione dell ’ espressione ‘ manibus gypsatissimis ’ 183 . L ’ interpretazione corrente è che si faccia qui riferimento al trucco usato dall ’ attore che interpretava Medea per rendere le mani più bianche; si è altresì pensato a un espediente della barbara per sembrare più simile alle donne greche 184 . Nel primo caso, è evidente che non si può ipotizzare che le parole fossero presenti nel testo di Ennio (la rottura dell ’ illusione scenica in tragedia non poteva raggiungere un tale livello) 185 : sarebbe dunque Cicerone a utilizzarle in riferimento alla messinscena, e lo farebbe anche qui scherzosamente, dal momento che nomina il gesso al posto della creta (generalmente usata per questo scopo) 186 . Sembra dunque evidente che nella lettera si sta precisando un particolare che in qualche modo doveva rivestire una certa importanza nell ’ economia del dramma e della sua messinscena 187 . Sotto il profilo drammaturgico, si potrebbe pensare alla valorizzazione del particolare delle mani, bianchissime come segno della fase di macchinazione e inganno, senz ’ altro in questa scena 188 , ma anche in seguito nel dramma: intrecciate con quelle dei figli nel fr. 16, e infine - probabilmente, ma non è dimostrabile - macchiate del loro sangue come in Euripide, e come ricorda Verg. ecl. 8, 47 (saevus amor docuit natorum sanguine matrem / commaculare manus, con il nesso saevus 179 Cfr. Jocelyn 1967, ad loc.; Garbarino 2008, 83; Fiorentini 2013, 123s. 180 Su Trebazio e sulle caratteristiche delle epistole a lui dirette si vedano La Penna 2002, 17 - 23; Garbarino 2008, 82s.; Behrendt 2013, 117s. 181 Si veda ancora Garbarino 2008, 83 n. 86 che corregge De Rosalia 1990, 169s. n. 86. 182 Fiorentini 2013, 128, pensa che manibus gypsatissimis siano parole di Cicerone ispirate dalla scena della Medea di Ennio: manibus farebbe riferimento alla gestualità della donna e alla recitazione del dolore, mentre gypsatissimis rinvierebbe al pallore tipicamente femminile ottenuto artificialmente dagli attori, ma anche, visto l ’ uso al superlativo, al dolo insito nella recitazione. 183 Le difficoltà della questione erano già state sottolineate da Timpanaro 1968, 667. 184 Per l ’ uso di cosmetici scenici cfr. Galasso - Montana 2004, 268s. Giustamente poco fortunata l ’ ipotesi che si facesse riferimento all ’ uso di veleni particolari in relazione alla professione di maga, proposta dal Colonna. 185 Cfr. anche Fiorentini 2013, 125. 186 Sull ’ inferiorità del gesso rispetto alla creta cfr. Shackleton Bailey 1977, ad loc. Al tono scherzoso dell ’ espressione ciceroniana con riferimento al mestiere dell ’ attore crede anche Rosato 2005, 82. 187 Non si condivide in questo senso la posizione di Jocelyn 1967, 359, per il quale “ Cicero does not mention the stage ” : la presenza di riferimenti al teatro, e agli spettacoli teatrali anche nei loro aspetti tecnici, nel corpus ciceroniano è tale da lasciare aperta la possibilità anche solo di un cenno fugace da parte di Cicerone anche in questo brano. 188 Così già Fiorentini 2013, 125 - 128 e n. 21, in cui rimanda, su suggerimento di Alberta Lorenzoni, ai vv. 862 - 865 della Medea di Euripide. La Medea exul di Ennio 54 <?page no="67"?> amor ripreso dal fr. 1, al cui commento si rimanda) 189 . Non mancano, del resto, esempi di mani macchiate di sangue sulle scene repubblicane: in riferimento ad Oreste si può ricordare per esempio Acc. trag. 23 Ribb. 3 (cui manus materno sordet sparso sanguine 190 ). Può essere interessante ricordare anche un frammento dell ’ Amphitruo di Accio, in cui si fa riferimento all ’ uccisione dei figli da parte di Ercole (in un contesto mitico, dunque, molto analogo a quello di Medea, se pure relativo però al solo spargimento di sangue, e non al dettaglio delle mani), e cioè trag. 82s. Ribb. 3 : cum patre parvos patrium hostifice / sanguine sanguen miscere suo. Il v. 1 viene integrato con quae e habetis, e diviene quae Corinthum arcem altam habetis matronae opulentae optumates, con il mantenimento dell ’ ordo verborum presente nel testo ciceroniano, a partire da Poliziano (cfr. Manuwald 2012, 200). Una soluzione simile, con ordine diverso che presuppone una diversa scansione metrica di tutto il brano, era già stata avanzata da Planck. Pur riconoscendo i meriti della proposta (che ha altresì il vantaggio di creare un ottonario, ben armonizzato nel canticum), si è scelto di inserire nel testo soltanto i due tricola, la cui struttura e i cui temi non lasciano dubbi sulla paternità enniana, ma non le integrazioni. Tra il primo e i secondi due versi è stata ipotizzata una lacuna, sulla base del confronto con Eur. Med. 215a ( μὴ μοί τι μέμψησθ᾽ ) che potrebbe essere stato tradotto da Ennio in un verso parafrasato da Cicerone con l ’ espressione persuasit ne sibi vitio illae verterent: l ’ ipotesi di integrazione più fortunata, avanzata da Elmsley (1822, 109) e accolta da Bothe 1834 2 (ma in realtà già Rutgers e poi Planck avevano proposto un testo molto simile), se pure interessante, non sembra da accogliere nel testo (si deve certamente tenere conto di quelle parole, però, per corroborare l ’ interpretazione generale del frammento). Le inversioni e le aggiunte al testo dell ’ ultimo verso (vd. apparato critico), infine, non sono necessari se si interpreta come ottonario. I due versi il cui testo appare sicuro costituiscono una sequenza di settenario e ottonario trocaico, entrambi con incisione dopo l ’ ottavo elemento (nel primo caso dopo monosillabo ‘ et ’ in sinalefe). La scelta è interessante, in quanto Ennio opera una sostituzione del trimetro del modello con un canticum 191 , incrementando il pathos della scena. Le modifiche che Ennio apporta rispetto al modello euripideo si spiegano tenendo conto del nuovo pubblico a cui si rivolge, che non avrebbe capito perché la donna dovesse giustificare un ’ uscita di casa 192 , mentre molto maggiore interesse poteva suscitare il tema della lontananza dalla patria, qui effettivamente sotto- 189 Si veda ancora infra, commento al fr. 15. 190 Riporto il testo tenendo conto dell ’ intervento di Nosarti 1999, 134 n. 89 a difesa del tràdito sparso, invece di sparsa, comunemente scelto dagli editori. 191 Cfr. Drabkin 1937, 28; Röser 1939, 13 e n. 12; Heurgon 1958, 177. L ’ alternanza tra questi due versi compare in diversi cantica plautini; qualche esempio: Aul. 819 - 823; Bacch. 612 - 615 e 991 - 994; Capt. 526 - 528; Cas. 909s. e 921s.; Men. 590 - 595; Pseud. 196 - 200 (cfr. Questa 1995). 192 Brooks 1981, 185 - 188. Fr. 5 55 <?page no="68"?> lineato. Il personaggio di Medea che viene tratteggiato è quello di un ’ abile parlatrice, che tenta di convincere con vis retorica le donne corinzie a non accusarla semplicemente per la sua condizione di esule. Il v. 1 è caratterizzato da un tono di estrema solennità, sottolineata dalla sequenza di due tricola, in entrambi i quali gli ultimi due elementi sono anche allitteranti. Non sembra si debba dubitare della paternità enniana delle due espressioni, la seconda delle quali costituisce un prezioso e interessante esempio di Romanisierung, con l ’ uso di un termine tipicamente romano quale matrona in riferimento alle donne di una città greca. Ciò sembra tanto più interessante nell ’ ambito della tragedia enniana se lo si collega al tema - pure questo di gusto pienamente romano - della rispettabilità sociale all ’ interno del rapporto amoroso (cfr. fr. 13) e delle relazioni sociali in generale (cfr. fr. 2 con la precisione verbale nella definizione del legame tra nutrice e padrona) che sembra avere avuto un certo peso in questo dramma 193 . I vv. 2 - 3 contengono una sententia: le forme verbali, pertanto, sono da intendersi come perfetti gnomici. È da notare l ’ anafora di multi, che - inserita nella sapiente struttura retorica dell ’ intero distico, caratterizzato dal chiasmo 194 - sottolinea il carattere oppositivo delle espressioni, conferendo allo stesso tempo pathos ai versi 195 . L ’ allitterazione trimembre publicam patria procul è arricchita al verso seguente da propterea e inprobati, quest ’ ultima un ’ allitterazione coperta. L ’ opposizione tra l ’ esilio e la vita in patria è sottolineata dalla posizione rispettivamente a fine verso e fine emistichio di patria procul e domi (aetatem agerent). Proprio l ’ attenzione che il poeta riserva all ’ ordo verborum rende più plausibile ritenere, con gran parte della critica, che qui Ennio stia rinunciando al tema euripideo della vita domestica opposta alla partecipazione alle attività cittadine, per soffermarsi più a fondo su quello della lontananza dalla propria patria: domi, dunque, va inteso qui come antonimo di patria procul del verso precedente 196 . La struttura dei versi è espressione di quell ’ abilità retorica di Medea, che era stata ben sviluppata già da Euripide (notevole, per esempio, ai vv. 271 - 340 del dramma greco, la capacità persuasiva mostrata dalla donna durante il dialogo con Creonte, dal quale ottiene di procrastinare di un giorno la partenza), e che sembra essere stata valorizzata da Ennio anche in altri frammenti (si può ricordare il fr. 9, in cui è Medea stessa a parlare della sua blandiloquentia): il tema, del resto, era di 193 A questi due frammenti rinvia anche Röser 1939, 15. In particolare l ’ analogia tematica con il fr. 13, e dunque la scelta di matrona in quanto rispettabile uxor e non concubina, è sottolineata anche da Jocelyn 1967, ad loc. e Rosato 2005, 81. 194 Si veda Arcellaschi 1990, 80. 195 Cfr. in questo senso Röser 1939, 15 e Zilliacus 1978. Sull ’ anafora in Ennio cfr. Drabkin 1937, 70s. 196 Così intendono Merry 1891, ad loc.; Drabkin 1937, 27; Röser 1939, 14; Heurgon 1958, 176; Galasso - Montana 2004, 268 (si sottolinea l ’ attualità del tema della peregrinatio, la tendenza di magistrati e privati cittadini a effettuare lunghe permanenze all ’ estero); Rosato 2005, 88 - 90. Ad una totale aderenza al testo e al senso euripidei pensa, invece tra gli altri, Traglia 1986, ad loc. La Medea exul di Ennio 56 <?page no="69"?> grande interesse per i Romani (si pensi al celebre fr. XIV, 177 Ribb. 3 dell ’ Hermiona di Pacuvio: o flexanima atque omnium regina rerum oratio! ) 197 . E che Medea avesse bisogno dei potenti mezzi retorici per convincere le matronae di quanto stava pronunciando, può essere confermato dal fatto che i contenuti della sententia sono di assoluta rottura rispetto alla concezione morale tradizionale, quale si può chiarire sulla base del confronto con i vv. 93s. Ribb. 3 della Tarentilla (primum ad virtutem ut redeatis, abeatis ab ignavia / domi patres patriam ut colatis potius quam peregri probra), in cui due genitori esortano i giovani figli ad abbandonare la strada dell ’ otium all ’ estero per tornare a casa e rispettare la patria e i padri 198 : la patria, in definitiva, è il luogo della virtus, mentre l ’ estero rappresenta quello della colpa. Fr. 6 (= fr. V, 262 - 263 Vahl. 2 = fr. CIX, 232 Joc. = F 93 TrRF) tr 7 nam ter sub armis malim vitam cernere, vel ia 6 quam semel modo parere. tre volte preferirei rischiare la vita sotto le armi, piuttosto che partorire una volta sola Varro Men. 189 Ast. apud Non. 261 M (= 398 L): cernere, amittere. Varro Gerontodidascalo (189): ‘ non vides apud Ennium (add. Aldus) esse scriptum (222): “ ter . . . parere ”’ . Varro, ling. 6, 81: ab eodem est quod ait Medea: ter . . . parere. quod, ut decernunt de vita, eo tempore multorum videtur vitae finis. Non. 262 M (= 399 L): cernere rursum dimicare vel contendere. Accius Epinausimache (325) . . . Ennius in Medea Exule (222): nam . . . cernere. Pacuvius Armorum Iudicium (23): . . . 1. nam om. Varro F Non. 261 | ter Varro Non. 261 te Non. 262 | sub om. Segura Moreno | malim codd. mallem Delrius | vitam plerr. codd. vita Non. 262 multa Varro multa multa G || 2. quamde Planck parire Porson Il frammento fa parte, come il precedente, del discorso di Medea al coro delle corinzie, e traduce i vv. 250s. ( ὡς τρὶς ἂν παρ᾽ ἀσπίδα / στῆναι θέλοιμ᾽ ἂν μᾶλλον ἢ 197 Non si condivide, in questo caso, la posizione di Röser 1939, 15, che ritiene il frammento espressione di uno stato d ’ animo alterato di Medea, che - diversamente che altrove - non dimostrerebbe qui alcuna competenza retorica. Il personaggio era tradizionalmente molto raziocinante: così anche in Euripide, in contrasto con la presentazione iniziale e le urla fuori scena prima dell ’ entrata: si può presupporre una valorizzazione del raziocinio di Medea anche nella tragedia di Ennio. 198 Per l ’ interpretazione e l ’ analisi del frammento si vedano Marmorale 1950, 222s.; Traina 1997, 36s.; Spaltenstein 2014, 256 - 258: particolarmente apprezzate dai commentatori l ’ opposizione domi - peregri e la sequenza patres patriam. Fr. 6 57 <?page no="70"?> τεκεῖν ἅπαξ ) del modello euripideo, in cui la barbara smentisce il luogo comune per cui la vita delle donne sarebbe più facile di quella degli uomini, citando come esempio l ’ esperienza del parto, ben più rischiosa di quella della guerra. Il testo del frammento è trasmesso due volte da Nonio a proposito del valore di cernere: nel primo caso, è riportato il fr. 189 Astbury del Γεροντοδιδάσκαλος di Varrone, costituito da una breve sezione in prosa, cui fa seguito la citazione dei versi enniani, trasmessi una seconda volta da Nonio poco oltre nel medesimo lemma con indicazione precisa del contesto originario (Ennius in Medea exule). Proprio la citazione diretta del frammento enniano, con la menzione di autore e titolo del contesto originario, rende sicura l ’ integrazione del nome del poeta nel testo della menippea, in cui è presente una lacuna dopo apud, colmata appunto con <Ennium> già nell ’ Aldina (si tratta della breve sezione in prosa con cui era introdotta la citazione della Medea nel contesto menippeo originario). Varrone, inoltre, riporta il medesimo frammento anche nel De lingua Latina. In entrambe le citazioni varroniane non è presente il nam iniziale, che si trova, invece, nella seconda citazione di Nonio e che pare debba essere accolto nel testo di Ennio soprattutto sulla base del confronto con l ’ὡς iniziale del modello euripideo 199 . Da rifiutare per ragioni metrico-stilistiche (vd. infra) la sostituzione di parere con parire 200 . I versi si intendono come settenari trocaici incompleti. Con Skutsch (1968, 188 - 190) e Manuwald (2012, 205s.) si potrebbe pensare anche a un senario giambico completo seguito da uno incompleto: in questo caso si avrebbe nel secondo verso una correptio iambica (semel) e la scansione giambica di modo. In assenza di contesto non sembra in ogni caso necessario intervenire sul testo (parire in luogo di parere), come proponeva Skutsch (il che farebbe perdere la corrispondenza omeoteleutica tra i verbi in opposizione): si potrebbe ipotizzare, per esempio, una sinalefe con quanto seguiva 201 . Accettando dunque un andamento trocaico, nel secondo verso modo ha normale scansione pirrichia e realizza il secondo anceps; ipotizzerei qui un ’ incisione dopo il sesto elemento (come diventerà abbastanza frequente nei settenari terenziani 202 ): in questo modo i due termini oppositivi cernere e parere, isosillabici e in omeoteleuto 203 , si troverebbero in posizione enfatica a fine verso e a fine emistichio. 199 Diversamente, Osann 1816, 117, tenendo conto soltanto del Γεροντοδιδάσκαλος di Varrone, omette nam. Cfr. Lennartz 1994, 203s., che - pur convinto della necessità di mantenerlo - ne spiega una eventuale omissione come un tentativo di rafforzare il concetto mediante costruzione asindetica. Sul testo di Varrone e sul senso della citazione enniana nella satira menippea si veda ora Falcone 2015, 46 - 50, nonché Lenkeit 1966, 43 - 47 e Cèbe 1980, 885s. 200 Proposta da Porson 1802, 377 e accolta da Planck 1807, 86; Osann 1816, 117; Skutsch 1968, 188 - 190 (in contesto giambico); Boyle 2006, 74. 201 Cfr. Skutsch 1968, 188, che interpretava i versi come senari. 202 Cfr. Ceccarelli 1990, 34s. 203 Omeoteleuto che conferma la tradizione e rende ingiustificato un intervento sul testo. Parere ricorre anche in Ennio scen. 35 Vahl. 2 = 50 Joc.: sulla fluttuazione delle forme dei verbi in -io si veda Drabkin 1937, 73. La Medea exul di Ennio 58 <?page no="71"?> I versi riprendono fedelmente e con andamento sentenzioso il modello euripideo 204 . La modifica dell ’ ordo verborum nel secondo verso, con l ’ inversione di τεκεῖν ἅπαξ in semel modo parere, non comporta un indebolimento del concetto espresso dal greco ἅπαξ che si trova in posizione enfatica: semel, infatti, viene ampliato con il raro accostamento a modo 205 , e in più - come visto - i verbi sono in omeoteleuto. Se l ’ immagine bellica è caratterizzata in Ennio da una “ Verallgemeinung ” 206 , per cui allo scudo vengono sostituite le armi in generale, il concetto appare comunque rafforzato rispetto al greco, in quanto è qui sottolineato il rischio stesso della vita. Cernere, costruito con un accusativo interno (normalmente avremmo de vita cernere), vale contendere (come del resto suggerito da Nonio) 207 . L ’ uso di sub in luogo di un più normale in o di un ablativo semplice è raro (sarà frequente in poesia, non solo epica, e spesso in chiusa di esametro 208 ) e potrebbe essere stato suggerito dall ’ immagine dello scudo presente nell ’ ipotesto 209 . Fr. 7 (= fr. VIII, 273 Vahl. 2 = fr. CV, 221 Joc. = F 90 TrRF) tr 7 qui ipse sibi sapiens prodesse non quit, nequiquam sapit. chi, sapiente, non può essere di vantaggio a se stesso, sa invano Cic. fam. 7, 6, 2: tu, qui ceteris cavere didicistis, in Britannia ne ab essedariis decipiaris caveto et (quoniam Medeam coepi agere) illud semper memento: qui . . . sapit. qui ipse codd. qui ipsus Columna | non quit codd. nequit vett. edd. Il frammento ha buone possibilità di essere attribuito al dialogo tra Medea e Creonte: la donna, sulla scorta dei vv. 294 - 303 del modello euripideo 210 , storne- 204 Cfr. Röser 1939, 15s.; Heurgon 1958, 177; Arcellaschi 1990, 62; Galasso - Montana 2004, 269; Rosato 2005, 91. L ’ espressione tragica euripidea era divenuta proverbiale, come dimostra la sua presenza in Apostolio (XVII 27), in cui il tema del parto è sostituito con quello della povertà e viene dichiarata la derivazione dal linguaggio della tragedia, cfr. Leutsch - Schneidewin 1851, n. ad loc., che rimandano ai versi della Medea di Euripide, ricordandone la citazione in Lucian. Gall. 19 (qui con il mantenimento della tematica femminile e la menzione esplicita del poeta tragico). 205 I due termini ricorrono consecutivamente solo qui e in Plaut. Pseud. 263. 206 Röser 1939, 16. 207 Cfr. in particolare Vossius 1620; Planck 1807; Drabkin 1937, 72; Traglia 1986. 208 Solo qualche esempio: Verg. Aen. 5, 440 e 585; Prop. Eleg. 2, 9, 49 e 4, 1, 137; Ov. epist. 1, 17; Stat. Theb. 2, 456 e in numerosi altri passi su cui cfr. Lamacchia 1974. 209 Così Rosato 2005, 92. Cfr. anche Jocelyn 1967, ad loc. 210 χρὴ δ᾽ οὔποθ᾽ ὅστις ἀρτίφρων πέφυκ᾽ ἀνὴρ / παῖδας περισσῶς ἐκδιδάσκεσθαι σοφούς : / χωρὶς γὰρ ἄλλης ἧς ἔχουσιν ἀργίας / φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ . / σκαιοῖσι μὲν γὰρ καινὰ προσφέρων σοφὰ / δόξεις ἀχρεῖος κοὐ σοφὸς πεφυκέναι : / τῶν δ᾽ αὖ δοκούντων εἰδέναι τι ποικίλον / κρείσσων νομισθεὶς ἐν πόλει λυπρὸς φανῇ . / ἐγὼ δὲ καὐτὴ τῆσδε κοινωνῶ τύχης : / σοφὴ Fr. 7 59 <?page no="72"?> rebbe da sé l ’ accusa di essere una sapiente pericolosa, in quanto non è stata in grado di utilizzare le sue conoscenze per se stessa. Il testo è citato da Cicerone nella stessa epistola in cui sono trasmessi i versi del fr. 5 (al cui commento rimando), ma sembra preferibile considerarlo staccato, se pure quasi certamente appartenente alla stessa scena 211 . Dalle modalità di citazione, sembra potersi desumere una certa fama di questo verso. L ’ attribuzione a Ennio è indubbia, in quanto il frammento è parafrasato dallo stesso Cicerone anche in off. 3, 62: nemo est qui hoc viri boni fuisse neget; sapientis negant ut si minoris quam potuisset, vendidisset. Haec igitur est illa pernicies quod alios bonos, alios sapientes existimant. Ex quo Ennius nequiquam sapere sapientem, qui ipse sibi prodesse non quiret. Vere id quidem si, quid esset ‘ prodesse ’ , mihi cum Ennio conveniret. Il verso, che non presenta problemi testuali di rilievo, è un settenario trocaico con normale incisione mediana e secondo piede realizzato da ‘ proceleusmatico discendente ’ 212 . L ’ andamento sentenzioso è realizzato mediante l ’ uso di una serie di figure retoriche: la figura etimologica sapiens / sapit è in allitterazione con il pronome sibi, a sua volta in cumulo con i pronomi qui e ipse cui fa seguito. Proprio in virtù del carattere proverbiale 213 , non sembra necessario cercare di individuare un preciso modello greco. Tra i possibili ipotesti si è pensato a un frammento, attribuito all ’ Egeo di Euripide (fr. 905 Kannicht: μισῶ σοφιστήν , ὅστις οὐχ αὑτῷ σοφός ), trasmesso da Cic. epist. 13, 15, 2, e si è parlato altresì di “ Kontamination im kleinen ” 214 . Il tema dell ’ inutilità della sapientia, che Ennio poteva trovare già in Euripide (per esempio ai vv. 303 - 305, vd. supra), viene sviluppato, sia pure con un senso leggermente diverso, nel teatro tragico repubblicano, in particolare a proposito delle arti divinatorie. Il confronto con i vv. 320s. Vahl. 2 = 266s. Joc. del Telamone (aut inertes aut insani aut quibus egestas imperat, / qui sibi semitam non sapiunt alteri monstrant viam; a cui rimanda anche Rosato) 215 , per esempio, rende evidente l ’ interesse per questi temi, in quel caso inseriti nella più ampia problematica della critica della divinazione. Qui il cumulo di pronomi all ’ inizio sembrerebbe far γὰρ οὖσα , τοῖς μέν εἰμ᾽ ἐπίφθονος . Si condivide qui, dunque, la proposta di contestualizzazione avanzata da Jocelyn 1967, 362. 211 Diversamente Manuwald 2012 (TrRF), 202. 212 Per cui cfr. Questa 2007, pp. 366s. 213 Notato, tra gli altri, anche da Paduano 2000, 258s. 214 Röser 1939, 22; al frammento euripideo (sulla cui attribuzione cfr. Lucarini 2013, 187, con ulteriore bibliografia) rinviano molti (cfr. per es. Brooks 1981, 196, Manuwald 2012, 202). In assenza di un preciso riferimento nella Medea di Euripide, il Colonna (210) attribuiva anche questo frammento all ’ altra Medea enniana. Altrettanto esagerata la posizione di Terzaghi 1928, 192 (già criticata da Rosato 2005, 93 n. 83), che, sulla base di questo frammento, pensava ad una vera e propria contaminazione anche a livello macrotestuale tra l ’ Egeo e la Medea euripidei (così anche Gentili 1977, 51). 215 Rosato 2005, 93s. La Medea exul di Ennio 60 <?page no="73"?> pensare ad una partecipazione maggiore da parte del soggetto parlante, e dunque a un tono di amarezza per l ’ impossibilità di utilizzare per sé le proprie conoscenze: il verso potrebbe essere avvicinato, per esempio, al fr. 11, in cui al contrario Medea sembra elencare le azioni commesse in favore di Giasone. Si tratta, dunque, nel caso della Medea enniana, di un tema legato alla sola sfera individuale e privata, e cioè quella dell ’ uso del magico a fini personali, uso reso inutile dall ’ invincibilità di Eros. L ’ incapacità di utilizzare le proprie competenze tecniche per se stessi verrà riproposto dai poeti elegiaci come topos relativo alla magia erotica, in contesti in cui verrà scelto come paradigma mitico proprio il personaggio di Medea (cfr. introduzione generale, pp. 16s.). Il valore da attribuire a sapientia in questo contesto potrebbe essere tecnico, e riferito alle competenze di Medea in ambito magico 216 . Fr. 8 (= fr. VI, 264 - 265 Vahl. 2 = adesp. 34 TrRF) ia 6 si te secundo lumine hic offendero, moriere se ti troverò qui il secondo giorno, morirai Cic. Rab. Post. 29: nemo nostrum ignorat, etiamsi experti non sumus, consuetudinem regiam. regum autem sunt haec imperia: ‘ animadverte ac dicto pare ’ et ‘ praeter rogitatum si quid ’ et illae minae: si . . . moriere; quae non ut delectemur solum legere et spectare debemus, sed ut cavere etiam et fugere discamus. Cic. ad Att. 7, 26, 1: itaque fuga quae parabatur repressa est. Caesaris interdicta, si . . . offendero, respuuntur; bona de Domitio, praeclara de Afranio fama est. hic codd. Att. hoc codd. Rab. Post. Il frammento sembra da accostare ai vv. 352 - 355 della Medea di Euripide: εἴ σ᾽ ἡ ’πιοῦσα λαμπὰς ὄψεται θεοῦ / καὶ παῖδας ἐντὸς τῆσδε τερμόνων χθονός , / θανῇ · λέλεκται μῦθος ἀψευδὴς ὅδε . / νῦν δ᾽ , εἰ μένειν δεῖ , μίμν’ ἐφ ' ἡμέραν μίαν . Si può pertanto attribuire al dialogo tra Medea e Creonte: dopo aver concesso alla donna di procrastinare di un giorno la sua partenza, il tiranno le intima di non farsi trovare in città oltre il tempo concessole, pena la morte. Cicerone cita il testo due volte senza indicazione del dramma né dell ’ autore. Soprattutto Rab. Post. pone problemi relativi non solo alla paternità di questi versi, ma anche alla possibilità di assegnare eventualmente al medesimo contesto anche gli altri due frammenti riportati da Cicerone (animadverte ac dicto pare e 216 Così anche Arcellaschi 1992, 62. Fr. 8 61 <?page no="74"?> praeter rogitatum si quid 217 ), che riguardano sempre i regum imperia 218 . L ’ ipotesi, avanzata dallo Scaligero 219 , è stata rifiutata da Vahlen sulla base della scarsa aderenza dei primi due frammenti al possibile ipotesto euripideo proposto dallo studioso: la natura generica delle espressioni, unita all ’ abbondante presenza sulle scene latine del tema del tiranno, rende effettivamente complessa una soluzione definitiva del problema. Non sembrano cogenti le argomentazioni addotte da Jocelyn per dimostrare la necessaria appartenza di tutti i frammenti allo stesso contesto, incerto, ma legato a una figura di tiranno (forse Creonte? ) 220 . Il discorso relativo al nostro frammento, infatti, appare diverso. Esso è introdotto dall ’ espressione illae minae, che sembra riferirsi alla grande fama delle parole riportate; il tema dell ’ una dies, poi, è fondamentale per il mito di Medea e per le vicende corinzie in particolare, tanto da diventare proverbiale (cfr. in particolare Apul. met. 1, 10: ut illa Medea unius dieculae a Creone impetratis indutiis totam eius domum filiamque cum ipso sene flammis coronalibus deusserat; ma anche, in più punti, la Medea di Seneca: vv. 291s.: (Me.) quae fraus timeri tempore exiguo potest? / (Cr.) ullum ad nocendum tempus angustum est malis; vv. 421 - 423: (Me.) liberis unus dies / datus est duobus. Non queror tempus breve: / multum patebit; v. 1017: meus dies est, tempore accepto utimur) 221 , e sfruttato anche nell ’ epica. Si sceglie, pertanto, di accogliere tra i frammenti della Medea solo l ’ ultimo, ritenendo non dimostrabile l ’ appartenenza alla stessa tragedia anche dei primi (che dovrebbero in questo caso essere inseriti comunque in un contesto di minaccia da parte del tiranno Creonte ai danni di Medea). Non sembra, infine, costituire un ostacolo all ’ attribuzione dei versi alla Medea enniana la constatazione dell ’ assenza di un riferimento ai figli nelle minacce espresse da Creonte: il tiranno si rivolgerebbe qui esclusivamente alla sua avversaria (anche verbale, tenendo conto dell ’ abilità retorica di Medea, importante già nella scena euripidea di riferimento), non costituendo del resto i bambini soggetti di diritto né personaggi in grado di agire 222 . 217 Si quid del secondo frammento è congetturale per sit pie dei codici. 218 Per Att. 7, 26, 1 cfr. Shackleton Bailey 1968 ad loc., che non ha dubbi sulla paternità enniana del fr. 8, ritenuto prudentemente adespoto ancora da Schauer 2012 (TrRF). Per quanto riguarda Rab. Post. i commenti di Klodt 1992, 146 e Siani - Davies 2001, 183s. (il secondo più approfonditamente) si limitano ad illustrare lo status quaestionis. I due frammenti ‘ animadverte ac dicto pare ’ e ‘ praeter rogitatum si quid ’ sono stati trattati da alcuni editori come una sequenza unitaria (a partire da Buecheler: animum advorte ac dicto pare, et praeter rogitatum sile), e connessi con Eur. Med. 321 ( μὴ λόγους λέγε ); ma cfr. Schauer 2012, adesp. 32 e 33. 219 La contestualizzazione proposta è accolta da Vossius 1620, 35s. 220 Cfr. Jocelyn 1967, 349: “ an unremarkable scrap like animadverte ac dicto. . . would hardly be quoted except in conjunction with something remarkable from the same context ” . Garbarino 2008, 77 n. 56 (e però già prima Dondoni 1958, 90) si è espressa a favore dell ’ attribuzione alla Medea di tutti e tre i frammenti, volgendo in positivo le argomentazioni di Jocelyn. Non è convinto dalle argomentazioni di Jocelyn Lennartz 1994, 178 n. 46. 221 Sui passi di Seneca cfr. Boyle 2014, in part. 239 e 382 (in cui sottolinea il carattere proverbiale del tema ed elenca tutti i passi senecani in cui esso ricorre). 222 Si rinvia per questa problematica a Rosato 2005, 98 - 99. La Medea exul di Ennio 62 <?page no="75"?> Del resto, non si può nemmeno escludere che le minacce ai figli potessero essere espresse nei versi contigui, a noi non pervenuti. Per quanto riguarda il testo, non c ’ è dubbio che si debba accogliere la lezione hic di Att.: hoc, tràdito da Rab. Post., andrebbe eventualmente legato a lumine, ma la definizione di tempo risulterebbe così pleonastica, e - cosa più importante - mancherebbe del tutto la definizione di luogo 223 . Ennio traduce il modello euripideo operando una drastica riduzione dell ’ elemento poetico a favore di un rafforzamento della vis del comando espresso dal tiranno 224 . La scelta enniana sembra particolarmente interessante se si osserva la diversa via che seguirà Seneca sotto questo aspetto: i vv. 297 - 299 della Medea senecana (. . . capite supplicium lues / clarum priusquam Phoebus attollat diem / nisi cedis Isthmo), infatti, presentano una particolare sottolineatura degli elementi poetici (con la menzione di Febo, la precisazione geografica dell ’ Istmo, l ’ ampliamento del semplice moriere in capite supplicium lues, solo per rimanere in superficie) 225 . Di seguito alcune osservazioni di dettaglio: (a) definizione di tempo e spazio. Per quanto riguarda il tempo, Ennio sceglie secundo lumine, rinunciando alla metafora della fiaccola: c ’ è da dire, però, che l ’ uso di lumen con valore di giorno rimane comunque non comune e potrebbe essere stato suggerito proprio dal greco λαμπάς (v. 352) 226 . Anche la definizione di spazio è ridotta all ’ essenziale: il semplice ma forte hic traduce, infatti, ἐντὸς τῆσδε τερμόνων χθονός (v. 353); (b) l ’ assenza di un riferimento ai figli di Medea. Può essere interpretata come esempio di Romanisierung, dal momento che i bambini non costituivano un soggetto di diritto in Roma, oppure come segnale che in Ennio le azioni di Giasone non avevano affatto come obiettivo, né come scusa, il bene dei figli 227 . Forse, tuttavia, la soluzione più semplice è anche la più corretta, e basta pensare - con gran parte degli studiosi - che la menzione dei figli non è necessaria, in quanto “ selbstverständlich ” 228 ; (c) la scelta della prima persona (offendero), come la totale rinuncia alle espressioni poetiche del modello, mette in evidenza il carattere tirannico di Creonte e contribuisce a intensificare il tono di comando che caratterizza i versi. Non c ’ è motivo per ritenere che la figura di Creonte non rientrasse nella tipologia del tiranno, quale si evidenzia in diversi testi scenici latini e la cui caratterizzazione sembra rispondere a criteri uniformi, dettati dall ’ avversione del popolo romano nei confronti della monarchia 229 . Si può ricordare, per citare un solo esempio, la 223 Cfr. per questa problematica Lennartz 1994, 180 n. 49. 224 Oltre a Röser 1939, 16 si veda anche Brooks 1981, 183. 225 Ulteriori considerazioni in Boyle 2014, 206. 226 Cfr. Drabkin 1937, 74. 227 Alla Romanisierung pensa Herzog - Hauser 1938, 227; alla modifica della trama da parte di Ennio, con una caratterizzazione di Giasone ancora peggiore, pensa invece Lennartz 2001. 228 Così Röser 1939, 17; ma anche Ribbeck 1875, 152. 229 Ancora molto utile, in tal senso, il lavoro su Atreo e Tieste di La Penna 1979, 127 - 141. Fr. 8 63 <?page no="76"?> minaccia espressa da Egisto ai vv. 159s. Ribb. 3 del Dulorestes di Pacuvio (nam te in tenebrica saepe lacerabo fame / clausam et fatigans artus torto distraham): anche nel frammento pacuviano un tiranno rivolge minacce ad una donna, anche se si tratta di torture e non di morte 230 . Il tema del singolo giorno è, come visto, di fondamentale importanza per il mito di Medea. Sul piano drammaturgico si tratta dello spazio di tempo all ’ interno del quale si deve svolgere la macchinazione e l ’ elaborazione degli eventi. Fr. 9 (= fr. VII, 266 - 272 Vahl. 2 = CVIII, 225 - 231 Joc. = adesp. 71 - 72 - 73 TrRF) tr 7 nequaquam istuc istac ibit: magna inest certatio. Nam ut ego illi supplicarem tanta blandiloquentia, ni ob rem? qui volt quod volt ita dat se res ut operam dabit. Ille traversa mente mi hodie tradidit repagula, quibus ego iram omnem recludam atque illi perniciem dabo, 5 mihi maerores, illi luctum, exitium illi, exilium mihi. in alcun modo andrà in quella direzione: grande è la lotta. Infatti perché io lo avrei supplicato con parole tanto carezzevoli, se non per un motivo? Chi vuole che si realizzi ciò che vuole si comporta in modo tale che la cosa si realizzi davvero. Egli oggi mi ha consegnato con mente accecata le spranghe, con le quali io libererò tutta quanta la mia ira e procurerò a lui la rovina, a me dolori, a lui lutto, morte a lui, l ’ esilio a me Cic. nat. deor. 3, 65 - 66: nequaquam . . . rem: parumne ratiocinari videtur et sibi ipsa nefariam pestem machinari? illud vero quam callida ratione: qui . . . dabit. qui est versus omnium seminator malorum. ille . . . mihi. hanc videlicet rationem, quam vos divino beneficio homini solum tributam dicitis, bestiae non habent; videsne igitur quanto munere deorum simus adfecti? Atque eadem Medea patrem patriamque fugiens: postquam . . . parricidio. huic ut scelus sic ne ratio quidem defuit. 1. istac B 1 isthaec V 2 ista AV 1 B 2 || 2. illi Ribb. illis codd. | blandiloquentia edd. blandiloquenti codd. || 3. ni ob rem Vahl. niobem codd. | <esse> add. Ribb. 1 <semper> add. Joc. || 4. mi hodie Osann mihi hodie codd. || 5. perniciem V 2 - tiem A 2 B 2 Uscito di scena Creonte, Medea rimane e dialoga con il coro 231 . Sotto il profilo drammaturgico, dunque, il frammento si inserisce in una scena di macchinazione: 230 Ai versi potrebbe alludere Sen. Ag. vv. 988 - 993 e 996 b - 1000. Cfr. anche Falcone 2008, 64 n. 22. 231 Non dimostrabile l ’ ipotesi che si tratti di un monologo, anche se sotto il profilo drammaturgico sarebbe interessante l ’ analogia con le scene di macchinazione del servus in commedia, notate già da Brooks 1981, 188 - 191. La Medea exul di Ennio 64 <?page no="77"?> il personaggio protagonista parla al coro (e indirettamente al pubblico), creando e rivelando l ’ azione. La corrispondenza con i vv. 364 - 375 232 e 399s. 233 della Medea di Euripide rende altamente probabile l ’ attribuzione a Ennio, che però non è esplicita nel testo ciceroniano 234 . L ’ intervento testuale più importante che ha impegnato la critica è stato quello di intendere come contigui e privi di lacune i versi che Cicerone inserisce con interruzioni nel contesto, in cui ricorre anche il fr. 15 della Medea sive Argonautae di Accio, con lo scopo di dimostrare che la ratio, che è esclusiva dell ’ uomo e lo differenzia dalle bestie, può accompagnarsi anche ai delitti, come si evince dai numerosi testi scenici riportati, ma anche e ancor più dall ’ osservazione della vita reale (3, 69: nec vero scaena solum referta est his sceleribus sed multo vita communis paene maioribus) 235 . L ’ ipotesi del frammento unico, accolta da gran parte degli studiosi, sembra condivisibile 236 . I versi sono tutti settenari trocaici. I primi due presentano incisione mediana; al primo emistichio del primo verso si ha fine di parola dopo ogni piede; il primo piede del secondo verso è realizzato da un tribraco, con nam in iato prosodico. Il v. 3 è caratterizzato dalla presenza di numerosi monosillabi. Si ipotizza per il v. 4 -e caduca in ille 237 ; i vv. 4 - 5 presentano incisione mediana, mentre per l ’ ultimo la mancanza di incisioni e la sovrabbondanza di sinalefi rispecchia anche sotto il profilo metrico la fine struttura ossimorica sottolineata anche dall ’ andamento ritmico: il verso potrebbe, ma non necessariamente dovrebbe, essere interpretato anche come ottonario giambico, per via della quasincisione dopo il nono elemento. La correzione illi (v. 2) di Ribbeck, accolta da tutti gli editori successivi, per illis dei codici, è necessaria per il senso. Niobem dei codici è stato corretto da Vahlen in ni ob rem (v. 3): la soluzione, che trova perfetto riscontro nel modello greco, ellittica del predicato esset, è economica e convincente. Gli studiosi che intendono la sententia del v. 3 un frammento separato hanno un testo mutilo o lacunoso: tra le integrazioni proposte, a esse incastonato tra qui volt e quod volt sarebbe preferibile 232 κακῶς πέπρακται πανταχῇ : τίς ἀντερεῖ ; / ἀλλ᾽ οὔτι ταύτῃ ταῦτα , μὴ δοκεῖτέ πω , / < μέλλει τελευτᾶν εἴ τι τῇ τέχνῃ σθένω .> / ἔτ᾽ εἴσ᾽ ἀγῶνες τοῖς νεωστὶ νυμφίοις / καὶ τοῖσι κηδεύσασιν οὐ σμικροὶ πόνοι . / δοκεῖς γὰρ ἄν με τόνδε θωπεῦσαί ποτε / εἰ μή τι κερδαίνουσαν ἢ τεχνωμένην ; / οὐδ᾽ ἂν προσεῖπον οὐδ᾽ ἂν ἡψάμην χεροῖν . / ὁ δ᾽ ἐς τοσοῦτον μωρίας ἀφίκετο , / ὥστ᾽ , ἐξὸν αὐτῷ τἄμ᾽ ἑλεῖν βουλεύματα / γῆς ἐκβαλόντι , τήνδ᾽ ἐφῆκεν ἡμέραν / μεῖναί μ᾽ , ἐν ᾗ τρεῖς τῶν ἐμῶν ἐχθρῶν νεκροὺς / θήσω , πατέρα τε καὶ κόρην πόσιν τ᾽ ἐμόν . 233 πικροὺς δ ' ἐγώ σφιν καὶ λυγροὺς θήσω γάμους , / πικρὸν δὲ κῆδος καὶ φυγὰς ἐμὰς χθονός . 234 Prudente la posizione di Schauer 2012 (TrRF) che comprende i versi tra i frammenti adespoti e li ritiene separati (per questo problema cfr. infra). 235 Ulteriori considerazioni sul contesto del De natura deorum in Pease 1958, 1145 - 1152. Sul concetto di ratio in questa porzione di testo cfr. Frank 1992, 328 e 353. 236 Alle argomentazioni addotte da Skutsch 1968, 171 si devono aggiungere quelle di Timpanaro 1968 e 1978; Traglia 1986; Lennartz 1994, cui rinvia anche Rosato 2005, 104s. A tre frammenti separati, con conseguenti necessarie integrazioni testuali, pensa ancora Jocelyn 1967, ad loc. 237 Così F. Skutsch 1892, 122. Ad una scansione pirrichia di ille pensa invece Pease 1958 ad loc. La frequenza di -e caduca nel pronome ille è notevole in commedia (cfr. Questa 2007, 25 e 67). Fr. 9 65 <?page no="78"?> il semper proposto da Jocelyn, in modo da mantenere vicine le due espressioni introdotte dal pronome in poliptoto (come in Plaut. Most. 1100 e Trin. 242, per esempio, riportati anche da Jocelyn 1967, 367 n. 3). Quanto al confronto con il modello euripideo, il vertere enniano in questo caso consiste soprattutto in un incremento di tensione patetica. La complessità dello stile e della struttura retorica sono funzionali a mettere in luce i temi rilevanti del frammento. Infatti, abbiamo qui l ’ intersezione di due argomenti che interessavano molto il pubblico romano: quello della rappresentazione del tiranno - figura importante (del resto) per l ’ intera saga relativa agli Argonauti e a Medea: si pensi ad Eeta, poi a Pelia, e infine a Perse - e quello della potenza della parola (e di quella ingannevole in particolare). Proprio la presenza della blandiloquentia (v. 2) comporta la rinuncia all ’ immagine dell ’ abbraccio alle ginocchia e alla supplica, che caratterizzavano invece il modello greco. Inoltre, è da notare l ’ inserimento di una sententia (v. 3), dallo stile e dal tono strettamente ‘ romani ’ , che crea sospensione ed è seguita da una metafora che rende corporea l ’ idea di una mente confusa. L ’ opposizione tra Medea e il tiranno Creonte raggiunge l ’ apice nell ’ ultimo verso, ma è anticipata già nei primi due: al v. 1, infatti, istuc istac è in poliptoto (come il ταύτῃ ταῦτα del modello greco, v. 365) 238 ; sempre al v. 1 magna certatio corrisponde agli ἀγῶνες del modello greco (v. 366) 239 ; al v. 2 si noti ancora la posizione contigua e di contrapposizione dei pronomi personali (ego illi); ai vv. 4 - 5, invece, la disposizione dei pronomi (in poliptoto) è chiastica: ille . . . mi / ego . . . illi, così come chiastica è la loro distribuzione all ’ interno della ricercatissima struttura dell ’ ultimo verso. Medea, dunque, viene rappresentata come una donna che si oppone al tiranno, come la depositaria del potere della parola che si scontra con il depositario del potere del regnum. Quest ’ ultimo tema è messo in luce nel frammento dal termine blandiloquentia (v. 2), un hapax nel latino arcaico e classico 240 : in età repubblicana ricorrono abbastanza spesso gli aggettivi corradicali e il confronto con alcuni contesti risulta particolarmente fecondo. Ai vv. 237 - 242 del Trinummus plautino (numquam amor quemquam nisi cupidum hominem / postulat se in plagas conicere: / eos cupit, eos consectatur, subdole [blanditur] ab re consulit: / blandiloquentulus, harpago, mendax, / cuppes, avarus, elegans, despoliator, / latebricolarum hominum corruptor, / blandus inops, celatum indagator), infatti, il tema è legato alle arti di amor, che subdole ab re consulit (v. 238); il parallelo è tanto più interessante se si pensa all ’ importanza del tema dell ’ inutilità della propria sapientia nelle elaborazioni sul mito di Medea (cfr. fr. 6 e commento ad loc. e introduzione generale, pp. 16s.): una Medea capace di 238 Si veda in proposito anche Pease 1958, ad loc. Diversamente dal greco (per cui cfr. Mastronarde 2002 ad loc.), qui il verbo è espresso. Come notava Frobenius 1909, 13, viene qui espressa la “ Entgegnung der Medea auf die Ansicht oder dem Vorschlag des Antagonisten ” . 239 Come nota Rosato 2005, 103. 240 Ricorre in Hil. in psalm. 139, 4: quo fraudulentae blandiloquentiae veneno adpetitur. Sui composti in -loquentia cfr. anche Jocelyn 1967, 367. La Medea exul di Ennio 66 <?page no="79"?> blandiloquentia è stata ingannata da Eros, che può essere anche blandiloquentulus (come nel v. 240 di Plauto). In Laber. Mim. 104 - 106 (ecce in senecta ut facile labefecit loco / viri excellentis mente clement edita / summissa placide blandiloquens oratio! ) 241 l ’ aggettivo è riferito ad una oratio che risulta ingannevole per un anziano, mentre alla pericolosità di un eloquio blandus si riferisce Publil. Balb. 31 (blandiloquum cave amicum: semper dulcedo in amarum abierit). Interessante anche il confronto con Enn. scen. 106 Vahl. 2 = 108 Joc. (dall ’ Andromacha: nam neque irati neque blandi quicquam sincere sonunt), in cui sembra si faccia riferimento alla mancanza di sincerità dei retori: l ’ aggettivo semplice, blandi, ricorre qui in opposizione con irati. Il parallelo può servire a rendere ancora più evidente la macchinazione che Medea opera in Ennio, in cui al v. 5 dichiara che libererà in un solo giorno iram omnem: la donna, dunque, ha simulato un discorso ingannevole ai danni del vecchio tiranno Creonte, per avere modo di dare sfogo al vero sentimento che la anima, l ’ ira appunto. L ’ abilità oratoria di Medea è una caratteristica che viene spesso sottolineata a Roma: numerosi frammenti sono riportati in trattati di retorica come esempi di argomentazione; la donna appare in grado di gestire un dialogo con il tiranno ottenendo ciò che vuole; le accuse che rivolge a Giasone sono molto elaborate sotto il profilo retorico; in questo frammento, come accennato, si censura l ’ elemento della supplica con l ’ abbraccio delle ginocchia, tipico della cultura greca, e lo si sostituisce con quello della blandiloquentia, tema già presente e sviluppato in Euripide, ma sottolineato da Ennio. Alla luce di quanto osservato, supplicarem va dunque inteso con valore ironico: si tratta, cioè, della finzione inscenata da Medea con la sua abilità retorica. L ’ inserimento della sententia al v. 3 potrebbe avere lo scopo di creare attesa 242 . Per quanto riguarda il tema in essa espresso, sembra si possa parlare ancora una volta di un caso di Romanisierung. Il concetto è infatti tipico del pensiero romano: basti pensare all ’ homo faber di Appio Claudio (fr. 3 Bl. 2 : <escit> suas quisque faber fortunas), tràdito da Ps. - Sallust. epist. 1, 1, 2 243 . La struttura è interessante e sentenziosa: all ’ epifora con poliptoto del pronome iniziale qui volt / quod volt cui si è accennato segue, infatti, il poliptoto con chiasmo (e diverso valore del verbo) dat se res / operam dabit. Ai vv. 4 - 5 si nota il cumulo di figure poetiche, con la scelta del concreto recludo e l ’ uso metaforico di traversa mente e repagula 244 : in particolare, quest ’ ultimo termine offre un ’ immagine di non facile comprensione e indica letteralmente i 241 Cfr. Panayotakis 2010, 465 con un ’ antologia di passi. 242 Cfr. per esempio Röser 1939, 19. 243 Su cui si veda Cugusi 1968, 149, che riporta un elenco di passi che “ ne mostrano il valore di topos ” , e Tosi 1991, 389 (nr. 833). Particolarmente interessanti Plaut. Trin. 363; Plaut. Merc. 744; com. inc. 75 Ribb. 3 (sui quique mores fingunt fortunam hominibus); Caec. V. 290s. Ribb. 3 : fac velis, perficies; Ter. Ad. 399 (ut quisque suom volt esse, ita est); Cic. parad. 5, 34; Cic. Att. 14, 1, 2; Nep. Att. 11, 6; Liv. 24, 14. 244 Sul plurale tantum regolare repagula cfr. Frobenius 1909, 5. Sull ’ uso di un linguaggio concreto cfr. anche Pease 1958, ad loc. Fr. 9 67 <?page no="80"?> chiavistelli o le sbarre con cui si chiude o si apre una porta dall ’ interno (cfr. Fest. 345, 5: repagula sunt quae patefaciendi gratia ita figuntur ut e contrario oppangantur) ed è usato con valore figurato anche da Cicerone (Verr. 2, 38: ut earum rerum vi et auctoritate omnia repagula pudoris officique perfringeres). Sempre al v. 4, hodie sottolinea il tempo: si tratta di un particolare non superfluo per il mito di Medea, che porta a compimento la sua vendetta in un solo giorno (come in una sola notte decide di abbandonare il padre) 245 . Interessante anche la presenza dell ’ ira, che costituisce nelle elaborazioni relative al mito di Medea uno stimolo all ’ azione esattamente come amor: il tema ricorre in Prop. 3, 19, 17s. (nam quid Medeae referam, quo tempore matris / iram natorum caede piavit amor? ), ed è particolarmente sviluppato da Seneca (si riporta qui una piccola selezione di passi, ma è fondamentale nell ’ intero dramma e ricorre ripetutamente): in Med. 380 - 395 l ’ autore del De ira fa descrivere alla nutrice i sintomi ‘ clinici ’ dell ’ ira di Medea; ai vv. 397s., Medea dice: si quaeris odio, misera, quem statuas modum, / imitare amorem; ai vv. 868s. è il coro a sintetizzare il tema: nunc ira amorque causam / iunxere: quid sequetur? ; interessante, poi, l ’ intero monologo della protagonista ai vv. 893 - 977, in cui il richiamo alla propria ira è funzionale alla macchinazione dell ’ infanticidio 246 . Il tema dell ’ ira come passione alla quale non ci si può opporre ricorre anche in Accio trag. 451 Ribb. 3 (heu! cor ira fervit caecum, amentia rapior ferorque), in cui - a proposito di Altea, assassina del figlio 247 - l ’ ira è contrapposta alla ratio, diversamente da quanto accade in questo contesto, in cui Medea parla con grande razionalità 248 . Al v. 6 si raggiunge l ’ apice del pathos, ma allo stesso tempo si adopera un linguaggio estremamente razionale. La struttura chiastica si accompagna all ’ uso di sinonimi: luctum ed exitium riferiti a Creonte, maerores ed exilium riferiti a Medea 249 ; in particolare, si nota la paronomasia tra exitium ed exilium (in Plaut. Bacch. 944 exitium alterna con excidium) 250 . Non si deve pensare tanto ad un “ chiasmo-parallelismo attraverso il quale Ennio documenta l ’ estrema lucidità con cui Medea medita una vendetta che sarà causa di mali anche per lei ” 251 e legare così il tema a quello (già euripideo) dell ’ azione dannosa anche per chi la compie, quanto 245 Sul tema, importante già per Euripide, oltre a quanto detto a proposito del fr. 8, si veda Di Benedetto - Medda 1997, 308ss. 246 Al tema dell ’ ira nella Medea di Seneca Boyle 2014 dedica un ’ intera sezione dell ’ introduzione, liv - llx, nonché i riferimenti puntuali a pp. 231 - 236; 358. 247 Cfr. Dangel 1995 ad loc. 248 Può interessare anche l ’ Atreus acciano, con i commenti di Cicerone (e la sua definizione dei concetti di ira e iracundia) e con i rilievi relativi alla lucidità nell ’ ira del personaggio acciano in rapporto a quello di Seneca, cfr. Aricò 2006, p. 26. 249 Non sembrano condivisibili le considerazioni (proposte da Ribbeck 1875, 154) per cui maerores si riferirebbe alla morte dei figli e illi in questo caso sarebbe da riferire a Giasone, non più a Creonte. Per un trattamento più ampio della questione si rinvia a Rosato 2005, 109 - 111, di cui si condividono le conclusioni. 250 Cfr. ThlL 5/ 2, s. v. ‘ exitium ’ 1528, 19 - 24. 251 De Rosalia 1983, 57 La Medea exul di Ennio 68 <?page no="81"?> piuttosto a una netta contrapposizione tra la macchinazione della vendetta ai danni di Creonte, con l ’ uccisione di Creusa e la punizione dell ’ esilio, cui Medea è già stata condannata dal suo interlocutore. Il tono del verso, caratterizzato da cola molto brevi, è elevato ed è stato accostato a quello di una maledizione sacrale 252 . Fr. 10 (= fr. XII, 279 Vahl. 2 = fr. CXV, 244 Joc. = F 99 TrRF) tr 8 utinam ne umquam, Mede, cordis cupido corde pedem extulisses Oh, Medea, se non avessi mai sollevato il tuo piede spinta da un cuore bramoso del suo cuore! Non. 297 M (= 461 L): efferre significat proferre. Vergilius (Aen. V, 424) . . . et lib. II (657) . . . Lucilius lib. XXVI (5) . . . Ennius Medea (241) utinam . . . extetulisses! mede cordis codd. H 1 mede coris H me de cordis Stephanus Medea foras Onions Mede portis Lindsay Medea Colchis Lipsius Medea ante utinam posuit Iunius Medea pro Mede Scriverius Havet | pedem codd. pede Müller | extulisses codd. extetulisses Montepess. Buecheler Il frammento è molto problematico. Potrebbe costituire la resa enniana dei vv. 432 - 434 ( σὺ δ᾽ ἐκ μὲν οἴκων πατρίων ἔπλευσας / μαινομένᾳ κραδίᾳ διδύμους ὁρίσασα Πόν -/ του πέτρας ) della Medea di Euripide, come ritiene parte della critica a partire da Elmsley 253 , e si tratterebbe in questo caso di un ’ allocuzione fatta a Medea da parte del coro. Meno convincente la corrispondenza con i vv. 627s. ( ἔρωτες ὑπὲρ μὲν ἄγαν ἐλθόντες οὐκ εὐδοξίαν / οὐδ᾽ ἀρετὰν παρέδωκαν ἀνδράσιν ), in cui il coro non si rivolge a Medea 254 . In alternativa, si potrebbe pensare come persona loquens alla stessa Medea in un momento di sfogo interiore e di dialogo con se stessa: l ’ ipotesi è meno convincente perché manca una corrispondenza con Euripide, ma sarebbe supportata dalla connotazione emotiva del frammento, che sembra insistere sul tema della illusoria speranza di una reciprocità del sentimento amoroso (introdotto da utinam ne, espressione destinata a diventare uno dei topoi elegiaci dell ’ abbandono più utilizzati). Infine, non si può escludere neppure Giasone come persona loquens e pensare in questo caso a un contesto analogo a Eur. Med. 1330s. ( ὅτ᾽ ἐκ δόμων σε βαρβάρου τ᾽ ἀπὸ χθονὸς / Ἕλλην᾽ ἐς οἶκον ἠγόμην , κακὸν μέγα ), in cui l ’ eroe greco mostra tutto il suo odio a Medea ormai infanticida e le rinfaccia di averla condotta via dalla Colchide. 252 Galasso - Montana 2004, 271. Röser 1939, 21s. lo avvicina ad alcuni versi delle Tavole Iguvine, ma i paralleli potrebbero essere numerosi. 253 Elmsley 1822 ad v. 432; probat Bergk 1835, 71; Galasso - Montana 2004, 271. 254 L ’ ipotesi di Vahlen 1903, 170 è stata confutata da Röser 1939, 26. Fr. 10 69 <?page no="82"?> Il testo è trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma. Visto l ’ incipit, parte della critica 255 ha ritenuto che si trattasse di una citazione a memoria, per questo errata, del fr. 1 dello stesso dramma; altri 256 , invece, hanno pensato all ’ attribuzione ad una diversa Medea enniana per la difficoltà di individuare un preciso modello euripideo. Anche i problemi testuali sono rilevanti e di difficile soluzione. Gli studiosi si sono concentrati in particolare sulla forma tràdita Mede, che è stata mantenuta (con o senza cruces) e interpretata come una forma alternativa del vocativo del nome proprio attestata in greco 257 , oppure corretta in Medea (con normale e lunga e inversione dell ’ ordo verborum o intendendo la seconda ‘ e ’ come breve) 258 : la stessa forma ricorre anche nel fr. 8 della Medea sive Argonautae di Accio (cfr. commento ad loc.). Non necessaria, forse, la correzione di cordis in Colchis, che andrebbe inteso come attributo di Medea al vocativo oppure come ablativo di allontanamento 259 . Infine extulisses è stato emendato in extetulisses 260 , ma ciò non sembra necessario se si intende la prima sillaba di extulisses come breve per correptio iambica in quanto preceduta da elemento monosillabico in sinalefe con parola ortotonica 261 . Del resto, l ’ interpretazione metrica è discussa 262 : il verso potrebbe essere forse interpretato come un ottonario trocaico con incisione mediana dopo l ’ ottavo elemento 263 , abbinata a incisioni minori dopo ogni dipodia, se non dopo ogni piede (incisioni latenti dopo primo e sesto); l ’ incisione principale metterebbe in evidenza la complessa struttura fonica e sintattica allitterante cordis cupido corde. Come accennato, il nesso cordis cupido corde ha creato qualche problema. Sembra tuttavia trattarsi di una formulazione fonostilisticamente interessante, con un poliptoto chiastico arricchito da allitterazione trimembre, che servirebbe a definire la brama (e il tema di un sentimento violento e incontrollabile sembra 255 Osann 1816, 107 e Bothe 1834 2 . 256 Per esempio Planck 1807, 79. 257 Il parallelo (proposto da Meineke 1843, 46; cfr. anche Usener 1948 3 , 161 e Vahlen 1903, 170) è con il fr. 15 van Groningen di Euforione: βλαψίφρονα φάρμακα χεῦεν / ὄσσ’ ἐδάη Πολύδαμνα , Κυτηιὰς ἢ ὅσα Μήδη (cfr. Nosarti 1999, 76 - 78). Questa forma del nome ricorre anche nel fr. 24 a, 18: Μήδης (cfr. van Groningen 1972, 42), nell ’ elegia di SH fr. 964, 15 ( ὤ ] λεσεν Ἄψυρτον Μήδη [ κάσ ] ιν ) e in Andromaco, GDRK LXII 9 ( καὶ ὠκύμορον πόμα Μήδης ), come segnalato da Magnelli 2002, 107 e n. 24. 258 Contrari alla forma Mede Bergk 1874, 347; Jocelyn 1976, 381. Per l ’ inversione dell ’ ordo verborum si veda Leo 1910, 15; intende la seconda ‘ e ’ come breve Havet 1890, 46s. (per analogia con chorea o platea, in cui e trascrive ει ); la proposta di correzione è ora accolta da Rosato 2005, 112 e Manuwald 2012 (che stampa Mede<a>). 259 La proposta, che avrebbe il merito di semplificare la difficile sintassi del nesso cordis cupido, su cui però cfr. infra, è accolta anche da Manuwald 2012. 260 Proposta di Buecheler accolta da Timpanaro 1968, 670 e Rosato 2005, 112 che intendono i versi come anapesti. 261 Per questo tipo di C. I. cfr. Plaut. Capt. 71 e Merc. 726 e Questa 2007, 123s. 262 Per una sintesi delle proposte offerte cfr. Manuwald 2012, 217. 263 Cfr. Boldrini 1984, 73s. e Questa 2007, 449. La Medea exul di Ennio 70 <?page no="83"?> essere confermato dall ’ uso di cupidus in queste fasi della latinità 264 ) del cuore di lei per il cuore di lui, vale a dire il desiderio di un amore ricambiato 265 . Jocelyn ha fornito paralleli per cordis corde, poliptoto con uno dei membri al genitivo, e per cupido corde: in questo caso i luoghi proposti mostrano cupidus (o sostantivo o verbo corradicali) in connessione con animus, che, come nota ancora Jocelyn, nel latino arcaico (soprattutto in commedia) è spesso sostituito con cor 266 . Cordis sarebbe qui un genitivo oggettivo, normale con cupidus 267 . In pedem extulissem è riscontrabile un gusto espressionistico per le immagini concrete e corporee; invece di un generico ‘ abbandonare la propria terra ’ , infatti, ‘ sollevare il piede ’ sottolinea visivamente il movimento di allontanamento rispetto a un luogo 268 . Fr. 11 (= fr. IX, 274 - 275 Vahl. 2 = adesp. 136 TrRF) tr 7 non commemoro quod draconis saevi sopivi impetum, non quod domui vim taurorum et segetis armatae manus non ricordo che assopii l ’ impeto del crudele serpente, né che domai la forza dei tori e la schiera della messe armata Char. 372, 19 B (= GL IV 284, 9): fit igitur schema dianoeas per has species. . . . per paralipsim, cum volumus negantes aliquid indicare, tamquam non . . .manus. Char. 374, 1 B (= GL IV, 286, 7): negando, cum quid negantes volumus inducere atque improperantes beneficia, quae audiens cognoscat: non . . . manus. 1. non commoro codd. 372 non memoro codd. 374 | draconis saevi sopivi impetum Fabricius sopivit codd. 374 latroni statui oppressi codd. 372 unde draconis taetri oppressi impetum Lindemann || 2. domui vim taurorum Lindemann non quod domavit viros codd. 374 et domus ista virorum codd. 372 viros domavi Scriverius | armata codd. 372 Se, come pare opportuno (cfr. infra), si accetta l ’ attribuzione alla Medea enniana, il frammento deve fare parte del dialogo tra Medea e Giasone e, come nel modello individuato (Eur. Med. 475 - 482: ἐκ τῶν δὲ πρώτων πρῶτον ἄρξομαι λέγειν · / ἔσωσά σ᾽ , ὡς ἴσασιν Ἑλλήνων ὅσοι / ταὐτὸν συνεισέβησαν Ἀργῷον σκάφος , / πεμφθέντα ταύρων πυρπνόων ἐπιστάτην / ζεύγλαισι καὶ σπεροῦντα θανάσιμον 264 Cfr. Biondi 1979, con pp. 21 - 25 relative a questo frammento. 265 Analoga interpretazione in Galasso - Montana 2004, 271: “ con il cuore del cuore bramoso ” . 266 Jocelyn 1967, 381. In particolare, per cordis corde: Carm. Sal. Fr. 1 Bl. 2 apud Varro ling. 7, 27; Plaut. Curc. 388; Stich. 126; Trin. 309; Truc. 24s.; Sen. Med. 233; Thy. 912; per cupidus soprattutto Plaut. Bacch. 1015; Mil. 1215; Ter. Haut. 208. 267 Cfr. ThlL s. v. ‘ cupidus ’ e Biondi 1979. 268 Come ha bene evidenziato Petrone 2004. Fr. 11 71 <?page no="84"?> γύην · / δράκοντά θ᾽ , ὃς πάγχρυσον ἀμπέχων δέρος / σπείραις ἔσῳζε πολυπλόκοις ἄυπνος ὤν , / κτείνασ᾽ ἀνέσχον σοὶ φάος σωτήριον ), la donna rinfaccerebbe all ’ eroe greco l ’ aiuto indispensabile fornitogli contro i nati dalla terra e il draco custode del vello. La citazione è riportata due volte da Carisio nello stesso contesto a proposito della preterizione, senza indicazioni relative all ’ autore o all ’ opera. L ’ attribuzione alla Medea, proposta da Welcker (1841, 1378) e accolta da Vahlen 1903 2 , sembra verisimile soprattutto per via delle analogie con il testo di Euripide e con la resa senecana (Med. 466 - 473 269 ), nonostante le osservazioni contrarie di alcuni studiosi, relative al testo e al metro del frammento 270 . Rimane probabile, ma meno convincente sia sul piano contenutistico che su quello grammaticale (si avrebbe in Accio dracontis in luogo di draconis, analogamente al dracontem del v. 568 Ribb. 3 del Filottete), l ’ attribuzione alla Medea di Accio 271 . Il testo così ricostruito è il frutto del lavorio della critica su una tradizione in più punti discordante nei due passi di Carisio ed è accolto da tutti gli editori moderni 272 . I versi sono caratterizzati da una sequenza iniziale isoprosodica, con il secondo longum realizzato con due brevi, in modo da riflettere il parallelismo con variatio che si riscontra nella struttura sintattica e metrica dei versi: nel primo verso, in cui è da notare l ’ allitterazione saevi sopivi a ponte dell ’ incisione secondaria, il sintagma draconis saevi è tagliato da quella mediana, nel secondo su segetis armatae interviene l ’ incisione secondaria. Il frammento si caratterizza per una struttura parallela dei versi e si differenzia dal modello euripideo per alcuni dettagli (cfr. infra) e, più in generale, per una “ condensation énergique ” 273 che si esprime mediante sapienti scelte retoriche: all ’ allitterazione con omeoteleuto saevi sopivi 274 e alla variatio con l ’ anafora di non e quod, si aggiunge la struttura chiastica del secondo verso, in cui il genitivo 269 revolvat animus igneos tauri halitus / interque saevos gentis indomitae metus / armifero in arvo flammeum Aeetae pecus, / hostisque subiti tela, cum iussu meo / terrigena miles mutua caede occidit; / adice expetita spolia Phrixei arietis / somnoque iussum lumina ignoto dare / insomne monstrum. 270 Jocelyn 1967, p. 350: “ the uncertainty of the text makes further discussion profitless ” . Non sembrano cogenti le argomentazioni metriche di Ribbeck 1875, 155, vista la frequenza d ’ uso dei settenari trocaici e dei senari giambici, anche in alternanza tra loro, presenti nella scena dello scontro tra Medea e Giasone. La critica tende alla prudenza: cfr. Galasso - Montana 2004, 272; Rosato 2005, 146 - 148; Schauer 2012 (che stampa il testo tra gli adespoti). Fondamentale ai fini dell ’ attribuzione a Ennio il lavoro di Boscherini 1958. 271 L ’ osservazione relativa a dracontis di Boscherini 1958, 110 - 112 è approvata anche da Casaceli 1976, 30 e Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 131. 272 Cfr. Schauer 2012, 286. 273 Come la definisce Heurgon 1958, 180. 274 Allitterazione molto ridotta rispetto al modello. Bitto 2013, 230s. nota che questo particolare del dettato euripideo era stato criticato e rinvia a Schol. Eur. Med. 476 ( πλεονάζει ὁ στίχος τῷ σ .), di cui Ennio potrebbe aver tenuto conto optando per una “ sparsame Alliteration ” (p. 231). La Medea exul di Ennio 72 <?page no="85"?> segue il sostantivo cui si riferisce in vim taurorum e lo precede in segetis armatae manus. Tutto ciò si combina con la struttura fonica e rende evidente un ’ estrema cura formale. Note precise sul vertere enniano in questo frammento sono già in Gualandri 1965a (117, n. 60) e Rosato 2005 (148s.), cui rimando per concentrarmi su alcuni particolari di rilievo. L ’ ordine cronologico degli episodi citati, che ricorrono spesso insieme nei testi (cfr. introduzione generale, p. 17), è rovesciato mediante l ’ uso di uno hysteron proteron 275 . Quello del draco è tradizionalmente l ’ ultimo crimen commesso da Medea (prima dell ’ uccisione del fratello) per aiutare Giasone a impossessarsi del vello: l ’ impostazione retorica scelta da Ennio, che modifica il modello inserendo una preterizione (sottolineata dall ’ anafora iniziale), prevede l ’ esposizione del fatto chiave all ’ inizio e poi l ’ aggiunta di altri episodi rilevanti in seguito 276 . La considerazione è tutt ’ altro che oziosa se si guarda al modello greco e alla rielaborazione senecana, in cui l ’ ordine è invece mantenuto 277 : l ’ intervento enniano serve ad incrementare la veemenza delle parole della donna che, delusa, rinfaccia a Giasone le sue azioni non in ordine di tempo, ma di importanza. Il draco è ricordato per primo in quanto Medea aveva un rapporto quasi di affetto nei suoi confronti (su questo cfr. introduzione generale). Più nello specifico, la modalità in cui è ricordato qui l ’ episodio del draco ricorda la trattazione dell ’ episodio in Apollonio Rodio (4, 143ss.), che avrà particolare risonanza a Roma (mentre minore fortuna avrà l ’ attributo saevus relativo al mostro, del quale gli autori sottolineeranno piuttosto la veglia continua: insomne monstrum, per esempio, in Sen. Med. 473): l ’ idea di impetum, assente nell ’ ipotesto euripideo, si spiega bene sulla base del più ampio contesto dell ’ epos alessandrino, in cui il draco è rappresentato nell ’ atto di soffiare, sibilare, muoversi e allungarsi (vv. 128 - 130; 139 - 142; 150 - 155). La vicinanza ad Apollonio è significativa ed è perfettamente in linea con la caratterizzazione di Medea come maga che ha una fondamentale importanza sulle scene romane, anche - ma non solo - in funzione del rapporto privilegiato della donna con i serpenti 278 . L ’ ipotesto epico alessandrino, in questo e in altri casi non solo enniani, va tenuto presente come contesto di riferimento ampio, piuttosto che come modello in cui evidenziare delle coincidenze puntuali. 275 La figura retorica viene qui inserita appositamente diversamente dal modello e dalla sua resa senecana (cfr. infra): è esattamente il contrario di quanto osservato a proposito della cronologia degli eventi presentati dalla nutrice nel fr. 1. 276 Brooks 1981, 181s. rinvia a passaggi ciceroniani (inv. 1, 91; fat. 34 - 35; top. 61; nat. deor. 3, 75; Cael. 18), dai quali si deduce che il primo verso citato è usato con valore proverbiale per indicare la prima causa di un evento. 277 Cfr. Boyle 2014, 251 - 253. 278 A proposito della descrizione del draco si veda Elice 2004. Per la caratterizzazione di Medea come maga cfr. Falcone 2011 e introduzione generale, pp. 7s. A un possibile legame con la magia pensava a livello di ipotesi già Röser 1939, 23 n. 30: “ wenn nicht der Gedanke an die Zauberin dabei mitspielt ” . L ’ ipotesto epico delle Argonautiche è evidenziato anche da Rosato 2005, 148s. Fr. 11 73 <?page no="86"?> Gli episodi dell ’ aggiogamento dei tori e della schiera dei nati dalla terra sono altrettanto noti e trattati (cfr. introduzione generale, p. 17). Certamente Ennio aveva in mente l ’ ampio brano di Ap. Rh. 3, 1284 ss. La condensazione espressiva sembra rilevante: diversa sarà la scelta senecana, con un ’ amplificazione notevole dei concetti, conseguente anche alla rinuncia alla preterizione (vv. 466 - 470). Fr. 12 (= fr. X, 276 - 277 Vahl. 2 = CIV, 217 - 218 Joc. = adesp. 25 TrRF) ia 6 quo nunc me vortam? quod iter incipiam ingredi? domum paternamne anne ad Peliae filias? e ora a chi mi rivolgerò? quale cammino potrò intraprendere? forse verso la casa di mio padre o dalle figlie di Pelia? Cic. de orat. 3, 217: aliud enim vocis genus iracundia sibi sumat, acutum, incitatum, crebro incidens: . . . aliud miseratio ac maeror, flexibile, plenum, interruptum, flebili voce: quo . . . filias? et illa: O pater, o patria, o Priami domus! et quae sequuntur: haec omnia vidi inflammari, / Priamo vi vitam evitari. 1. vortam plerr. codd. vertam E Stephanus || 2. paternamne AHE paternam rell. codd., fortasse recte secundum Klotz | ad Peliae plerr. codd. appellare AHE Il frammento va ascritto alla scena dello scontro tra Giasone e Medea e corrisponde ai vv. 502 - 504 del modello euripideo: νῦν ποῖ τράπωμαι ; πότερα πρὸς πατρὸς δόμους , / οὓς σοὶ προδοῦσα καὶ πάτραν ἀφικόμην ; / ἢ πρὸς ταλαίνας Πελιάδας ; Con una serie di interrogative, la donna si riferisce alla difficoltà della sua condizione di esule, che non può tornare indietro dopo i crimini commessi (in particolare l ’ abbandono della casa e l ’ assassinio di Pelia). Il frammento è trasmesso da Cicerone senza indicazione di autore e titolo del dramma, in un contesto molto noto relativo all ’ actio: miseratio e maeror devono avere un vocis genus flexibile, plenum, interruptum, flebili voce 279 . In presenza della menzione di Pelia e della corrispondenza con i versi euripidei, l ’ attribuzione a Ennio è più che verisimile 280 . Il testo è sicuro: si segnala solo che al secondo verso, accanto a paternamne, è tràdito anche paternam. Per quanto riguarda l ’ interpunzione, si è scelto di considerare il secondo verso un ’ unica interrogativa, dal momento che si ritiene che la preposizione ad vada legata apò koinoû ad entrambi gli accusativi di moto a luogo 281 . 279 Per il valore da attribuire a queste espressioni e i paralleli, ciceroniani e non, cfr. Wisse - Winterbottom - Fantham 2008, 358; Mankin 2011, 310s. 280 Come notava già Vossius 1620, 39. Ancora prudente la scelta di Schauer 2012 che pone il frustulo tra gli adespota. 281 Diversamente pensano Drabkin 1937, 83s. e Jocelyn 1967, ad loc. La Medea exul di Ennio 74 <?page no="87"?> I versi si interpretano come senari giambici con incisione semiquinaria, in contesto lirico, “ dove dobbiamo immaginarli intonati non altrimenti dai versi propriamente lirici ” 282 . Non crea difficoltà la doppia sequenza giambica pura del secondo verso, se si tiene conto del contesto lirico, altamente patetico, e della serie incalzante di interrogative retoriche, nonché dello sperimentalismo metrico di Ennio (basti pensare, sia pure in contesto esametrico e con problemi, a casi come ann. 511 Sk. = 490 Vahl. 2 , con sequenza iniziale proceleusmatica: capitibus nutantis) 283 . I critici si sono soffermati soprattutto sulla forma del dilemma, qui scelta da Ennio, nonché sull ’ evidente differenza rispetto al modello euripideo, in cui a ogni domanda seguono le motivazioni che ne negano esplicitamente la realizzabilità. L ’ ipotesi di una citazione parziale dei versi da parte di Cicerone (consapevolmente modificata al fine di costituire l ’ esempio adatto al discorso, o piuttosto riportata a memoria) non sembra condivisibile: il metro è impeccabile e la fine struttura retorica del frammento è tale da non lasciare dubbi sulla completezza dei versi; inoltre, non sembra verisimile che Cicerone scegliesse proprio un esempio che fosse necessario modificare 284 . A proposito della struttura retorica del dilemma è particolarmente significativo il parallelo con il celebre enigma di Gracco (Gracch. Orat. fr. 61 Malcovati 4 : quo me miser conferam? quo vertam? in Capitoliumne? at fratris sanguine madet. an domum? matremne ut miseram lamentantem videam et abiectam? ) 285 , che costituisce un capitolo importante, per quanto non esente da problemi, della fortuna di questo frammento e che conferma ancora una volta l ’ interesse della retorica per Ennio (e di Ennio per la retorica) 286 . Inoltre, sempre a livello strutturale, si può aggiungere che la serie di interrogative costituisce un forte elemento di pathos e ricorre frequentemente in testi tragici greci e latini, tipicamente in contesti di soliloqui predecisionali 287 . Sembra opportuno soffermarsi sul senso della scelta enniana di rinunciare alla sezione argomentativa del modello euripideo ai fini della caratterizzazione di Medea. L ’ incremento del pathos, infatti, ottenuto grazie alle scelte analizzate infra, rende ancora più evidente la lucida follia di Medea, piuttosto che la sua “ Ratlosigkeit ” 288 : la Pathetisierung rispetto al modello 282 Questa 2007, 339. A un contesto lirico pensa Jocelyn 1967, 356s. 283 Si veda ancora Questa 2007, 337. 284 Ad una errata citazione ciceroniana pensano Vahlen 1903 2 ad loc.; Jocelyn 1967, 357. Contra Röser 1939, 25; Lennartz 1994, 175 - 181; Rosato 2005, 120. 285 Cfr. von Albrecht 1989, 48 - 51. 286 Si vedano in proposito Jocelyn 1967, ad loc.; Fantham 2004, 294. Bonnet 1906 fornisce una serie di passi in cui ricorre lo stesso procedimento retorico: Cic. Verr. 2, 5, 1, 2; 2, 5, 48, 126; Flacc. 2, 4; Scaur. 2, 4 (ma anche Mur. 41, 88); Sall. Iug. 14, 15 - 17; Liv. 40, 10, 3; interessanti Catull. 64, 177; Ov. met. 8, 113 (di Scilla). 287 Sull ’ uso della forma interrogativa con funzione comunicativa ed espressiva cfr. De Rosalia 1983, 55: “ ricorre spesso come forma di autointerrogazione ” e Auhagen 2000, 183s. che nota anche le differenze della resa enniana rispetto al modello greco. 288 Come invece notava Röser 1939, 24. Fr. 12 75 <?page no="88"?> giustifica l ’ assenza delle argomentazioni lì presenti, che avrebbero rallentato il ritmo incalzante delle interrogative, e in ogni caso non ostacola la metis, risorsa su cui Medea può sempre contare per la realizzazione del suo lucido progetto di vendetta 289 . Al v. 1 Ennio amplifica il concetto, duplicando l ’ interrogativa 290 (è anticipata qui una modalità che verrà portata all ’ estremo da Seneca nella sua Medea, in cui il cumulo di interrogative occupa ben nove versi 291 ). Il pathos è ottenuto anche mediante l ’ uso di nunc, che sottolinea con concisione e veemenza il momento e la situazione; l ’ intera espressione ricorre anche in Plaut. Curc. 69; Ter. Haut. 946 e Hec. 516, sempre in forma diretta, mentre in Catull. 64 (un contesto che deve molto a Ennio) si ha quo me referam, v. 177. L ’ aggiunta di ingredi pleonastico allunga la seconda domanda retorica rispetto alla prima 292 ed è in più allitterante con i due termini che lo precedono (si realizza dunque un ’ allitterazione trimembre). La iunctura ‘ iter. . .ingredi ’ ricorrerà poi in Sil. Pun. 15, 503 e Iuv. 7, 172. Al v. 2 il nesso domum paternam è piuttosto raro: per esprimere il concetto ricorre in genere il semplice patria oppure il genitivo patris (cfr. Acc. inc. 675 Ribb. 3 : in domum aeternam patris). Il tema della casa e della patria, fecondissimo riguardo al mito di Medea, è presente anche ai vv. 86 - 91 Vahl. 2 (= 81 - 86 Joc.) dell ’ Andromacha di Ennio, in cui il poeta sceglie di incrementare il pathos utilizzando una serie di interrogative retoriche e delle paronomasie 293 . Attraverso Catullo il topos dell ’ impossibilità di trovare salvezza in alcun luogo passa in ambito elegiaco (ricorre, come è noto, in numerose Heroides ovidiane). Il tema dell ’ abbandono della casa paterna, invece, trova terreno fertile a Roma già in epoca repubblicana, e viene particolarmente sviluppato da Pacuvio e da Accio (che ritornano, per così dire, in Colchide, rispettivamente dopo e prima i fatti di Corinto). La famiglia costituisce e resta un tema di grande interesse per i Romani, come si può dedurre pensando all ’ epos di Valerio Flacco, in cui il rapporto di Medea con la famiglia costituisce una importantissima chiave di lettura del poema, ma anche alla Medea di Seneca, in cui ai vv. 451 - 453 il riferimento alla ‘ casa ’ è amplificato notevolmente: Phasin; Colchos; patrium regnum; fraternus cruor. L ’ episodio delle figlie di Pelia godeva pure di una certa fama, legato com ’ era con il tema del ringiovanimento e con la caratterizzazione di Medea come maga prima ancora che come ingannatrice (cfr. introduzione generale, pp. 4 - 6). Oltre a 289 Sulla lucidità di Medea cfr. anche quanto detto a proposito del fr. 9. 290 Wilkins 1965, 538. 291 Cfr. Boyle 2014, 248 - 250. 292 Come nota Jocelyn 1967 ad loc. 293 Enn. scen. 86 - 91 Vahl. 2 = 81 - 86 Joc.: quid petam praesidi aut exequar; quove nunc / auxilio exili aut fuga freta sim? / arce et urbe orba sum: quo accidam, quo applicem, / cui nec arae patriae domi stant, fractae et disiectae iacent, / fana flamma deflagrata, tosti alti stant parietes, / deformati atque abiete crispa. Ma lo stesso tema della casa in una sequenza di interrogative si trova anche in Acc. trag. 231s. Ribb. 3 : egone Argivum imperium attingam aut Pelopia digner domo? / quoi me ostendam? quod templum adeam? quem ore funesto alloquar? La Medea exul di Ennio 76 <?page no="89"?> costituire l ’ argomento specifico di alcune tragedie perdute, esso è ricordato da Euripide già nel prologo della Medea, ai vv. 9s. ( οὐδ’ ἂν κτανεῖν πείσασα Πελιάδας κόρας / πατέρα κατῴκει τήνδε γῆν Κορινθίαν ). Seneca vi fa cenno al v. 457 in maniera meno diretta (l ’ assenza di una esplicita menzione di Pelia rende il tono smorzato rispetto a Ennio: parvamne 294 Iolcon), salvo poi tornarvi ai vv. 475s. (iussasque natas fraude deceptas mea / secare membra non revicturi senis). Per quanto riguarda la formulazione, è stata notata la rinuncia da parte di Ennio all ’ uso del patronimico accompagnato dall ’ aggettivo, come nel modello greco ( ἢ πρὸς ταλαίνας Πελιάδας , v. 504), in favore dell ’ espressione con il nome proprio del padre al genitivo e senza attributo, come nello scolio 295 . Fr. 13 (= fr. XI, 278 Vahl. 2 = fr. CVII, 224 Joc. = F 92 TrRF) tr 7 tu me amoris magis quam honoris servavisti gratia tu mi hai salvato più per la passione amorosa che per rispetto Cic. Tusc. 4, 69: quid ait ex tragoedia princeps ille Argonautarum? tu . . . gratia. quid ergo? hic amor Medeae quanta miseriarum excitavit incendia! atque ea tamen apud alium poetam patri dicere audet se ‘ coniugem ’ habuisse ‘ illum, Amor quem dederat, qui plus pollet potiorque est patre ’ . Sed poetas ludere sinamus, quorum fabulis in hoc flagitio versari ipsum videmus Iovem: ad magistros virtutis philosophos veniamus . . . tu me amoris G V tum amoris K tum ea moris R | servavisti Ald. servasti codd. Il frammento, pronunciato da Giasone (princeps Argonautarum nella definizione di Cicerone), si inserisce nel contesto dello scontro tra l ’ uomo e Medea, e nello specifico è relativo alle accuse a lei rivolte, sulla scia di Eur. Med. 530s.: ὡς Ἔρως σ’ ἠνάγκασε / †τόξοις ἀφύκτοις† τοὐμὸν ἐκσῷσαι δέμας . Il verso è riportato insieme al fr. 27 del Medus ed è inserito in un discorso in cui vengono criticate le fabulae dei poeti. L ’ attribuzione alla Medea enniana, visto il contenuto del frammento e la certezza dell ’ ipotesto euripideo, è considerata certa da tutti gli editori moderni 296 . Il testo è accolto in questa forma da tutti gli editori 297 . Magis ha scansione pirrichia 298 , ed è da notare fine di parola dopo ogni dipodia 294 Il tràdito parvam sembra essere in contraddizione con la tradizionale descrizione di Iolco, per questo parte della critica ha dubitato della bontà del testo. Cfr. Costa 1973, 113; Boyle 2014, 250. 295 Schol. Eur. Med. 504: τὰς τοῦ Πελίου θυγατέρας . Cfr. Bitto 2013, 231. 296 In ultimo anche Manuwald 2012. 297 Rimane giustamente isolata la proposta di Planck 1807, che modificava quam in quamde e proponeva di disporre il testo su due versi di ritmo giambico, che però creano qualche problema di scansione (tu me amoris / magis, quamde honoris servasti gratia). 298 Cfr. Questa 1967, 19. Bothe scrive mage, Müller magi ’ . Fr. 13 77 <?page no="90"?> (secondo un uso abbastanza frequente anche in commedia per questo tipo di verso 299 ). Le due parole chiave del frammento (amoris e honoris) 300 , isosillabiche e in rima 301 , si trovano così in posizione enfatica prima delle incisioni. L ’ ipotesto euripideo fu individuato dal Colonna. La resa enniana del concetto è complessa già a partire dalle scelte metriche, con i settenari trocaici che rafforzano il dinamismo della scena, incentrata sullo scontro verbale, e sintattiche, con la paratassi in luogo dell ’ ipotassi 302 . A livello tematico, Ennio rinuncia al concetto della costrizione, espresso in greco dal verbo principale ( ἠνάγκασε ). Chiave per l ’ interpretazione del frammento è l ’ espressione honoris gratia. La sua importanza è sottolineata dalla ricercata struttura retorica, con gratia che chiude il verso ed è riferito (con zeugma e iperbato sottolineati dalla posizione dei due termini alla fine delle dipodie che costituiscono il primo emistichio) sia ad amoris (su cui vd. infra) che ad honoris. L ’ espressione è stata interpretata ora come un tratto di romanizzazione inserito più o meno felicemente da Ennio nella traduzione, ora come resa del greco χάριν al v. 526 di Euripide (e dunque come equivalente di benevolentia o benignitas) 303 . Sembra che qualcosa di più si possa ancora dire in proposito, ponendo l ’ attenzione sull ’ opposizione tra amor e honos, sottolineata - come detto - dalla struttura del verso. Il termine amor riprende (con la rilevante rinuncia all ’ elemento poetico dei dardi 304 : ma il testo greco è corrotto in questo punto) il topos, già presente in Euripide, della resa di fronte a Eros usato da parte di Giasone con lo scopo di sminuire i meriti di Medea (con funzione, cioè, rovesciata rispetto al noto uso del medesimo topos da parte di Gorgia nell ’ Encomio di Elena, in cui costituiva uno degli elementi che provavano l ’ innocenza della donna). Il tema dell ’ impossibilità di resistere ad Amor da parte di Medea e delle conseguenze di questo errore avrà poi una certa presenza nella letteratura latina 305 . Amoris gratia, dunque, va inteso proprio come ‘ in preda alla passione amorosa ’ . L ’ opposizione con honoris gratia è rilevante. Honos, infatti, sembra avere il valore di rispetto nell ’ ambito di un legame socialmente accettabile (e infatti il termine honos indica spesso il rapporto tra amici, familiari, genitori e figli o coniugi) 306 . Dunque si potrebbe pensare ad una sottolineatura da parte di Ennio della differenza tra un gesto compiuto amoris gratia, sulla spinta di Eros, cioè della passione che fa 299 Cfr. Questa 1967, 185. 300 Cfr. Drabkin 1937, 84s.; Jocelyn 1967, 365; Traglia 1986, 329. 301 Per una sapiente e metodologicamente stimolante analisi di questi fenomeni cfr. Traina 1977, in part. 37ss., e Raffaelli 1982, 93. 302 Come nota Röser 1939, 25. Cfr. anche Lennartz 1994, 191 e Rosato 2005, 123s. 303 Per una sintesi della questione cfr. Rosato 2005, 121s. 304 Come nota anche Brooks 1981, 183s. 305 Cfr. introduzione generale, pp. 13 - 16 e in particolare Prop. 4, 5, 41s., in cui Medea è accusata di aver osato lei per prima cedere e Ov. met. 7, 92 - 94, in cui la donna, rivolgendosi a Giasone, prevede il suo futuro di relicta. 306 Sul valore di honos cfr. Mehmel 1935. Per la dimensione sociale cfr. Plaut. Capt. 356 e ThlL s. v. col. 2918 in particolare. La Medea exul di Ennio 78 <?page no="91"?> perdere il senno con conseguenze negative, e uno compiuto honoris gratia, nell ’ ambito di un legame ufficiale, quale sarebbe stato quello di una uxor. Pertanto sarebbe doppia l ’ accusa rivolta a Medea da parte di Giasone: non solo, come in Euripide, quella di aver agito non per sua volontà ma sulla spinta di un elemento esterno cui non si può resistere (cioè l ’ amore), ma anche quella di aver ceduto all ’ amore da concubina, senza avere così la possibilità di aspettarsi nulla in cambio. In questo senso, allora, potrebbe parlarsi di un caso di Romanisierung, sfruttato dall ’ eroe greco, personaggio negativo, nel suo dialogo con Medea: verrebbe, cioè, sottolineata l ’ implicazione in un rapporto amoroso che in questo caso non comportava obblighi da parte di Giasone, in quanto fuori da una dimensione di ufficialità 307 . Fr. 14 (= fr. XVII, 287 - 288 Vahl. 2 = fr. CXII, 239 - 240 Joc. = F 94 TrRF) ia 6 asta atque Athenas anticum opulentum oppidum contempla et templum Cereris ad laevam aspice. fermati e contempla l ’ antica e ricca acropoli di Atene e a sinistra ammira il tempio di Cerere Varro, ling. 7, 9: in hoc templo faciundo arbores constitui fines apparet et intra eas regiones qua oculi conspiciant, id est tueamur, a quo templum dictum et contemplare, ut apud Ennium in Medea contempla . . . aspice. contempla et conspicare idem esse apparet. Non. 470 M (= 753 L): contempla Accius Philocteta (557) . . . Naevius Danae (3) . . . Titinius Fullonia (21) . . . Ennius Medea (242) asta . . . contempla. 1. asta codd. astu Stephanus Columna in app. (corrigens astum pervetust. cod.) | atque G H L 2 atq. atq. Bamb. | anticum Roth. antieum codd. antiquum ed. princ. | opulenteum L C A opolentum Planck La contestualizzazione di questo frammento è piuttosto problematica. L ’ assenza di una corrispondenza precisa con il testo euripideo ha spinto alcuni studiosi a ritenerlo parte di una Medea enniana distinta dalla Medea exul (sul tema del doppio titolo cfr. introduzione), e anzi proprio la difficile collocazione dei versi è stata utilizzata come argomento a favore dell ’ esistenza di due drammi o a favore di una importante contaminazione della Medea e dell ’ Egeo euripidei (affermata anche a proposito del fr. 7). Le ipotesi principali che sono state avanzate da coloro che mantengono l ’ attribuzione alla Medea exul si possono sintetizzare come segue: a) il frammento faceva parte di una rhesis ex machina finale; b) i versi appartenevano al dialogo tra Medea ed Egeo, personaggio che molto verisimilmente compariva in scena anche nel dramma enniano, se pure non menzionato esplicitamente nei 307 Sull ’ importanza del tema dei rapporti sociali cfr. quanto detto a proposito dei frr. 1 e 2. Fr. 14 79 <?page no="92"?> frammenti pervenuti 308 . La seconda ipotesi sembra la più probabile: i versi sembrano costituire, infatti, un ’ estensione delle parole che Egeo rivolge a Medea nei vv. 723 - 730 del modello euripideo (cfr. infra) 309 . Varrone trasmette la seconda parte del frammento (da contempla fino ad aspice) nel De lingua Latina a proposito del valore da attribuire ai termini templum e contemplare; Nonio la prima (fino a contempla compreso), per esemplificare il lemma contempla: fu lo Scaligero il primo ad unire i versi. Per quanto riguarda il testo, merita una qualche attenzione la scelta tra asta e astu, correzione di astum testimoniato da Mercier in un vetus codex noniano. Astu, difeso da Osann (1816, 119), permetterebbe sì una rispondenza con ἄστυ del v. 771 della Medea euripidea (luogo che comunque sembra meno adeguato come ipotesto di Ennio), ma è grecismo raro (per quanto mi consta, ricorre, in questa fase della latinità, solo in Ter. Eun. 987), e inoltre ha lo stesso valore di oppidum, cui forse sarebbe stato più opportuno opporre arcem. Inoltre, i tre imperativi asta, contempla e aspice, tutti in posizione enfatica, hanno una coerenza fonostilistica, sintattica e di senso che non sembra debba essere messa in dubbio 310 . Nel primo senario l ’ incisione semiquinaria separa il nome proprio dall ’ apposizione e la quasincisione semisettenaria sottolinea il cambio di vocale iniziale allitterante; nel secondo verso l ’ incisione principale semisettenaria divide le unità sintagmatiche della proposizione e la semiquinaria mette in risalto il gioco paretimologico. I versi sembrano verisimilmente provenire - come già detto - dal dialogo tra Egeo, re di Atene di passaggio a Corinto, e Medea, alla quale promette ospitalità, essendo venuto a conoscenza della sua nuova condizione. In nessuno dei frammenti enniani pervenuti si ha menzione esplicita del personaggio di Egeo; ciononostante, la sua presenza nel dramma è da ritenere altamente probabile per tre ragioni principali: a) la menzione di Atene in questo frammento può essere intesa come una spia della presenza di Egeo sulla falsariga del modello; b) l ’ eliminazione di un personaggio chiave del dramma euripideo costituirebbe un intervento molto invasivo da parte di Ennio, che al contrario sembra seguire da vicino l ’ azione drammatica del suo modello; c) la scena di Egeo nella Medea di Euripide (vv. 663 - 759) godeva di grande fama, se non altro anche per le critiche mosse da Aristotele (1461 b 19 - 21) nei confronti dell ’ inverosimiglianza del passaggio di 308 Per una sintesi delle proposte si vedano Nosarti 1999, 43; Rosato 2005, 140 - 144; Manuwald 2012, 207. Poco convincenti le posizioni di Ladewig 1848, 16, che accosta il frammento ai vv. 846 - 850 del modello, e Arcellaschi 1990, 53s. che non crede alla presenza di Egeo nella tragedia di Ennio e assegna le parole a Giasone nel finale del dramma (analoga l ’ ipotesi di Carrara 1992, 23s.). 309 σοῦ μὲν ἐλθούσης χθόνα ,/ πειράσομαί σου προξενεῖν δίκαιος ὤν / τοσόνδε μέντοι σοι προ σημαίνω , γύναι : / ἐκ τῆσδε μὲν γῆς οὔ σ᾽ ἄγειν βουλήσομαι , / αὐτὴ δ᾽ ἐάνπερ εἰς ἐμοὺς ἔλθῃς δόμους , / μενεῖς ἄσυλος κοὔ σε μὴ μεθῶ τινι . / ἐκ τῆσδε δ᾽ αὐτὴ γῆς ἀπαλλάσσου πόδα : / ἀναίτιος γὰρ καὶ ξένοις εἶναι θέλω . Ipotesi di Pascal 1900, 48s. 310 Per un quadro completo dei problemi critico-testuali cfr. Manuwald 2012, 207. La Medea exul di Ennio 80 <?page no="93"?> Egeo da Corinto 311 ; dunque non sembra probabile che Ennio abbia voluto tagliarla. Nel modello euripideo, dopo un dialogo in cui Egeo viene a conoscenza delle novità relative a Giasone e Medea, il sovrano ateniese offre ospitalità alla donna (vv. 719 - 730), a patto che sia lei ad abbandonare Corinto e raggiungere Atene. Particolarmente interessante è il v. 729, in cui il sovrano usa un imperativo rivolgendosi a lei ( ἐκ τῆσδε δ᾽ αὐτὴ γῆς ἀπαλλάσσου πόδα ) 312 : Ennio potrebbe essere partito da questo modello e averlo ampliato mediante l ’ uso di tre imperativi (asta, contempla e aspice), l ’ inserimento di un brevissimo excursus descrittivo su Atene e il riferimento (romanizzante) al tempio di Cerere: accettando questa proposta, si dovrà ipotizzare che gli imperativi facessero parte di un contesto in cui Egeo sta dicendo a Medea cosa fare una volta giunta nella sua città. Più in particolare, il v. 1 è occupato dalla descrizione di Atene: l ’ espressione anticum opulentum oppidum è solenne e potrebbe essere stata suggerita al poeta dal tono del v. 771 dell ’ ipotesto euripideo (cui il frammento è accostato da alcuni studiosi 313 ), in cui Medea definisce la città greca ἄστυ καὶ πόλισμα Παλλάδος . Ma c ’ è di più: il frammento mostra alcune somiglianze con il fr. 5 relativo a Corinto. Le due allitterazioni in ‘ a ’ (asta atque Athenas anticum) e ‘ o ’ (opulentum oppidum, arricchita dalla ripetizione di ‘ p ’ ) sono sottolineate dalle incisioni (vd. supra) e collegano a ponte l ’ imperativo asta con la proposizione che segue e il nome proprio Athenas con la sua apposizione, caratterizzata dalla presenza dei due aggettivi in asindeto. Anche il fr. 5 è caratterizzato dall ’ uso della stessa combinazione di allitterazione in ‘ a ’ e in ‘ op ’ e dalla menzione dell ’ opulenza (lì riferita alle matronae, qui alla città stessa). In definitiva, Atene potrebbe essere qui presentata da Egeo come una città altrettanto nobile quanto Corinto. Da notare il forte enjambement, che mette in risalto la figura paronomastica (slegata sintatticamente) ed etimologica (come suggerisce anche Varrone, testimone del frammento) contempla 314 / et templum; inoltre, i termini oppidum e templum sono in omeoteleuto: templum, infatti, ricorre in Ennio generalmente al plurale, dunque la scelta del singolare sembra non essere casuale 315 e forse potrebbe essere influenzata anche dalla presenza di contempla, che accostato a templa sarebbe risultato eccessivo. Secondo Jocelyn (che ambienta la tragedia ad Atene), il poeta sottolineerebbe in questo modo la differenza tra la città bassa e la zona sacra (il temenos piuttosto che soltanto l ’ edificio del tempio), dedicata a Cerere, che potrebbe corrispondere all ’ Eleusinion ateniese, che si trovava effettivamente a 311 Cfr. Mastronarde 2002, 281 - 283. 312 Nonostante i sospetti di interpolazione, il verso è generalmente accolto nel testo euripideo, cfr. Mastronarde 2002, 292. 313 A partire da Planck 1807, 97s. 314 Per la diatesi attiva di questo verbo cfr. Lennartz 2003, 111. 315 Al singolare qui e in ann. 554 Sk. = 541 Vahl. 2 : cfr. Frobenius 1909, 7. Fr. 14 81 <?page no="94"?> sinistra della città bassa provenendo da sud-ovest 316 . Il riferimento al templum Cereris, tuttavia, potrebbe essere inteso piuttosto, o anche, come un interessante elemento di ‘ romanizzazione ’ . Mi sembra che siano soprattutto due aspetti ad avvicinare Cerere 317 e il suo culto alla vicenda e alla figura di Medea: (a) il suo ambiguo rapporto con le nozze e quindi con i temi legati alle donne, alla maternità, alla castità; (b) il suo legame con l ’ asilo e i rifugiati. (a) Per quanto riguarda il rapporto di Cerere con le donne e con le nozze, esso appare piuttosto problematico: fonte principale e discussa dagli studiosi è il commento serviano ad Aen. 4, 58. Nel contesto eneadico di partenza Didone e Anna sacrificano ad alcune divinità prima delle ‘ nozze private ’ con Enea; la prima dea in onore della quale viene compiuto il sacrificio è Cerere legifera (seguita da Febo, Lieo e Giunone). Pur dimostrando di approvare l ’ ipotesi secondo cui Cerere doveva essere invocata in quanto generalmente avversa alle nozze conseguentemente al rapimento di sua figlia, Servio riporta anche altre interpretazioni, documentando la presenza di diverse tradizioni: Cerere inventrice delle leggi e quindi tutelatrice anche delle nozze; Cerere dea delle nozze secondo una tradizione riconducibile almeno a Calvo (fr. 6 Bl. 2 : et leges sanctas docuit et cara iugavit / corpora conubiis et magnas condidit urbes) 318 . In un altro passo del suo commento (ad Aen. 3, 139), inoltre, Servio parla di un legame di Cerere con i divorzi; la notizia si può collegare con un passo di Plutarco (Rom. 22, in cui è menzionata Demetra, alla quale comunque Cerere è stata associata nel processo di ellenizzazione 319 ) relativo all ’ introduzione da parte di Romolo di una legge che regolamentasse i divorzi e punisse i mariti che ripudiavano le mogli ingiustificatamente (erano considerate giuste cause la sottrazione delle chiavi, l ’ avvelenamento dei figli e l ’ adulterio) 320 . Infine, e più in generale, la figura di Cerere è associata a quella delle matronae, ed è rappresentativa delle virtù femminili della castità e della maternità (questo aspetto sarà valorizzato soprattutto in età augustea: basti pensare all ’ icono- 316 Alla corrispondenza del templum Cereris con l ’ Eleusinion pensa Jocelyn 1967, 379, che usa questo argomento per confermare l ’ ipotesi dell ’ esistenza di una seconda Medea enniana ambientata ad Atene. Per la topografia di Atene si veda ora Greco 2010. 317 Sulla figura di Cerere cfr. EV s. v. (Chirassi Colombo); Bömer 1958, 251 - 254; Le Bonniec 1958; Spaeth 1996. Agli elementi evidenziati si può aggiungere anche il legame di Cerere con Angitia, accertato da epigrafi in cui la dea italica è definita, appunto, cereria (cfr. introduzione generale, p. 10; sul rapporto tra Cerere e Angitia cfr. Le Bonniec 1958, 44). 318 Su cui cfr. Hollis 2007, 75. Su Cerere legislatrice vd. Rosati 2009, 194 (con ulteriore bibliografia). Si può aggiungere anche che il legame di Cerere con le nozze potrebbe essere confermato dal rito privato della confarreatio. 319 Questo il testo: ἔθηκε δὲ καὶ νόμους τινάς , ὧν σφοδρὸς μέν ἐστιν ὁ γυναικὶ μὴ διδοὺς ἀπολείπειν ἄνδρα , γυναῖκα δὲ διδοὺς ἐκβάλλειν ἐπὶ φαρμακείᾳ τέκνων ἢ κλειδῶν ὑποβολῇ καὶ μοιχευθεῖσαν : εἰ δ᾽ ἄλλως τις ἀποπέμψαιτο , τῆς οὐσίας αὐτοῦ τὸ μὲν τῆς γυναικὸς εἶναι , τὸ δὲ τῆς Δήμητρος ἱερὸν κελεύων : τὸν δ᾽ ἀποδόμενον γυναῖκα θύεσθαι χθονίοις θεοῖς . 320 Sui passi serviani cfr. soprattutto Le Bonniec 1958, 77 - 88 e Spaeth 1996, 103 - 124. La Medea exul di Ennio 82 <?page no="95"?> grafia di Livia, spesso rappresentata proprio con gli attributi di Cerere). Dunque, sembra essere significativo l ’ inserimento di un elemento legato al culto di Cerere in questo frammento, soprattutto se accettiamo l ’ ipotesi che si tratti qui di un ampliamento del discorso di Egeo presente nel modello euripideo. A Medea, in sostanza, potrebbe essere prospettata un ’ ipotesi di ‘ riabilitazione ’ sotto la tutela di Cerere, protettrice delle donne ripudiate senza ragione. Andando ancora oltre, si potrebbe ipotizzare una dose di ironia drammatica dietro questo riferimento, se si dà peso alla testimonianza plutarchea in base alla quale una delle giuste cause di divorzio sarebbe proprio l ’ infanticidio 321 . (b) Nella tragedia euripidea Atene viene presentata come il luogo in cui Medea trovò asilo. La prima menzione di un asylum presso il tempio di Cerere è in un frammento di Varrone (De vita populi Romani, fr. 284 Salvadore 322 ): l ’ istituzione dell ’ asilo viene ricondotta dalla critica all ’ età regia 323 . Per presentare al suo pubblico l ’ offerta di ospitalità a Medea da parte di Egeo, offerta che in Euripide era sancita da un importante giuramento richiesto dalla stessa Medea, Ennio sembra aver utilizzato una delle più antiche istituzioni di asilo della Roma del suo tempo, quella, appunto, del tempio di Cerere. La scelta della menzione di Cerere, dunque, inserita in una sezione che sembra ampliare il modello euripideo, potrebbe costituire un ulteriore elemento che permette di far luce sulla tecnica traduttiva di Ennio: qui, come già altrove (si pensi ai casi di Romanisierung del fr. 2 o del fr. 5), potremmo trovarci di fronte al tentativo di offrire al pubblico i migliori strumenti di comprensione possibili, attualizzando il modello e ‘ romanizzando ’ nel caso specifico una divinità e il suo tempio. Proprio grazie alle modifiche la comunicazione viene facilitata e il nuovo pubblico è messo nelle condizioni di capire perfettamente il significato profondo del modello (Eur. Med. 723s. e, in generale, l ’ intero dialogo con Egeo), laddove una resa letterale non sarebbe stata, forse, altrettanto efficace. 321 Si può aggiungere che in questo momento dell ’ azione scenica Medea non ha ancora ucciso i suoi figli: anche in Ennio, forse, proprio come in Euripide, il discorso con Egeo potrebbe averle dato lo spunto per progettare il duplice omicidio (in Euripide, infatti, l ’ idea di uccidere i bambini era sollecitata dalle parole di Egeo, che raccontava a Medea di non avere figli, in particolare ai vv. 668 - 671, cui seguiva il resoconto del responso oracolare). 322 Apud Non. 63 L: hanc deam Aelius putat esse Cererem; sed quod in asylum qui confugisset panis daretur, esse nomen fictum a pane dando, <unde etiam> pandere, quod est aperire, <quod numquam fanum talibus clauderetur>. 323 Cfr. Riposati 1972, 94 - 96 e Spaeth 1996, 82 - 86. Sui rapporti del tempio di Cerere con la plebe, documentati dalle fonti, cfr. Sordi 1983. Fr. 14 83 <?page no="96"?> Fr. 15 (= fr. XIII, 280 Vahl. 2 = fr. CXIV, 243 Joc. = F 98 TrRF) ia 6 Sol, qui candentem in caelo sublimat facem o Sole, che levi in cielo la fiaccola incandescente Non. 170 M (= 250 L): sublimare , extollere. Ennius Medea (234) Sol . . . facem. qui codd. edd. qua Mercerus | sublimas Columna in app. | <audiat> add. Vahl. 2 in app. <sit testis> add. exempli causa Ribb. 3 in app. Il frammento costituisce un ’ invocazione al Sole, e, in assenza di certezze riguardo al preciso ipotesto euripideo, poteva essere pronunciato da Egeo o, forse meglio, da Medea 324 ; mi sembra meno convincente, invece, l ’ ipotesi che i versi fossero attribuiti al coro, come pensava (anche in seguito a pesanti interventi testuali) Planck 325 . Il verso è trasmesso da Nonio a proposito del verbo sublimare con indicazione di autore e titolo del dramma. Ad alcuni editori, per primo al Colonna in apparato (e poi a Planck, Bothe, Ribbeck nella prima edizione e, più prudentemente in apparato, ancora nelle successive), è sembrato opportuno modificare il tràdito sublimat in sublimas, per normalizzare l ’ invocazione con un verbo alla seconda persona. In realtà, Enn. ann. 619 Sk. = 620 Vahl. 2 (vosque Lares tectum nostrum qui funditus curant) e trag. inc. 35 Ribb. 3 (Danai qui parent Atridis, quam primum arma sumite, forse enniano) confermano la possibilità del verbo alla terza persona anche nelle invocazioni 326 . Particolarmente convincenti appaiono le osservazioni di Marangoni 1988, che parte dal contesto apuleiano (flor. 2, 10) in cui sono citati i vv. 581 - 584 Ribb. 3 di Accio (Sol qui micantem candido curru atque equis / flammam citatis fervido ardore explicas, / quianam tam adverso augurio et inimico omine / Thebis radiatum lumen ostentas tuum? ), il primo dei quali ricorre nella sua forma corretta in Prisciano (GL III 424). Il testo riportato da Apuleio (sol qui candentem fervido cursu atque equis / flammam citatis fervido ardore explicas) è considerato dagli studiosi di Apuleio una citazione approssimativa. L ’ ipotesi di Marangoni è che si tratti di un ’ interferenza, per cui l ’ inizio del verso di Accio (che già di per sé costituiva un ’ imitazione di quello di Ennio 327 ) viene modificato sulla 324 A Egeo pensa Galasso (Galasso - Montana 2004, 273); a Medea, tra gli altri, Arcellaschi 1990, 65s. 325 Lo studioso riportava anche l ’ informazione secondo cui la gente di Colchide era solita invocare il Sole o Giove “ in accepta iniuria ” e proponeva come modello Eur. Med. 1254. Si riporta per completezza anche il suo testo, pur ritenendo l ’ intervento troppo invasivo (i due versi, ottenuti modificando pesantemente l ’ ordo verborum, sarebbero quaternari anapestici, il secondo dei quali incompleto): candentem, Sol, in cailo quei / subleimas facem. 326 Cfr. Jocelyn 1967, 380; Marangoni 1988, 49; Falcone 2013, 311. Sull ’ alternanza tra Ere Du-Stil cfr. Norden 2002, 282s. 327 Su Accio si vedano Paduano 1973 e Aricò 1994. La Medea exul di Ennio 84 <?page no="97"?> base di quello enniano, e dunque candentem sostituisce micantem e implica la successiva sostituzione di candidus con fervidus. Incrociando queste considerazioni con l ’ analisi dei passi paralleli già citati a proposito delle invocazioni con il verbo alla terza persona, lo studioso trae delle conclusioni a proposito del testo del frammento qui analizzato 328 : esso va interpretato come invocazione, sia per via dello schema cletico (costituito da teonimo seguito da proposizione relativa 329 ), sia per via della sovrapposizione apuleiana con il testo di Accio; in ogni caso, anche intendendo il verso come invocazione, sulla base dei loci citati non sembra necessario modificare la terza persona sublimat. Non è esclusa la possibilità di una lacuna, con conseguente integrazione da porre in un verso successivo, in quanto l ’ errore di Apuleio si spiegherebbe meglio nell ’ ambito di uno stesso schema metrico, quello del senario appunto. Come accennato, dunque, si tratta qui di un ’ invocazione al Sole o di un giuramento sul Sole. Data la brevità del frammento la presenza di numerosi riferimenti al Sole nella Medea di Euripide (superfluo, forse, ricordare che Medea era sua nipote nel mito) 330 , non è facile individuare un modello preciso per questo verso. Gli editori indicano ora uno ora l ’ altro dei seguenti passi: Eur. Med. 746s. ( ὄμνυ πέδον Γῆς , πατέρα θ’ Ἥλιον πατρὸς / τοὐμοῦ , θεῶν τε συντιθεὶς ἅπαν γένος ); 752 ( ὄμνυμι Γαῖαν < Ἡλίου θ’ ἁγνὸν σέβας >) e 764 ( ὦ Ζεῦ Δίκη τε Ζηνὸς Ἡλίου τε φῶς ). Nel primo (meno verisimile per l ’ assenza di riferimenti alla luminosità 331 ) e nel secondo caso si tratterebbe di un giuramento, nel terzo di un ’ invocazione. Ennio utilizza qui un tono decisamente poetico 332 . Oltre all ’ uso del raro sublimare (ricorre solo qui e in Cato Orig. 2, 63 prima di Apuleio), già notato da Nonio, infatti, la solennità del verso è sottolineata anche dal participio di candeo, verbo anch ’ esso raro 333 , che ricorre un ’ altra volta in Ennio, scen. 345 Vahl. 2 = 301 Joc. (aspice hoc sublime candens, quem vocant omnes Iovem), e che indica un colore ‘ bianco splendente, brillante ’ . Il concetto della luminosità incandescente del Sole, però, si trova molto spesso nei testi arcaici, e viene espresso ora con l ’ aggettivo candidus (in Enn. ann. 85 Sk. = 90 Vahl. 2 : exin candida se radiis dedi icta foras lux, e ann. 572 Sk. = 558 Vahl. 2 : inde patefecit radiis rota candida caelum, nonché nel frammento delle Phoenissae di Accio già citato, vv. 581 - 584 Ribb. 3 ) ora con il sostantivo candor (come nel Chryses di Pacuvio, v. 89 Ribb. 3 : solisque exortu capessit candorem, occasum nigret, in cui verisimilmente si parla della terra, che riflette la luce del Sole). 328 Per cui cfr. soprattutto Marangoni 1988, 47 - 49. 329 Su questa struttura cfr. Falcone 2013, 311 e n. 6 (con ulteriore bibliografia). 330 Sulla presenza del tema del Sole nei testi latini relativi a Medea (e sulla sua caratterizzazione come maga, vicina alla dea Angitia) cfr. introduzione generale, p. 12. 331 Cfr. Marangoni 1988, 48. 332 Per una sintesi della questione cfr. Drabkin 1937, 33s.; Röser 1939, 27 (che sottolinea gli elementi poetici); Rosato 2005, 125s. Al v. 752 pensava Vahlen 1903 2 , agli altri due passi, invece, Ribbeck 1875. 333 Cfr. ThlL s. v. ‘ candeo ’ , col. 234. Fr. 15 85 <?page no="98"?> Il verso può essere avvicinato anche ad una serie di frammenti tragici enniani di argomento filosofico, o più precisamente fisico 334 , tra i quali sembra particolarmente interessante, oltre al già citato verso del Thyestes (scen. 345 Vahl. 2 ), anche scen. 401 Vahl. 2 = 342 Joc. (cui quod in me est exsecrabor hoc quod lucet, quicquid est) 335 , entrambi riferiti al cielo, il primo con gli stessi stilemi con cui Ennio si riferisce qui al Sole. In questo verso il Sole è personificato e rappresentato nell ’ atto di sollevare una torcia incandescente, in base ad una delle due immagini convenzionali (l ’ altra è quella dell ’ uomo che guida un carro trainato da quattro cavalli) 336 . Fr. 16 (= fr. XV, 282 - 283 Vahl. 2 = fr. CXIII, 241 - 242 Joc. = F 97 TrRF) gl salvete, optima corpora! 2 c r Cette manus vestras measque accipite! adorati figli, vi saluto! Date a me le vostre mani, prendete le mie! Non. 84, 32 M (= 120 L): cette significat dicite vel date, ab eo quod cedo. Naevius Lycurgo (46) . . . Ennius in Medea (235) salvete . . . accipite! Accius Melanippo (425) . . . Pacuvius Atalanta (62) . . . 1. optima corpora codd. optima pignora Stephanus in app. o pia pignora Müller optuma viscera Columna in app. Medea saluta i suoi figli, intrecciando le sue mani con le loro. Il frammento, che costituisce la resa dei vv. 1069 - 1073 del modello euripideo ( παῖδας προσειπεῖν βούλομαι . - δότ’ , ὦ τέκνα , / δότ’ ἀσπάσασθαι μητρὶ δεξιὰν χέρα . / ὦ φιλτάτη χείρ , φίλτατον δέ μοι στόμα / καὶ σχῆμα καὶ πρόσωπον εὐγενὲς τέκνων , / εὐδαιμονοῖτον , ἀλλ’ ἐκεῖ· . . .), si inserisce nel complesso contesto caratterizzato da una climax patetica in cui la protagonista decideva e realizzava l ’ infanticidio. Il frustulo, trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma, presenta alcune difficoltà metrico-testuali. Al primo verso è stato messo in dubbio il tràdito corpora, sostituito con pignora dallo Stephanus, seguito poi da Vossius, e con viscera da Colonna (sulla base del parallelo con Ov. rem. 59, nec dolor armasset contra sua viscera matrem, relativo sempre a Medea). Corpus sembrava costituire una difficoltà, in quanto avrebbe indicato per lo più il corpo degli schiavi: basterebbe anche solo tenere conto del nesso erilis corporis utilizzato a proposito di Medea al fr. 2, nonché di Ov. fast. 2, 404s. (nata simul, moritura simul, simul ite sub undas / corpora) e met. 3, 58 (aut ultor vestrae, fidissima corpora, mortis) per 334 Il frammento non è però riportato da Garbarino 1973. 335 Per un ’ analisi di questi versi si veda Garbarino 1973, 590 - 592. 336 Per i passi paralleli cfr. Jocelyn 1967, 380. La Medea exul di Ennio 86 <?page no="99"?> considerare non necessaria la proposta 337 . La questione inerente il mantenimento del tràdito optima (oppure optuma, variante ortografica arcaizzante proposta da Colonna e Planck) o la sua correzione in o pia è più complessa, in quanto influenzata dall ’ interpretazione metrica del passo. O pia pignora (oppure corpora) sembra necessario se si intendono i versi come anapesti, nei quali non si può trovare un dattilo (quale optima) in questa posizione 338 . L ’ interpretazione dattilica (tetrametri dattilici per l ’ esattezza) 339 , sembra, a prima vista, la più semplice per mantenere il testo tràdito, ma è dubbia la presenza di sequenze dattiliche nei brani lirici drammatici arcaici 340 . Ad un ’ interpretazione trocaica (settenari trocaici catalettici) pensava Bothe 1834 2 , mentre Pisani 1976 considera i versi degli ‘ evidenti ’ trimetri giambici 341 ; non prende posizione Traglia, che pensa in generale ad un verso dattilico o trocaico. Interessante la proposta avanzata dubitanter da Lennartz (1994, 242), per cui potrebbe forse trattarsi di un gliconeo seguito da due cola reiziani 342 ; proposta che condivido, sia pure con qualche dubbio 343 : la prudenza è doverosa in assenza di contesto. La scelta di un canticum lirico per questa scena contribuisce a incrementarne il pathos; l ’ integrazione dell ’ elemento musicale, che va presupposta, doveva costituire un ulteriore fattore di trascinamento emotivo 344 . Il rapporto dei versi con l ’ ipotesto pone alcuni problemi, complicati anche dalle questioni relative agli ingressi e alle uscite dei personaggi nella scena euripidea e al grosso dilemma relativo ai sospetti di autenticità della seconda parte del monologo (vv. 1056 - 1080) 345 . 337 Altri passi paralleli sono riportati da Osann 1816, 120s. e da Vahlen 1903 2 ad loc. 338 Così Müller 1861, 416. 339 La proposta di Ribbeck è accolta dubitanter da Heurgon 1958, 182 e Klotz 1953 ad loc. e discussa da Lennartz 1994, 242 n. 189 e Rosato 2005, 126 n. 123. 340 Cfr. Lindsay, ELV 311; Questa 2007, 489s. 341 Ma è costretto a sciogliere piuttosto macchinosamente il problema della quantità della prima ‘ i ’ di accipite ricorrendo all ’ uso consonantico di ‘ i ’ in una forma *accipiite analogica ad accipio (rimandando anche a Pisani 1962, 75s.), analogamente ad abiete con ‘ a ’ lunga in conseguenza dell ’ uso consonantico di ‘ i ’ in Verg. Aen. 2, 16; inoltre deve anche spiegare un difficile allungamento della seconda sillaba di cette, non escludendo la perdita nel testo di un ‘ et ’ (paleograficamente spiegabile, et sarebbe in polisindeto con l ’ enclitica -que). 342 Per via delle difficoltà connesse con l ’ interpretazione come unico verso della sequenza di due cola, che costituirebbero una “ struttura metrica poco solida e stabile ” (Questa 2007, 476), parlerei appunto piuttosto di due cola reiziani che di doppio colon reiziano, pur mantenendo tradizionalmente il testo su un unico verso. 343 In particolare, lo schema del secondo colon risulterebbe essere abbastanza raro, se si confronta con la casistica prospettata per quanto riguarda Plauto da Questa 1982, 127 - 148. 344 Cfr. anche Galasso - Montana 2004, 274. 345 Autenticità che viene negata da Lennartz 1994, 247 - 251, proprio sulla base delle considerazioni relative al frammento enniano (in particolare a salvete): se la Medea di Ennio saluta qui per la prima volta i suoi figli, allora Ennio costituirebbe il testimone di una redazione diversa della scena tra Medea e i figli, e utilizzerebbe una versione più patetica di quella originale (vv. 1021 - 1055), poi confluita nella Medea euripidea, creando così il problema del raddoppiamento della scena con Fr. 16 87 <?page no="100"?> Molto si è discusso sul valore da attribuire al termine salvete 346 e sulla sua corrispondenza con il greco 347 . È da notare che salve costituisce in latino un saluto di benvenuto e non di addio (così in Pac. trag. 20 Ribb. 3 : salvete, gemini, mea propages sanguinis! , in cui si tratta di una scena tra madre e figli), con la sola eccezione dell ’ uso, soprattutto plautino, della iunctura ‘ vale atque salve ’ . Il frammento è però lacunoso, e non si può escludere in maniera assoluta (come, è ovvio, nemmeno si può presupporre) la presenza di un ‘ valete ’ nel testo completo di Ennio: in questo modo le parole di Medea potrebbero essere intese come un addio ai figli. Il frustulo, inoltre, faceva parte di una scena caratterizzata nell ’ ipotesto euripideo da un continuo altalenare di emozioni, in cui risultava evidente la complessità psicologica della protagonista nel momento decisivo per l ’ elaborazione di una scelta definitiva, e in cui ogni sguardo rivolto ai figli comportava una presa di coscienza dell ’ affetto nei loro confronti e, d ’ altra parte, della volontà di ucciderli per vendetta: non stupisce che Medea voglia salutare i suoi figli, se questi ricompaiono in scena, o anche che li guardi e saluti con sguardo diverso a conclusione di un improvviso mutamento psicologico 348 . Comunque si decida di interpretare e tradurre salvete (e, in assenza di contesto, sarà ovviamente opportuno tradurlo come saluto di benvenuto), non pare si possa dire che Ennio abbia tradito il modello. Inoltre, se salve va considerato la realizzazione effettiva del desiderio espresso dalla protagonista nel testo greco ( προσειπεῖν βούλομαι , v. 1069), pare che proprio l ’ uso del verbo προσειπεῖν (che vuol dire ‘ rivolgere la parola a qualcuno ’ o anche ‘ salutare ’ ) renda superflua la discussione relativa al suo valore di addio. Dall ’ altra parte, però, non sembra sufficientemente dimostrabile l ’ ipotesi che Medea si trovi qui a salutare per la prima volta nel dramma i suoi figli, con un accrescimento dell ’ effetto di pathos della scena 349 . Stilisticamente interessante è la struttura del secondo verso, in cui l ’ intreccio delle mani viene reso quasi visivamente percepibile dallo stretto nesso vestras measque, posto nel centro del verso, la cui cornice è costituita dai due imperativi cette e accipite, che riprendono e amplificano il senso di reciprocità espresso in greco da ἀσπάσασθαι (v. 1070) 350 . La scelta stilistica di Ennio può essere confermata, se ce ne fosse bisogno, da un ’ analoga soluzione ovidiana (fast. 3, 226), in cui - sia pure in contesto completamente diverso - l ’ intrecciarsi delle mani i bambini. Ma si vedano le osservazioni di Rosato 2005, 130 sul metodo “ perlomeno azzardato ” utilizzato da Lennartz. 346 Ritenuto ‘ doppelsinnig ’ da Röser 1939, 28. 347 Per un quadro delle proposte cfr. Rosato 2005, 127 - 132. 348 Analoghe osservazioni in Rosato 2005, 130. Oltre all ’ ipotesto euripideo, anche le redazioni posteriori a Ennio rendono verisimile pensare che Medea fosse preda in questa scena di una vera e propria altalena di sensazioni: si pensi, per esempio, alle fasi finali della Medea di Seneca (con le osservazioni di Gamberale 2008). 349 Come vuole, oltre al già citato Lennartz 1994, anche Brooks 1981, 193. 350 Sull ’ amplificazione cfr. Röser 1939, 28s. La Medea exul di Ennio 88 <?page no="101"?> è reso dal nesso (sempre con congiunzione enclitica) tra i due verbi dare e accipere questa volta messo in risalto non dalla contiguità al centro del verso bensì dall ’ iperbato: dant soceri generis accipiuntque manus. Il riferimento alle mani risulta interessante anche sotto il profilo drammaturgico (cfr. quanto osservato a proposito del fr. 5): presente già nel modello euripideo (si segnala l ’ espressione χέρ’ αὐτοκτόνον di v. 1254), esso si ritrova anche in Seneca, per es. Med. 1009 - 10 (si posset una caede satiari manus / nullam petisset . . .). Fr. 17 (= fr. XVI, 284 - 286 Vahl. 2 = fr. CX, 234 - 236 Joc. = F 95 TrRF) tr 7 Iuppiter tuque adeo summe Sol, qui res omnis spicis, quique tuo <cum> lumine mare terram caelum contines, inspice hoc facinus, prius quam fiat: prohibessis scelus! Giove, e tu sommo Sole, che vedi ogni cosa, e contieni con la tua luce mare, terra e cielo, volgi lo sguardo a questo misfatto, prima che avvenga: impedisci il delitto! Prob. in Verg. ecl. 6, 31: sed et Homerum ipso hoc loco (scil. Il. 18, 483) possumus probare quattuor elementorum mentionem fecisse . . . similiter et Ennius in Medea exule in his versibus: Iuppiter . . . scelus. iam et hic Iuppiter et Sol pro igni, qui mare et terram et caelum continet, <ut> non dubie caelum pro aere dixerit, ita ut. . . 1. Sol qui res omnis (-es Par.) inspicis codd. | spicis Vahl. 2 plerr. edd. specis Klotz | Sol in alterum versum transposuit Havet | qui omnis res inspicis Keil || 2. quique tuo lumine mare terram caelum contines codd. | <cum> add. Vahl. 2 <igneo> ante tuo add. Leo | quique lumine tuo maria coelum ac terram Porson (terras contues) Bothe | quique lumine tuo mare terram caelum contines Manuwald || 3. hoc facinus codd. facimus V | fiat Keil fit VE sit MP | hoc facinus dispice Scriverius | prohibesse Vat. prohibesse ee Par. prohibe prohibe esse M Lennartz prohibessis Bothe Il coro rivolge una preghiera a Giove e al Sole, affinché l ’ infanticidio possa essere evitato. Il frammento ripropone, con alcune significative modifiche, l ’ attacco dell ’ ultimo stasimo (vv. 1251 - 1260) della Medea di Euripide: ἰὼ Γᾶ τε καὶ παμφαὴς / ἀκτὶς Ἁλίου , κατίδετ᾽ ἴδετε τὰν / ὀλομέναν γυναῖκα , πρὶν φοινίαν / τέκνοις προσβαλεῖν χέρ᾽ αὐτοκτόνον : / σᾶς γὰρ χρυσέας ἀπὸ γονᾶς / ἔβλαστεν , θεοῦ δ᾽ αἷμα < χαμαὶ > πίτνειν / φόβος ὑπ᾽ ἀνέρων . / ἀλλά νιν , ὦ φάος διογενές , κάτειρ -/ γε κατάπαυσον , ἔξελ᾽ οἴκων τάλαι -/ ναν φονίαν τ᾽ Ἐριν ὺν ὑπαλαστόρων . Il testo è riportato da Probo con l ’ indicazione di autore e titolo e presenta diversi problemi metrici e testuali 351 . L ’ interpretazione metrica dei versi come settenari 351 Per una sintesi cfr. Rosato 2005, 133s. e nota 129 e Manuwald 2012, 208 - 211. Fr. 17 89 <?page no="102"?> trocaici, qui condivisa (cfr. infra), permette di mantenere quasi integralmente il testo tràdito, accettando gli interventi proposti da Vahlen 352 . Al v. 1 il tràdito inspicis (mantenuto, oltre che da Keil, da Jocelyn 1967 e Manuwald 2012, che propone l ’ inversione omnis res) è per lo più sostituito con il semplice spicis (forma apofonica “ ricavata dalle forme composte in cui l ’ originario specio aveva subito regolare indebolimento vocalico ” 353 ): la forma doveva suonare strana, e dunque non stupisce l ’ inserimento del più usuale inspicio in sua vece; l ’ alternanza tra verbo semplice (sia pure artificiale) e verbo composto sembra uno stilema voluto, forse suggerito dal greco κατίδετ᾽ ἴδετε (v. 1252, cfr. Bettini 1979); inoltre la forma e il gioco fonico non sono del tutto assenti nella tradizione letteraria: a Enn. ann. 408 Sk. = 421 Vahl. 2 (quos ubi rex Epulo spexit de cotibus celsis), riportato già da Vahlen, si possono aggiungere l ’ interessante verso plautino di Bacch. 399 (= Cas. 516), specimen specitur, nunc certamen cernitur, in cui specio è scelto per creare un gioco con specimen, nonché le forme spicio di Plaut. Curc. 155 (re spicio nihili meam vos gratiam facere) e Mil. 164 (flagitiumst si nihil mittetur quae supercilio spicit). Al v. 2 sembra da accettare la proposta di integrazione cum avanzata ancora da Vahlen, intendendo tuo in sinizesi e con strappamento (del longum, seguito da breve 354 ) nella sequenza lumine mare (diversamente da Jocelyn 1967, che mantiene il testo tràdito, e da Manuwald 2012, che recupera l ’ inversione lumine tuo già proposta da Porson 1802, 448 e Bothe 1834, in cui però si accompagnava a ulteriori necessari interventi sul testo). L ’ integrazione igneo del Leo (1910, 14s.) sembra interessante, se si tiene conto di Cic. carm. fr. 11, 1 - 5 Bl. 2 (principio aetherio flammatus Iuppiter igni / vertitur et totum collustrat lumine mundum / menteque divina caelum terrasque petessit, / quae penitus sensus hominum vitasque retentat, / aetheris aeterni sapeta atque inclusa cavernis), ma l ’ aggettivo igneus è attestato per la prima volta in un frammento attribuito a Levio in cui si fa riferimento non a lumen ma alle briglie del carro del Sole 355 ; in più la proposta restituisce un testo più problematico da un punto di vista metrico. Ancora meno convincente sembra l ’ ipotesi di Havet 1890 b, accolta da Warmington 1936, che prevede il mantenimento di inspicis e il trasferimento nel verso successivo di Sol (Iuppiter tuque adeo summe qui res omnis inspicis / quique tuo Sol lumine mare terram caelum contines . . .): in questo modo si spezzerebbe la iunctura allitterante ‘ summe Sol ’ 352 Oltre all ’ edizione dei frammenti, si veda Vahlen 1859, 566s. 353 Bettini 1979, 91. Le considerazioni dello studioso relative al testo enniano mi sembrano ancora le più convincenti. 354 Per questo fenomeno e la sua casistica in Plauto e Terenzio cfr. Raffaelli 1982, 58 e n. 75 e Questa 2007, 213 e 249. 355 Si tratta del fr. 31 Bl. 2 : hac qua sol vagus igneas habenas / immittit propius iugatque terra, trasmesso da Macrobio (1, 18, 16) che lo attribuisce a Nevius (errore frequente nelle citazioni degli Erotopaegnia); unico caso di endecasillabo falecio nella produzione del preneoterico, per questo considerato dubbio da alcuni studiosi (in questo caso l ’ attestazione dell ’ aggettivo igneus potrebbe essere addirittura più tarda). La Medea exul di Ennio 90 <?page no="103"?> (testimoniata anche altrove: cfr. Cic. rep. 6, 9). L ’ eventuale caduta di un cum, inoltre, sarebbe facilmente spiegabile anche da un punto di vista paleografico, immaginando una forma abbreviata nell ’ apografo. Al v. 3 il Vossius proponeva di sostituire hoc con hanc, da riferire a Medea e non a facinus, sulla base del confronto con Euripide: la proposta non sembra tenere conto delle differenze che Ennio consapevolmente inserisce rispetto al modello (su cui cfr. infra). Sempre al v. 3, infine, fiat, proposto da Keil 1848 nell ’ edizione del testimone, sostituisce il tràdito fit (mantenuto ancora da Jocelyn 1967), ristabilendo anche un migliore assetto sintattico 356 . I versi sono interpretati come settenari trocaici a partire dal Vossius 357 : nel primo l ’ incisione mediana mette in evidenza l ’ allitterazione a ponte, enfatizzando i due elementi dell ’ invocazione; nel secondo, in cui è da notare la sequenza proceleusmatica, è il tricolon ad essere in qualche modo ‘ smembrato ’ dall ’ incisione, creando una struttura piuttosto particolare (evitata generalmente da Plauto, ma non da Terenzio, che arriva a disporre gli elementi dei tricola anche in enjambement) 358 ; per il terzo verso, infine, penserei piuttosto a un ’ incisione dopo il decimo elemento. Non sono mancate altre interpretazioni. Gli editori più antichi pensavano a un ritmo anapestico (così Planck 1807) o cretico (in particolare Osann 1816, 122s. che riteneva questo metro la migliore resa latina possibile dei docmi del modello), e disponevano il testo su sei versi, modificando pesantemente l ’ ordo verborum; la disposizione su sei versi è stata difesa da Lennartz 1994, 195, che mantiene il testo tràdito, scegliendo per l ’ ultimo verso prohibe prohibe esse di M, e pensa a una sequenza: ternario cretico; quaternario trocaico catalettico; dimetro cretico; quaternario giambico acataletto; due gliconei. Di difficile interpretazione metrica restano i versi secondo Jocelyn 1967, 369s., che intende il v. 1 come dimetro trocaico catalettico (rinviando a Strzelecki 1947, 98 n. 52 e al confronto con Plaut. Epid. 330), non prende posizione sul v. 2 e individua una sequenza di dimetro trocaico nel terzo verso fino a fit. Il frammento sembra costituire una sapiente elaborazione poetica della lingua sacrale 359 . Ennio realizza una traduzione creativa del modello, che viene adattato alle esigenze del linguaggio e del credo religiosi romani. Iuppiter sostituisce la Madre Terra del testo greco 360 . La struttura della preghiera è tradizionale, con l ’ invocazione del dio seguita da una proposizione relativa e poi ancora dalla richiesta. Particolarmente curato è l ’ aspetto fonostilistico, che ripropone stilemi tipici dei carmina: all ’ accostamento spicis / inspice si accompagnano, infatti, le allitterazioni facinus / fiat e summe Sol / spicis. Particolarmente interessante è l ’ uso 356 Come nota già Bettini 1979, 91. 357 Sembra eccessiva la prudenza mostrata in questo caso da Jocelyn e condivisa da Rosato 2005, 133. 358 Cfr. Raffaelli 1982, 123s. 359 Di una “ schöne Stilisierung sakraler Prädikation ” , del resto, parlava già Röser 1939, 30. Rimanda al linguaggio sacrale anche Brooks 1981, 193 - 195. Cfr. ora Falcone 2013, 311s. 360 Cfr. Ribbeck 1875, 157; Herzog - Hauser 1935, 48; Goossens 1946, 288ss.; Bettini 1979, 92. Fr. 17 91 <?page no="104"?> della iunctura asindetica mare terram caelum, qui retta da contines (cf. Enn. ann. 556 Sk. = 543 Vahl. 2 : arcet terram mare caelum): essa era sentita propria della lingua poetica, come testimonia Cic. fin. 5, 9: ut nulla pars caelo mari terra, ut poetice loquar, praetermissa sit (al passo sono da aggiungere i numerosi loci paralleli riportati da Vahlen in apparato). La presenza di prohibessis, un antico ottativo sul tipo di faxim 361 , è un interessante esempio di Romanisierung: esso ricorre, infatti, non solo nei testi letterari, ma anche nei carmina e nelle epigrafi, in riferimento di solito alla sfera delle calamitates naturali (per es. CIL I 366, n. 64: prohibessis defendas auerruncesque; cfr. anche il fr. 16 del Medus di Pacuvio); la connessione con scelus riconduce ancora alla dimensione sacrale-religiosa. Il frammento fa riferimento al topos del Sole che vede tutto: se, come sembra preferibile 362 , le proposizioni relative vanno riferite soltanto a Sol, allora Ennio fa riferimento qui al primato cosmico del sole, professato anche dagli stoici 363 . Il tema del Sole testimone di un evento ricorre altre volte sulle scene latine: basti ricordare la reazione innaturale di fronte alla cena Thyestea, o - in chiave comica - il prolungamento della notte raccontato nell ’ Amphitruo. 361 Per cui cfr. Heurgon 1958, 182; Frobenius 1909, 40. 362 Si vedano almeno Bettini 1979 (che rimanda agli scholia A ad Omero Q 480) e Rosato 2005, 138 (che confuta l ’ ipotesi di Jocelyn 1967, 373, secondo cui la seconda relativa sarebbe riferita all ’Αἰθήρ , terza divinità implicita). Ad una corrispondenza tra Sole e Giove pensava già Colonna ad loc., e così anche Jocelyn 1967 ad loc. Val. Fl. 3, 400s. (quo flammea numquam / Sol iuga sidereos nec mittit Iuppiter annos) e Anth. 386, 44 (Sol Liber, Sol alma Ceres, Sol Iuppiter ipse) potrebbero fornire un ’ argomentazione a supporto di questa proposta. 363 Alla mistica stoica pensa Bettini 1979, 371. La Medea exul di Ennio 92 <?page no="105"?> Il Medus di Pacuvio <?page no="107"?> Introduzione Titolo e frammenti Il titolo del dramma 364 ricorre per lo più nella forma corretta Medus, all ’ ablativo (frr. 1, 2, 3 teste Prisciano; 4, 6, 8, 9, 13, 14, 15 teste Varrone; 16, 17, 18, 19, 20, 22, 25, 26, 29, 30); in due soli casi la forma è errata, Medius, sempre all ’ ablativo (fr. 3 teste Festo, 24 teste Varrone). Alcuni frustuli sono attribuiti a una Medea di Pacuvio (frr. 7, 15 teste Servio): si tratta di una banalizzazione del titolo, dovuta verisimilmente alla presenza nel dramma del personaggio di Medea, ben più conosciuta del figlio Medo. L ’ indicazione del solo autore è data esplicitamente (Pacuvius) per i frr. 10, 15 teste Macrobio e 24, nonché (illo Pacuviano) per i frr. 11 e 12. Un generico apud tragicos introduce il fr. 21; il fr. 27 è contrassegnato dall ’ espressione apud alium poetam, mentre del tutto privi di indicazione sono i frr. 23 e 28 (che vengono attribuiti a questa tragedia per i motivi discussi infra). L ’ attribuzione dei frustuli per i quali i fontes non riportano l ’ indicazione di opera e/ o autore è discussa. La lettura dei testimoni che riportano il fr. 12 (in particolare Agostino) rende indubbia la sua appartenenza al Medus. Nel fr. 21 è menzionato esplicitamente Egialeo, variante del nome di Absirto usata da Pacuvio secondo una testimonianza di Cicerone (nat. deor. 3, 19). Per i frr. 10 e 23 la questione sembra risolvibile in quanto il contenuto del verso si adatta bene alla probabile trama del dramma. Analogo è il discorso relativo al fr. 27, per il quale Cicerone, che riporta il verso, specifica che si tratta di un frustulo appartenente a un dramma relativo a Medea di un autore diverso da Ennio: l ’ uso dei verbi al passato rendono altamente probabile l ’ attribuzione al Medus. La presenza del termine sola, dal quale pare si possa dedurre che la persona loquens fosse Medea, nonché l ’ aderenza del tema al plot del Medus rende altamente probabile anche l ’ attribuzione del fr. 28 al dramma. Inoltre, si è scelto di dare dignità di frammento al fr. 11*, tràdito da Cicerone e in genere relegato tra i testimonia: la sequenza, infatti, presenta andamento metrico (lirico) e sembra essere stata imitata da Varrone nelle Menippee. I frammenti sono qui presentati seguendo, con alcune lievi modifiche, l ’ ordine proposto da Nosarti 1993, che tiene conto del parallelo con la fabula 27 di Igino (su cui cfr. infra). Il soggetto del dramma Il caso del Medus costituisce uno degli esempi più noti della libertà creativa del drammaturgo Pacuvio, dal momento che non è individuabile nessun modello greco di riferimento. 364 Prima di Pacuvio è attestato solo in commedia e relativamente a temi persiani: è il caso del Medos di Teopompo (frr. 30 - 32 K. - A.). 95 <?page no="108"?> Più in particolare, il soggetto del dramma sembra essere costituito dal ritorno di Medea e Medo in Colchide l ’ uno all ’ insaputa dell ’ altra, dal loro riconoscimento, dal recupero del regno avito ai danni di Perse e dalla restituzione del potere a Eeta. Vicende simili sono note da pochissime testimonianze antiche, che sembra utile passare rapidamente in rassegna: a) Diod. 4, 56, 1: καθόλου δὲ διὰ τὴν τῶν τραγῳδῶν τερατείαν ποικίλη τις [ διάθεσις ] καὶ διάφορος ἱστορία περὶ Μηδείας ἐξενήνεκται , καί τινες χαρίζεσθαι βουλόμενοι τοῖς Ἀθηναίοις φασὶν αὐτὴν ἀναλαβοῦσαν τὸν ἐξ Αἰγέως Μῆδον εἰς Κόλχους διασωθῆναι · κατὰ δὲ τοῦτον τὸν χρόνον Αἰήτην ἐκ τῆς βασιλείας ὑπὸ τἀδελφοῦ Πέρσου βιαίως ἐκπεπτωκότα τὴν ἀρχὴν ἀνακτήσασθαι , Μήδου τοῦ Μηδείας ἀνελόντος τὸν Πέρσην · μετὰ δὲ ταῦτα δυνάμεως ἐγκρατῆ γενόμενον τὸν Μῆδον πολλὴν ἐπελθεῖν τῆς ὑπὲρ τὸν Πόντον Ἀσίας , καὶ κατασχεῖν τὴν ἀπ᾽ ἐκείνου Μηδίαν προ σαγορευθεῖσαν . b) Ps. Apollod. 1, 9, 28: Μήδεια δὲ ἧκεν εἰς Ἀθήνας , κἀκεῖ γαμηθεῖσα Αἰγεῖ παῖδα γεννᾷ Μῆδον . ἐπιβουλεύουσα δὲ ὕστερον Θησεῖ φυγὰς ἐξ Ἀθηνῶν μετὰ τοῦ παιδὸς ἐκβάλλεται . ἀλλ᾽ οὗτος μὲν πολλῶν κρατήσας βαρβάρων τὴν ὑφ᾽ ἑαυτὸν χώραν ἅπασαν Μηδίαν ἐκάλεσε , καὶ στρατευόμενος ἐπὶ Ἰνδοὺς ἀπέθανε · Μήδεια δὲ εἰς Κόλχους ἦλθεν ἄγνωστος , καὶ καταλα βοῦσα Αἰήτην ὑπὸ τοῦ ἀδελφοῦ Πέρσου τῆς βασιλείας ἐστερημένον , κτείνασα τοῦτον τῷ πατρὶ τὴν βασιλείαν ἀποκατέστησεν . c) Iust. 42, 2, 11 - 3, 2 365 : Igitur Iason divulgata opinione tam gloriosae expeditionis, cum ad eum certatim principes iuventutis totius ferme orbis concurrerent, exercitum fortissimorum virorum, qui Argonautae cognominati sunt, conparavit. [12] Quem cum magnis rebus gestis incolumem reduxisset, rursum a Peliae filiis Thessalia † magna vi pulsus cum ingenti multitudine, quae ad famam virtutis eius ex omnibus gentibus cotidie confluebat, comite Medea uxore, quam repudiatam miseratione exilii rursum receperat, et Medo, privigno ab Aegeo, rege Atheniensium, genito, Colchos repetivit socerumque Aeetam regno pulsum restituit. [1] Magna deinde bella cum finitimis gessit captasque civitates partim regno soceri ad abolendam superioris militiae iniuriam, qua filiam eius Medeam abduxerat et filium Aegialeum interfecerat, adiunxit, partim populis, quos secum adduxerat, adsignavit primusque humanorum post Herculem et Liberum, qui reges Orientis fuisse traduntur, eam caeli plagam domuisse dicitur. 42, 3, 6: Post mortem Iasonis Medus aemulus virtutis eius in honorem matris Mediam urbem condidit regnumque ex nomine suo Medorum constituit, sub cuius maiestate Orientis postea imperium fuit. 365 In precedenza, un cenno al ritorno di Medea in Colchide in 2, 6, 14: Tenuit et Aegeus, Thesei pater, Athenis regnum, a quo per divortium discedens Medea propter adultam privigni aetatem Colchos cum Medo filio ex Aegeo suscepto concessit. Il Medus di Pacuvio 96 <?page no="109"?> d) Val. Fl. 5, 685 - 687: donec et Aeeten inopis post longa senectae / exilia, heu magnis quantum licet, impia, fatis, / nata iuvet Graiusque nepos in regna reponat. e) Hyg. fab. 27 366 : Persi Solis filio, fratri Aeetae, responsum fuit ab Aeetae progenie mortem cavere: ad quem Medus dum matrem persequitur tempestate est delatus, quem satellites comprehensum ad regem Persen perduxerunt. Medus Aegei et Medeae filius ut vidit se in inimici potestatem venisse, Hippoten Creontis filium se esse mentitus est. rex diligentius quaerit et in custodia eum conici iussit; ubi sterilitas et penuria frugum dicitur fuisse. quo Medea in curru iunctis draconibus cum venisset, regi se sacerdotem Dianae ementita est dixitque sterilitatem se expiare posse, et cum a rege audisset Hippoten Creontis filium in custodia haberi, arbitrans eum patris iniuriam exsequi venisse, ibi imprudens filium prodidit. nam regi persuadet eum Hippoten non esse sed Medum Aegei filium a matre missum ut regem interficeret, petitque ab eo ut interficiendus sibi traderetur, aestimans Hippoten esse. itaque Medus cum productus esset ut mendacium morte puniret, et illa aliter esse vidit quam putavit, dixit se cum eo colloqui velle atque ensem ei tradidit iussitque aui sui iniurias exsequi. Medus re audita Persen interfecit regnumque avitum possedit; ex suo nomine terram Mediam cognominavit. Comune a tutti i testi è la presenza del tema del recupero del regno della Colchide e della conquista di quello della Media. Notevoli, però, le differenze: in a) Medea rientra insieme al figlio Medo, che conquista per sé il regno di Media, cui dà il nome; particolarmente significativa in questo testo è la menzione dei tragediografi desiderosi di compiacere gli Ateniesi (purtroppo Diodoro non esplicita quali, e in ogni caso, come già accennato, non abbiamo altre attestazioni di questo tema in testi greci) 367 . Anche in b) Medea rientra insieme a Medo, entrambi in fuga da Atene, ma è poi la donna, dopo la morte del figlio, a recuperare il regno e restituirlo al padre, mentre Medo anche in questo testo è eroe eponimo della Media. Eccentrica la versione di Pompeo Trogo 368 , attestata nell ’ Epitome di Giustino (c): al rientro in Colchide, infatti, partecipa anche Giasone, riconciliatosi con 366 Riporto il testo secondo l ’ edizione teubneriana di Marshall (1993). 367 Sul brano cfr. Mariotta - Magnelli 2012, 195. 368 Il cui interesse verso questo territorio può essere legato alla spedizione di Pompeo in Colchide, alla quale il nonno di Trogo partecipò. La presenza dell ’ eroe greco e il suo rientro con lo scopo di cancellare la cattiva fama della prima spedizione, dunque, potrebbe avere una valenza propagandistica e disegnare come pienamente positiva la presenza e il regno di un occidentale in quelle terre, sull ’ esempio mitico, appunto, di Giasone. L ’ uso del mito di Medea in connessione con i temi delle guerre Mitridatiche è, del resto, attestato già in Cicerone, significativamente nella pro Manilia (22), in cui Mitridate stesso è paragonato a Medea, con una parafrasi del fr. 15* della Medea sive Argonautae di Accio, al cui commento rimando per ulteriore documentazione. Introduzione 97 <?page no="110"?> Medea; nella porzione di testo che segue si dà ulteriore importanza alla funzione civilizzatrice dell ’ eroe greco, alla cui morte subentra nel regno il figliastro Medo. Significativo anche il brano delle Argonautiche di Valerio Flacco (d), di cui il dramma di Pacuvio potrebbe costituire un precedente finora non valorizzato dalla critica 369 : nella nota profezia di Giove, infatti, viene menzionato il recupero del regno da parte di Eeta, dopo anni di lontananza dal potere e in età ormai avanzata. Il poeta sottolinea con un ’ apostrofe a Medea l ’ ironia del fato, che affida proprio a lei, empia e vera causa della privazione del regnum, il recupero dello stesso, per di più con la collaborazione di un nipote greco (Medo, appunto, non menzionato esplicitamente), come greco era Giasone, responsabile degli eventi. Di ben più ampia importanza sono le corrispondenze individuabili tra i frammenti del Medus e la fabula di Igino (e). Il problema delle fonti utilizzate dal mitografo non sembra risolvibile in maniera definitiva 370 , ma ben due terzi dei frammenti tràditi sono sovrapponibili al racconto, che (unico tra i testi antichi oltre a Pacuvio) comprende anche la vicenda dello scambio tra Medo e Ippote, ma da cui rimane esclusa l ’ intera sezione relativa al riconoscimento tra Eeta e Medea. Sembra pertanto ancora valida, almeno come ipotesi di lavoro, la proposta di seguire la falsariga della fabula per offrire una, pur cauta e problematica, ricostruzione della trama pacuviana. Infine, è stato notato che la vicenda del recupero del regno da parte di un nipote ai danni del fratello del nonno mostra delle somiglianze con la leggenda di Numitore, re di Alba Longa e padre di Rea Silvia, cacciato dal fratello Amulio e rimesso sul trono da Romolo e Remo (narrata da Liv. 1, 3): la scelta di questa versione del mito di Medea potrebbe essere stata influenzata dall ’ analogia con il mito romano 371 . Svolgimento della trama e drammaturgia L ’ ambientazione della tragedia è colchica. Così si desume da alcuni elementi esterni e interni al testo dei frammenti: a) il rapporto con le altre testimonianze relative al ritorno di Medea e Medo, tutte accomunate dal tema del recupero del regno avito; b) la presenza, probabile, del toponimo Aea nel fr. 3 e forse nel fr. 29 (ma qui il testo è ancora più corrotto), e del tema del ritorno nel fr. 2 (regrediundum est ilico). In particolare, se si accettano le proposte critiche ed esegetiche avanzate nel commento del fr. 3 (cfr. infra), si può ipotizzare che il dramma fosse ambientato precisamente nella città-isola di Ea e che il viaggio di Medo fosse connotato decisamente come un secondo viaggio argonautico. Di seguito, a grandi linee, l ’ ipotetica ricostruzione della trama qui proposta. 369 Su ciò cfr. supra, introduzione generale, p. 15. 370 Sul complesso problema delle possibili fonti latine di Igino cfr. Werth 1901, 25 - 31; Rose 1934, XI s.; Fletcher 2013, 144 - 147 (con ulteriore documentazione). 371 Così Fantham 2003, 111 - 112. Per scelte analoghe in relazione al mito di Oreste cfr. Petaccia 2000. Il Medus di Pacuvio 98 <?page no="111"?> La tragedia si apriva verisimilmente con un monologo del protagonista Medo, che, sbarcato con i compagni in seguito a una tempesta (di cui si ha testimonianza anche in Igino), invocava il Sole (fr. 1), rifiutava un auspicio negativo (fr. 2, ma si veda il commento per le difficoltà di interpretazione) e narrava lo sbarco (fr. 3 e, in via del tutto ipotetica, fr. 30). Perse chiedeva a un suo sottoposto informazioni sul gruppo appena giunto (frr. 4 e 5) e interrogava poi direttamente Medo (fr. 6), il quale gli raccontava della tempesta (fr. 7) e veniva interpellato relativamente a Medea (fr. 8). Perse dava l ’ ordine di imprigionare Medo (fr. 9): a questo contesto potrebbe essere ascritto anche il fr. 29, le cui condizioni testuali impongono, tuttavia, una notevole prudenza. Dopo il riferimento ad una calamità che affligge la regione (fr. 10*), Medea giungeva sul carro (frr. 11* - 13) in tutta la sua bellezza (fr. 14) e veniva salutata come ministra degli dei (fr. 15). La donna prometteva di liberare qualcuno da una clades (fr. 16), forse da ricondurre alla calamitas del fr. 10, e aveva un dialogo con il figlio, in cui i due si riconoscevano (fr. 17). Il fr. 18, di difficile contestualizzazione, potrebbe riferirsi ad una reazione del popolo in seguito alla cacciata di Perse, ottenuta da Medea e Medo, ai quali lo stesso popolo augurerebbe prosperità (fr. 19). Una seconda scena di ricongiungimento familiare doveva vedere come protagonisti Medea e suo padre Eeta, di cui un personaggio descriveva le condizioni di estremo abbandono e la dedizione ai riti funebri in onore del figlio (frr. 20 e 21), nonché l ’ ingresso sulla scena (fr. 22). Eeta si presenterebbe come un anziano padre sofferente, ma il suo reale obiettivo sarebbe il recupero del regnum (fr. 23, per la cui contestualizzazione soccorre il testimone ciceroniano, cfr. infra). Medea si rivolgerebbe a lui con l ’ appellativo di pater, inconsueto per Eeta (fr. 24) e gli farebbe notare di aver confuso due identità, forse Medo e il defunto Egialeo (fr. 25). Il dialogo proseguirebbe con l ’ ammissione da parte di Eeta della sua debolezza di fronte agli inganni cui è esposto dalla sua condizione di anziano e dalla situazione che vive (fr. 26). Medea racconterebbe infine al padre le sue antiche scelte, dichiarandosi disposta ad aiutarlo (frr. 27 e 28). Sul piano drammaturgico, il poeta mostra di padroneggiare e di alternare le strutture del monologo narrativo (scelto per le prime fasi del dramma) e del dialogo, di cui resta traccia nella presenza di antilabaí nei frr. 4 e 6, in cui Perse incalza i suoi interlocutori. Non mancano, poi, effetti di suspence, che anticipano una scena che doveva essere cruciale nel dramma, quella dell ’ incontro tra Eeta e Medea: i frr. 20 - 22, infatti, sono relativi alla descrizione delle condizioni del vecchio tiranno e al suo ingresso sulla scena, e creano un orizzonte di attesa nel pubblico, preparandolo al patetismo del dialogo. La centralità di questa scena di riconoscimento, poi, è speculare a quella, forse meno caratterizzata pateticamente, tra Medea e Medo (fr. 17): il raddoppiamento delle scene di anagnorisis sembra in linea con la tendenza alla complicazione della trama e risponde ad un gusto romano, evidenziabile anche in commedia (si pensi alle coppie di personaggi che popolano le commedie di Terenzio) 372 . 372 Trame familiari complicate sono molto frequenti in Pacuvio: cfr. Manuwald 2003, in part. 54 - 66. Introduzione 99 <?page no="112"?> Per quanto riguarda lo spettacolo teatrale, il fr. 4 permette di avanzare ipotesi sui costumi scenici di Medo e dei suoi compagni, che dovevano essere resi irriconoscibili dal naufragio (e, del resto, l ’ arrivo di personaggi nobili in vesti cenciose è una soluzione drammaturgica molto utilizzata da Pacuvio, in particolare nelle ‘ tragedie del ritorno ’ : si veda il commento al fr. 4). Inoltre, un momento di grande spettacolarità doveva essere costituito dall ’ arrivo (o dalla narrazione dell ’ arrivo) della splendida Medea sul carro trainato da serpenti alati, della cui descrizione (una sorta di didascalia interna) ci sono rimasti ben tre frammenti (frr. 11* - 13). Infine, una particolare attenzione, di cui sembra essere rimasta traccia nel fr. 25, doveva essere riservata alla sonorità e alla voce, il cui uso sapiente era un ’ abilità richiesta agli attori di questa tragedia secondo Cic. off. 1, 114 (qui voce freti sunt . . .). Caratterizzazione dei personaggi Medo è menzionato esplicitamente dal testimone del fr. 1 (Carisio). Stando alla possibile ricostruzione della trama, sembra che il personaggio sia caratterizzato da un forte legame con la famiglia d ’ origine (si pensi all ’ invocazione al Sole, suo avo, nel fr. 1). Egli giunge in Colchide in abiti cenciosi, in seguito ad un naufragio (fr. 4) ed è protagonista di uno scambio d ’ identità con Ippote (figlio di Creonte che viene citato espressamente nel fr. 17). Medea, sua madre, è menzionata esplicitamente da Servio, testimone del fr. 15 (cum de Medea loqueretur). Dalle interrogative del fr. 8 (in cui c ’ è il pronome ea) si ricava che la donna fosse rappresentata in maniera tradizionale come esule. Alla sua straordinaria bellezza potrebbe riferirsi il fr. 14. Uno dei suoi attributi meglio noti (anche nel materiale iconografico), il carro alato 373 , è descritto nei frr. 11* - 13. Non mancano riferimenti alla sfera sacrale, frequenti a Roma (come visto a proposito di Ennio, e così si vedrà anche in Accio): basti ricordare la problematica definizione caelitum camilla del fr. 15, nonché i cenni ad una calamitas (fr. 10) e ad una clades (fr. 16), che potrebbero ricondurre al potere iatrico della maga. Il tema della famiglia doveva essere particolarmente presente e Medea poteva essere rappresentata come madre nella scena di riconoscimento con il figlio (di cui sembra restare traccia nel fr. 17) e come figlia nell ’ importante, e complessa, scena con Eeta (frr. 24 - 28), di fronte al quale la donna difende ancora il suo passato, dichiarando di essere tornata però in soccorso della sua famiglia. Anche se il suo nome non ricorre nei frammenti, il personaggio di Eeta viene rappresentato (frr. 20 - 23) come un vecchio (senem fr. 22, lactans. . .aetas fr. 26) padre (pater fr. 25, patre fr. 27), che compie riti per il figlio defunto (figlio che nel dramma pacuviano ha il nome di Egialeo, fr. 21), nonché, forse, come tiranno privato del regnum (fr. 23): sembra possibile, infatti, individuare alcuni elementi tipici della rappresentazione antica, e romana in particolare, del tiranno, tra i quali 373 Su cui cfr. introduzione generale, pp. 8s. Il Medus di Pacuvio 100 <?page no="113"?> la tendenza alla simulazione, perpetrata verisimilmente ai danni della figlia al fine di rientrare in possesso del potere. Ad Eeta, tiranno spodestato, farebbe da contraltare una seconda figura negativa: quella di Perse (il cui nome, tuttavia, non è menzionato esplicitamente nei frammenti). Egli sembra essere rappresentato in toni veementi nei frr. 4 e 5 (in cui forse l ’ interlocutore è individuabile in un satelles) e parrebbe impartire con durezza ordini ai suoi sottoposti nel fr. 9. Eeta e Perse potrebbero costituire una coppia di fratelli tiranni analoga a quella di Atreo e Tieste (rinvio per questo aspetto al commento del fr. 23). Non dovevano mancare riferimenti a scene di gruppo: i naufraghi compagni di Medo, infatti, sono citati nel fr. 7, mentre i frr. 18 e 19 sembrano riferirsi alle reazioni del popolo relative alla cacciata del tiranno e ai nuovi reggenti 374 . Lingua, metro e stile Pur rinviando al commento per una trattazione esaustiva, può riuscire utile dare qualche cenno relativo alla lingua, allo stile e alle scelte metriche di Pacuvio anche in questa sede. Si può notare un abbondante uso di elementi del linguaggio sacrale (frr. 1; 15; 19; 21); sono inoltre presenti enallagi (fr. 3), tecnicismi poetici (tonsilla, fr. 3), arcaismi (ques, fr. 4), paronomasie (ignoti/ ignobiles fr. 4; attolat/ attigat, fr. 9, in entrambi i casi evidenziate dalla posizione metrica), hapax (frr. 6; 19). Si nota un sapiente uso della prefissazione per rendere ‘ evidente ’ un ’ immagine (fr. 7); sono utilizzate figure etimologiche (frr. 12; 18), iuncturae ricercate (fr. 14), segnali scenici (eccum, fr. 22). Non mancano ossimori (fr. 23) ed endiadi (probabile al fr. 26). Numerose sono le allitterazioni (frr. 3; 12; 18; 27) e gli omeoteleuti (fr. 12). Una certa attenzione è riservata all ’ ordo verborum, con i termini evidenziati anche dalla struttura metrica dei versi (verbo in posizione enfatica, frr. 13 e 16; anastrofe, fr. 27; forme verbali in cumulo, fr. 29; chiasmi, fr. 18). Particolarmente sfruttate sono la struttura tipica delle invocazioni con reggente seguita da relativa (fr. 1), la paratassi (frr. 5; 9; probabile al fr. 19), il cumulo di interrogative con funzione patetica (in riferimento al tema dell ’ esilio, fr. 8; oppure nell ’ ambito del riconoscimento, fr. 25), i parallelismi (fr. 28). Numerosi sono i metri utilizzati (dialogici e lirici): settenari trocaici, senari giambici, tetrametri anapestici, metri cretici (fr. 11*), ottonari giambici. Le incisioni mettono spesso in evidenza i termini chiave dei versi (ricordo qui solo il fr. 18). 374 Sembra opportuno ricordare in questo senso l ’ importanza dei temi sociali e politici nei drammi antichi, messi in luce (sia pure con qualche eccesso) da Bili ń ski nei suoi lavori (cfr. almeno Bili ń ski 1952, 1954 e 1958). Introduzione 101 <?page no="114"?> Testo e commento Fr. 1 (= fr. II, 219 - 220 Ribb. 3 = fr. III, 253 - 254 D ’ A. = 162 Schierl) tr 7 < ̵× ̵ × > te, Sol, invoco, ut mihi potestatem duis inquirendi mei parentis . . . te, Sole, invoco, che tu possa darmi facoltà di ritrovare la mia genitrice! Char. 130, 19 B (= GL I 120, 20): ‘ heres ’ ‘ parens ’ ‘ homo ’ , etsi in communi sexu intellegantur, tamen masculino genere semper dicuntur. nemo enim aut secundam heredem dicit aut bonam parentem aut malam hominem, sed masculine, tametsi de femina sermo habeatur. Nam Marcus ait . . .; et Pacuvius in Medo, cum ostenderet a Medo matrem quaeri, ait: te . . . parentis. sed Gracchus . . . et in alia epistula . . . et apud Vergilium sic legimus . . . hunc ordinem servant codd. Buecheler, qui <te mi proave> ante te Sol add. | <alme> Vossius te Sol invoco <mi proave> ut mihi eqs Ribb. 1 | te Sol invoco / inquirendi ut mei parentis mihi potestatem duis Bothe Medo invoca il Sole, suo avo, e si può ipotizzare che l ’ invocazione facesse parte di un racconto monologico del protagonista 375 , appena sbarcato in Colchide con i compagni. Medo invocherebbe subito il Sole, per poi ricordare l ’ auspicio negativo ricevuto prima della partenza, e ignorato (fr. 2) 376 . Il motivo dell ’ indicazione della stirpe è tipicamente prologico, e costituisce un elemento interno a favore di questa collocazione del frustulo. Il frammento è trasmesso da Carisio, con indicazione di autore e titolo, a proposito dell ’ inusuale valore femminile del termine parens: non c ’ è da dubitare, dunque, che la persona loquens sia Medo. Dopo vari tentativi di modifica dell'ordine tràdito (Bothe, seguito da Ribb. 2 , Warmington), i versi sono ora interpretati come settenari trocaici incompleti. Il Vossius, che proponeva di integrare con alme (ma la iunctura ‘ almus Sol ’ ricorre solo in Hor. carm. saec. 8, al vocativo, e Drac. Orest. 781), e poi Ernout e Schierl presuppongono la lacuna iniziale di un piede, con scansione giambica di mihi. Diversamente, Buecheler ipotizza una lacuna di due piedi, che tenta di colmare migliorando l ’ integrazione di Ribb. 1 (mi proave) 377 in te mi proave, giustificando la 375 Così anche Schierl 2006, 357 (con ulteriore bibliografia). 376 Per questa ricostruzione cfr. Nosarti 1993, 38. 377 A proposito di proavus può risultare interessante notarne l ’ usus nel dramma repubblicano (Plaut. Mil. 373: ibi mei maiores sunt siti, pater, avos, proavos, abavos; Plaut. Persa 57: pater, avos, proavos, abavos, atavos, tritavos; Plaut. Trin. 967: mirum quin ab avo eius aut proavo acciperem qui sunt mortui; Enn. scen. 325 Vahl. 2 = 273 Joc.: nam ita mihi Telamonis patris, avi Aeaci et proavi Iovis), in cui il termine ricorre sempre in concomitanza con altri derivati di avus o con avus 102 <?page no="115"?> possibile perdita del testo con un eventuale saut du même au même. L ’ ipotesi della lacuna di due piedi sembra preferibile: integrare un solo piede, infatti, comporterebbe un ’ incisione dopo il nono elemento testimoniata solo per versi giambici e non trocaici, per i quali non fa problema, invece, la quasincisione dopo l ’ ottavo elemento con possibile incisione secondaria dopo il decimo ipotizzabili al v. 1 sulla base di questo testo. Inoltre, vanno presupposte correptio iambica della sequenza iniziale di potestatem e scansione monosillabica di mihi, evitando così il proceleusmatico, considerato raro in versi trocaici (e non solo nella sequenza ‘ discendente ’ longum + anceps, dove è praticamente vietata, ma anche in quella opposta) 378 . Nel secondo verso mei è in sinizesi (come notava già il Vossius). L ’ ottativo duis, comodo a fine verso, ricorre spesso in linguaggio formulare, nella sua forma semplice o composta 379 , qui in proposizione subordinata. Da un punto di vista sintattico, si può notare che la struttura ipotattica del verso, in cui il gerundivo inquirendi mei parentis è retto da potestatem (un costrutto che Pacuvio utilizza anche nei vv. 22s. Ribb. 3 : . . . qui sese adfines esse ad causandum volunt, / de virtute is ego cernundi do potestatem omnibus), è in linea con la forma tradizionale dell ’ invocazione rivolta ad un dio 380 . Le preghiere al Sole costituiscono un elemento importante nell ’ ambito di una tragedia incentrata sul mito di Medea, nipote del Sole. Simili invocazioni, già molto presenti sulla scena euripidea, sembrano essere state molto utilizzate anche a Roma (come si evince, per esempio, dai frammenti 15 e 17 della Medea exul di Ennio e da quanto detto nel commento agli stessi). Del resto, il legame di Medea con il Sole costituisce uno degli elementi di analogia dell ’ eroina colchica con la dea Angitia, che gli autori latini potrebbero aver voluto valorizzare in maniera particolare 381 . Inoltre, la menzione dell ’ avo da parte del nipote all ’ inizio della tragedia (se si accoglie questa ipotesi di ricostruzione) sembra mettere in posizione di rilievo uno dei temi più importanti del dramma pacuviano (e, in generale, di grande interesse per il pubblico romano): quello della famiglia. Le scene di ricongiungimento familiare, infatti, caratterizzano molte delle tragedie pacuviane a noi pervenute (si pensi all ’ Iliona, all ’ Atalanta, ai Niptra, per citarne solo alcune) 382 , e il tema del stesso, e comunque in contesti in cui preme tracciare una sorta di albero genealogico della propria famiglia, in toni solenni con funzione tragica o paratragica. La proposta, dunque, anche se non si può accogliere nel testo, rimane suggestiva. Pure in assenza di un termine corradicale, infatti, l ’ occorrenza di parens e il fatto che a pronunciare il verso fosse probabilmente Medo in riferimento alla madre, riprodurrebbe la scala genealogica nonno - genitore - parlante che caratterizza i testi riportati in questa nota. 378 Per tutte queste considerazioni si veda Questa 2007, 130; 239s.; in particolare 366, n. 19. 379 Di duint (Plaut. Most. 655); Iuppiter te perduit (Plaut. Ep. 66); istum di omnes perduint (Plaut. As. 467). Cfr. Godel 1979, 231. 380 Cfr. al riguardo Falcone 2013, 313 con ulteriore documentazione. 381 Cfr. supra, introduzione generale, p. 12 e Falcone 2011, 95s. 382 Per una più ampia trattazione della questione cfr. Manuwald 2003, 43 - 71. Fr. 1 103 <?page no="116"?> conflitto all ’ interno della famiglia in drammi incentrati, per esempio, sulle figure di Clitemestra o Oreste o anche Atreo e Tieste costituisce, dall ’ altra parte, il polo negativo del medesimo tema. Fr. 2 (= fr. XVI, 235 Ribb. 3 = fr. XXVIII, 287 D ’ A. = 188 Schierl) ia 6 repudio auspicium: regrediundum est ilico rifiuto l ’ auspicio: bisogna subito tornare! Non. 324 M (= 509 L): ilico significat statim, mox. Pacuvius Medo (235) repudio . . . ilico. Caecilius Notho Nicasione (117) . . . auspicium codd. hospitium Heinsius | regrediundum plerr. codd. regrediendum B Gen H 1 L Il frammento, di difficilissima contestualizzazione 383 , sembra possa essere collegato alle fasi iniziali del dramma, in cui Medo narrerebbe in forma monologica il suo arrivo in Colchide (cfr. fr. 1). Il rifiuto dell ’ auspicio, in particolare, cui si fa riferimento nella prima parte del verso, potrebbe essere legato al tema del naufragio, di cui si ha testimonianza in Igino: ad quem Medus dum matrem persequitur tempestate est delatus 384 . Nel monologo iniziale, cioè, Medo narrerebbe di aver ricevuto e rifiutato un auspicio negativo, poi realizzatosi nella tempesta, testimoniata da Igino. Il verso, trasmesso da Nonio per il valore di ilico nel senso di statim con indicazione di autore e titolo, presenta un testo sicuro e costituisce un senario giambico con incisione semiquinaria. Non sembra necessario intervenire sul tràdito auspicium correggendolo in hospitium (proposta di Heinsius 1742, approvata da Ribb. 1-2-3 , che collega il verso al fr. 15 e a Plaut. Rud. 883). Inoltre, non è necessario banalizzare la forma regrediundum, gerundivo in -undus, che è difficilior e trova numerosi paralleli in epoca repubblicana 385 . Auspicium ha lo stesso valore del più comune omen 386 , la cui presenza nei frammenti tragici è piuttosto cospicua, sia con il valore positivo di un presagio da accogliere (è il caso del v. 146 Ribb. 3 del Dulorestes: macte esto virtute, operaque omen adproba), sia nel senso di ‘ auspicio ’ negativo (Accio, vv. 171s. Ribb. 3 383 Cfr. D ’ Anna 1967, 221. 384 Questa ipotesi di contestualizzazione, che presuppone ancora Medo come persona loquens, è proposta da Müller 1889, 35; Warmington 1937, 253; Nosarti 1993, 38. Diversamente, pensano a Perse Arcellaschi 1990, 110 e a Eeta Mette 1964, 103 e Schierl 2006, 385. 385 Cfr. Leumann 1977, 331. 386 Schierl 2006, 385 opportunamente riporta il passo di Serv. auct. Aen. 4, 340: potest et ‘ auspiciis ’ dixisse ominibus, quia in iure augurali auspicium dicitur quod non petentibus nobis ad ea, quae in animo habemus, vice ominibus offertur. Il Medus di Pacuvio 104 <?page no="117"?> dall ’ Astyanax: nunc, Calcas, finem religionum fac e 581 - 584 Ribb. 3 dalle Phoenissae: Sol qui . . . quianam tam adverso augurio et inimico omine / Thebis radiatum lumen ostentas tuum? ). In generale, il tema della divinazione, particolarmente interessante - come più volte accennato - in relazione al mito di Medea, è molto presente nel teatro latino repubblicano, soprattutto in Ennio. Regrediundum est ilico: tra i composti di gradior, regredior compare in età repubblicana solo in Plaut. Aul. 46 e Capt. 1023 e in Enn. scen. 135 Vahl. 2 = 65 Joc. Difficile stabilire a cosa si riferisca in questo contesto: pronunciato da Medo, potrebbe indicare il ritorno presso sua madre, stando anche alle notizie che abbiamo da Igino (dum matrem persequitur), oppure si potrebbe pensare a una deliberata volontà di recarsi in Colchide, e Medo parlerebbe di un ‘ ritorno ’ alla terra dei suoi avi. Fr. 3 (= fr. I, 218 Ribb. 3 = fr. V, 256 D ’ A. = 161 Schierl) tr 7 accessi Aean et tonsillam pegi laeto in litore raggiunsi Ea e piantai il palo sulla riva rigogliosa Fest. 488 L (= 356 M): < tonsillam ait> esse Verrius palum dolatum <in acumen et> cuspide praeferratum, ut existi . . . em † cum figi † in litore navis re<ligandae> causa. Pacuvius in Med[i]o (218) acces<si . . .> . . . litore. <Accius in> Phinidis (574) . . . Cf. Pauli Epit. 489 L: tonsilla palus dolatus in acumen et cuspide praeferratus, qui navis religandae causa in litore figitur. Accius (574) . . . Prisc. GL II 523, 17: ‘ pango ’ quoque ‘ pegi ’ ex eo ‘ impingo ’ ‘ impegi ’ facit. Pacuvius in Medo: tonsillam . . . litore. acces * * ẹ a]. F Fest. accessi Aean dubitanter Müller 1839 ad Fest., p. 413 accessi Aeam Bergk accessi Aeaeam Buecheler accessi ad eam Ursin. accessi ad terram Bothe 2 dubitanter in app.| tonsillam codd. Prisciani nec non cf. Pauli Epit. tosillam (vel -a) F Fest. | laeto F Fest. laevo codd. Prisciani saevo Scriverius lecto Bergk | tosilla pegi laeto in littore Stephanus, tantum Prisciani codicibus usus tonsilla pegi laevo in litore Delrius A un certo punto del racconto monologico iniziale (cfr. frr. 1 e 2), Medo descriverebbe il suo sbarco sulla costa colchica: se si accoglie la congettura Aean (su cui cfr. infra), si ha la menzione esplicita di un nome geografico legato alla Colchide che costituiva, forse, l ’ ambientazione della vicenda. L ’ uso dei verbi al perfetto, diversamente che nei frr. 1 e 2, non sembra ostacolare la collocazione del frammento nel medesimo racconto. Il frammento è tràdito, insieme al v. 574 Ribb. 3 di Accio, da Festo (non dal suo epitomatore) a proposito del valore tecnico del termine tonsilla, inerente il lessico della navigazione. La sola seconda parte (da tonsillam in poi) è trasmessa anche da Fr. 3 105 <?page no="118"?> Prisciano a proposito del perfetto non raddoppiato pegi. In tutti i casi è fatta esplicita menzione dell ’ autore e del titolo del dramma. Il testo è problematico. Il Farnesiano è pesantemente corrotto. La critica è intervenuta in vari modi per tentare di emendare acces*** ẹ am (così leggeva Lindsay): in realtà in seguito all ’ esame autoptico di Moscadi condotto anche con il supporto delle tavole fotografiche di Thewrewk la situazione risulta ancora meno chiara ( ẹ a].) 387 . Le soluzioni proposte da Bergk (I, 1884, 329, poi accolta da Ribb. 1 ), da Müller e da Buecheler, sono tutte orientate a proporre l ’ accusativo di un toponimo. In particolare, una delle proposte alternative di Müller 388 , Aean, restituisce un accusativo con desinenza greca da Aea (gr. Αἶα ), antico nome della Colchide o di una località precisa della regione (su cui cfr. infra) e sembra la soluzione migliore, da preferire anche all ’ analogo Aeam scelto nel testo dallo stesso Müller (oltre che da Bergk e Ribbeck), che costringerebbe a presupporre un iato (da porre tra accessi e Aeam ovvero tra Aeam e et); inoltre, mentre un accusativo in -am non è mai attestato per questo termine in latino, la forma in -an si ritrova in Val. Fl. 5, 424 (in riferimento alla ninfa eponima legata al Fasi) 389 e non mancano paralleli per l ’ uso di questa desinenza nel latino di età repubblicana (particolarmente rilevante è Leucatan di Enn. ann. 346 Sk. = 328 Vahl. 2 , anche in questo caso un toponimo 390 ). La soluzione di Buecheler, Aeaeam, che non presenta problemi metrici, ha avuto molta fortuna (accolta, tra gli altri, da D ’ Anna, Schierl, Ribbeck 2 - 3 e registrata nel ThlL V, 903, 11 - 13 come unica esemplificazione di Aeaea nel senso di Colchide); essa restituisce però un aggettivo che ricorre sempre in latino insieme a un sostantivo (quando non è legato a un personaggio, di cui specifica la provenienza, è abbinato a termini come pulvis, Val. Fl. 1, 451; ora, Val. Fl. 5, 277 e 7, 119; urbs, Val. Fl. 5, 620; moenia, Val. Fl. 7, 191; campus, Val. Fl. 7, 281; litus, Stat. Theb. 4, 551), e dunque bisognerebbe in questo caso ipotizzare la presenza di un termine analogo nel verso precedente, da legare a Aeaeam in iperbato ed enjambement, oppure (così, per es., Schierl 2006, 355) presupporne un valore sostantivato, che però non sembra essere attestato altrove. Anche se F riporta tosillam, non si dubita della lezione tonsillam, confermata, oltre che dai codici priscianei, anche dal testo dell ’ epitome di Paolo. Infine, è da mantenere laeto del Farnesiano, accolto del resto dalla maggioranza degli editori: 387 Cfr. Moscadi 2001, 163. 388 Nell ’ edizione di Festo curata dallo studioso nel 1839, a p. 413 si legge: “ Aeam syllabam extremam elisione non amittit, aut Aean scribendum est ” . 389 Sul passo cfr. Spaltenstein 2004, 498 - 499. Le altre occorrenze di Aea, sempre al nominativo, si trovano tutte nelle Argonautiche di Valerio Flacco: 1, 742 al nominativo (si tratta, in questo caso, di una congettura di Gronov a acta dei codici, cfr. Kleywegt 2005, 432); 5, 51; 5, 424 (qui, come visto, all ’ accusativo: breve racconto della vicenda della ninfa Ea insidiata dal fiume Fasi); 6, 96. Sul valore di Aea in Valerio Flacco, che alterna quello di città alla metonimia per Colchide, cfr. Wijsman 1996, 207 e Fucecchi 2006, 147. 390 Vahlen qui interviene sul testo normalizzando la desinenza (Leucatam). Non così Skutsch, che torna al testo tràdito. Il Medus di Pacuvio 106 <?page no="119"?> tra le proposte di correzione, tuttavia, la più convincente sembrerebbe essere lecto di Bergk, per analogia al v. 574 di Accio (tacite tonsillas litore in lecto edite) tràdito da Festo nello stesso contesto del frammento pacuviano, ma in realtà anche il verso acciano presenta il medesimo problema testuale (in esso, infatti, lecto è proposta di Müller, accolta da Ribbeck). La struttura fonica del verso così ricostruito risulta interessante, con un ’ allitterazione bimembre in ‘ a ’ a inizio verso, cui ne corrisponde una in ‘ l ’ alla fine. Aean: sull ’ opportunità di accogliere questa congettura cfr. supra. Il termine traslittera il greco Αἶα 391 , che sembra indicare una mitica città della Colchide già in Hdt. 1, 2 (e poi ancora 7, 193 e 197): καταπλώσαντας γὰρ μακρῇ νηί ἐς Αἶαν τε τὴν Κολχίδα καὶ ἐπὶ Φᾶσιν ποταμόν , ἐνθεῦτεν , διαπρηξαμένους καὶ τἄλλα τῶν εἵνεκεν ἀπίκατο , ἁρπάσαι τοῦ βασιλέος τὴν θυγατέρα Μηδείην 392 . Diverse fonti la testimoniano: Schol. Ap. Rh. 2, 417; Strabo 1, 2, 39; Schol. Lycophr. 1024 a; Plin. nat. 6, 13; Eust. 1, 321; particolarmente interessanti risultano però soprattutto Steph. Byz. α 86 Billerbeck: Αἶα · πόλις Κόλχων , κτίσμα Αἰήτου , θαλάσσης ἀπέχουσα στάδια τ , ἣν περιρρέουσι δύο ποταμοί , Ἵππος καὶ Κυάνεος , ποιοῦντες αὐτὴν χερρόνησον , e Schol. Ap. Rh. 3, 1093: Αἰαίης νήσου : πλεονάζει ἡ αι συλλαβή · ἔστι γὰρ Αἴης νήσου , Αἶα δὲ μητρόπολις Κόλχων . νήσου δὲ μέμνηται ἐν τῷ Φάσιδι , ἐν ᾗ τὸ δέρας , ὥς φησι Φερεκύδης (= Pherec. 3, fr. 100 Jacoby). Stando a queste testimonianze la città colchica si situerebbe all ’ interno della regione (la sua distanza dal mare varia nelle fonti 393 ), e costituirebbe un ’ isola (o penisola) fluviale, su cui in più (così lo scolio) era conservato il vello d ’ oro. Considerata la rarità dell ’ uso del toponimo Aea in latino (cfr. supra) e la tendenza di Pacuvio a mostrare erudizione prediligendo versioni del mito e nomi rari (cfr. Aegialeus al fr. 21), e tenendo anche conto del fatto che - stando a quanto ci è pervenuto - Ennio (fr. 1) e Catullo (64, 5) usano Colchis (sia pure in riferimento agli abitanti), sembra ragionevole pensare che Pacuvio non volesse indicare tanto la Colchide in generale, quanto piuttosto precisamente la città-isola di Ea, raggiungibile via fiume con una nave (come si evince dalla seconda parte del frammento) e collocare qui l ’ intera vicenda. Questa ipotesi potrebbe essere corroborata dal confronto con 391 La questione è problematica per il greco, in particolare in relazione ai rapporti tra Aia e l ’ isola di Circe, nonché per la difficile etimologia del nome, la cui vaghezza (vale come ‘ terra ’ ) farebbe pensare a un “ Uraltes Mythenland ” (Lesky 1948, 68): cfr. RE s. v. Aia 1 (Escher); Lesky 1948; West 2005, in part. 43 - 45, che si concentrano sul rapporto tra Aia e l ’ isola di Circe; con attenzione alla presenza in latino Wijsman 1996, 38 - 39; Zissos 2008, 386. 392 Su cui cfr. Stein 1901 ad loc.: “ Die Zusätze τὴν Κολχίδα (ebenso VII 193 11. 197 20) und ἐπὶ Φᾶσιν π . dienen die bislang geographisch noch ganz unbestimmte Αἶα näher zu bezeichnen ” ; Lesky 1948, 46: “ Es wurde nicht eigentlich Αἶα benannt, sondern durch die Erweiterung der geographischen Kenntnisse wurde das mythische Aia später in Kolchis lokalisiert. Wenn Herodot Αἶα ἡ Κολχίς sagt (1, 2; 7, 193. 197), so spricht sich darin diese Gleichsetzung aus ” . 393 Cfr. RE s. v. Fr. 3 107 <?page no="120"?> Ap. Rh. 2, 1260 - 70 394 , in cui è raccontato lo sbarco degli Argonauti in Colchide, e che potrebbero stare in filigrana dietro alla narrazione pacuviana. In questi versi, infatti, è narrata la risalita lungo il corso del fiume (del resto, che il Fasi fosse navigabile è testimoniato anche in altri luoghi di Apollonio: 3, 167 - 68 e 4, 210 - 211) e, dettaglio interessante, si dice che, alla sinistra della nave, gli eroi vedono la città di Ea ( πτόλιν Αἴης , v. 1267), in cui è custodito il vello d ’ oro. Anche la seconda parte del verso può essere spiegata alla luce del confronto con Apollonio Rodio, in particolare 2, 1281 - 84 395 , in cui è descritto il momento dell ’ ancoraggio della nave Argo presso una zona paludosa del Fasi. L ’ espressione laeto in litore (la iunctura ricorre anche in Verg. Georg. 2, 112: litora myrtetis laetissima . . .) 396 potrebbe riprendere letteralmente δάσκιον . . . ἕλος del v. 1283, e quindi laeto avrebbe qui (come in greco) il valore di ‘ rigoglios ο’ , in riferimento, appunto, alla riva paludosa del fiume nei pressi dell ’ isola. Analogamente, la presenza del tecnicismo poetico tonsillam pegi 397 , appare più chiara se si confronta con il greco ἐπ᾽ εὐναίῃσιν ἐρύσσαι , in cui si nota la rarità del plurale poetico dell ’ aggettivo sostantivato εὐναία . Si può notare, inoltre, che la Fachsprache poetica della navigazione (di per sé abbondantemente rappresentata nei testi latini 398 ) ricorre anche nei prologhi della Medea di Ennio (fr. 1) e della Medea sive Argonautae di Accio (fr. 1). Il fatto che al tema si faccia cenno, in tutti e tre i casi, nelle prime fasi del dramma fa pensare che l ’ omaggio dei poeti scenici latini alla nave Argo (e all ’ epos di Apollonio Rodio) fosse tutt ’ altro che casuale. Nel caso specifico del Medus si potrebbe pensare a una voluta connotazione ‘ argonautica ’ del viaggio di Medo, raccontato sulla falsariga di quello di Giasone, le cui conseguenze (la cacciata di Eeta dal trono) questo finirà per annullare (riportando, appunto, il regnum nelle mani del nonno). 394 ἐννύχιοι δ᾽ Ἄργοιο δαημοσύνῃσιν ἵκοντο / Φᾶσίν τ᾽ εὐρὺ ῥέοντα , καὶ ἔσχατα πείρατα πόντου . / αὐτίκα δ᾽ ἱστία μὲν καὶ ἐπίκριον ἔνδοθι κοίλης / ἱστοδόκης στείλαντες ἐκόσμεον : ἐν δὲ καὶ αὐτὸν / ἱστὸν ἄφαρ χαλάσαντο παρακλιδόν : ὦκα δ᾽ ἐρετμοῖς / εἰσέλασαν ποταμοῖο μέγαν ῥόον : αὐτὰρ ὁ πάντῃ / καχλάζων ὑπόεικεν . ἔχον δ᾽ ἐπ᾽ ἀριστερὰ χειρῶν / Καύκασον αἰπήεντα Κυταιίδα τε πτόλιν Αἴης , / ἔνθεν δ᾽ αὖ πεδίον τὸ Ἀρήιον ἱερά τ᾽ ἄλση / τοῖο θεοῦ , τόθι κῶας ὄφις εἴρυτο δοκεύων / πεπτάμενον λασίοισιν ἐπὶ δρυὸς ἀκρεμόνεσσιν . 395 ὧς ἔφατ᾽ : Ἄργου δ᾽ αὖτε παρηγορίῃσιν Ἰήσων / ὑψόθι νῆ᾽ ἐκέλευσεν ἐπ᾽ εὐναίῃσιν ἐρύσσαι / δάσκιον εἰσελάσαντας ἕλος · τὸ δ᾽ ἐπισχεδὸν ἦεν / νισσομένων , ἔνθ᾽ οἵγε διὰ κνέφας ηὐλίζοντο . 396 Cfr. ThlL VII, 2, 887, 45ss. e Warmington 1937, 251; Schierl 2006, 355s. Diversamente, D ’ Anna 1967, ad loc. pensa ad un ’ enallage. 397 Sul valore da attribuire a tonsilla si veda Timpanaro 1994. 398 Si pensi alla presenza del tema del naufragio in commedia e alle osservazioni di Raffaelli 1984 (in particolare p. 121), interessanti anche sotto il profilo drammaturgico. Il Medus di Pacuvio 108 <?page no="121"?> Fr. 4 (= fr. III, 221 Ribb. 3 = fr. I, 251 D ’ A. = 163 Schierl) tr 7 < ̵× > ques sunt is? - Ignoti, nescio ques ignobiles chi sono questi? Alcuni sconosciuti di aspetto modesto Char. 115, 27 B (= GL I 91, 16): ‘ ques ’ autem dixisse veteres testimonio est Cato qui ait . . . et Pacuvius (patulus N: Catullus C): ques . . . ignobiles. Char. 169, 20 B (= GL V 133, 1): ‘ im ’ pro ‘ eum ’ . nam ita Scaurus in arte grammatica disputavit, antiquos ‘ im ’ ‘ ques ’ † hunc eundem significare consuesse et declinari ita, ‘ is eius ei eum ’ vel ‘ im ’ , numero plurali <is>, ut est locutus Pacuvius in Medo: ques . . . nescio ques. Prisc. GL III 9, 13: nominativum quoque pluralem non solum in i et ae, sed etiam in es, ‘ qui ’ , ‘ quae ’ vel ‘ ques ’ , accusativum etiam ‘ quos ’ , ‘ quas ’ vel ‘ ques ’ , ut Pacuvius in Medo: ques sunt isti? Cato . . . Accius . . . is vel es codd. Char. 169 om. codd. Char. 115 es Ribb. 1 ii ed. princeps Char. 169 isti codd. Prisc. | ignobiles om. Charis. 169 Stephanus I frammenti 4 e 5 potrebbero far parte di un dialogo tra Perse e un suo satelles, in cui il tiranno chiede informazioni sugli sbarcati. In particolare, il fr. 4 sembra essere diviso in antilabé tra i due interlocutori 399 . I fontes, interessati alla forma plurale ques, menzionano sempre l ’ autore e in due casi (Carisio 169, 20 B e Prisciano) anche il titolo dell ’ opera. Il verso è tramandato nella forma più ampia (comunque lacunosa) solo nel primo dei due luoghi di Carisio, mentre il secondo tralascia ignobiles e Prisciano si ferma a is (che riporta però come ‘ isti ’ ). Il verso è un settenario trocaico incompleto. La necessaria lacuna di un piede è stata posta all ’ inizio (per esempio da Ernout e Schierl), in quanto ignobiles, con la scansione cretica delle ultime tre sillabe, sembra costituire una buona soluzione per la fine del verso; inoltre, ne risulterebbe un ’ interessante combinazione di incisioni e figure retoriche, con un ’ incisione mediana che collocherebbe in posizione enfatica, a fine emistichio e a fine verso, i due apparenti sinonimi ignoti e ignobiles, sulla cui differenza Pacuvio gioca. L ’ ipotesi di lacuna iniziale, tuttavia, potrebbe creare qualche problema sul piano dell ’ usus linguistico, dal momento che più spesso interrogative di questo tipo collocano il pronome a inizio verso, oppure sono precedute da monosillabi (quali sed o an). È stato proposto, quindi, di porre la lacuna a fine verso (così Klotz): in questo caso, però, non sarebbe rispettata la norma di Bentley - Luchs, e inoltre l ’ incisione mediana cadrebbe dopo nescio (così escludendo l ’ ipotesi di una combinazione ritmico-stilistica). La forma plurale ques ricorre come interrogativo solo in questo frammento pacuviano e doveva suonare come arcaica già ai tempi del poeta: la presenza di un 399 L ’ ipotesi dell ’ antilabé, proposta dal Grotius, è accolta dalla maggior parte degli editori. Fr. 4 109 <?page no="122"?> arcaismo è stata interpretata come esempio di etopea, pensando ad una ‘ coloritura ’ linguistica uniforme dei personaggi gravitanti attorno a Perse 400 . Interessante, sotto il profilo linguistico e drammaturgico, sembra essere il gioco piuttosto sofisticato tra ignoti e ignobiles (sottolineato, come visto, anche dal ritmo, e arricchito dalla presenza di nescio ques, di significato analogo). Un riferimento al modesto aspetto esteriore, ipotizzato dalla maggior parte degli editori 401 e giustificato dalle occorrenze del termine 402 , potrebbe trovare riscontro anche nell ’ uso drammaturgico pacuviano: figure di re o reali che si presentano sulla scena in vesti non nobili, che li rendono irriconoscibili (volontariamente, allo scopo di non essere riconosciuti, o anche involontariamente, in seguito - per esempio - a un naufragio) popolano molti dei drammi di Pacuvio: si pensi all ’ Oreste travestito da pastore del Dulorestes (l ’ ipotesi, sia pure non dimostrabile, è in questo caso comunque altamente probabile); all ’ Oreste mendicus del celebre frammento XIV inc., 366 - 375 Ribb. 3 (da attribuire verisimilmente al Chryses) tràdito dalla Rhetorica ad Herennium; all ’ Ulisse cencioso dei Niptra 403 . Ad essi si può aggiungere anche la figura di Telefo, che - presente già in Euripide - si ritrova poi in Accio, che la descrive in toni espressionistici nella prima fase del dramma omonimo (e il poeta sfrutterà nel dramma il gioco verbale basato su ignotus, nel v. 283 Ribb. 3 : ergo med Argos referam, nam hic sum gnobilis / ne cui cognoscar noto). Una simile soluzione, che rientra in genere nello schema delle cosiddette ‘ tragedie del ritorno ’ 404 , potrebbe costituire un elemento drammaturgico interessante, su cui sviluppare poi l ’ azione: il riconoscimento di Medo e lo scambio con Ippote, del resto, sono fondamentali per l ’ elaborazione del dramma pacuviano. Fr. 5 (= fr. VIII, 226 Ribb. 3 = fr. II, 252 D ’ A. = 165 Schierl) an 4 cedo, quorsum itiner tetinisse aiunt? di ’ , verso dove dicono di essersi diretti? Non. 178 M (= 261 L): tetinerit pro tenuerit. Pacuvius Medo (226) cedo . . . aiunt? Accius Clytaemestra (38) . . . Pacuvius Hermiona (172) . . . cedo Mercerus credo codd. | itiner Ald. itinere codd. 400 Così Lennartz 2003, 89. 401 Bothe; Ribbeck; Warmington; D ’ Anna, tra gli altri. 402 Cfr. ThlL VII 2, 299 - 300. Schierl 2006, 358 interpreta ‘ ignobiles ’ come sinonimo di ‘ ignoti ’ , confrontando Plaut. Pseud. 592 e 964 e Verg. Aen. 7, 776 con il commento di Servio; per questo valore vd. anche Abellàn 1991, 131 e 134. 403 Sulla questione, a questa connessa, del mancato riconoscimento delle identità nei drammi pacuviani cfr. anche Manuwald 2003, 43 - 54. 404 Per l ’ applicazione di questo schema al Dulorestes di Pacuvio, cfr. Falcone 2008 e bibliografia ivi citata. Il Medus di Pacuvio 110 <?page no="123"?> Il frammento, come accennato (cfr. fr. 4), potrebbe inserirsi nel contesto di una serie di domande di Perse relative ai nuovi arrivati e rivolte a un satelles. La collocazione, tuttavia, è incerta e sono state proposte diverse soluzioni: a) per via del ritmo anapestico del verso (su cui si veda infra), si è pensato che potesse essere pronunciato dal coro (così Warmington e Klotz); b) Bothe attribuiva le parole a Medo, immaginando una domanda relativa ai dracones di Medea: l ’ ipotesi non sembra dimostrabile, ma si può forse tenere aperta la possibilità di un riferimento a Medea collegando questo verso al fr. 8, in cui sarebbe però Perse a chiedere appunto notizie dell ’ eroina colchica; del resto, proprio nella tragedia pacuviana, riferimenti espliciti al carro di Medea sono presenti ai frr. 11*, 12 e 13 e dunque non sarebbe inverosimile pensare che il tiranno si informasse sul percorso dei dracones. I codici di Nonio, che trasmette il frammento con indicazione di autore e titolo a proposito della forma di perfetto raddoppiato tetinisse, riportano credo (accolto dai primi editori): cedo è correzione di Mercier, necessaria per il senso in un contesto interrogativo. Itinere dei codici è evidentemente banalizzante, essendo l ’ ablativo di iter decisamente più comune rispetto alla forma itiner (qui da restituire all ’ accusativo), che ricorre comunque abbastanza spesso in tragedia e a cui Nonio dedica un lemma (787 L). Discussa l ’ interpretazione metrica: il verso è stato inteso come primo emistichio di settenario trocaico 405 , ma sembra forse preferibile restituire un ritmo anapestico e scandirlo come un quaternario anapestico acataletto con dieresi dopo la prima dipodia (cfr. fr. 18 di Accio, probabilmente corale). Non è per questo necessario attribuire il verso a un intervento corale, se si lega il ritmo al contenuto del frammento, inerente un movimento. Diversamente che nei vv. 63s. Ribb. 3 dell ’ Atalanta (. . . is vestrorum uter sit, cui signum datum est, / cette), in cui c ’ è il plurale cette, qui Pacuvio usa cedo con l ’ indicativo: la proposizione introdotta da quorsum va intesa dunque come un ’ interrogativa diretta legata a cedo per asindeto in paratassi (opportuna, dunque, l ’ interpunzione proposta da D ’ Anna 406 ). Aiunt ha lo stesso soggetto di tetinisse, non espresso esplicitamente nell ’ infinitiva 407 : il satelles o comunque l ’ interlocutore di Perse sarebbe invitato a riferire quanto appreso direttamente dagli stranieri in un colloquio precedentemente avuto con loro. Itiner nella sua più comune forma iter ricorre raramente con il verbo tenere: cfr. Verg. Aen. 1, 370 e 2, 360 408 . 405 Cfr. Nosarti 1993, 38 n. 57, frainteso - a dire il vero - da Schierl 2006, 360. 406 D ’ Anna 1967, 216, ma cfr. anche 195 - 196 sul fr. dell ’ Atalanta. Sulla frequenza di cedo/ cette seguiti da interrogativa diretta e indicativo cfr. ThlL III 734, 10 - 23, s. v. ‘ cedo ’ . 407 Sull ’ assenza dell ’ accusativo del soggetto nelle infinitive cfr. Ernout - Thomas 1989, 322. 408 Cfr. ThlL VII, 2 s. v. ‘ iter ’ . Fr. 5 111 <?page no="124"?> Fr. 6 (= fr. IV, 222 Ribb. 3 = fr. IV, 255 D ’ A. = 168 Schierl) ia 6 quae res te ab stabulis abiugat? - Certum est loqui Quale cosa ti allontana dalla tua dimora? - Sono deciso a parlare. Non. 73 M (= 102 L): abiugat, separat, alienat. Pacuvius Medo (222) quae . . . loqui. Stando al racconto di Igino, Medo verrebbe condotto dalle guardie al cospetto di Perse (. . . quem satellites comprehensum ad regem Persen perduxerunt). Il frammento, per il quale è da presupporre antilabé (cfr. infra), potrebbe collocarsi in questa fase, e far parte di un interrogatorio di Perse a Medo, che si dichiarerebbe disposto a rispondergli 409 . Il testo, tràdito da Nonio a proposito del significato di abiugare con indicazione di autore e titolo, è sicuro e restituisce un senario giambico con incisione semiquinaria 410 . Sembra indubbio che stabulum abbia il valore traslato di ‘ abitazione ’ 411 , diversamente da quanto si verifica nel v. 17 Ribb. 3 dell ’ Antiopa (nonne hinc vos propere <e> stabulis amolimini? ) e nel v. 125 Ribb. 3 del Dulorestes (Delphos venum pecus egi, inde ad stabula haec itiner contuli), contesti in cui un ’ ambientazione pastorale sembra essere confermata dal confronto con gli altri frammenti dei drammi. Forse suggerita dal significato proprio di ‘ stalla ’ , sembra svilupparsi comunque una metafora rurale, la cui ulteriore spia potrebbe essere la presenza dell ’ hapax abiugat 412 , il cui verbo semplice, iugo, è connesso alla sfera dell ’ agricoltura e di cui Pacuvio usa anche altri composti: deiugo (v. 109s. Ribb. 3 : perque nostram egregiam unanimitatem, quam memoria <nulla> / deiugat) e adiugo (vv. 93 Ribb. 3 : mater terrast: parit haec corpus, animam <autem> aeter adiugat, e 195s. Ribb. 3 : blandam hortatricem adiugat / voluptatem). Certum est seguito da infinito significa ‘ ho deciso di ’ , come in numerosi luoghi: in particolare, si veda Plaut. Amph. 339 (verum certum est confidenter hominem 409 La presenza di stabulum e di un composto di iugo è stata intesa come spia di linguaggio ‘ pastorale ’ ; conseguentemente il frammento è stato attribuito a un dialogo con un pastore, cfr. Fantham 2003, 109 e Schierl 2006, 364. Ma si può anche pensare allo sviluppo di una metafora rurale (su cui cfr. infra), e quindi non è necessario presuppore la presenza di pastori. 410 Come è normale per i composti di iugo, la ‘ i ’ è consonantica e la sillaba precedente è chiusa. 411 Cfr. Schierl 2006, 126 e 364, che rinvia a Prop. 3, 15, 30 (. . . stabulis mater abacta suis), con il commento di Fedeli 1985. La presenza del termine nel componimento properziano è, insieme ad altri elementi, una spia del fatto che nell ’ elaborazione dell ’ elegia il poeta poteva avere presente il dramma pacuviano (cfr. Alfonsi 1961; sulla presenza del teatro tragico nell ’ elegia latina cfr. anche Filippi 2015, 197s. e note). Il valore traslato di stabulum fa apparire forse un po ’ razionalistiche le considerazioni di Schierl 2006, 364, in base alle quali il termine non sarebbe adatto ad indicare la dimora di Medea, mulier egregiissima. 412 Cfr. ThlL I, 101, 40 e D ’ Anna 1967 ad loc. Il Medus di Pacuvio 112 <?page no="125"?> contra conloqui), in cui ricorre in connessione con un verbo che indica ‘ parlare ’ ed è seguito poco dopo da una sticomitia. Questo valore rende convincente l ’ ipotesi di un ’ antilabé, confermata anche dall ’ uso dell ’ indicativo abiugat: se la prima parte del verso fosse stata una completiva dipendente da loqui, infatti, ci si sarebbe aspettato piuttosto un congiuntivo obliquo abiuget. Fr. 7 (= fr. VI, 224 Ribb. 3 = fr. VI, 257 D ’ A. = 169 Schierl) ia 6 diversi circumspicimus, horror percipit guardiamo intorno in diverse direzioni, l ’ orrore ci assale Macr. Sat. 6, 1, 36: ‘ diversi circumspiciunt, hoc acrior idem ’ (Verg. Aen. 9, 416). Pacuvius in Medea: diversi . . . percipit. diversi codd. divorsi Ribb. Diverse le possibili contestualizzazioni del frammento, che costituisce la narrazione di un momento di paura da parte di un gruppo: a) Medo potrebbe continuare il suo racconto a Perse e riferirgli della paura che lui e i suoi hanno provato di fronte alla tempesta in mare 413 ; b) il racconto della tempesta si collocherebbe nel monologo iniziale (cfr. frr. 1, 2, 3); c) Medo narrerebbe le sue disavventure in mare alla madre Medea, dopo l ’ anagnorisis tra i due (è l ’ ipotesi di Bothe 1834, 131). Sembrano meno convincenti (per le ragioni discusse infra) le ipotesi che non associano il verso all ’ evento della tempesta: in particolare, Warmington (1936, 265), valorizzando il confronto con il passo virgiliano per cui il verso è citato, propone un riferimento alla reazione del popolo di fronte all ’ uccisione di Perse e colloca il frammento sul finale del dramma, e Schierl (2006, 365) ritiene che la paura potesse essere causata dall ’ arrivo di Medea sul carro. Il frammento è trasmesso da Macrobio con il titolo (banalizzante) Medea 414 a proposito della ripresa da parte di Virgilio (Aen. 9, 416: diversi circumspiciunt) della prima parte del verso pacuviano. Non sembra necessario correggere in divorsi (così Ribbeck nelle tre edizioni dei frammenti tragici) la lezione diversi dei codici: anche se la forma con vocale scura prevale in Plauto, non mancano infatti occorrenze di età repubblicana anche per diversus (cfr. Lucil. sat. 513 K = 508 M e Varro Men. 117, 3 Astbury). Si può notare che l ’ incisione semisettenaria del settenario trocaico coincide perfettamente con la pausa sintattica. Il primo emistichio è caratterizzato da un cumulo di riferimenti al tema della dispersione: l ’ evidenza linguistica dell ’ immagine è data dalla prefissazione 413 Al racconto della tempesta pensa la maggior parte della critica. 414 Sulla questione del titolo cfr. supra, introduzione al dramma, p. 95. Fr. 7 113 <?page no="126"?> utilizzata dal poeta, in particolare circum di circumspicimus e disdi diversi. Nella seconda parte, horror, che ricorre in iunctura con percipit anche in Lucrezio (3, 29: percipit atque horror. . .), ha senza dubbio il valore di metus, ma non si esclude, vista la connessione del mito argonautico con il tema della navigazione, un ’ allusione al valore proprio di ‘ ingrossamento della superficie del mare ’ 415 : anche se horror ricorre solo in questo frammento tra i testi tragici latini arcaici pervenuti, il verbo corradicale horreo, al contrario, si trova molto frequentemente in contesti relativi alle tempeste (cfr. fr. 6 della Medea acciana); dunque, sembra verisimile pensare che la scena di gruppo 416 vada riferita al racconto di una tempesta (fenomeno atmosferico che spaventa, provenendo da tutte le direzioni), piuttosto che alla ‘ paura ’ di fronte al carro di Medea 417 : l ’ immagine di uno sguardo rivolto qua e là (molto sottolineata dal poeta, come visto, per mezzo dei prefissi) non sembra particolarmente adatta alla visione del carro, di fronte al quale si potrebbe ipotizzare piuttosto uno sguardo fisso (di stupore o meraviglia), oppure un allontanamento (come avviene, per esempio, nella celebre descrizione dei bassorilievi in Val. Fl. 5, 454: visusque reflectunt), mentre al contrario il tema del ‘ guardare con circospezione tutto intorno ’ sembra essere tipico di un contesto nautico. Infine, la ripresa virgiliana è relativa alla dizione poetica, e non parrebbe interessare anche il contesto 418 per due ragioni: a) la scena bellica dell ’ uccisione di Sulmone a cui appartiene il verso eneadico non sembra avvicinabile all ’ uccisione di Perse (almeno per come è narrata da Igino, Medus re audita Persen interfecit, e per come possiamo ipotizzare venisse messa in scena da Pacuvio); b) a una mera ripresa di stilemi fa pensare anche Macrobio, che poco sopra (Sat. 6, 1, 7) precisa le modalità con cui sono stati trascelti gli esempi di allusioni virgiliane ai poeti antichi: dicam itaque primum quos ab aliis traxit vel ex dimidio sui versus vel paene solidos: post hoc locos integros cum parva quadam immutatione translatos sensusve ita transcriptos, ut unde essent eluceret, immutatos alios, ut tamen origo eorum non ignoraretur. Il frammento del Medus rientra nella prima categoria: versi interi o emistichi ripresi alla lettera da Virgilio. 415 Si veda ThlL s. v. ‘ horror ’ 6/ 3 1997, 67 ss. 416 Per un ’ altra scena di gruppo nel Medus cfr. fr. 18 e relativo commento. 417 Così, come visto, Schierl 2006, 365. 418 Quindi, non sembrano cogenti le argomentazioni di Warmington 1936 per una diversa collocazione del frammento nel finale del dramma (cfr. supra). La presenza della poesia drammatica nell ’ epica virgiliana, infatti, interessa spesso la sola dizione poetica e gli elementi vengono ricontestualizzati in maniera creativa dal poeta: cfr. Stabry ł a 1970, 36 e Wigodsky 1972, 81. Rinvio anche al fr. 1 della Medea acciana, con relativo commento. Il Medus di Pacuvio 114 <?page no="127"?> Fr. 8 (= fr. VII, 225 Ribb. 3 = fr. VII, 258 D ’ A.= 164 Schierl) tr 7 quid tandem? ubi ea est? quo receptast? exul incertan vagat? e che dunque? Dov ’ è? Dove è stata accolta? O forse, esule, vaga senza meta? Non. 467 M (= 749 L): vagas , pro vagaris. Plautus in Milite (423) . . . Serenus in Opusculis (15) . . . Pacuvius Medo (225) quid . . . vagat. Accius Baccheis (235) . . . Turpilius Leucadia (121) . . . Accius Tereo (643) . . . item Medea (409) . . . Ennius Hectoris lytris (151) . . . Pacuvius Periboea (302) . . . Varro Pseudulo Apolline, περὶ θεῶν διαγνώσεος (438) . . . idem Hercules Tuam Fidem (215) . . . qui tandem C A Bamb. cum E 1 | quod codd. Stephanus quo Mercerus | receptat codd. receptast Bergk receptat se Warm. receptata Bergk ire coeptat Mercerus Vossius | incertan Bothe incerta codd. plerr. edd. incerte Bergk incerta an Vossius Perse interrogherebbe ora il suo interlocutore riguardo alle condizioni di Medea. Si intende il verso come pronunciato da un unico personaggio, rifiutando l ’ ipotesi di presenza di antilabé proposta da Bergk e accolta, in ultimo, da Schierl (per le ragioni si veda infra), e interpretandolo come una serie incalzante di interrogative. Condividendo l ’ ipotesi di uno scambio di battute, invece, si deve pensare che l ’ ultima parte del verso, da intendere come risposta (exul incerta vagat: sulla forma incerta si veda infra), fosse pronunciata da Medo. Il testo, trasmesso da Nonio a proposito della forma attiva vagare con indicazione di autore e titolo, presenta alcuni problemi. I codici riportano la forma receptat, mantenuta da Schierl (e ora anche da Gatti - Salvadori 2014), che ipotizza un uso intransitivo del verbo receptare da intendersi come trasferito al frequentativo dal semplice recipere, per il quale è testimoniato; ma rimane il problema dell ’ assenza di un simile uso a proposito del frequentativo per tutta la latinità. La proposta receptast, avanzata da Bergk (1835, 77, che proponeva alternativamente anche receptata) e corroborata da Nosarti (1993, 38 e 1994, 35), è economica paleograficamente e stilisticamente arricchisce la serie di interrogative inserendo un elegante omeoteleuto con ea est (con aferesi) che precede. Quo è correzione del Mercier per quod dei codici. Il tràdito incerta, che per ragioni metriche è da intendersi con -a lunga (e dunque come ablativo, con necessità di integrazione del frammento ex. gr. con via al verso successivo, oppure con valore avverbiale 419 ), è corretto da Nosarti (che recupera una proposta di Bothe) in incertan. In questo modo, escludendo l ’ ipotesi di antilabé, il verso si intende come serie di quattro interrogative, l ’ ultima delle quali disgiuntiva rispetto alla precedente (con il senso: ‘ è stata accolta da qualche parte o vaga ancora senza meta? ’ ); l ’ aggettivo potrebbe essere inteso come un nominativo e legato al 419 Per la seconda ipotesi cfr. ThlL 7/ 1 887, 66 e Schierl 2006, 359 (ma la studiosa si è occupata del frammento già in Schierl 2002, 281). Fr. 8 115 <?page no="128"?> soggetto sottinteso. Si preferisce interpungere dopo receptast e intendere exul come apposizione di Medea (sottinteso) da riferire al tema del vagare senza meta. In questo modo, l ’ incisione mediana del settenario trocaico si pone dopo la terza delle quattro interrogative. Il verso presenta una serie di interrogative in cumulo con incremento del pathos ed esprime il timore di Perse in relazione a un eventuale rientro di Medea, con un riferimento anche ai topoi legati al tema dell ’ esilio 420 . Sembra suggestivo, ma forse non necessario, pensare a un ’ allusione del poeta ai fatti della Medea exul enniana 421 , in cui l ’ esilio è attestato ai frr. 5, 9 e soprattutto 12. Ma l ’ accostamento frequente di questo tema con la figura di Medea (cfr. per es. il fr. 11 della Medea sive Argonautae di Accio) e soprattutto il carattere estremamente generico di questo frammento non sembra supportare sufficientemente l ’ ipotesi. Fr. 9 (= fr. X, 228 Ribb. 3 = fr. VIII, 259 D ’ A. = 166 Schierl) tr 7 custodite istunc vos; ne vim qui attolat neve attigat questo tenetelo voi sotto custodia: che nessuno gli faccia violenza o lo tocchi! Non. 246 M (= 369 L): adtollere, adferre. Pacuvius Medo (228) custodite . . . adtigat. idem Armorum Iudicio (41) . . . Vergilius Aen. lib. VIII (200) . . . Diom. gramm. I 382, 13 - 20: item ‘ attingo attingis ’ omnium eruditorum consensu dicimus. verum reperimus apud non nullos auctores, quibus eloquentiae et elegantiae tributa est opinio, sine n littera dictum, quasi ‘ attigo attigis ’ , ut Pacuvius in Medo custodite . . . adtigat. item Plautus in Mustellaria pluraliter . . . istunc Ribb. hunc codd. Diom. Bothe istum codd. Non. Stephanus | ne vim qui F Non. plerr. edd. D ’ A. (quis) ne eum qui cett. codd. Non. Vossius Stephanus (quis) ne quis vim codd. Diom. Bothe (nequis) | attolat Ribb. 2 - 3 attulat codd. Diom. Ribb. 1 attollat codd. Non. Delrius | neve AB Diom. Delrius plerr. edd. nevi M Diom. neve qui codd. Non. Scriverius neu qui plerr. edd.| attigat codd. Diom. Non. attingat B A Non. Il frammento sembra da intendere come un ordine dato da Perse ai suoi sottoposti e riferito all ’ imprigionamento di Medo (con le parole di Igino: in custodia eum conici iussit) 422 , di cui il tiranno non conosce ancora l ’ identità: da ciò l ’ ordine, così sottolineato, di non arrecargli la minima violenza. 420 Per un ’ antologia di passi sul tema dell ’ esilio cfr. La Penna 1990. 421 Proposta di Schierl 2006, 360: “ spielt vielleicht auf die Ereignisse an, die in Ennius ’ Medea exul behandelt werden ” . 422 L ’ ipotesi di contestualizzazione è in questo caso condivisa dalla critica. Si veda per una sintesi Schierl 2006, ad loc. Il Medus di Pacuvio 116 <?page no="129"?> Il testo è trasmesso da Nonio e Diomede, con indicazione di autore e titolo del dramma, nel primo caso a proposito del significato di adtollere, nel secondo come esempio della grafia di attingo senza ‘ n ’ . Istunc è congettura di Ribbeck per hunc dei codici di Diomede (accolto da D ’ Anna) e istum dei codici di Nonio: le due forme tràdite potrebbero essere intese entrambe come banalizzazioni 423 . Ne vim qui, lezione di F di Nonio, è preferibile a tutte le altre: qui va inteso come pronome (per il più normale quis), secondo un uso non raro in latino arcaico 424 . La struttura della prima proposizione mette in rilievo il deittico istunc, che si trova al centro tra l ’ imperativo e il pronome di seconda persona. L ’ incisione secondaria dopo l ’ undicesimo elemento (che si accompagna nel settenario a quella mediana, dopo il monosillabo ortotonico vim 425 ) mette in evidenza la paronomasia tra attolat e attigat 426 : i verbi sono isosillabici e isoprosodici (a scansione cretica); inoltre, la desinenza di terza persona singolare, abbinata all ’ assimilazione del preverbio di fronte a dentale, fa sì che si ottengano contemporaneamente omeoarto e omeoteleuto. L ’ effetto fonico è ulteriormente sottolineato dalla presenza di ne vim - neve paronomastici. Si preferisce intendere la struttura sintattica come paratattica, interpretando ne attolat e neve attigat come imperativi negativi, piuttosto che come congiuntivi finali dipendenti dalla prima proposizione 427 . Attolat 428 è da accogliere in questa forma per via del metro (qui e nel v. 41 Ribb. 3 dell ’ Armorum iudicium), nonostante i codici di Nonio riportino attollat; il valore di ‘ adferre ’ è attestato dal lemma e può essere confrontato con le occorrenze plautine di contollere (con gradum invece di conferre in Aul. 813; Bacch. 535; Men. 554; Pseud. 707); il verbo è formato sullo stesso radicale del perfetto attuli 429 . Il tono iussivo del frammento sembra riflettere in qualche modo la caratterizzazione topica del tiranno nella tragedia romana arcaica 430 . In particolare, si può notare che proprio in relazione al mito di Medea e alla sua rappresentazione sulla scena antica, lo scontro dell ’ eroina con un tiranno gioca un ruolo di primo piano nelle elaborazioni letterarie del mito: si pensi allo scontro con Creonte nella Medea euripidea e nelle rielaborazioni enniana (rinvio, in particolare, all ’ in- 423 Come nota anche Schierl 2006, 362. 424 Cfr. per esempio Enn. scen. 156 Vahl. 2 = 163 Joc. (con Jocelyn 1976 ad loc.); Plaut. Truc. 73. Cfr. Hofmann - Szantyr 2002, 540s. 425 Per le incisioni dopo monosillabo cfr. Questa 2007, 363. 426 Per l ’ incisione secondaria e i giochi metrico-stilistici cfr. rispettivamente Ceccarelli 1990, 28 e Raffaelli 1982, passim. Sulla paronomasia cfr. anche Mariotti 1960, 37. 427 Si allinea a questa interpretazione la traduzione di D ’ Anna 1967; contra ThlL s. v. ‘ custodio ’ 4, 1561, 84 e Schierl 2006, ad loc. 428 Su cui cfr. Schierl 2006, 160s. 429 Cfr. anche Diom. GL I 380, 14: item adfero attuli, quoniam et fero tuli dicimus. Quamquam et id perfectum quod est attuli ex alio verbo proficisci reperimus apud veteres, ex eo quod est attollo, ut Naevius [Novius Bothe] in Tabellaria: ‘ dotem ad nos nullam attulas ’ (= com. 87 Ribb. 3 . Ma Ribbeck è incerto sull ’ attribuzione della Tabellaria a Novio o a Nevio). 430 Tema soprattutto associato alle figure di Atreo e Tieste (cfr. La Penna 1979), ma in generale molto fecondo in Roma. Fr. 9 117 <?page no="130"?> troduzione alla Medea exul, dramma in cui viene dato risalto alla capacità retorica dell ’ eroina, che (con)vince il tiranno) e senecana, a quello con Perse appunto nella tragedia di Pacuvio e, infine, a quello con Eeta nella Medea di Accio, complicato dal duplice ruolo di padre e di tiranno che il personaggio riveste nel rapporto con Medea. Fr. 10* (= fr. inc. XXXV, 396 Ribb. 3 = fr. XIII, 265 D ’ A. = 175* Schierl) tr 7 < ̵× > post quam calamitas plures annos arvas calvitur da quando una calamità per molti anni devasta i campi Non. 192 M (= 283 L): arva neutri sunt generis. Vergilius (Aen. 10, 78) . . . Feminino Naevius Lycurgo (19) . . . Pacuvius (396) post . . . calvitur. <ea> vel <quae> vel <sic> Ribb. 2 | <com>plures Bergk fortasse recte per plures Bothe Il frammento sembra fare riferimento ad una calamità naturale che da molti anni continua a devastare i campi. Il tema, non infrequente nel teatro antico, è testimoniato a proposito del mito di Medo e Medea anche da Igino (fab. 27, 3): ubi sterilitas et penuria frugum dicitur fuisse 431 . Il testo è trasmesso da Nonio con il solo nome dell ’ autore a proposito del genere femminile di arva. Vista la frequenza in Nonio di citazioni di frammenti senza l ’ indicazione dell ’ opera, non sembra necessario pensare a un errore dei manoscritti riguardante postquam (dietro il quale sarebbe da leggersi Periboea) 432 . L ’ attribuzione al Medus 433 sembra supportata dal confronto con la fabula di Igino citata supra (ubi sterilitas et penuria frugum dicitur fuisse), nonché con il fr. 16 (cfr. infra), in cui un personaggio dichiara di poter eliminare una calamità; naturalmente, la genericità del dettato e la presenza del tema anche in altri frammenti tragici latini non permettono di escludere del tutto diverse possibili attribuzioni e contestualizzazioni. Per completare il settenario trocaico è necessario integrare un elemento. Si danno due possibilità: a) l ’ integrazione si pone a inizio verso. La soluzione più economica è presupporre la caduta di un monosillabo lungo o di un bisillabo pirrichio, pensando a una sostituzione 434 : ita; nam o sed sembrano più fre- 431 Per il testo di Igino cfr. introduzione al dramma di Pacuvio. Per la contestualizzazione di questo frammento si veda in particolare Nosarti 1993, 39. 432 Così dubitanter Lindsay 1903 (cfr. Schierl 2006, 370). 433 Accolta da Dondoni 1958, 96; D ’ Anna 1967, 218; Nosarti 1993, 39 e dubbiosamente da Ribbeck 1-2-3 , Warmington 1936 e Schierl 2006, 370. 434 Sulle sostituzioni nel settenario, con qualche esempio proprio a inizio verso, cfr. Questa 2007, 365. Il Medus di Pacuvio 118 <?page no="131"?> quenti 435 prima di postquam rispetto alle proposte avanzate dubitanter da Ribbeck nell ’ apparato della seconda edizione; b) l ’ integrazione viene collocata all ’ interno del verso. La proposta di Bergk <com>plures risulta interessante per due ragioni: mentre il nesso plures annos non sembra ricorrere nei testi arcaici, compluris annos ricorre in Plaut. Stich. 170; da un punto di vista fonostilistico, la presenza di complures intensificherebbe, rendendola trimembre, l ’ allitterazione in ‘ c ’ , incorniciando l ’ altra in ‘ a ’ (annos arvas). Meno convincente la proposta di Bothe (<per> plures): se è frequente l ’ uso del nesso per annos, infatti, in presenza di aggettivi (di solito multos), la preposizione ricorre però sempre immediatamente prima del sostantivo (multosque per annos, per esempio, anche in latino classico). Postquam è qui accompagnato da un indicativo presente, interpretato e tradotto per lo più come presente storico (così per es. Schierl 2006, 371 ‘ nachdem ’ ): sembra però preferibile intendere la congiunzione con il valore ‘ da quando ’ , come in Plaut. Most. 957s.: postquam . . . eius pater abiit, numquam hic . . . desitumst potarier 436 . Calvitur ha senso concreto di ‘ flagellare, frustrare ’ ed è usato con valore transitivo 437 . Il tema della calamitas dei campi è ricorrente: oltre alla figura archetipica dell ’ Edipo sofocleo, uomo singolo che causa un miasma dannoso per l ’ intera comunità si può ricordare - per il dramma latino, e pacuviano nello specifico - il v. 142 Ribb. 3 del Dulorestes (nec grandiri frugum fetum posse nec mitiscere). Vista la sinonimia tra calamitas (di uso più frequente) e clades, non si esclude infine un nesso tra questo frammento e il fr. 16 (al cui commento si rimanda). Fr. 11* cr 2 +cr c invehens alitum anguium curru vel 2cr 4 inc. arrivando con il carro di serpenti alati Cic. rep. 3, 14: nunc autem, si quis illo Pacuviano ‘ invehens . . . curru ’ multas et varias gentis et urbes despicere et oculis conlustrare possit, videat primum . . . I frr. 11*, 12 e 13 sembrano far parte del medesimo contesto e descrivere il volo (e l ’ arrivo) di Medea sul celebre carro trainato dai dracones. La sequenza dei frammenti qui presentata potrebbe essere giustificata pensando a una sempre maggiore attenzione ai dettagli: al resoconto del trasporto su un carro (fr. 11*), infatti, farebbe seguito la descrizione sommaria degli animali mostruosi aggiogati 435 Per ita cfr. Ter. Andria 304 (contesto giambico); per nam in contesto trocaico cfr. Plaut. Mil. 1432; in giambi Capt. 92; Most. 647; Stich. 156; Trin. 108; Ter. Eun. 617 e Accio v. 118 Ribb. 3 ; per sed cfr. Ter. Andr. 76 e 491 (giambici). 436 Cfr. Ernout - Thomas 1989, 361 per i due possibili significati di postquam con il presente indicativo (non storico) in latino arcaico: a) ‘ maintenant que ’ ; b) ‘ depuis que ’ . 437 Cfr. ThlL III 194, 1 - 27, s. v. Fr. 11 119 <?page no="132"?> (fr. 12), di cui verrebbe infine fornito un particolare, la lingua biforcuta (fr. 13). L ’ appartenenza dei tre testi alla stessa scena non può essere dimostrata con certezza, ma il confronto con un frammento del Marcipor di Varrone, satira menippea in cui sono riscontrabili diversi elementi legati al mito di Medea, potrebbe corroborare questa ipotesi 438 . Il fr. 284 Astbury (dixe regi Medeam advectam per aera in raeda anguibus), infatti, non solo si riferisce al carro, ma presenta anche un ’ interessante struttura narrativa: viene riportato con un doppio grado di subordinazione quanto detto a un re da parte di un personaggio verisimilmente menzionato in una sezione non trasmessa del testo. La medesima doppia subordinazione si ritrova nel fr. 285 Astbury, che potrebbe essere collocato nello stesso contesto del 284 (Pelian ei permisisse ut se vel vivum degluberet, dummodo redderet puellum). Questi elementi potrebbero suggerire l ’ ipotesi che Varrone abbia trasposto in forma narrativa un dialogo scenico, più propriamente un resoconto fatto da un personaggio a un re, che poteva avergli chiesto informazioni su Medea. Se così fosse, e se effettivamente il frammento varroniano si riferisse alla descrizione del carro offerta da Pacuvio, avremmo nella menippea una preziosa testimonianza su un particolare momento del dramma e i tre frammenti si potrebbero intendere come appartenenti a una scena analoga a quella del fr. 8, in cui Perse chiederebbe informazioni su Medea. Non si può escludere l ’ ipotesi, suggerita dal confronto con la fabula di Igino (quo Medea in curru iunctis draconibus cum venisset. . .) che qui venisse narrato l ’ arrivo di Medea sul carro, raccontato probabilmente in ogni caso da un personaggio al re, come lasciano supporre le osservazioni relative al frammento del Marcipor citato 439 . La sequenza è trasmessa da Cicerone in un contesto in cui si ipotizza un viaggio alato in paesi lontani alla guida del famoso carro di Medea descritto da Pacuvio (illo Pacuviano). Il frammento, in genere relegato tra i testimonia, sembra possa essere invece accolto a pieno titolo tra i versi del Medus 440 per alcune ragioni: a) il testo può essere scandito come una sequenza di dimetro cretico e colon cretico con iato in dieresi; b) l ’ uso di inveho in connessione con curru sembra essere poetico; le occorrenze, a quanto mi consta, sono tre: Verg. Aen. 6, 784 - 786: . . . qualis Berecyntia mater / invehitur curru Phrygias turrita per urbes / laeta deum partu; Luc. 8, 553s.: . . . nec ter Capitolia curru / invectus . . . e Prud. psych. 1, 321: non tamen illa pedes, sed curru invecta venusto. Il verbo potrebbe essere stato riecheggiato da Varrone con l ’ espressione Medeam advectam del frammento citato supra; in Sen. Med. 1025 (ego inter auras aliti curru vehar) curru è in connessione con il verbo semplice, come di norma anche in prosa. Rimangono, certo, alcune difficoltà: la ripetizione di alites angues sembrerebbe favorire 438 Riproduco qui in forma sintetica quanto proposto in Falcone 2015, 41 - 45, cui rimando per ulteriore documentazione. 439 Che il Medus contenesse un racconto del volo di Medea sul carro è ipotesi difesa, tra gli altri, da D ’ Anna 1967, 217 - 218 e Schierl 2006, 348 - 349. 440 Come propone Nosarti 1999, 68s.; favorevole all ’ attribuzione al Medus già Büchner 1984, 292; contraria Schierl 2006, 354 (T61). Il Medus di Pacuvio 120 <?page no="133"?> l ’ ipotesi che si tratti qui di una parafrasi del fr. 12 441 , ma mentre in questo caso, e nel testimone ciceroniano, si fa riferimento al carro in generale, nel fr. 12 l ’ attenzione si incentra sul particolare del giogo; inoltre, diversamente da questo verso lirico, entrambi i frammenti successivi sono in metro giambico. Invehens con valore di ‘ entrare ’ , ‘ arrivare ’ è abbinato a un ablativo strumentale, curru, con cui è indicato il mezzo di trasporto 442 , e sembra supportare l ’ ipotesi che il frammento appartenesse al resoconto dell ’ arrivo di Medea. Fr. 12 (= fr. inc. XXXVI, 397 Ribb. 3 = fr. IX, 260 D ’ A. = 171*** Schierl = adesp. 11 TrRF) ia 6 angues ingentes alites iuncti iugo enormi serpenti alati aggiogati a un giogo Cic. inv. 1, 27: fabula est in qua nec verae nec veri similes res continentur, cuiusmodi est: angues . . . iugo. Mar. Victorin. Rhet. 1, 19, p. 86 (= p. 202 H): fabulam dicit esse quae nihil veri nec veri simile continet, et dat exemplum: cuiusmodi est: angues . . . iugo. Aug. soliloq. 2, 15, 29: A. Sed tamen solet falsum dici etiam, quod a veri similitudine longe abest. R. Non enim, cum dicitur iunctis alitibus anguibus Medeam volasse, ulla ex parte res ista verum imitatur, quippe quae nulla sit nec imitari aliquid possit ea res, quae omnino non sit. R. Recte dicis; sed non adtendis eam rem, quae omnino nulla sit, ne falsum quidem posse dici. Si enim falsum est, est: si non est non est <falsum>. A. Non ergo dicemus illud de Medea nescio quod monstrum falsum esse? R. Non utique; nam si factum est, quomodo falsum est, si non est factum, quomodo monstrum est? A. Miram rem video. Itane tandem cum audio: angues . . . iugo, non dico falsum? dracones atque add. J Aug. | iuncti iugo HPf Cic. iuncte iugo V Cic. iunctiugo D Mar. Vict. iugo iuncti Smh Cic. Il verso sembra appartenere al medesimo contesto del precedente (cfr. commento al fr. 11*), di cui fornirebbe il dettaglio del giogo a cui sono legati i dracones. Il frammento è riportato da Cicerone nel de inventione nell ’ ambito della sezione relativa alla narratio, come esempio di fabula, distinta da historia e argumentum, in quanto relativa al verisimile 443 . Mario Vittorino lo cita di seconda mano commentando Cicerone. Il passo di Agostino, in cui Medea è citata in maniera esplicita, è particolarmente significativo per l ’ attribuzione del frammento 441 Così Schierl 2006, 352. 442 Cfr. ThlL VII/ 2, 130, 4 - 22. 443 Sul contesto ciceroniano si veda anche Artigas 1990, 153. Fr. 12 121 <?page no="134"?> al Medus 444 , di cui non pare si debba più dubitare e che sembra confermata anche dalla testimonianza di Cic. rep. 3, 14 testimone del fr. 11*. Il testo non presenta particolari difficoltà. Le lezioni dei codici dei secondi due fontes (in particolar modo di Agostino), che si è scelto di non riportare in apparato, sono decisamente deteriori e dovute verosimilmente alla difficoltà di comprensione del termine alites nel suo valore di aggettivo, vista la sua maggiore frequenza come sostantivo 445 : interessante l ’ integrazione (quasi una glossa) dracones atque inserita da J (di Agostino), anche se non necessaria vista la polisemia di anguis e il suo ampio utilizzo come sinonimo di draco 446 . Iuncti iugo è la sequenza da accettare, in quanto ricorre nella maggioranza dei codici ed è corretta metricamente. Il senario presenta una struttura fonostilistica ricercata: i primi tre termini sono in omeoteleuto (l ’ ultimo dei tre dopo l ’ incisione mediana); gli ultimi due, pure allitteranti, sono legati anche da una figura etimologica (che si è cercato di rendere nella traduzione italiana). I due attributi (legati per asindeto) riferiti agli angues fanno riferimento a caratteristiche comuni a tutte le rappresentazioni del carro: con ingentes, infatti, si allude alla grandezza spropositata e spaventosa, mentre alites dà conto della portentosa capacità di volare. L ’ aggiogamento, dunque, sembra suggerire un ‘ addomesticamento ’ di queste figure mostruose, che mantengono però agli occhi del parlante il loro carattere spaventoso. Il riferimento ai serpenti in una tragedia romana in cui Medea è tra i protagonisti è rilevante per vari aspetti: innanzitutto, bisogna tenere conto della fama e delle critiche che interessarono in età post-classica il finale della Medea di Euripide, e che è senz ’ altro riflessa nella realtà ‘ ellenistica ’ della Roma repubblicana. In particolare, le critiche che la satira (in particolare Lucilio 604 K = 587 M nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis e Varrone Men. 284 Astbury citato supra, ad fr. 11* 447 ) rivolge alla presenza del carro potrebbero costituire uno dei numerosi segnali di una maturità notevole del teatro arcaico romano anche sotto il profilo tecnico, e far presupporre anche un ’ effettiva messa in scena, mediante macchine sceniche, dell ’ arrivo di Medea sul carro. In più, la presenza di un riferimento ai serpenti e al carro (molto frequente nella letteratura posteriore), potrebbe essere stata influenzata anche dalla relativamente precoce romanizzazione del personaggio, associato a figure come Angitia, divinità nota - tra le altre cose - proprio per il suo legame con i serpenti 448 . 444 Su cui si veda Ribbeck 1-2-3 , ad loc.; Klotz 1953, ad loc.; D ’ Anna 1967, ad loc.; Nosarti 1999, p. 64. 445 Ma cfr. ThlL I, 1525, 15 - 44. 446 Per la sinonimia tra anguis, draco e serpens cfr. Raschle 2001, 246 con ulteriore documentazione. 447 Sul rapporto tra la presenza del mito di Medea e la critica letteraria in Lucilio cfr. Canobbio 2012, 549s.; nella menippea di Varrone cfr. Falcone 2015, 42. 448 Per il carro di Medea e i rapporti con Angitia cfr. supra, pp. 8s. Il Medus di Pacuvio 122 <?page no="135"?> Fr. 13 (= fr. XI, 229 Ribb. 3 = fr. X, 261 D ’ A. = 172 Schierl) ia 6 linguae bisulcis actu crispo fulgere lingue biforcute brillare con movimento vibrante Non. 506 M (= 814 L): fulgere , correpte, pro fulgere. Lucretius lib. V (1094) . . . Pacuvius Medo (229) linguae . . . fulgere. Accius Bacchis (249) . . . Lucilius Satyrarum lib. XI (1) . . . bisulcis actu codd. Ribb. 3 bisulces actu Ribb. 2 in app. bisulcae iactu Faber bisulcae actu Warm. Il frammento è l ’ ultimo della serie relativa alla descrizione del carro di Medea (cfr. commento al fr. 11*). Il poeta sembra entrare ulteriormente nel dettaglio, soffermandosi sul particolare della lingua biforcuta dei dracones. Il verso è riportato da Nonio, con indicazione di autore e titolo del dramma, a proposito del trattamento prosodico di fulgere, che ha scansione dattilica (come normale nel periodo arcaico). Il testo del senario è sicuro: non sembra necessario l ’ intervento normalizzante per cui si è modificato il tràdito bisulcis in bisulces (proposta avanzata da Ribbeck nell ’ apparato della seconda edizione e accolta da D ’ Anna nel testo) 449 . Anche bisulcae (accolto nella prima edizione di Ribbeck), da bisulcus, -a, -um non è necessario, perché l ’ aggettivo di prima classe è più tardo e si alterna a quello di seconda. Il movimento rapido delle lingue biforcute dei serpenti è descritto mediante una doppia sequenza di sostantivo e aggettivo seguita, infine, dal verbo che, in posizione enfatica a fine verso, sottolinea la straordinarietà del ‘ fulgore ’ , perfettamente in linea con la mostruosità dei dracones già presente nei frammenti precedenti. L ’ attenzione ai dettagli visivi, del resto, è tipica dello stile del pittore Pacuvio ed è evidenziabile nelle descrizioni fisiche (come nel fr. 23 di questo stesso dramma, al cui commento rinvio), in quelle di fenomeni atmosferici o - come in questo caso - di animali. La sottolineatura del particolare dei serpenti può essere ricondotta all ’ attenzione riservata dai Romani a questo tema (si veda quanto detto a proposito del frammento precedente). Il dettaglio delle lingue, infine, sembra accomunare gli angues del carro con il draco posto a custodia del vello nella descrizione che ne offre Val. Fl. 1, 60ss. (. . . tantoque silet possessa dracone / vellera, multifidas regis quem filia linguas / vibrantem ex adytis cantu dapibusque vocabat / et dabat externo liventia mella veneno) 450 , di cui si dice multifidas . . . linguas / vibrantem. 449 Cfr. anche Ribbeck 3 , coroll. LXXV s.; Nyman 1990, 216 - 229; Nosarti 1993, 39 n. 61 e Schierl 2006, 367. 450 Su questo passo si vedano Elice 2004, 145 e Nosarti 2011. Fr. 13 123 <?page no="136"?> Fr. 14 (= fr. XII, 230 - 231 Ribb. 3 = fr. XI, 262 - 263 D ’ A. = 173 Schierl) ia vel tr mulier egregiissima forma una donna dalla bellezza straordinaria Prisc. GL II 87, 15: vetustissimi tamen comparativis etiam huiuscemodi sunt [est quando] usi. Cato . . . Pacuvius in Medo: mulier . . . forma. Iuvenalis. . . egregiissima codd. egregissima Gruterus Bergk Il frammento sembra riferirsi alla straordinaria bellezza di Medea. Il testo è trasmesso da Prisciano con indicazione di autore e titolo del dramma a proposito della formazione del comparativo e del superlativo di aggettivi per i quali le forme con doppia -i si alternano a quelle con una sola -i, dunque la grafia egregiissima è da mantenere. La sequenza delle sillabe costringe a disporre i termini su due versi, per i quali è ipotizzabile un ritmo giambico o trocaico. Medea è definita con il termine generico di mulier piuttosto che con virgo: il segmento del mito scelto da Pacuvio, del resto, presuppone un ’ età più avanzata per la donna, mentre virgo si adatterebbe meglio alla Medea acciana (e a quella epica, nelle versioni di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco, nel cui poema è frequentemente denotata, appunto, come virgo). Si pone il problema se egregiissima vada inteso come ablativo da legare a forma (con l ’ unità sintagmatica spezzata dall ’ enjambement) 451 o piuttosto come nominativo da connettere a mulier: la posizione a fine verso non permette di stabilire la quantità su base metrica. Fa propendere piuttosto per la seconda ipotesi il confronto con Verg. Aen. 6, 861 = 12, 275 (egregium forma iuvenem et fulgentibus armis) e 10, 435 (egregii forma), riutilizzati in Ov. met. 5, 49 (egregius forma, in cui sembra particolarmente significativo il fatto che la iunctura sia utilizzata come spunto per una descrizione fisica); Stat. silv. 4, 4, 8s. (illic egregium formaque animisque videbis / Marcellum), in cui ricorre egregius, -a, -um seguito dall ’ ablativo di limitazione forma; Anth. 9, 8; 15,1; 15, 47. Una conferma ulteriore potrebbe essere data dal parallelo con Terenzio (Andr. 72: egregia forma atque aetate integra), in cui i due ablativi di limitazione si trovano al centro di una struttura chiastica incorniciata dagli aggettivi in nominativo. La scelta del termine egregius fa pensare all ’ immagine di una donna che si distingue e risalta in virtù della sua bellezza 452 . Forma, infatti, sembra ricorrere più spesso in iunctura con altri aggettivi (quali eximia, lepida, 451 Così intendono Scriverius, Delrius e Schierl. 452 Cfr. ThlL s. v. ‘ egregius ’ 5/ 2 287, 21 - 29 e Serv. auct. Aen. 4, 93: proprie egregium dicebatur quasi in grege amplissimum, quod emineret ex grege. Il Medus di Pacuvio 124 <?page no="137"?> candida) 453 : Pacuvio potrebbe essere intervenuto su una formulazione più o meno standardizzata, impreziosendola e variandola grazie all ’ uso di egregius, mediante il quale potrebbe aver voluto omaggiare il topos epico della bellezza femminile (si pensi alla celebre descrizione di Nausicaa, che svetta sulle compagne per bellezza e altezza, nell ’ Odissea). Il tema della bellezza di Medea, poi, che ricorre già nell ’ epos di Apollonio Rodio e successivamente in quello di Valerio Flacco, presenta una feconda analogia tra l ’ eroina colchica e la bella per antonomasia, Elena, la cui vicinanza con Medea sembra possa essere messa in luce sotto diversi aspetti (la debolezza di fronte all ’ amore, il trasferimento in terra straniera, con direzione speculare verso Oriente e verso Occidente, l ’ essere (con)causa di guerre tra il popolo di appartenenza ‘ ufficiale ’ e quello dell ’ amante seguito) 454 . I versi sembrano costituire l ’ esordio di una descrizione fisica, tema particolarmente caro a Pacuvio (si veda quanto detto a proposito del fr. 13). Per quanto riguarda la descrizione di figure umane nei testi antichi, si può notare in genere una maggiore dovizia di particolari nell ’ ambito dell ’ esposizione del brutto e, al contrario, una cospicua presenza di topoi relativamente al bello, nonché una tendenza a stabilire un legame di correlazione tra l ’ aspetto esteriore e l ’ ethos dei personaggi 455 . In questo senso può essere utile la lettura di Gell. 5, 11: inter enim pulcherrimam feminam et deformissimam media forma quaedam est . . . qualis ab Q. Ennio ‘ in Melanippa ’ perquam eleganti vocabulo ‘ stata ’ dicitur . . . Ennius autem in ista quam dixi tragoedia eas fere feminas ait incolumi pudicitia esse, quae stata forma forent. Il verso enniano riportato da Gellio (scen. 294 Vahl. 2 = fr. CXVIII Joc.: stata forma), infatti, testimonia la finezza anche linguistica dei tragici arcaici, e la tendenza alla precisione, pur nella difficoltà oggettiva di definire i livelli della bellezza. Sembra, infine, particolarmente interessante il parallelo con il v. 254 Ribb. 3 di Accio (formae figurae nitiditatem, hospes, geris), tratto dalle Bacchae, in cui lo splendore della bellezza è riferito all ’ hospes Dioniso, in un contesto che presenta alcune analogie con quello del Medus e cioè nell ’ ambito dell ’ arrivo di uno straniero che in realtà è originario del luogo. 453 Cfr. ThlL s. v. ‘ forma ’ . Sul valore di forma con il significato di ‘ bellezza ’ nel linguaggio latino arcaico cfr. Bagordo 2001, 40s. 454 Un accostamento tra Medea ed Elena è testimoniato in un luogo erodoteo, 1, 2, 1 - 3, riportato e discusso nell ’ introduzione generale, pp. 15s. Il rapimento di Medea è citato all ’ interno di una serie di scaramucce tra Occidente e Oriente, costituite proprio da reciproci rapimenti di fanciulle (Io da una parte, Medea dall ’ altra, e poi ancora Elena dall ’ altra); il brano si conclude con la valutazione negativa del rapimento, ma soprattutto della vendetta che ne seguiva, in quanto i saggi sanno che, se le donne in questione non avessero voluto, non sarebbero state rapite (1, 4, 2). 455 Si pensi alla figura di Tersite in Omero. Per figure femminili, cfr. ad es. Ter. Andr. 122s.: quia erat forma praeter ceteras / honesta ac liberali. In generale, sul lessico della bellezza cfr. Monteil 1964. Fr. 14 125 <?page no="138"?> Fr. 15 (= fr. XIII, 232 Ribb. 3 = fr. XII, 264 D ’ A. = 174 Schierl) tr 7 caelitum camilla, exspectata advenis: salve, hospita! ministra dei celesti, giungi attesa: salve, ospite! Varro ling. 7, 34: in Medo: caelitum . . . hospita. camillam qui glossemata interpretati dixerunt administram; (. . .) verbum esse graecum arbitror, quod apud Callimachum in poematibus eius inveni. Serv. Auct. Aen. 11, 543: Statius Tullianus de vocabulis rerum libro primo ait dixisse Callimachum apud Tuscos Camillum appellari Mercurium, quo vocabulo significant deorum praeministrum, unde Vergilius bene ait Metabum Camillam appellasse filiam, scilicet Dianae ministram: nam et Pacuvius in Medea cum de Medea loqueretur: caelitum . . . hospita. Romani quoque pueros et puellas nobiles et investes camillos et camillas appellabant, flaminicarum et flaminum praeministros. Macr. Sat. 3, 8, 7: iisdem fere verbis utitur quibus Servius auctus, sed auctorem tantum, non fabulam dicit. exspectata codd. exoptata Klotz La nuova arrivata Medea è salutata (forse da Perse? 456 ) come ministra degli dei. Il testo è trasmesso da Varrone, Servio e Macrobio a proposito del valore da attribuire al termine camilla, con indicazione del solo titolo in Varrone, del solo autore in Macrobio, di autore e titolo (banalizzato in Medea) in Servio. Il testo del settenario (che presenta incisione mediana latente) è sicuro e non sembra necessario correggere il tràdito exspectata in exoptata, vista la frequenza del termine in iunctura con advenio 457 . Il nesso allitterante caelitum camilla, scelto da Pacuvio, sembra avere una voluta funzione generalizzante. Il termine camilla, infatti, ha il valore di ‘ ministra ’ nelle cerimonie sacre e dal racconto di Igino sappiamo che Medea regi se sacerdotem Dianae ementita est. Nel frammento, tuttavia, si parla di ‘ celesti ’ in generale e, d ’ altra parte, camilla è riconducibile con certezza al culto di Diana solo a partire dal 17 a. C. (in letteratura è Virgilio il primo a connettere la dea con la figura di Camilla 458 ). Il riferimento ai ‘ celesti ’ , allora, potrebbe essere inteso come una scelta del poeta di evitare la menzione diretta di Ecate-Diana 459 . Se iden- 456 Così, sembra opportunamente, Arcellaschi 1990, 113. In alternativa, D ’ Anna 1976 ad loc. pensa anche al coro (così Warmington 1936, 257; Argenio 1951, 47; Mette 1964, 103). 457 La proposta di Klotz (accolta da D ’ Anna) è in effetti esclusa da Skutsch (1954, 466). 458 Cfr. Arrigoni 1982, 86s. e Nosarti 1999, 63 (e già 1993, 39s.); Falcone 2013, 313. 459 Il riferimento a Ecate (o Diana) è testimoniato, invece, per esempio da Eur. Med. 395 - 398 ( οὐ γὰρ μὰ τὴν δέσποιναν ἣν ἐγὼ σέβω / μάλιστα πάντων καὶ ξυνεργὸν εἱλόμην , / Ἑκάτην , μυχοῖς ναίουσαν ἑστίας ἐμῆς , / χαίρων τις αὐτῶν τοὐμὸν ἀλγυνεῖ κέαρ ); Ap. Rh. 3, 250 - 252 ( Ἥρη γάρ Il Medus di Pacuvio 126 <?page no="139"?> tifichiamo la persona loquens con Perse, la preferenza per il generico ‘ celesti ’ potrebbe essere legata alla paura dei poteri ctoni della donna da parte del tiranno. Salve è senz ’ altro qui un saluto di benvenuto (si veda, invece, la complessa problematica relativa a questo termine nel fr. 15 della Medea exul di Ennio). La forma hospita è alternativa a hospes nel latino arcaico 460 . Il tema del frammento, incentrato sul legame di Medea con la sfera divina 461 , è fecondo nel panorama letterario greco-latino relativo alla figura della donna colchica: oltre allo sviluppo euripideo ed epico alessandrino, in cui il rapporto con l ’ avo Sole è spesso accennato, si tenga conto dei riferimenti presenti sulle scene latine (ricordo qui solo il fr. 8 di Accio, al cui commento rinvio) 462 . Fr. 16 (= fr. XVII, 236 Ribb. 3 = fr. XV, 267 D ’ A. = 176 Schierl) ia 6 possum ego istam capite cladem averruncassere io posso allontanare questa calamità dal tuo capo Non. 74 M (= 104 L): averruncare , avertere. Lucilius lib. XXVII (40) . . . Pacuvius Medo (236) possum . . . averruncassere. M. Tullius de Fin. Bon. et Mal. . . . possum plerr. codd. possim Urb. 307 S | istam capite codd. istanc a te Lipsius istanc aps te Müller | aberruncassere E averruncassere E 1 Un personaggio, probabilmente Medea, promette di liberare qualcuno da una calamità. La dichiarazione del suo potere iatrico-magico può essere ricondotta alla calamitas cui fa riferimento il fr. 10, e richiamare l ’ espressione di Igino (fab. 27) dixit sterilitatem se expiare posse. Il testo, trasmesso da Nonio a proposito del significato di averruncare con indicazione di autore e titolo del dramma, è abbastanza sicuro: possim in luogo di possum ricorre in soli due manoscritti; E presenta un frequente errore fonetico (b per v), corretto dalla prima mano, e una desinenza di prima persona in luogo dell ’ infinito. La proposta del Lipsius (istanc a te), che scandiva il verso come settenario trocaico, migliorata dal Müller (aps te), non sembra necessaria né da un punto di vista paleografico né sintattico, intendendo capite come ablativo semplice μιν ἔρυκε δόμῳ , πρὶν δ ' οὔτι θάμιζεν / ἐν μεγάροις , Ἑκάτης δὲ πανήμερος ἀμφεπονεῖτο / νηόν , ἐπεί ῥα θεῆς αὐτὴ πέλεν ἀρήτειρα· ); Hyg. fab. 27 (regi se sacerdotem Dianae ementita est). 460 Ricorre, per es. in Plaut. Mil. 488, 495, 510, 548; Persa 464; Ter. Andr. 439. 461 Oltre alla menzione dei ‘ celesti ’ è proprio l ’ uso di camilla che sembra evidenziare un legame particolare di Medea con le divinità. Secondo Varro ling. 7, 34 (e poi Serv. Dan. Verg. Aen. 11, 543 e Macr. Sat. 3, 8, 6) ‘ camillo ’ è detto di Mercurio da Callimaco (fr. inc. sed. 723 Pf.), ma la forma esatta del nome in greco è incerta. 462 Per il carattere ‘ divino ’ di Medea in Grecia cfr. Konstan 2008; per i rapporti di Medea con Ecate e con il Sole cfr. supra, introduzione generale, p. 12. Fr. 16 127 <?page no="140"?> con funzione di allontanamento. Il verso è completo, e si intende come senario giambico con incisione semiquinaria e correptio della prima sillaba di istam 463 ; non sembra necessaria la proposta di Bothe (1834, 130) di intenderlo come settenario trocaico acefalo (da integrare ex. gr. con Mede). La posposizione di ego a possum e il suo accostamento a istam mettono in evidenza il pronome e in risalto il tema del potere iatrico della donna 464 . Rilevante risulta la presenza di una forma verbale come averruncassere, propria del linguaggio sacrale romano-italico e testimoniata anche in ambito epigrafico, in iunctura con clades, più raro di calamitas (che ricorre, invece, nella preghiera per la lustratio dell ’ ager riportata da Cato agr. 141, 2: calamitates intemperiasque prohibessis defendas averruncesque). Identificando la persona loquens con Medea, sembra interessante notare che la funzione iatrica costituisce uno degli elementi che l ’ eroina ha in comune con la dea Angitia (insieme con la condivisione di elementi ctonii e solari, il legame con i sacerdozi femminili, la pratica della magia e dei metodi incantatori, la connotazione extra-urbana) 465 . L ’ identificazione della clades cui si fa riferimento nel frammento con la calamitas del fr. 10 sembra verisimile, soprattutto tenendo conto della stretta sinonimia dei due termini. Fr. 17 (= fr. XVIII, 237 Ribb. 3 = fr. XIV, 266 D ’ A. = 177 Schierl) ia 6 qua super re interfectum esse dixisti Hippotem? perché hai detto che Ippote era stato ucciso? Fest. 394 L (= 305 M): superescit significat supererit. Ennius (Ann. 494) . . . Et Accius in Chrysippo (266) . . . Sed per se super significat quidem supra, ut cum dicimus: super illum cedit. Verum ponitur etiam pro de, Graeca consuetudine, ut illi dicunt ὑπέρ . Plautus in Milite glorioso (1212) . . . In Phasmate (Most. 727) . . . Pacuius (sic) in Medo (237): qua . . . dixisti. re F plerr. edd. red Ribb. 2 - 3 | esse F plerr. edd. <tu> esse Ribb. 2 - 3 | dixisti Hippotem plerr. edd. Hippotem dixisti F dixti Hippotem Bothe dubitanter in app. Un personaggio chiede al suo interlocutore il motivo per cui questi ha detto che Ippote è stato ucciso. Il testo potrebbe essere ascritto a) a un dialogo tra Medo e 463 Si tratta di un tipo di correptio che solo apparentemente contravviene alla norma di Ritschl, in quanto eg(o) è parola divenuta monosillabica per sinalefe, cfr. Questa 2007, 207. Non è, dunque, nemmeno necessario ricorrere al concetto di ‘ parola metrica ’ e pensare ad una ‘ licenza ’ (per questi casi, e per l ’ esclusione dalla casistica della tipologia qui presa in esame, si veda Pavone 1975, 176). 464 Ad una posizione enfatica pensa D ’ Anna 1967, ad loc.; cfr. anche Falcone 2013, 314. Diversamente, Delrius pensava ad una interrogativa. 465 Per ulteriori approfondimenti cfr. supra, introduzione generale, pp. 12s. Il Medus di Pacuvio 128 <?page no="141"?> Medea successivo al loro incontro e riconoscimento, ovvero b) a un dialogo tra Perse e Medea. Dal racconto di Igino sappiamo che Medo, arrivato in Colchide separatamente da sua madre, si spaccia per Ippote, figlio di Creonte (Hippoten Creontis filium se mentitus est); avendo saputo dal re che Ippote è tenuto rinchiuso, Medea, che finge a sua volta di essere una sacerdotessa di Diana, convince il re che (come effettivamente è) il prigioniero in realtà non è Ippote, ma Medo, figlio di Medea mandato dalla madre in Colchide per ucciderlo (regi persuadet eum Hippoten non esse sed Medum Aegei filium a matre missum ut regem interficeret). Non sono fornite da Igino ulteriori precisazioni sugli argomenti usati da Medea per convincere il re che sta trattenendo Medo, e non Ippote, ma l ’ evidenza di questo frammento lascerebbe pensare che, appunto, la donna abbia raccontato al re della (presunta) morte di Ippote (ciò rafforzerebbe l ’ ipotesi di un dialogo tra il tiranno e Medea). Dall ’ altra parte, sembra altrettanto verisimile supporre che Medo, messo inconsapevolmente in pericolo dalla madre, gliene chieda il motivo 466 (ipotesi a): il frammento si inserirebbe in una scena di riconoscimento tra madre e figlio, e andrebbe collocato immediatamente dopo l ’ anagnorisis. Del resto, quelle di riconoscimento sono scene particolarmente importanti nei drammi pacuviani in generale (si pensi a tragedie come il Dulorestes, l ’ Antiopa, l ’ Atalanta) 467 e nel Medus in particolare (dove un ’ altra anagnorisis è ipotizzabile per Medea e il padre Eeta, cfr. infra frr. 20 - 28 e relativi commenti). Il verso è trasmesso da Festo con indicazione di autore e titolo dell ’ opera a proposito dell ’ uso anomalo di super con il valore di de inteso dal grammatico come grecismo, per influenza di ὑπέρ . L ’ inversione dixisti Hippotem è necessaria per ragioni metriche: sembra preferibile interpretare il verso come senario giambico con incisione semisettenaria abbinata a incisione latens semiquinaria, e con secondo elemento realizzato da due brevi, la seconda delle quali per correptio (dunque con una scansione pirrichia di super) 468 . La presenza del personaggio di Ippote testimonia una tendenza alla complicazione della trama e alla scelta di versioni rare del mito, che è tipica già della tragedia ellenistica, e che caratterizza la tragedia romana in generale e la drammaturgia pacuviana in particolare (sulla stessa linea si inserisce la probabile 466 Questa ipotesi di contestualizzazione, suggerita dal confronto con Igino (fab. 27), e proposta da Ribbeck 1875, è accolta da D ’ Anna 1967, 218; Nosarti 1993, 40; Schierl 2006, 372s. 467 Il tema è stato approfondito da Manuwald 2003, 43ss. 468 Così interpretano Müller 1861, 422; Koterba 1905, 135; D ’ Anna 1967, 218; Schierl 2006, 372s. (gli ultimi due studiosi offrono una sintesi della questione). Ribbeck interveniva troppo sul testo pensando ad un settenario trocaico completo (red per re e <tu> a partire dalla seconda edizione; dixti Hippotem già dalla prima); ad uno incompleto pensava Bergk 1884, 323 (seguito da Klotz, Mette e Nosarti); Stzrelecki 1947, 48s. infine, pensava ad un dimetro cretico seguito da dimetro cretico catalettico. Fr. 17 129 <?page no="142"?> presenza del toponimo Aea al fr. 3, e quella certa del nome Egialeo nel fr. 22) 469 . Ippote, figlio di Creonte, è un personaggio che compare molto raramente nella letteratura e nell ’ iconografia antiche 470 : a) è menzionato dallo scolio a Eur. Med. 19 471 , in cui si dice che, diversamente da Euripide, secondo alcuni Giasone sposò una figlia di Ippote; b) Diod. 4, 55, 5 472 narra che Ippote seguì Medea fino ad Atene, dove la donna fu sottoposta a processo e poi prosciolta dalle accuse; c) un ’ iscrizione ne accerta la presenza tra le figure rappresentate su un vaso apulo (München, Antikensammlung 3296 473 ), datato al 330 - 320 a. C., che ha per tema la morte di Creusa (qui chiamata Kreonteia), nel tentativo disperato di salvare la sorella in una scena che rappresenta tutta la famiglia (da sinistra a destra Creonte, Kreonteia, Ippote e Merope, la madre; sullo sfondo, in secondo piano, Giasone). Oltre a questo frammento pacuviano, poi, il suo nome ritorna solo nella fabula di Igino: è questo uno degli argomenti più forti su cui si fonda l ’ ipotesi di un riferimento al Medus da parte di Igino 474 . Fr. 18 (= fr. V, 223 Ribb. 3 = fr. XXVII, 286 D ’ A. = 170 Schierl) ia 6 clamore et sonitu colles resonantes bount i colli, echeggiando, risuonano di clamore e strepito Non. 79 M (= 110 L): bount dictum a boum mugitibus. Pacuvius Medo (223) clamore . . . bount. Vergilius Georgicorum lib. III (223) . . . Varro Parmenone (386) . . . resonantes plerr. codd. renonantes Paris. 7666 | bount plerr. codd. bouunt G Il frammento è di difficile contestualizzazione. L ’ immagine sonora sembra riferirsi a una scena di gruppo (cfr. anche fr. 8). Si è pensato a) all ’ esultanza del popolo in seguito alla cacciata di Perse; b) ad una reazione di fronte all ’ arrivo di Medo in Colchide; c) all ’ arrivo di Medea sul carro (in questo caso il frammento andrebbe 469 Sulla tragedia ellenistica cfr. Gentili 2006. Sulla tendenza alla complicazione della trama in Pacuvio cfr. almeno Valsa 1957; D ’ Anna 1967; Manuwald 2003. 470 Cfr. LIMC V/ 1 (1990), 467s. s. v. Hippotes (E. Simon), che conclude: “ . . . bleibt H. eine in der antiken Literatur und Bildkunst nur vereinzelt auftretende Gestalt ” ; cfr. anche Schierl 2006, 345s. 471 ὅτι δὲ οἱ μὲν ῾Ιππότου , οἱ δὲ Κρέοντός φασι , παῖδα γαμῆσαι τὸν ᾽Ιάσονα , προείπομεν . 472 ἐνταῦθα δ᾽ οἱ μέν φασιν αὐτὴν Αἰγεῖ συνοικήσασαν γεννῆσαι Μῆδον τὸν ὕστερον Μηδίας βασιλεύσαντα , τινὲς δ᾽ ἱστοροῦσιν ὑφ᾽ Ἱππότου τοῦ Κρέοντος ἐξαιτουμένην τυχεῖν κρίσεως καὶ τῶν ἐγκλημάτων ἀπολυθῆναι . 473 Su cui cfr. LIMC 5/ 1, s. v. 474 Cfr. anche supra, introduzione al Medus, pp. 97s. Il Medus di Pacuvio 130 <?page no="143"?> posto dopo il fr. 13) 475 . L ’ andamento del discorso, con l ’ uso di un presente storico, potrebbe far pensare ad una narrazione, affidata forse a un nuntius 476 . Il testo, trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma, non presenta problemi di rilievo. Il verso ha una ricercata struttura fonostilistica, che rende conto del gusto musicale di Pacuvio, quale si evince da numerosi frammenti 477 . La compresenza delle incisioni semiquinaria e semisettenaria isola al centro del senario il soggetto colles, legato per allitterazione a clamore, mentre sonitu e resonantes costituiscono un ’ elegante figura etimologica (arricchita dall ’ allitterazione coperta). Al chiasmo delle figure appena descritte potrebbe corrisponderne uno sintattico intendendo clamore come legato a bount e sonitu a resonantes: l ’ ipotesi potrebbe essere corroborata dal confronto con Enn. ann. 594 Sk. = 585 Vahl. 2 (. . . clamore bovantes), in cui clamore dipende dal participio bovantes (boare o bovare, del resto, è la forma normale del verbo 478 ). In alternativa si possono considerare i due ablativi come un ’ endiadi, e ritenerli entrambi retti da resonantes 479 : in questo caso il nesso nominale creerebbe un parallelismo con i due verbi con cui si chiude il verso, confermando la posizione centrale di colles. Il nesso clamore et sonitu, infine, trova in questo verso la sua unica occorrenza per il latino arcaico, in cui sonitu ricorre in genere in iunctura (con allitterazione e omeoteleuto) con spiritu (cfr. Enn. scen. 11 Vahl. 2 = 4 Joc.: unde oritur imber sonitu saevo et spiritu e Acc. Med. fr. 1: fremibunda ex alto ingenti sonitu et spiritu). Fr. 19 (= fr. XV, 234 Ribb. 3 = fr. XXV, 284 D ’ A. = 187 Schierl) ia 6 populoque ut faustum sempiterne sospitent e per il popolo, perché conservino sempre fausto . . . Non. 170 M (= 250 L): sempiterne. Pacuvius Medo (234) populoque . . . sospitent. Non. 176 M (= 258 L): sospitent, salvent. Ennius Melanippa (249) . . . Pacuvius Medo (234) populo qui . . . sospitent. populoque ut F Non. 170 plerr. edd. puloque ut G 1 L B A Non. 170 populo qui codd. Non. 176 Stephanus | faustum codd. fastum G Non. 176 (sed corr. G 1 ) | sospitent codd. Non. 170 superstitentque codd. Non. 176 475 All ’ ipotesi a) pensano Ribbeck 1875; Warmington 1936; Argenio 1951; Arcellaschi 1990; Nosarti 1993; alla b) Müller 1889; alla c), infine, Dondoni 1958 e Mette 1964. 476 Cfr. Schierl 2006, 365. 477 Ricordo, a titolo di esempio, i vv. 113s. Ribb. 3 del Dulorestes: hymenaeum fremunt / aequales, aura resonit crepitu musico. Sugli elementi musicali nel teatro pacuviano cfr. anche Manuwald 2003, 123s. 478 Connessa al greco βοᾶν da Fraenkel 1960, 33s. e n. 1. 479 Su questa interpretazione si basa la traduzione di Segura Moreno 1989: “ con estrepitoso clamor ” . Fr. 19 131 <?page no="144"?> Il frammento sembra rientrare in una scena successiva alla cacciata di Perse, testimoniata da Diodoro, Ps. - Apollodoro 480 e Igino (Medus re audita Persen interfecit regnumque avitum possedit), e potrebbe essere intepretato come un augurio di prosperità per i nuovi reggenti 481 . Il senario è trasmesso da Nonio in due luoghi, in entrambi i casi in forma completa e con indicazione di autore e titolo del dramma. I codici di Non. 170 sembrano fornire un testo più corretto rispetto a Non. 176, in cui la citazione è accompagnata da quella di Ennio (v. 249s. Ribb. 3 dalla Melanippa con la presenza dei due verbi ‘ sospitent ’ e ‘ superstistent ’ ). Populoque va senz ’ altro legato a ciò che precedeva nel contesto. Ut. . .sospitent potrebbe essere inteso come proposizione dipendente da un verbo (non pervenuto) che esprimeva preghiera o desiderio oppure, forse meglio vista la tendenza alla paratassi nel latino arcaico, come un congiuntivo indipendente con valore desiderativo. L ’ avverbio sempiterne, legato a sospitent mediante l ’ allitterazione, è un hapax per il latino arcaico e classico: è testimoniato in questa forma, in luogo del comune sempiterno, solo negli autori cristiani, e, non a caso, è motivo della citazione di Non. 170. Sospitent è termine della sfera sacrale, di tono elevato, denominativo da sospes: ricorre in tragicis solo nei due passi riportati da Non. 176, nonché due volte in commedia (Plaut. Asin. 683 e Aul. 546) 482 . Il riferimento al linguaggio religioso qui potrebbe costituire anche un ’ allusione al capostipite della famiglia reale di Medea (il Sole) proprio nel momento in cui si augura successo alla nuova, restaurata casa regnante. Sulla base del confronto con Enn. scen. 295 Vahl. 2 = 246 Joc. (regnumque nostrum ut sospitent / superstitentque) e della contestualizzazione proposta per il frammento, si è pensato che nel testo fosse sottinteso, o presente nel verso successivo, il termine regnum, di cui faustum costituirebbe il predicativo 483 . Fr. 20 (= fr. XIV, 233 Ribb. 3 = fr. XVI, 268 D ’ A. = 180 Schierl) ia vel vitam propagans † exa . . . † altaribus tr traendo sostentamento . . . dalle offerte (sacre) Schol. Veron. Aen. 5, 93: ‘ altaria ’ libamina, ut <Aen. 12, 174>: paterisque altaria libant, et <ecl. 8, 105> aspice, corripuit tremulis altaria [flam]mis. Pacuvius in Medo: vitam . . . altaribus. exa[. . .] cod. † exan * † D ’ A. † exa * * † Schierl exanimis Ribb. 1-2-3 ex novis Ribb. 2 dubitanter in app. ex ar[is et] Mai (contra metrum) externis Spengel fortasse: ex sanctis vel sacris 480 I passi sono riportati supra, introduzione al Medus, p. 96. 481 Cfr. Müller 1889, 36; Mette 1964; D ’ Anna 1967, ad loc.; Nosarti 1993, 40; Schierl 2006, 384. 482 Cfr. Jocelyn 1976, 384 a proposito dell ’ occorrenza del verbo nella Melanippa. 483 Per questa proposta cfr. Ribbeck 1875, 323; D ’ Anna 1967, 266; Nosarti 1993, 40. Il Medus di Pacuvio 132 <?page no="145"?> Questo verso sembra inserirsi nell ’ ambito di una serie di frammenti relativi all ’ incontro tra il vecchio e sua figlia: un personaggio esporrebbe le condizioni disagiate in cui Eeta ha vissuto fino a quel momento 484 . Verrebbe così preparata la scena del riconoscimento e si creerebbe un effetto di suspence mediante la descrizione del vecchio padre, cui apparterrebbero questo frammento e il fr. 21. Rimane difficile stabilire la persona loquens, probabilmente qualcuno rimasto vicino a Eeta anche durante gli anni lontani dal regnum. Si segnala che a partire da questo frammento per la ricostruzione della trama non si può più ricorrere alla fabula di Igino, in cui non si parla del riconoscimento tra Eeta e Medea; la restituzione del regno al padre è testimoniata, però, da Ps. - Apollod. 1, 9, 28 485 . Il verso è trasmesso dagli scolii veronesi all ’ Eneide con indicazione di autore e titolo del dramma a proposito del valore di altaria come ‘ offerte ’ , libamina (congettura semplice e necessaria per il tràdito limina 486 ). Il frammento è illeggibile nella parte centrale e non sembra possibile proporre una soluzione testuale né dare un ’ interpretazione metrica: il trattamento del preverbio pro, in genere breve, farebbe pensare a un ritmo giambico, ma non è da escludere quello trocaico. Tra le congetture proposte (per cui rimando all ’ apparato) quella di Ribbeck exanimis è suggestiva, ma restituirebbe un termine che non ricorre mai in questa forma nei testi arcaici (in cui si trova exanimatus, -a, -um) 487 . Sulla base del valore metonimico (attestato dal testimone) di altaria come ‘ offerte ’ , ‘ vivande che stanno sugli altari ’ , si potrebbe forse pensare a un ’ integrazione ex sanctis o ex sacris; entrambe si giustificherebbero sul piano paleografico, in quanto il tràdito exa[. . .] si spiegherebbe come forma scempiata di exsa[. . .]; la seconda ipotesi, in particolare, potrebbe trovare un parallelo (sia pure non perfetto) nella iunctura ‘ sacrae epulae ’ , che ricorre in Verg. Aen. 7, 155 (sacris . . . epulis, ripreso da Prud. c. Symm. 1, 238). Nel caso di Pacuvio, la preposizione ex potrebbe introdurre i mezzi di sostentamento, con un valore attestato anche altrove 488 e che sembra qui giustificato dalla presenza dell ’ espressione vitam propagans. Infatti, se il verbo propagare ha primariamente un valore legato all ’ ambito tecnico agricolo (con cui ricorre per esempio in vari luoghi del De agri cultura di Catone 489 ), esso si trova in connessione con vitam e un ablativo semplice, che indica i mezzi di sostentamento, in Cic. inv. 1, 2 (. . . cum in agris homines . . . sibi victu fero vitam propagabant) e, particolarmente rilevante per la presenza in tragicis, in Cic. fin. 5, 32 (propagabat tamen vitam aucupio), detto del Filottete di Accio, che viveva di caccia; interessante è poi anche la presenza dell ’ astratto propagmen, un hapax, accompagnato dal genitivo vitae e introdotto dall ’ interrogativo unde, in Enn. ann. 443 Sk. 484 Per la contestualizzazione cfr. Nosarti 1993, 41. 485 Passo riportato e discusso supra, pp. 96s. 486 Proposta da Ribbeck e Halfpap - Klotz e accolta da tutti gli editori, cfr. Baschera 1999, 111. 487 Cfr. Skutsch 1954, 468. 488 Cfr. ThlL 5/ 2, 1098, 69. 489 Per es. capp. 33; 40; 51. Fr. 20 133 <?page no="146"?> = 160 Vahl. 2 (nobis unde forent fructus vitaeque propagmen). L ’ espressione pacuviana, dunque, potrebbe essere intesa forse in modo analogo e riferirsi a un personaggio che vive in condizioni di miseria traendo sostentamento a fatica dalle offerte sacre. L ’ immagine sembra ricordare il valore etimologico di βωμολόχος , parassita che ruba il cibo dagli altari (letteralmente ‘ tendendo imboscate ’ ), attestato in Ferecrate (fr. 150 K. - A. dalla Τυραννίς : κἄπειθ ' ἵνα μὴ πρὸς τοῖσι βωμοῖς πανταχοῦ / ἀεὶ λοχῶντες βωμολόχοι καλώμεθα , / ἐποίησεν ὁ Ζεὺς καπνοδόκην μεγάλην πάνυ ) 490 . Il nutrirsi dei cibi sacri sembra essere un atteggiamento proprio di mendicanti che con insistenza gravitavano attorno agli altari (così nell ’ interpretazione di Arpocrazione, testimone del frammento ferecrateo 491 ); il termine è glossato poi come ἱερόσυλος , empio, da Hsch. β 89 L. ed Et. Gud. p. 293, 1s. De Stefani). L ’ ipotesi, sia pure non dimostrabile visto lo stato del testo, contribuirebbe a una descrizione di Eeta come accattone e, forse, come empio, che potrebbe risultare coerente con l ’ immagine del tiranno che sembra potersi dedurre anche da altri frammenti attribuibili alla medesima scena (cfr. soprattutto fr. 23). Fr. 21 (= fr. inc. inc. LXXIX, 146 Ribb. 3 = XVII, 269 D ’ A. = 179*** Schierl = adesp. 104 TrRF) ia 6 Aegialeo parentat pater vel cr 3 il padre celebra i Parentali per Egialeo Quint. inst. 8, 6, 34 - 35: eo magis necessaria κατάχρησις , quam recte dicimus abusionem, quae non habentibus nomen suum accommodat quod in proximo est, sic: . . . et apud tragicos: Aegialeo . . . pater. . . . discernendumque est <ab> hoc totum translationis istud genus, quod abusio est ubi nomen defuit, translatio ubi aliud fuit. Cic. nat. deor. 3, 48: quid Medeae respondebis . . ., quid huius Absyrto fratri (qui est apud Pacuvium Aegialeus, sed illud nomen veterum litteris usitatius)? Aegialeo codd. Aegialeum Ribb. 2 Aegialeon Bergk | parentat Gertz Birt paret at A parit Halmius | pater om. Ribb. 2 Aegialeon parit / Aeeta pater Ribb. 3 490 Sul valore proprio di βωμολόχος in questo frammento (e nel Pro mercede conductis di Luciano 36, 24) cfr. LSJ s. v.: “ one that waited about the altars, to beg or steal some of the meat offered thereon ” . L ’ interpretazione, tuttavia, è complessa e proprio il gioco etimologico presente nel testo ferecrateo ha fatto dubitare del valore del termine: cfr. Regali in Caciagli et al. 2014, 77 e n. 8. 491 Harp. p. 76, 9 Dindorf: Βωμολοχεύεσθαι : κυρίως ἐλέγοντο βωμολόχοι οἱ ἐπὶ τῶν θυσιῶν ὑπὸ τοὺς βωμοὺς καθίζοντες καὶ μετὰ κολακείας προσαιτοῦντες , ἔτι δὲ καὶ οἱ παραλαμβανόμενοι ταῖς θυσίαις αὐληταί τε καὶ μάντεις . Φερεκράτης Τυραννίδι (. . .) ἐκ μεταφορᾶς δὲ τούτων ἐλέγοντο βωμολόχοι εὔκολοί τινες ἄνθρωποι καὶ ταπεινοὶ καὶ πᾶν ὁτιοῦν ὑπομένοντες ἐπὶ κέρδει διὰ τοῦ παίζειν τε καὶ σκώπτειν . Il Medus di Pacuvio 134 <?page no="147"?> Il frammento può essere ascritto al medesimo contesto del fr. 20, e dunque riferirsi al racconto di una figura minore relativo alle condizioni di vita di Eeta, creando un effetto di attesa prima dell ’ ingresso in scena del personaggio. Meno bene, si potrebbe pensare a un rito compiuto da Eeta (magari insieme alla figlia e al nipote ritrovati) sul finale della tragedia 492 . Il verso è trasmesso da Quintiliano, che introduce la citazione con l ’ epressione generica apud tragicos, mentre dal contesto ciceroniano di nat. deor. 3, 48 si trae l ’ informazione che in Pacuvio Absirto veniva chiamato con il nome Egialeo: ciò è estremamente importante ai fini dell ’ attribuzione del frammento al Medus. Il contesto quintilianeo e l ’ esatta comprensione del valore che egli attribuisce al termine tecnico retorico abusio permettono di ricostruire il testo, in cui proprio il verbo principale è corrotto. Tralasciando, in quanto non necessari, gli interventi della critica sulle lezioni Aegialeo e pater, si può sottolineare, infatti, come la proposta parentat (per paret at dei codici) risponda pienamente al concetto di catacresi per la cui esemplificazione Quintiliano ha riportato il frammento: parentare, pur utilizzato anche per riti in onore dei figli come nel caso riportato, sarebbe da riferire propriamente solo a riti in onore di parentes 493 . Il verso, dominato dalla presenza del nome proprio pentasillabico Aegialeo, potrebbe essere interpretato come frustulo di senario giambico ipotizzando incisione semisettenaria dopo parentat (in questo caso andrebbe presupposta correptio della seconda sillaba di pater), oppure come tripodia cretica, con realizzazione bisillabica dell ’ ultimo longum del primo piede: si tratterebbe però di un metro raro, ma attestato (cf. Plaut. Bacch. 623 e Ter. Andr. 637), in cui è rara anche la realizzazione bisillabica degli elementi 494 . La presenza del nome Aegialeus testimonia la preferenza di Pacuvio per versioni meno note dei miti: si pensi anche alla presenza del personaggio di Ippote nel fr. 17 e a quella, probabile, del toponimo Aea nel fr. 3. Il nome è molto raro: infatti, oltre al passo ciceroniano 495 che ne testimonia la presenza nel Medus, ricorre solo in Diod. 4, 45, 3 ( μετὰ δὲ ταῦτα συνοικήσασαν Αἰήτῃ γεννῆσαι δύο θυγατέρας , Κίρκην τε καὶ Μήδειαν , ἔτι δ᾽ υἱὸν Αἰγιαλέα ) e nell ’ epitome di Pompeo Trogo di Giustino (Iust. 42, 3, 1: filium Aegialeum (scil. Iason) interfecerat) 496 . Il riferimento all ’ evocazione dello spirito di Absirto-Egialeo 492 Per la contestualizzazione cfr. Nosarti 1993, 41; Schierl 2006, 375 (ma non sembra sufficientemente convincente l ’ idea che la persona loquens sia Medea o lo stesso Eeta che parla di sé in terza persona). 493 La congettura è stata proposta, mi pare indipendentemente l ’ uno dall ’ altro, da Gertz 1876, 119 - 120 e da Birt 1879, 17, pressoché con le medesime argomentazioni, qui condivise, relative all ’ applicazione del concetto di catacresi. 494 La seconda interpretazione è proposta da Birt 1879, 120 (interessato soprattutto alla scansione di Aegialeo), che ipotizza l ’ appartenenza del frustulo a un canticum. Gli editori moderni rinunciano a tentare un ’ interpretazione metrica: cfr. Schierl 2006, 375; Schauer ad adesp. 104 TrRF. 495 Su cui cfr. Pease 1958 ad loc. 496 Sul testo di Giustino cfr. pp. 96s. Fr. 21 135 <?page no="148"?> sembra in linea con l ’ elaborazione post-classica delle vicende incentrate sul mito di Medea, che vengono interpretate soprattutto in chiave morale e familiare. In un dipinto su cratere apulo del 330 - 20 a. C. 497 , per esempio, compare lo spirito di Eeta e si evidenzia un aumento considerevole del numero di personaggi: si individuano, infatti, il padre Eeta e Oistros (personificazione del furor di Medea) sul carro; è rappresentata la scena familiare della morte di Glauce e in parallelo si mostra il tentativo di salvare dall ’ infanticidio uno dei bambini. Inoltre, la presenza di Absirto-Egialeo nel dramma pacuviano potrebbe simboleggiare la colpa ‘ familiare ’ di Medea: l ’ omicidio del fratello, appunto. A questa colpa privata potrebbe fare da contraltare anche una colpa ‘ pubblica ’ , rappresentata dalla condizione di degrado in cui versa Eeta, spodestato del regnum da Perse in seguito al prelevamento del vello, causato appunto da Medea mediante il suo aiuto a Giasone. La rappresentazione di doppie colpe, con la conseguenza di un sovvertimento dell ’ ordine familiare e privato da una parte e di quello sociale e politico dall ’ altra, è, del resto, un tema presente sulle scene romane 498 . Parentat indica i riti in onore dei morti 499 ; il presente è da intendere con valore di consuetudine se si attribuisce il frammento a un contesto descrittivo. L ’ uso del verbo potrebbe costituire la spia linguistica di un tentativo di Romanisierung della sfera rituale e così legare il rito di Eeta a quello romano (privato) dei Parentalia, celebrazione che durava nove giorni, in cui ogni famiglia si occupava dei propri defunti, i morti tornavano in terra e vagavano, nutrendosi dei cibi offerti loro dai familiari 500 . Pater è inteso da Schierl come predicativo da riferire a Eeta ( ‘ als Vater ’ ): in assenza di contesto ciò non sembra determinabile; in ogni caso, l ’ uso di questo termine sembra sottolineare il rapporto affettivo che lega il padre al figlio morto e a questo frammento si possono accostare, per questo aspetto, i frr. 16 e 17 della Medea sive Argonautae di Accio. 497 Su cui si veda Kannicht - Gauly 1991, 246 - 248. 498 In particolare nell ’ Atreus di Accio, in cui Tieste viene rappresentato come colpevole dello stuprum di Aerope e del furto del vello, cfr. Lana 1958 e Aricò 2005. 499 Cfr. ThlL XI/ 1, s. v. ‘ parento ’ . 500 A proposito dei Parentalia cfr. Varro ling. 6, 13; Ov. fast. 2, 533ss. (e Robinson 2011 ad loc.); per il materiale epigrafico si tenga conto almeno di CIL VI 29109 (in cui l ’ invocazione sembra essere fatta da una madre per il figlio). Informazioni generali in Eisenhut in RE Suppl. XII, s. v.; Lolli 1997, 17s. (introduzione ai Parentalia di Ausonio); Wagenvoort 1956, 290 - 297; Dumézil 1966, 360; Bettini 2003, 33 - 38 (che a p. 37 riferisce questo frammento a un Egialeo figlio di Adrasto, sulla base di Hyg. fab. 71. In realtà, la testimonianza quintilianea, come visto, non sembra lasciare dubbi sull ’ attribuzione del frustulo al Medus e quindi sulla conseguente identificazione di Egialeo come figlio di Eeta). Il Medus di Pacuvio 136 <?page no="149"?> Fr. 22 (= fr. XIX, 238 Ribb. 3 = fr. XVIII, 270 D ’ A. = 178 Schierl) ia 6 atque eccum in ipso tempore ostentum senem ed ecco proprio in quel momento [. . .? ] il vecchio a mostrare . . . Fest. 214 L (= 194 M): ostentum non solum pro portento poni solere, sed etiam participialiter <pro ostentato> . . . testimonio est Pacuvius in Medo (238) atque . . . senem. Et Accius in Bacchis (252) . . . Cf. Pauli Epit. 215 L: ostentum ostentatum. eccum plerr. codd. et cum W et dum X | in ipso tempore codd. ipsum in tempore Delrius | senem plerr. codd. servem X Il frammento segnala, come una didascalia interna, l ’ ingresso in scena di un anziano, da identificare, con ogni probabilità, con Eeta. La persona loquens potrebbe essere la stessa dei frr. 20 e 21. Il testo, trasmesso da Festo a proposito del valore di ostentum come equivalente di ostentatum con indicazione di autore e titolo del dramma, è abbastanza sicuro (alcune varianti, segnalate in apparato, sono evidentemente deteriori) e restituisce un senario giambico integro 501 . Il termine eccum, abbinato a in ipso tempore, costituisce un segnale tecnico per l ’ ingresso in scena di un personaggio. Molto utilizzato in commedia, ha la medesima funzione sempre in Pacuvio nel v. 107 Ribb. 3 (dal Chryses, nella forma eccos: atque eccos unde certiscent. . .) 502 . Eccum può essere accompagnato da un verbo di movimento in forma esplicita (advenit, incedit o simili) o dall ’ espressione di uno stato (intus est o simili) e in questo caso il personaggio annunciato è al nominativo (per es. Plaut. Amph. 120; Aul. 473 ecc.); in altri casi eccum si trova con video seguito da infinitiva (per es. Plaut. Amph. 897; Bacch. 978, ecc.); in altri casi ancora ricorre con un accusativo, cui segue un verbo di movimento che ha per soggetto sottinteso lo stesso personaggio espresso prima in accusativo (Plaut. Amph. 1055: eccum Amphitruonem, advenit). Rari i casi con l ’ accusativo semplice (Plaut. Aul. 536: sed eccum adfinem ante aedes; ibid. 712: attat, eccum ipsum; Capt. 1015: intus eccum fratrem germanum tuom; Curc. 676, con il verbo di movimento inserito in una proposizione incidentale: sed eccum lenonem, incedit, thensaurum meum). Problematica nel caso di questo frammento è la presenza di 501 Le inversioni, congetturate da alcuni editori (in particolare Delrius, Scriverius e Bothe), erano giustificate dal tentativo di interpretare diversamente il metro, allo scopo di fondere questo verso con un frammento adespoto trasmesso da Varrone (ling. 6, 67) attribuito a Ennio a partire da Ribbeck: Enn. trag. 335 Ribb. 3 : tueor te senex? pro Iuppiter! . Cfr. Manuwald in TrRF, ad F 169. 502 Per l ’ uso comico cfr. De Rosalia 1983, 49; alcuni loci paralleli sono riportati da Schierl 2006, 374. Per il parallelo pacuviano cfr. D ’ Anna 1967, ad loc. Fr. 22 137 <?page no="150"?> ostentum, che rende difficile ritenere il testo completo così com ’ è pervenuto: pensando, invece, alla perdita di video, il verso potrebbe restituire un ’ infinitiva con l ’ accusativo e l ’ infinito (ostentum con esse sottinteso) oppure si potrebbe ipotizzare la perdita di un verbo di movimento, che poteva costituire il verbo dell ’ infinitiva, e in questo caso ostentum andrebbe interpretato come un supino con valore finale. Ostentare potrebbe avere valore di medio ( ‘ apparire ’ ) 503 oppure valore transitivo e perdita dell ’ oggetto ( ‘ mostrare. . . ’ ). La seconda ipotesi, preferibile statisticamente (l ’ uso medio del verbo appare davvero limitato), potrebbe suggerire un rapporto tra questo frammento e il fr. 23, e potrebbe essere spiegata nel contesto della descrizione del degrado fisico di Eeta in questa fase del dramma precedente l ’ anagnorisis. Da una parte, infatti, in numerosi luoghi latini il verbo ostentare ricorre in connessione con termini come cicatrices, vulnera o sanguinem (cfr. Ter. Eun. 483; Sall. Iug. 85, 29; Liv. 2, 23, 4 e 6, 14, 6; Verg. Aen. 5, 357; Sen. dial. 1, 4, 4; Stat. Theb. 12, 725; Sil. 6, 16, per citarne alcuni); dall ’ altra, soprattutto, si può confrontare questo contesto con il fr. 1, 88 M (= 1.81* La Penna - Funari) di Sallustio 504 , che, come nota Gell. 2, 27 testimone del frammento, richiama il cap. 67 dell ’ orazione ‘ sulla corona ’ di Demostene (su tutti i passi, accomunati anche dalla presenza del tema del regnum, cfr. poco oltre il commento al fr. 23): quae vivus facie sua ostentabat aliquot adversis cicatricibus et effosso oculo. Quin ille dehonestamento corporis maxime laetabatur, neque illis anxius, quia reliqua gloriosius retinebat. Notevole, in particolare, la compresenza del verbo ostentare e del particolare dell ’ occhio, qui effosso oculo (il dettaglio fisico di Filippo, riferito nel testo latino a Sertorio, è noto da molte fonti), nel fr. 23 refugere oculi (un ’ immagine diversa su cui cfr. commento infra). Infine, particolarmente utile sembra essere il confronto con Plaut. Truc. 270 (advenisti huc te ostentatum, cum exornatis ossibus), in cui il verbo di movimento è accompagnato da ostentatum con l ’ accusativo del pronome personale (te), nella cornice di una descrizione fisica paratragica (exornatis ossibus). Per concludere, con la necessaria prudenza dovuta all ’ assenza di ulteriori elementi, si potrebbe ipotizzare in questo frammento la segnalazione dell ’ ingresso in scena di Eeta, già descritto nei frr. 20 e 21 come figura disagiata e dedita al culto del figlio morto, qui rappresentato forse nell ’ atto di mostrare a qualcuno (forse a Medea? ) la sua condizione, che viene esplicitata in toni espressionistici nel fr. 23. 503 Così Schierl 2006, 374, che lo intende come participio perfetto con valore resultativo e rimanda, per la diatesi media, a ThlL IX/ 2, 122 (senza menzionare 1146, 42 - 57). 504 Cfr. La Penna - Funari 2015, 309 - 311 e 161. Il Medus di Pacuvio 138 <?page no="151"?> Fr. 23 (= fr. inc. inc. CII, 189 - 192 Ribb. 3 = fr. XIX, 271 - 274 D ’ A. = 181*** Schierl = adesp. 57 TrRF) ia 6 refugere oculi, corpus macie extabuit, lacrimae peredere umore exanguis genas, situ nitoris barba paedore horrida atque intonsa infuscat pectus inluvie scabrum. gli occhi si sono infossati, il corpo si è logorato dalla magrezza, le lacrime con lo scorrere hanno eroso del tutto le guance esangui, e con l ’ aspetto incolto, la barba, resa ispida dalla lordura e intonsa, fa ombra sul petto ruvido per la sporcizia Cic. Tusc. 3, 26: quid? illum filium Solis nonne patris ipsius luce indignum putas? refugere . . . scabrum. haec mala, o stultissime Aeeta, ipse tibi addidisti; non inerant in is quae tibi casus invexerat, et quidem inveterato malo, cum tumor animi resedisset - est autem aegritudo, ut docebo, in opinione mali recentis - ; sed maeres videlicet regni desiderio, non filiae. illam enim oderas, et iure fortasse; regno non aequo animo carebas. est autem impudens luctus maerore se conficientis, quod imperare non liceat liberis. 1. extabuit KV 2 R 3 extabunt RVG 1 extabant G || 2. umore] humore M 2 umorem (vel h-) plerr. codd. || 3. situ nitoris codd. situm inter oris Lachmann aliter alii || 4. atque (vel adque) codd. del. Bothe sed versum hypermetrum recognovit Lachmann Il frammento costituisce una descrizione espressionistica della consunzione di Eeta. Come persona loquens si può pensare al personaggio che pronunciava verisimilmente i frr. 20 - 22, oppure allo stesso Eeta 505 . I versi, ben noti e imitati da Verg. Aen. 3, 593s. (respicimus: dira inluvies immissaque barba, / consertum tegumen spinis, at cetera Graius), sono trasmessi da Cicerone nelle Tusculanae come esempio di aegritudo, senza indicazione di autore e titolo 506 . L ’ attribuzione al Medus è accettata largamente dalla critica 507 : la rappresentazione di Eeta (nominato espressamente da Cicerone) 508 consunto dalla vecchiaia e ancor più dal desiderium regni, in effetti, non si adatterebbe alla trama delle tragedie di Ennio (che, del resto, non contempla il padre di Medea tra i personaggi) e di Accio relative al mito di Medea. 505 A Eeta pensano Ribbeck 1875; Warmington 1936 e Schierl 2006, che forse problematizza poco la questione. 506 Per il contesto ciceroniano, oltre alle osservazioni riportate in questo commento, cfr. Zillinger 1911; Artigas 1990. 507 Proposta già da Welcker 1841, 1212. 508 Anche se il testo ciceroniano è corrotto in quel punto (i codici presentano le lezioni aeota oppure eota), non c ’ è da dubitare che si tratti di Aeeta. Fr. 23 139 <?page no="152"?> Al secondo verso sembra preferibile l ’ ablativo umore, da intendere con valore strumentale. Da mantenere il tràdito situ nitoris: visto il cumulo di ablativi semplici con valore causale o strumentale, non appare strana la presenza di un ablativo di qualità riferito più in generale alla figura di Eeta, che anticipi la precisazione relativa alla barba, una sorta di paradigma della trascuratezza del vecchio tiranno 509 . I senari giambici presentano tutti incisioni semiquinaria e semisettenaria abbinate (nel secondo sono entrambe quasincisioni): in questo modo, risulta sempre isolato al centro un elemento importante della descrizione. Al terzo verso non va eliminato atque dei codici postulando episinalefe 510 . Al v. 1 Pacuvio si sofferma su alcuni dettagli tipici della consunzione di un corpo anziano: l ’ enoftalmo e la magrezza. Il maeror tipico della vecchiaia è tema caro al poeta, che vi si riferisce anche al v. 301 Ribb. 3 della Periboea (metus egestas maeror senium exiliumque et senectus) 511 , che può essere considerato la versione astratta di questo frammento concreto ed espressionistico. Si tratta, in ogni caso, di elementi che possono essere intesi anche come l ’ estrinsecazione fisica di un fatto psicologico. Il tema degli occhi infossati è presente anche in testi medici, segno della tendenza alla precisione evidenziabile in questo frammento. Extabesco ricorre spesso con fame: il termine viene utilizzato, sempre con corpus, in contesto analogo da Cicerone in carm. fr. 70, 10 Bl. 2 (sic corpus clade horribili absumptum extabuit) per la traduzione di alcuni versi sofoclei. La consunzione del corpo per via dell ’ eccessiva magrezza, conseguente all ’ inappetenza, può essere ricondotta anche alle condizioni (fisiche e soprattutto psicologiche) di miseria di un re caduto in rovina. Il concetto espresso al v. 2 è quello dello scorrere delle lacrime che corrode un volto pietrificato e scarnificato. L ’ immagine, non usuale, potrebbe essere venuta in mente al poeta a partire dall ’ idea della magrezza eccessiva: un volto cadaverico, cioè, sarebbe del tutto simile a un sasso. L ’ espressione situ nitoris del v. 3 costituisce un sofisticato ossimoro, che accosta il nitor (l ’ aspetto florido e curato) e il situs (lo squallore e la trascuratezza) e così descrive la mancanza di cura di Eeta 512 . Il quadro generale segna il passaggio dalle forme verbali al perfetto a quelle al presente indicativo e prepara la pennellata finale dedicata di nuovo a un particolare, e cioè la barba, horrida - vale a dire ‘ irta ’ - a causa del paedor (la sporcizia e il cattivo odore dovuti a una mancata cura del corpo), nonché intonsa (v. 4). Infuscare ha qui il valore proprio di fare ombra, ‘ abbrunare ’ , ed è legato ad un senso di sporcizia (il verbo è spesso usato per gli animali con il vello: cfr. Verg. georg. 3, 389, nonché molti loci in Columella). 509 È questa la proposta di Nosarti 1999, 69 - 72, già anticipata in Nosarti 1993, 41 n. 66, e di Artigas 1990, 208. Contra Schierl 2006 e Schauer 2012, che accolgono situm inter oris, proposta di Lachmann, ad Lucr. 2, 118, che sembra banalizzante in quanto lega il situs al solo volto. 510 Così già Lachmann. Per l ’ episinalefe cfr. Soubiran 1988, 154, n. 5; Nosarti 1999, 70. 511 Su cui si veda Nosarti 1983, ad loc.; sui topoi legati ai mali della vecchiaia cfr. anche Traina 1974, 135. 512 Per queste osservazioni si veda Nosarti 1999, 71. Il Medus di Pacuvio 140 <?page no="153"?> Anche scabres ricorre in testi medici, dove indica la sporcizia di una ferita, che ne impedisce la guarigione. Inluvies, infine, che, per quanto ci è pervenuto, tra i tragici arcaici ricorre solo in Pacuvio, chiude il cumulo sinonimico di termini legati al tema della sporcizia e dell ’ incuria (situ e paedore in particolare), analogo a quello di Varr. Men. 254 Astbury (squale scabreque inluvie et vastitudine) 513 . Indipendentemente dall ’ individuazione della persona loquens, su cui cfr. supra, la descrizione fisica offerta dal frammento può essere meglio contestualizzata grazie a) al confronto con altri drammi pacuviani; b) alla lettura del testimone ciceroniano; c) ad alcuni elementi legati alla rappresentazione antica (greca e latina) della figura del tiranno. a) I vv. 9 (perdita inluvie atque insomnia), 20s. (illuvie corporis / et coma promissa impexa conglomerata atque horrida) e 313s. Ribb. 3 (quae desiderio alumnum paenitudine / squales scabresque inculta vastitudine) sono riferiti rispettivamente ad Antiope (i primi due, dall ’ Antiopa) e a Esione (l ’ ultimo, dal Teucer) e descrivono tutti una madre in una condizione di disperazione e da lungo tempo privata della vicinanza dei figli: la corrispondenza tematica e anche linguistica tra questi frammenti e il fr. 23 del Medus sembra notevole e potrebbe confermare l ’ ipotesi di una rappresentazione di Eeta come un vecchio padre consumato dal dolore per la lontananza dalla figlia. b) Il frammento, però, è inserito da Cicerone in un contesto relativo all ’ aegritudo, definita poco prima (Tusc. 3, 25) come opinio magni mali praesentis 514 . Particolarmente rilevante risulta la motivazione addotta a proposito del malessere di Eeta: sed maeres videlicet regni desiderio, non filiae, con l ’ aggiunta: illam enim oderas, et iure fortasse; regno non aequo animo carebas. Dunque, stando alle parole di Cicerone, Eeta odierebbe - e a ragione - la figlia, ma soffrirebbe estremamente per la perdita del potere conseguente ai fatti legati al furto del vello da parte di Giasone con la collaborazione di Medea. Nell ’ ottica ciceroniana, la negatività dell ’ atteggiamento di Eeta è aggravata dal fatto che le vicende che lo hanno condotto a perdere il regno sono ormai lontane nel tempo, ragione per cui, dopo tanti anni, il suo animo non è più gonfio d ’ ira, come in un impeto iniziale, che sarebbe meglio giustificabile (et quidem inveterato malo, cum tumor animi resedisset). Inoltre il personaggio è 513 Sui debiti di intertestualità di Varro Men. 254 Astbury cfr. ora Falcone 2015, 50 - 54: la rappresentazione tragica di una madre abbandonata, presente nei testi tragici discussi infra al punto a), potrebbe essere stata ripresa nella Menippea nel contesto di una personificazione dell ’ ager, colpevolmente trascurato dai Romani. 514 Cfr. Narducci 2004, 128 per il concetto di aegritudo come condizione di angoscia e disperazione, motivata da cedimento della volontà alle passioni. Una maggiore attenzione al contesto è necessaria, soprattutto tenendo conto della finezza critica mostrata spesso da Cicerone (notata, per esempio, dallo stesso Narducci 2004, 135 a proposito di versi tratti da Niptra ed Hectoris Lytra, e da Degl ’ Innocenti Pierini 2008, 53ss., su Tantalo aegritudine adflictus nelle Tusculanae). Fr. 23 141 <?page no="154"?> rappresentato non come un padre addolorato per la lontananza dalla figlia, bensì come un tiranno spodestato che ambisce al recupero del regnum. La caratterizzazione negativa di Eeta 515 come bramoso di potere può essere confermata dagli altri exempla mitologici e storici utilizzati da Cicerone nel medesimo brano: Tieste (con due citazioni dal Thyestes di Ennio), Dionisio il Giovane e Tarquinio il Superbo 516 . Non basta: la misura della colpa di Eeta è data dal fatto che egli deliberatamente e volontariamente si attribuisce dei mali, quelli descritti nel frammento, che non era stato invece il caso a donargli (haec mala, o stultissime Aeeta, ipse tibi addidisti; non inerant in is quae tibi casus invexerat: notevole, dopo l ’ apostrofe con l ’ attributo al grado superlativo, il cumulo di pronomi che sottolinea la responsabilità personale). c) Questa precisazione ciceroniana sul casus può forse essere legata a un topos relativo ai tiranni, presente in Demostene che lo riferisce alla rappresentazione negativa di Filippo (cor. 67) e senz ’ altro noto e utilizzato a Roma almeno a partire da Sallustio, come testimonia Aulo Gellio (2, 27): verba sunt haec gravia atque illustria de rege Philippo Demosthenis: ἑώρων δ᾽ αὐτὸν τὸν Φίλιππον , πρὸς ὃν ἦν ἡμῖν ὁ ἀγών , ὑπὲρ ἀρχῆς καὶ δυναστείας τὸν ὀφθαλμὸν ἐκκεκομμένον , τὴν κλεῖν κατεαγότα , τὴν χεῖρα , τὸ σκέλος πεπηρωμένον , πᾶν ὅτι βουληθείη μέρος ἡ τύχη τοῦ σώματος παρελέσθαι , τοῦτο προϊέμενον , ὥστε τῷ λοιπῷ μετὰ τιμῆς κ αὶ δόξης ζῆν . Haec aemulari volens Sallustius de Sertorio duce in Historiis ita scripsit: “ Magna gloria tribunus militum in Hispania T. Didio imperante, magno usui bello Marsico paratu militum et armorum fuit, multaque tum ductu eius iussuque patrata primo per ignobilitatem, deinde per invidiam scriptorum incelebrata sunt, quae vivus facie sua ostentabat aliquot adversis cicatricibus et effosso oculo. Quin ille dehonestamento corporis maxime laetabatur, neque illis anxius, quia reliqua gloriosius retinebat. ” De utriusque his verbis T. Castricius cum iudicaret, “ Nonne, ” inquit, “ ultra naturae humanae modum est, dehonestamento corporis laetari? Siquidem laetitia dicitur exultatio quaedam animi gaudio efferventior eventu rerum expetitarum. Della propaganda contro Filippo, dunque, faceva parte anche il tema del suo disprezzo per le deturpazioni fisiche a cui il caso lo aveva sottoposto, e anzi del suo apprezzamento di esse in quanto rappresentano per lui il suo potere ( ὑπὲρ ἀρχῆς καὶ δυναστείας ). Nel riuso latino del topos, Sallustio usa il verbo ostentare (presente, probabilmente nello stesso contesto, anche in Pacuvio, cfr. fr. 22) e 515 Per cui si veda Nosarti 1993, 31s. e bibliografia ivi citata. Sulla figura del tiranno cfr. Lanza 1977, pp. 47 - 49, in cui è sottolineato il tema della paura; pp. 194 ss., relative alla ‘ maschera del cattivo ’ ; p. 201, in cui si evidenzia come le caratteristiche di crudeltà e falsità vengano valorizzate nella letteratura greca a partire dal IV secolo e poi trovino ampio spazio nella letteratura latina (soprattutto in età imperiale). 516 Per la paradigmaticità dell ’ exemplum cfr. anche Aricò 2004. Il Medus di Pacuvio 142 <?page no="155"?> sottolinea ancora la gioia per quelle menomazioni fisiche, in quanto legate alla gloria. Dunque, la gravità della colpa di Eeta per Cicerone è ancora maggiore proprio in quanto il suo degrado fisico, descritto nel frammento, non è dovuto alla τύχη , di cui pure già colpevolmente si allietavano altri (in particolare Filippo), ma a una propria scelta. Quanto osservato può offrire alcuni elementi utili a contestualizzare il frammento pacuviano. La persona loquens (ancora più patetica la scena se si trattasse effettivamente di Eeta) probabilmente descriveva lo stato fisico del padre in maniera ambigua, utilizzando cioè elementi legati in genere (così negli altri luoghi pacuviani) alla sofferenza di un genitore privato dei figli, ma collegabili anche alla figura di un tiranno privato del regnum e dunque desideroso di recuperarlo. Rivedendo Medea dopo tanto tempo, e riconoscendola, dopo aver saputo della cacciata di Perse, sarebbe riaffiorato in Eeta il desiderium regni e la brama di potere lo avrebbe portato a simulare 517 o intensificare la sofferenza al fine di essere rimesso sul trono dalla donna (cosa che gli viene offerta più avanti, cfr. fr. 28). Se così fosse, Eeta e Perse potrebbero costituire nel teatro latino una coppia di fratelli, entrambi tiranni bramosi del regnum (come saranno, per esempio, in Accio Atreo e Tieste 518 ). Fr. 24 (= fr. XX, 239 Ribb. 3 = fr. XXI, 276 D ’ A. = 183 Schierl) tr 7 quis tu es, mulier, quae me insueto nuncupasti nomine? chi sei tu, donna, che mi hai chiamato con questo nome inconsueto? (a) Varro ling. 6, 60: Nuncupare ‘ nominare ’ valere apparet in legibus, ubi nuncupatae pecuniae sunt scriptae. Item in choro in quo est . . . item in Med[i]o: quis . . . nomine. (b) Non. 197 M (= 290 L): quis et generi feminino adtribui posse veterum auctoritas voluit. Livius (trag. 36) . . . Caecilius (267) . . . Pacuvius (239) quis quis . . . nomine. Ennius (trag. 346) . . . (c) Char. p. 354 B (= GL I, 269, 4): soloecismus fit . . . pronominibus, ut: quis tu es mulier? pro quae. (d) Diom. gramm. GL I 454, 2: secundus modus (scil. soloecismi) est per inmutationem generis pronominum, ut quis mulier, cum dici debeat quae mulier, apud Pacuvium: quis . . . nomine pro quae: masculinum quis pro feminino posuit. 517 E la simulazione è una delle caratteristiche topiche del tiranno nei testi antichi, cfr. Lanza 1977, 201. 518 Per Atreo e Tieste cfr. Lana 1958; La Penna 1979, 127ss.; Aricò 1998, 80 - 82, con l ’ aggiunta anche dell ’ esempio delle Phoenissae di Accio, e il rinvio ad Aricò 1994. Fr. 24 143 <?page no="156"?> (e) Explan. in Don. GL IV 563, 14: per genera (scil. fiunt soloecismi), sicut apud Ennium . . . et apud Pacuvium: quis . . . nomine? pro quae quis dixit: masculinum pro feminino posuit. (f) Pomp. GL V, 206, 19: hodie ita dicimus, ut quis masculinum sit pronomen: apud maiores nostros indifferenter invenimus hoc pronomen, et quis vir et quis mulier, omnino milies, non semel . . . est autem ratio et origo huius pronominis a graeco, et idcirco traxit et genus ad Latinos. ‘ quis ’ est τίς τίς autem apud illos tam masculini generis est quam feminini. Ergo quod inde traxerunt hoc pronomen, servaverunt etiam genus antiqui, ut est quis nomine? quis mulier habemus et in Ennio et in Pacuvio et in ipso Terentio. (g) Iul. gramm. GL V 319, 29: ‘ quisnam ’ masculini generis est aut feminini? Apud veteres commune genus habebatur. Da eius exemplum: quisnam . . . nomine. quis codd.(a)(c)(d)(e)(f) quisquis codd.(b) quisnam codd. (g) | es plerr. codd. is codd. (e) e C(f) | quae me codd.(a)(b) qui me ABM(d) quem etam inconsuetu B(g) | nuncupas codd.(g) nuncupasti pro nomine quae L(e) Il verso può costituire una battuta attonita del re, rivolta a Medea, che ha pronunciato verisimilmente il nome di pater, ormai non più consueto per lui, in un verso non pervenuto (l ’ appellativo è presente al fr. 25, il cui contenuto fa pensare alla collocazione all ’ interno di un discorso ormai avviato e non alla prima allocuzione al padre da parte di Medea). Il frammento è trasmesso da più testimoni: Varrone lo riporta a proposito del valore di nuncupare, con la sola indicazione del titolo; le altre fonti (che indicano, invece, il solo autore) forniscono un esempio per l ’ uso di quis come femminile. Il testo è dato nella forma migliore da Varrone, mentre le lezioni alternative sono da intendere come deteriori; è restituito un settenario trocaico, in cui la scansione di insueto è quella normale per suesco e i suoi composti o derivati: il gruppo ue si intende in sinizesi ovvero ‘ u ’ è percepita come consonantica. L ’ interrogativa diretta è seguita da una relativa, secondo una struttura frequente nel linguaggio teatrale (la casistica è ampia; il parallelo più vicino a questo frammento è nel v. 554 Ribb. 3 dal Filottete di Accio: quis tu es mortalis, qui in deserta et tesqua te adportes loca? ). La proposizione relativa fornisce informazioni su una o più azioni dell ’ interlocutore che hanno suscitato la curiosità del parlante. Il verbo nuncupare è legato all ’ ambito giuridico, come è notato da Varrone 519 , e si inserisce all ’ interno dell ’ iperbato insueto . . . nomine: si può notare che l ’ ablativo ricorre al v. 4 del fr. 1 della Medea exul enniana, in figura etimologica e allitterazione (nunc nominatur nomine). Se, come sembra verisimile, dietro l ’ espressione si cela l ’ uso di pater, si ricorda che questo termine è testimoniato tra i frammenti tràditi del Medus al fr. 21 (che però sembra verisimile contestualizzare nell ’ ambito del discorso di un personaggio minore) e al fr. 26 (in cui è presente 519 Si veda l ’ edizione commentata di Riganti 1978, 159s. Il Medus di Pacuvio 144 <?page no="157"?> un ’ apostrofe al vocativo, ma che non sembra possa costituire una prima allocuzione della figlia al padre, mentre piuttosto va inteso come parte di un dialogo già avviato, cfr. infra). L ’ indefinitezza dell ’ espressione è sottolineata dall ’ uso del generico mulier, riferito a Medea anche nel fr. 14: ciò lascia presupporre che Eeta non abbia ancora riconosciuto Medea (e in questo caso la domanda sarebbe sincera, come nel citato v. 554 del Filottete acciano) oppure - forse meglio, tenendo conto della possibile contestualizzazione proposta per il fr. 23 - che finga di non averla riconosciuta. Fr. 25 (= fr. XXI, 240 Ribb. 3 = fr. XX, 275 D ’ A. = 182 Schierl) tr 7 sentio, pater, te vocis calvi similitudine mi accorgo, padre, che ti fai ingannare dalla somiglianza della voce Non. 6 M (= 10 L): calvitur dictum est frustratur: tractum a calvis mimicis, quod sint omnibus frustratui. Plautus in Casina (169) . . . Pacuvius Medo (240) sentio . . . similitudine. et (241) . . . Accius Eurysace (382) . . . Lucilius Satyrarum lib. XVII (10) . . . Pacuvius Duloreste (137) . . . Sallustius Histor. lib. III (109) . . . calvi F 3 H 1 catui G Leid. caty Bamb. (y recentiore manu scripto) | te uxoris Urbin. 307 Nella stessa scena del frammento precedente, Medea sembra rivolgersi a Eeta, dicendogli che è stato ingannato dalla somiglianza della voce di qualcuno. È difficile individuare il personaggio di cui si sta parlando: l ’ ipotesi più plausibile rimane forse quella di una confusione tra Medo e il defunto Egialeo 520 . Il settenario è trasmesso da Nonio a proposito del verbo calvor nel medesimo contesto in cui è riportato il fr. 26. Il verso presenta struttura ipotattica, con sentio che regge un ’ infinitiva. Calvor ricorre anche altrove in latino arcaico con valore medio, e ha questo significato anche nel fr. 26: qui, invece, il senso è pienamente passivo. Il termine similitudo è un astratto: il lessico pacuviano comprende un numero relativamente elevato di termini in -tudo, molti dei quali sono neoformazioni destinate a rimanere casi unici o comunque molto rari 521 . Il suffisso si alterna in latino a -tia e -tas, inizialmente con una differenza di significato che è andata man mano perdendosi: -tudo indicava degli stati d ’ animo momentanei, -tia e -tas delle qualità costanti. In questo caso, come in due luoghi del Dulorestes (v. 135 Ribb. 3 : vel cum illum videas sollicitum orbitudine; v. 149 Ribb. 3 : heu, non tyrannum novi temeritudinem? ), la scelta sembra essere stata influenzata piuttosto dal metro: entrambi i termini, infatti, si 520 Cfr. D ’ Anna 1967, 219; Nosarti 1993, 41; Schierl 2006, 378. 521 Sui sostantivi in -tudo e l ’ alternanza con -tas cfr. Koterba 1905, 132s. (relativamente alla differenza di significato, con rinvio a un ’ ipotesi di Pokrowskij); De Rosalia 1976; Dangel 1989; Sblendorio Cugusi 1991, in part. 255 e 290s.; Lennartz 2003, 113s.; Schierl 2006, 276. Fr. 25 145 <?page no="158"?> trovano a fine verso, posizione impossibile per i loro sinonimi in -tas, e analogamente similitudine domina il secondo emistichio (con sesto piede realizzato da un tribraco). Il problema è piuttosto complesso e interessa la lingua dei poeti arcaici in generale: la scelta degli astratti in -tudo da parte di Accio, ad esempio, è stata interpretata come semanticamente pertinente o legata a esigenze metricostilistiche. Si può notare, comunque, che in questo caso, diversamente dagli altri esempi citati, similitudo è anche la forma che si afferma nel latino classico (similitas ricorre in Cecilio Stazio, v. 214 Ribb. 3 : vide, Demea, hominis quid fert morum similitas e al plurale in Vitruvio, 2, 9, 5: nec cetera easdem habent inter se natura rerum similitates). Il tema ‘ sonoro ’ della voce rientra tra gli elementi caratteristici di una scena di riconoscimento (si veda quanto detto a proposito del frammento precedente) e riveste un ruolo importante in numerose scene del teatro arcaico. In particolare, questo verso può essere forse avvicinato al v. 449 del Meleager acciano (. . . simul ac nota vox ad auris accidit), in cui Altea ha una forte reazione emotiva nel momento in cui sente e riconosce la voce del figlio. Fr. 26 (= fr. XXII, 241 - 242 Ribb. 3 = fr. XXII, 277 - 278 D ’ A. = 184 Schierl) ia 6 set quid conspicio? num me lactans calvitur aetas? ma che vedo? Forse, allettandomi, m ’ inganna l ’ età? Non. 6 M (= 11 L): calvitur dictum est frustratur: tractum a calvis mimicis, quod sint omnibus frustratui. Plautus in Casina (169) . . . Pacuvius Medo (240) . . . et (241) set . . . aetas? Accius Eurysace (382) . . . Lucilius Satyrarum lib. XVII (10) . . . Pacuvius Duloreste (137) . . . Sallustius Histor. lib. III (109) . . . set codd. Ribb. 3 sed GVE Stephanus | conspicio num plerr. codd. G 1 conspitionum Bamb. G conspicor Scriverius (sed corr. Vossius) | lactans codd. lactens Scriverius | aetas codd. aevitas Scriverius (sed corr. Vossius) Aeetes Bergk Il frammento sembra da ascrivere alla scena di riconoscimento tra Eeta e Medea: il vecchio padre, in una serie di interrogative, si dichiara debole di fronte agli inganni e non vuole credere ai suoi occhi. I senari (solo il primo completo) sono trasmessi da Nonio a proposito del verbo calvor con indicazione di autore e titolo dell ’ opera. I codici riportano set, accolto da Ribbeck, D ’ Anna e Schierl (e per Nonio da Mazzacane), preferibile a sed, che sembra lectio facilior. Per il resto, il testo è sicuro: le lezioni alternative sono da ritenere deteriori. Le due interrogative incrementano il pathos. Il poeta si concentra sulla vista (conspicio): del resto, l ’ aspetto esteriore è sempre accompagnato dall ’ udito (cfr. Il Medus di Pacuvio 146 <?page no="159"?> fr. 25) nelle scene di riconoscimento (così anche nei Niptra con Ulisse e la nutrice: v. 247 Ribb. 3 : lenitudo orationis, mollitudo corporis). Nella seconda interrogativa, introdotta da num, ci si sofferma sui temi dell ’ aetas e del raggiro. Il termine aetas riporta immediatamente alla mente la descrizione espressionistica di Eeta del fr. 23 e la presentazione del personaggio come senex al fr. 22. Il verbo lactare è parola chiave per indicare l ’ inganno, utilizzato spesso in contesti legati al potere della retorica, per esempio in Accio (Medea fr. 12: nisi ut astu ingenium lingua laudem et dictis lactem lenibus). Qui risulta particolarmente significativo il fatto che il participio sia riferito all ’ età anziana, che rende deboli ed espone alle astuzie altrui. Lactans calvitur potrebbe essere interpretato come una sorta di iunctura endiadica tra il predicativo e il sinonimo verbo principale 522 , che ricorre anche al fr. 26, riferito a Eeta verisimilmente dalla figlia (cfr. infra). Il timore di essere vittima di un inganno risulta particolarmente significativo in una tragedia che ha tra i suoi protagonisti Medea, che si è dimostrata capace di piegare alla sua volontà Creonte nel dramma euripideo e nella sua ripresa enniana. Se poi si condivide l ’ ipotesi di un inganno teso dallo stesso Eeta ai danni di Medea al fine di reimpossessarsi del regnum con il suo aiuto (cfr. quanto detto a proposito del fr. 23), la dichiarazione di Eeta potrebbe essere intesa come un ’ ulteriore simulazione da parte del tiranno. Fr. 27 (= fr. inc. inc. XCV, 174 - 175 Ribb. 3 = XXIII, 279 - 280 D ’ A. = 185*** Schierl = adesp. 62 TrRF) tr 7 coniugem illum, Amor quem dederat qui plus pollet potiorque est patre <ebbi> in sposo colui che mi aveva dato Amore, che è molto più potente e forte del padre Cic. Tusc. 4, 69: o praeclaram emendatricem vitae poeticam, quae amorem flagitii et levitatis auctorem in concilio deorum conlocandum putet! de comoedia loquor, quae, si haec flagitia non probaremus, nulla esset omnino; quid ait ex tragoedia princeps ille Argonautarum? ‘ Tu me amoris magis quam honoris servavisti gratia ’ . quid ergo? hic amor Medeae quanta miseriarum excitavit incendia! atque ea tamen apud alium poetam patri dicere audet se ‘ coniugem ’ habuisse ‘ illum . . . patre ’ . 2. habui ex ‘ habuisse ’ post coniugem add. Klotz | est plerr. codd. haec G 1 In un dialogo con il padre, menzionato con certezza dal testimone (patri dicere audet), Medea sembra parlare delle sue antiche azioni, in particolare (probabil- 522 Cfr. Schierl 2006, 380s. che traduce: ‘ täuscht etwa trügend mich das Alter? ’ . Fr. 27 147 <?page no="160"?> mente) dell ’ abbandono della casa paterna per aiutare e seguire Giasone, uomo che Amor scelse per lei 523 . L ’ attribuzione al Medus, largamente accettata dalla critica 524 , sembra più che verisimile: dalle parole di Cicerone, infatti, sappiamo che il verso doveva far parte di un dramma incentrato sulla figura di Medea composto da un autore diverso da Ennio, a cui è attribuito il primo frammento riportato (cfr. commento al fr. 13 della Medea exul). L ’ uso dei tempi al passato (habuisse e dederat) fa pensare ad una vicenda conclusa da tempo, che si adatterebbe - tra i drammi a noi pervenuti - al solo Medus 525 . La lezione haec per est è evidentemente corrotta. L ’ integrazione habui, proposta sulla base della citazione ciceroniana 526 , in cui si riporta il discorso indiretto, se pure verisimile, non sembra sufficientemente dimostrabile perché la si inserisca nel testo. Sembra più prudente escluderla, come fanno per lo più gli editori (compreso Schauer 2012), e porre coniugem (che faceva senz ’ altro parte del testo, contra Bothe e Warmington) nel verso precedente (non è possibile sapere se seguito da lacuna o meno). A partire da illum si scandisce un settenario trocaico; le incisioni intervengono sulla sequenza allitterante. Il verso è caratterizzato da una struttura a incastro delle proposizioni relative: l ’ anastrofe Amor quem 527 pone in posizione enfatica a inizio di verso i due termini illum e Amor, che fanno da contraltare a patre, che invece si trova in posizione di rilievo a fine verso. La seconda parte del verso, poi, è caratterizzata da un cumulo sinonimico allitterante (l ’ allitterazione in p è chiusa dall ’ enfatico patre), che potrebbe essere stato influenzato dalla lingua sacrale 528 : ciò non stupisce, visto il riferimento al dio Amore, e del resto non è inusuale in latino (cfr. Liv. 1, 24, 8: quanto magis potes pollesque e 8, 7, 5: aderit Iuppiter ipse . . . qui plus potest polletque). Il tema qui presentato è quello della potenza di Eros come giustificazione della fuga per amore, divenuto un topos relativo al mito archetipico di Elena già a partire da Gorgia e che sarà ben valorizzato a Roma 529 . In particolare, il paragone tra Amor e il padre è interessante per la caratterizzazione del personaggio di Medea nel dramma pacuviano e sulla scena letteraria romana, molto attenta ai rapporti familiari, e permette di individuare come modello l ’ epos di Apollonio Rodio, in cui 523 Cfr. Nosarti 1993, 41 n. 68. 524 Si veda Schierl 2006, 381s. 525 Come nota già Zillinger 1911, 129. 526 Ipotesi di Klotz poi accolta da D ’ Anna 1967, Artigas 1990 e Schierl 2006. 527 Notata già da D ’ Anna 1967, ad loc. 528 Come nota Schierl 2006, 382; cfr. anche Falcone 2013, 315. 529 Sul tema cfr. supra, introduzione generale, pp. 13s. e cfr. in particolare Ov. met. 7, 7 - 18 e 55 (maximus. . . deus est); la descrizione dell ’ innamoramento in Valerio Flacco, con l ’ intervento definitivo delle divinità, che abbattono le remore morali di Medea con un vero e proprio incantesimo (cfr. in particolare il primo incontro a 5, 350; la teichoskopia a 6, 503 ss.; il terzo incontro a 7, 396ss.; sui passi cfr. Elm 2007, 79 e n. 223; Fucecchi 1997 e 2006, ad locc.). Il Medus di Pacuvio 148 <?page no="161"?> la giovane Medea vive il conflitto tra la fedeltà alla famiglia e l ’ amore per Giasone, dopo essere stata colpita dall ’ intervento di Eros (si vedano, per esempio, Ap. Rh. 3, 110ss. e 210ss.). Pacuvio riprendeva verisimilmente questo tema nell ’ ambito di un dialogo chiarificatore tra Medea e suo padre (interlocutore sicuro del frammento, cfr. supra), che tornava ad accusare la figlia, o le chiedeva finalmente ragione del crimen dell ’ abbandono della casa paterna. Il tema, poi, presente già nella Medea exul (proprio al fr. 13 riportato nel medesimo contesto ciceroniano, in cui è Giasone ad accusare Medea di averlo seguito ‘ presa da Eros ’ , ma si veda quanto detto nel commento al verso), verrà sviluppato in maniera più approfondita da Accio, il quale rappresenterà proprio le fasi iniziali del mito: l ’ abbandono della Colchide e l ’ uccisione di Absirto (si veda l ’ introduzione al dramma di Accio e, in particolare, i frr. 16 - 18 per la reazione di Eeta). Fr. 28 (= fr. inc. inc. CI, 186 - 188 Ribb. 3 = fr. XXIV, 281 - 283 D ’ A. = 186*** Schierl = adesp. 7 TrRF) ia 6 cum te expetebant omnes florentissimo regno reliqui; nunc desertum ab omnibus summo periclo, sola ut restituam paro. ti lasciai con un regno ben solido, quando tutti ti volevano; adesso, che sei abbandonato da tutti e in condizione di estremo pericolo, io sola sono pronta a restituirtelo Rhet. Her. 2, 40: item vitiosum est, quom id, quod in aperto delicto positum est tamen aliqua tegitur defensione, hoc modo: cum . . . paro. Cic. inv. 1, 90: leve est, quod aut post tempus dicitur, hoc modo: . . .; aut perspicue turpem rem levi tegere vult defensione, hoc modo: cum . . . paro. 1. expetebant bdC Rhet. Her. plerr. codd. Cic. expectabam M Rhet. Her. expectarent l Rhet. Her. || 2. in regno E Rhet. Her. | nunc EC 2 Rhet. Her. hunc M | desertum Bd Rhet. Her. desertus M Rhet. Her. desertus es C Rhet. Her. cum desertus es bl Rhet. Her. || 3. periclo Ald. periculo codd. Rhet. Her. Cic. | sola M Rhet. Her. H 1 VP 1 Cic. solus Cld Rhet. Her. H 2 P 2 Smfh Cic. solut B Rhet. Her. solam b Rhet. Her. | ut restituam EB Rhet. Her. codd. Cic. restitutio M Rhet. Her. restituere C Rhet. Her. Medea continua il racconto delle sue azioni di fronte al padre e si dichiara disposta a restituirgli il regnum 530 . I senari sono trasmessi da Cicerone nel de inventione e dalla Rhetorica ad Herennium come esempio di argomentazione viziosa, non tanto perché non utilizzi affatto mezzi retorici 531 , quanto perché da un punto di vista tecnico-retorico essa 530 Per la contestualizzazione del frammento cfr. anche Nosarti 1993, 41. 531 Così, invece, Schierl 2006, 383. Fr. 28 149 <?page no="162"?> risulta insufficiente rispetto alla sproporzione del crimen commesso. Da ciò non pare si possa dedurre che l ’ argomentazione di Medea nel dramma fosse in toto insufficiente, se si tiene conto - per esempio - del fr. 27. Le considerazioni riportate nelle fonti sono dunque da ritenersi relative solo a questo frammento, e non al contesto nel suo complesso. I versi sono citati in entrambi i casi senza indicazione di autore e titolo dell ’ opera. L ’ attribuzione al Medus è comunque più che verisimile: la persona loquens, infatti, è una donna (sola: sulla lezione solus, accolta da Artigas, si veda poco oltre), e il contenuto si adatta perfettamente alla figura di Medea nel suo rapporto con Eeta e al plot della tragedia pacuviana. Il testo tramandato da Cicerone è decisamente più corretto di quello della Rhetorica ad Herennium. Non sembrano condivisibili le argomentazioni di Artigas, che difende la lezione solus, presente in parte della tradizione di entrambi i testimoni: le licenze di cui parla, infatti, (in particolare, la sinalefe tra solus e ut) non sono giustificabili metricamente 532 . La struttura del frammento è ricercata: all ’ opposizione cum/ nunc, infatti, corrisponde quella omnes/ sola 533 . Notevoli, ancora, l ’ allitterazione in ‘ r ’ che lega i termini regno, reliqui e restituam; il poliptoto omnes/ omnibus; il gioco sinonimico reliqui/ desertum, a proposito del quale può essere utile ricordare un luogo svetoniano, Diff. verb. 318: relinquimur sponte, deserimur inviti: etimologicamente relinquo ha il valore di ‘ lasciare indietro ’ , mentre desero vale ‘ abbandonare ’ . Il primo e il secondo verso sono legati da un forte enjambement, che mette in evidenza - in posizione enfatica - il nesso florentissimo regno: con questa iunctura (che ricorre in Nep. reg. 2, 3; Ciris 464; Liv. 30, 11, 3; Iust. 36, 4, 1; al superlativo in Sulp. Sev. chron. 1, 38, 5), il poeta indica la stabilità, ma anche la ricchezza e lo splendore dell ’ antico regno di Eeta, che era ricercato e quasi venerato da tutti (expeto vale qui ‘ desiderare, cercare, volere ’ , ma può avere anche una sfumatura ‘ sacrale ’ legata alla preghiera 534 ) quando ne era in possesso. Ut restituam paro presenta un ’ inversione dell ’ ordine tra proposizione dipendente e reggente: la formulazione (paro con ut e il congiuntivo) ricorre anche altrove nel latino arcaico (per esempio Ter. Andr. 742; Titin. com. 99 Ribb. 3 ). Intendo summo periclo come riferito ancora a Eeta piuttosto che a Medea 535 : si crea così una perfetta simmetria tra te/ omnes/ florentissimo regno e (te)/ ab omnibus/ summo periclo; inoltre, l ’ espressione del pericolo attribuita a Eeta è conforme con la rappresentazione di questo personaggio osservata già a proposito di altri frammenti (in particolare 22 e 23). Desertum si trova spesso in contesti di abbandono e ‘ pericolo ’ (si vedano i 532 Artigas 1990, 155 e n. 76. 533 Come nota già Schierl 2006, 383. 534 Cfr. ThlL V/ 2, 1695, 64 - 78 e per il possibile valore sacrale del verbo ibidem 3 - 40. 535 In genere è riferito alla donna: si vedano almeno le traduzioni di D ’ Anna 1967, 266: “ io sola con sommo pericolo ” e Schierl 2006, 382: “ mache ich mich unter größter Gefahr ” . Il Medus di Pacuvio 150 <?page no="163"?> vv. 595s. Ribb. 3 di Accio: incusant ultro, a fortuna opibusque omnibus / desertum abiectum afflictum exanimum expectorant, nonché il fr. 11 della Medea acciana: exul inter hostis, exspes expers desertus vagus) e presenta qualche analogia con la rappresentazione di Eeta sul finale del dramma di Accio, che potrebbe essersi ispirato forse proprio all ’ Eeta pacuviano (frr. 16 - 18, al cui commento rinvio). Infine, l ’ espressione di un estremo pericolo affrontato dalla persona loquens sembrerebbe in contraddizione con le considerazioni dei fontes relative all ’ impostazione retorica del discorso, ritenuta insufficiente. È stato notato 536 che l ’ uso del termine sola potrebbe far pensare a una fase precedente l ’ incontro tra Medea e Medo, dal momento che la donna si dichiara l ’ unica in grado di aiutare il padre e non menziona affatto suo figlio; di conseguenza, l ’ intera scena del riconoscimento tra Medea ed Eeta dovrebbe essere collocata in una fase iniziale del dramma, e l ’ arrivo di Medo sarebbe spostato più avanti. La presenza di sola, tuttavia, è spiegabile retoricamente perché in opposizione a omnes e omnibus e sembra eccessivamente razionalistico basare su questo solo elemento la collocazione della scena 537 . Inoltre, quanto osservato a proposito dell ’ atteggiamento di Eeta (cfr. commento al fr. 23), che potrebbe essere mosso da interessi legati al regnum, sembrerebbe essere meglio giustificato se supportato dalle concrete possibilità di recupero del potere, che gli deriverebbero dalla consapevolezza che Perse sia già stato cacciato. Fr. 29 (= fr. IX, 227 Ribb. 3 = fr. XXVI, 285 D ’ A. = 167 Schierl) ia 8 ? Si resto, † pergitur eam † si ire conor, prohibet baetere se mi fermo, † . . . † ; se provo ad andare, mi impedisce di muovermi Non. 77 M (= 108 L): baetere, id est ire. Varro τοῦ πατρὸς τὸ παιδίον , περὶ παιδοποιίας (553) . . . Pacuvius Niptra (255). . . idem Medo (227) si . . . baetere. betite si resto Ald. bitite si resto Stephanus ire si resto Scriverius (sed corr. Vossius) | pergitur codd. pergit ut Mercerus poscit ut Müller percit ut Müller dubitanter porgit ut Ribb. 1-2-3 pergit ad D ’ A. dubitanter in app. urget iter Vossius | eam codd. viam Onions iam Stephanus fortasse: pergitur; Aeam vel Aean | baetere Bamb. betere rell. codd. Si è scelto di trattare per ultimi due frammenti di difficile contestualizzazione. In questo caso, l ’ ipotesi più comunemente accolta, e la più verisimile, è che il frammento debba collocarsi nell ’ ambito dell ’ incarcerazione di Medo (individuato, dunque, come persona loquens), che si lamenterebbe dell ’ impossibilità di 536 Cfr. in particolare Mette 1964, 103; Fantham 2003, 111 - 112 e Schierl 2006, 383s. 537 Come nota anche Schierl 2006, 347. Fr. 29 151 <?page no="164"?> movimento (dunque, forse, dopo il fr. 9) 538 . Le difficili condizioni del testo impongono tuttavia una notevole prudenza. Il testo, trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma a proposito del significato del verbo ‘ baetere ’ , che ricorre anche nei Niptra (v. 255 Ribb. 3 : vos hinc defensum patriam in pugnam baetite), non è sicuro. I codici riportano la lezione pergitur, che è stata corretta dalla maggior parte degli editori in pergit ut, intendendo eam come congiuntivo dipendente da ut. Tra le proposte di intervento, questa rimane la migliore; meno convincente, invece, quella avanzata in apparato da D ’ Anna (pergit ad eam) 539 . Si potrebbe forse tentare di mantenere il tràdito pergitur. In questo modo bisognerebbe intendere la prima parte del verso come interamente paratattica e il verbo avrebbe valore di ‘ avanzare ’ e sarebbe usato impersonalmente (un uso, però, abbastanza raro, e testimoniato solo, in contesto diverso e in connessione con ad plebem, da Caecil. com. 186 Ribb. 3: ibo domum: ad plebem pergitur: publicitus defendendumst e da alcuni testi tardi 540 ), mentre eam avrebbe valore di congiuntivo esortativo ( ‘ se mi fermo, si avanza; che io vada ’ ). In alternativa, si potrebbe proporre il seguente intervento: pergitur; Aeam (oppure Aean come nel fr. 3) si ire conor, ponendo una pausa sintattica dopo pergitur ( ‘ se mi fermo, si avanza. Se cerco di andare a Ea . . . ’ ). In questo caso, il frammento potrebbe essere avvicinato ai frr. 1 e 2 e rientrare nella prima fase del dramma, in cui Medo dichiara la sua volontà di ritrovare la madre ricevendo un oracolo ambiguo al riguardo (di cui questo verso potrebbe descrivere la conseguente situazione di impasse), oppure - riferendosi all ’ isola - far parte del contesto individuato già dalla maggior parte degli studiosi 541 . In ogni caso, il cumulo di forme verbali incrementa il pathos della scena, in cui è certo si faccia riferimento ad una difficoltà di movimento e/ o azione. 538 L ’ ipotesi è accolta recentemente da Schierl 2006, 363, che rinvia alla bibliografia precedente. Più prudenti D ’ Anna 1967, 200 e Nosarti 1993, 39 n. 58. 539 Sulle due proposte cfr. le osservazioni di Schierl 2006, 363. Mazzacane 2014 recupera invece la proposta di Onions pergit viam. 540 Phoc. carm. Verg. 129; Cypr. Gall. exod. 243; Paul. Petric. Mart. 1, 272; Drac. Romul. 6, 119. 541 Questa ipotesi di correzione del testo (nata da uno scambio di idee con Lorenzo Nosarti) permetterebbe affascinanti sviluppi sul piano della contestualizzazione, ma rimane tuttavia difficile dimostrarla per via dell ’ uso di pergitur che si dovrebbe presupporre e che non sembra essere sufficientemente testimoniato. Il Medus di Pacuvio 152 <?page no="165"?> Fr. 30 (= fr. XXIII, 243 Ribb. 3 = fr. XXIX, 288 D ’ A. = 189*** Schierl = adesp. 3 TrRF) ? neque . . . profundum né . . . profondo (? ) Fest. 256 L (= 229 M): < profundum dicitur id quod> altum est ac fundum <longe habet. Pacuvius> in Medo (243) neque . . . Cf. Pauli Epitoma 257 L: profundum quod longe habet fundum. profundum supplevit Paulus Festo (con il prezioso supporto dell ’ epitome di Paolo, da cui si deduce il necessario inserimento del termine profundum, non si sa in che caso) ci restituisce un frustulo sicuramente del Medus, a cui è attribuito dai codici (senza indicazione dell ’ autore) 542 . Vista l ’ esiguità del frammento, non è possibile dire molto: profundus, tuttavia, ricorre in genere in questa fase del latino in riferimento alla profondità del mare (cfr. Accio, Med. fr. 1): il mare è strettamente connesso con i miti legati alla figura di Medea, e un naufragio di Medo doveva verisimilmente rientrare nel plot del Medus. Il frammento, dunque, potrebbe in via del tutto ipotetica essere attribuito alla fase iniziale del dramma, e magari essere inserito in una narrazione relativa al viaggio per mare (quindi nello stesso contesto del fr. 3). 542 Sul passo di Festo cfr. Mantovanelli 1981, 13s. Fr. 30 153 <?page no="167"?> La Medea sive Argonautae di Accio <?page no="169"?> Introduzione Titolo e frammenti La tragedia costituisce uno degli esempi più noti di Doppeltitel tra i drammi latini: Medea sive Argonautae 543 . Il primo titolo compare in tutti i testimoni in cui è presente anche l ’ indicazione dell ’ opera, mentre il secondo è attestato solo da Prisciano (GL III 424, 15 testimone del fr. 1, introdotto con l ’ indicazione Accius in Argonautis), e sembra costituire un titolo alternativo. Che si tratti senz ’ altro di un ’ unica tragedia è certo, in quanto il v. 9 del medesimo frammento prologico tràdito da Prisciano è trasmesso anche da Non. 128 L con indicazione del titolo Medea. Sembra pertanto naturale pensare, con la critica, a un doppio titolo; in alternativa, si potrebbe ipotizzare una svista da parte di Prisciano; sembra ad ogni modo da escludersi la presenza di due drammi distinti. I frammenti certi sono 16. È stato sollevato qualche dubbio a proposito dell ’ attribuzione del fr. 8, che presenta un testo problematico e per il quale parte della critica ipotizzava l ’ appartenenza al Diomedes; più complessa la questione relativa al lungo fr. 15*, di incerto autore e incerta fabula, in cui il tema è l ’ uccisione di Absirto e su cui la critica rimane ancora discorde: per entrambi i casi si rinvia al commento. I frammenti sono qui presentati secondo un ordine che tenta di dare ragione di una possibile ricostruzione della trama, per cui si è tenuto conto del confronto con le Argonautiche di Apollonio Rodio (cfr. infra). Si tratta in sostanza di un ’ ipotesi di lavoro: nel corso del commento è lasciato spazio a diverse possibilità, soprattutto nel caso di alcuni frammenti particolarmente difficili da collocare (per es. fr. 13). Come accennato, si è scelto di discutere come acciano il fr. 15*, che è stato pertanto inserito all ’ interno della sequenza dei frammenti. I modelli Il caso della Medea di Accio può essere ritenuto emblematico delle modalità del vertere dei tragici latini arcaici, che non tenevano conto del solo genere drammatico. Ad un modello tragico di riferimento, che si è pensato potessero essere gli Sciti di Sofocle (anche se manca, a dire il vero, un riscontro testuale forte), si combina infatti la presenza notevole e chiaramente evidenziabile dell ’ epos di Apollonio Rodio 544 . La commistione di generi sembra abbinarsi in questa tragedia ad un gusto per l ’ intrigo, che pare si possa mettere in luce nonostante la tradizione frammentaria del testo. 543 Su cui cfr. Ribbeck 1875, 536; Jocelyn 1967 a, 68s.; Dangel 1995, 349. 544 Per gli Sciti cfr. frr. 546 - 552 R. Sui modelli di Accio cfr. almeno Ribbeck 1875; che Accio si riferisse anche all ’ epica greca è confermato dalla ricostruzione dell ’ Epinausimache, con le osservazioni di Golzio 1979. 157 <?page no="170"?> In particolare, la parte iniziale del dramma mostra notevoli intersezioni con il genere epico, sia nella formulazione sia, soprattutto, nei contenuti: i temi della poetica tempestas (fr. 1 e, solo accennato, fr. 6) e della vista di una nave (frr. 1 e 2), la descrizione di un corteo marino (fr. 2), la presenza di riscontri anche puntuali con l ’ ipotesto apolloniano di volta in volta individuato (per cui si rimanda al commento). Anche i temi pastorali, e nello specifico quello della paura dei pastori (fr. 5), rendono omaggio ad uno dei topoi più frequenti negli epilli alessandrini, prima ancora che rispecchiare da vicino il modello delle Argonautiche. Più in generale, Accio sembra seguire, drammatizzandolo, l ’ andamento della trama dell ’ epos di Apollonio, a cui sembrano corrispondere, in particolare, i frr. 6 (con i riferimenti alla solidità di Argo, resistente alle tempeste) e 10, 11 e 12 (che sono interpretati come parte di un dialogo tra Medea e Giasone ispirato a quello di Ap. Rh. 4, 30 - 409). Svolgimento della trama e drammaturgia Può essere utile fornire una sinossi relativa allo svolgimento della trama sulla base dell ’ interpretazione qui proposta, distinguendo le singole scene ipotizzabili sulla base dei frammenti a noi pervenuti 545 . Il prologo (fr. 1) era affidato a un pastore, che assisteva, sbigottito, all ’ approssimarsi di un monstrum, di cui gradualmente individuava alcuni elementi prestando attenzione agli aspetti visivi, ma anche sonori: in particolare, il verso dei delfini che si muovevano attorno alla nave (fr. 2) e un canto, che egli identificava con quello a lui noto delle melodie di Silvano (fr. 3). Mosso da paura e curiosità, il pastore si arrampicava su un abete per dare uno sguardo d ’ insieme all ’ orizzonte (fr. 4). Ancora nella fase iniziale del dramma veniva descritto un gruppo di pastori che, per paura, abbandonava le greggi (fr. 5: l ’ ultimo frammento che si può attribuire al prologo). Un personaggio, poi, sbarcato verisimilmente dalla nave (la persona loquens potrebbe essere in questo caso Giasone), celebrava i progressi dell ’ umanità, partendo dal tema della costruzione della solida nave Argo (frr. 6 e 7). Un personaggio del luogo (Peuce? 546 ), un sacerdote oppure uno dei reali, salutava dunque come ‘ divina ’ Medea (fr. 8), il cui arrivo era stato annunciato da alcuni presagi, nonché da pratiche divinatorie (fr. 9). La tragedia doveva comprendere anche un dialogo, inizialmente acceso, tra Medea e Giasone: la donna, in ansia, chiedeva all ’ eroe quali fossero le sue reali intenzioni (fr. 10) e, convinta che lui volesse abbandonarla al suo destino, lo minacciava augurandogli di diventare anch ’ egli esule (fr. 11); rassicurata, poi, collaborava all ’ elaborazione di un piano ai danni di Absirto, dichiarandosi pronta ad irretire il fratello con la forza della retorica (fr. 12). Il racconto dell ’ assassinio poteva essere affidato ad un nuntius, che, dopo aver descritto il luogo del delitto (fr. 13), dava conto del fatto in toni 545 Cfr., tra gli altri, Baier 2002, in particolare 52s. 546 Per una sintesi delle posizioni relative alla localizzazione della tragedia di Accio cfr. Schierl 2002, 277 - 79. La Medea sive Argonautae di Accio 158 <?page no="171"?> espressionistici (fr. 14), concludendo, forse (ma la contestualizzazione è quanto mai difficile), con la descrizione della fuga di Medea su un carro (fr. 15*). La tragedia verisimilmente finiva con la disfatta di Eeta, la cui sorte era stata completamente rovesciata: egli poteva lamentare la perdita dei suoi figli (fr. 16), abbandonandosi al pianto (fr. 17) 547 . Sembrerebbe da attribuire al finale il fr. 18, in cui è cantato in toni sentenziosi il rovesciamento della sorte, forse affidato al coro, la cui presenza è però problematica. Sul piano drammaturgico si può notare che la tragedia si apriva con il monologo di un personaggio minore (frr. 1 - 5): in questo modo, oltre a fornire le coordinate spazio-temporali, il poeta creava un effetto di suspence, posticipando l ’ inizio dell ’ azione drammatica vera e propria. In particolare, il prologo sembra fosse caratterizzato da una forte focalizzazione interna, come dimostra lo stato di paura del pastore (e del gruppo di pastori poi) di fronte al monstrum della nave Argo. Non mancava una fase di elaborazione del piano, congegnato da Giasone e Medea ai danni del fratello (frr. 10 - 12). Il dramma avrebbe potuto essere caratterizzato da un progressivo crescendo di pathos che doveva raggiungere il suo apice nella narrazione relativa all ’ omicidio di Absirto (fr. 14), per poi calare sul finale in una coda che aveva per protagonista Eeta (frr. 15* e 16), il rovesciamento della cui sorte veniva suggellato dall ’ ultimo intervento del coro (fr. 17) 548 . Personaggi Tenendo conto del fatto che la tradizione frammentaria del testo comporta oggettive difficoltà nel tracciare i caratteri dei personaggi, sembra si possa comunque darne qualche cenno, sulla base dei suggerimenti che ci vengono dai frammenti o dai contesti in cui sono tràditi. Caratterizzato con una certa attenzione, e ciò risulta in linea con un uso romano (individuato anche per Ennio, come sottolineato nell ’ introduzione alla Medea exul), è il personaggio minore del pastore al principio del dramma (frr. 1 - 5). Il suo sbigottimento e la progressiva presa di coscienza di fronte a singoli elementi del monstrum, sottolineati da Cicerone nel contesto di trasmissione dei frammenti 1 - 3, sono desumibili anche dal testo acciano, in cui si fa riferimento al mondo pastorale (con la menzione di Silvano al fr. 3, delle greggi al fr. 5), alla difficoltà di interpretare il fenomeno da parte della persona loquens (si pensi a ita credas. . . nisi del fr. 1, nonché all ’ uso di similitudini, fr. 3), al tema della paura (ex tuto del fr. 4, pavore al fr. 5) 549 . 547 Anche questo frammento è di difficile contestualizzazione: si potrebbe infatti pensare al pianto di Medea (si rinvia comunque al commento). 548 L ’ andamento drammaturgico della tragedia sembra avere qualche analogia con l ’ Antigone sofoclea, in cui pure un tiranno, Creonte, si trova solo di fronte alla perdita dei suoi cari sul finale del dramma. 549 Per la caratterizzazione di questa fase del dramma si vedano, oltre al commento ai frammenti, in particolare Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 221 - 242 e Nosarti 1999, 72 - 76. Introduzione 159 <?page no="172"?> Medea è definita dia ( ‘ divina ’ ) al fr. 8; dai frr. 10 - 11 si deduce l ’ ansia della donna di essere abbandonata da Giasone 550 mentre il fr. 12 sembrerebbe far riferimento alla sua proverbiale abilità retorica, molto sviluppata - come visto - dai tragici latini. Probabilmente un ruolo importante doveva rivestire nel dramma il personaggio di Eeta, che da grande re cadeva vittima di un pesante rovesciamento della sorte, perdendo tragicamente uno dei suoi figli, o meglio entrambi (frr. 15* - 16: per il discorso relativo alla perdita dei figli si rinvia al commento). Sulla base dei frammenti superstiti non sembra si possa dire molto della figura di Absirto (sulla cui età e morte cfr. il commento al fr. 15*) e di quella di Giasone, mentre probabilmente il tema della navigazione, rappresentato da Argo, era probabilmente legato a quello del progresso dell ’ umanità e messo in evidenza come fatto positivo 551 dalla persona loquens dei frr. 6 - 7, da individuare forse in Giasone. La presenza del coro non può essere dimostrata, ma l ’ andamento sentenzioso e la struttura metrica del fr. 18 potrebbero costituirne una traccia. Certamente doveva essere messo in scena almeno un altro personaggio, che accoglieva Medea e Giasone una volta sbarcati, e che poteva forse essere in qualche modo legato alla sfera magico-sacrale (frr. 8 - 9). Lingua, metro e stile Come è proprio della tecnica poetica di Accio 552 , osserviamo effetti di suono (fr. 1), allitterazioni (frr. 1; 5; 6; 9; 17), poliptoti (frr. 4; 18), omeoteleuti (fr. 12), attenzione alla combinazione di ordo verborum e incisioni per mettere in risalto le figure di suono (frr. 1; 12; 14), riprese a distanza (fr. 1). Dal punto di vista lessicale, si nota l ’ uso di grecismi (frr. 2; 3), nonché la presenza di dittologie sinonimiche (fr. 2), opposizioni semantiche (fr. 7), espressioni proprie del linguaggio sacrale (fr. 8), accumulazione aggettivale (fr. 11), hapax legomena (fr. 16), pleonasmi (fr. 14). Nel caso dei frammenti più lunghi, si nota una tendenza all ’ ipotassi (frr. 1; 14). I metri utilizzati sono senari e ottonari giambici, settenari trocaici e un tetrametro anapestico. Particolarmente proficua risulta l ’ analisi delle incisioni, che si combinano sapientemente con le figure retoriche (basti citare gli esempi dei frr. 1 e 2, per i quali rinvio al commento). 550 In questo contesto si potrebbe inserire anche il fr. 17 se non lo si intende riferito ad Eeta. 551 Ciò costituisce una grossa differenza rispetto alla successiva elaborazione senecana del tema, cfr. Biondi 1984, passim. 552 Ancora preziose in tal senso le pagine di Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 93 - 124. La Medea sive Argonautae di Accio 160 <?page no="173"?> Testo e commento Fr. 1 (= fr. I, 391 - 402 R. 3 = fr. I, 467 - 478 Dangel) ia 6 < × ̵ × ̵ × > tanta moles labitur fremebunda ex alto ingenti sonitu et spiritu, prae se undas volvit, vortices vi suscitat: ruit prolapsa, pelagus respergit reflat. Ita dum interruptum credas nimbum volvier, 5 dum quod sublime ventis expulsum rapi saxum aut procellis vel globosos turbines existere ictos undis concursantibus; nisi quas terrestres pontus strages conciet aut forte Triton fuscina evertens specus 10 subter radices penitus undanti in freto molem ex profundo saxeam ad caelum eruit. un ’ enorme mole scivola dal mare al largo fremendo con enorme strepito, fa rotolare le onde davanti a sé, con la sua violenza crea vortici: precipita rovinosamente, spruzza sul mare e sbuffa. Così ora crederesti che un nembo, bloccato, torni ad avvolgersi, ora che un sasso enorme, divelto, venga trascinato dai venti o dalle tempeste oppure che i colpi delle onde che sbattono su se stesse creino delle trombe vorticose; a meno che il mare non provochi stragi terrestri o non capiti che Tritone, sconvolgendo e agitando dal fondo con il tridente il flutto ondoso, scaraventi in cielo dall ’ abisso un enorme masso roccioso Cic. nat. deor. 2, 89: utque ille apud Accium pastor, qui navem numquam ante vidisset, ut procul divinum et novum vehiculum Argonautarum e monte conspexit, primo admirans et perterritus hoc modo loquitur: tanta . . . eruit: dubitat primo quae sit ea natura quam cernit ignotam; idemque iuvenibus visis auditoque nautico cantu: ‘ sicut † inciti . . . delphini ’ - item alia multa - ‘ Silvani . . . refert ’ ,ergo ut hic primo aspectu inanimum quiddam sensuque vacuum se putat cernere, post autem signis certioribus quale sit id de quo dubitaverat incipit suspicari, sic philosophi debuerunt eqs. Prisc. GL III 424, 15: similiter Terentius in omni prologo et in omni prima scena trimetris utitur, niso confundant versus scriptores . . . nec solum comici huiuscemodi sunt usi iambis sed etiam tragici vetustissimi, ut Ennius in Medea . . . Accius in Argonautis ex persona pastoris, qui primam vidit navem Argo: aut . . . eruit. fremibunda . . . reflat. Non. 90 M (= 128 L): conciere, cum perturbatione commovere. Accius Medea: nisi . . . conciet. Afranius Deposito (46) . . . Pacuvius Duloreste (140) . . . 161 <?page no="174"?> versuum ordinem servavit Cicero || 2. fremebunda vett. edd. Nosarti fremibunda codd. Prisc. Cic. plerr. edd. | spiritu codd. Prisc. strepitu codd. Cic. sonitu atque strepitu Vossius || 3. volvit codd. Prisc. evolvit codd. Cic. || 4. respergit plerr. codd. respargit Erl. Cic. reflat codd. Prisc. profluit codd. Cic. proflat Vossius || 7. procellis codd. procellas Bergk || 10. fuscina evertens plerr. codd. fuscinae vertens Leid. A Cic. fustine vertens Erl. Cic. || 11. undanti in freto Ribb. 1 (undante Ribb. 2 - 3 ) undante in fracto codd. Prisc. undantes veniant freto codd. Cic. || 12. eruit codd. meruit Leid. V Cic. erigit Lachmann plerr. edd. vomit vett. edd. evomit Toup in De Subl. 3 evehit R. Klotz Il frammento costituisce con certezza il prologo della tragedia, come risulta dalla testimonianza di Prisciano sull ’ uso dei senari in contesti prologici, e come può essere confermato anche dall ’ estrema fortuna dei versi 553 , meglio spiegabile pensando all ’ incipit del dramma. Alla medesima scena si riconducono senza dubbio i frr. 2 e 3, trasmessi nello stesso contesto ciceroniano (nat. deor. 2, 89), e verisimilmente i frr. 4 e 5 per via del loro contenuto. La scena prologica è affidata a un pastore, che, sbigottito 554 , vede muoversi verso la riva un monstrum mai conosciuto, e solo progressivamente si rende conto di cosa effettivamente si tratti. I versi sono trasmessi, con la sola menzione del poeta (apud Accium), da Cicerone (nat. deor. 2, 89), che focalizza la sua attenzione sulle reazioni emotive del pastor, inizialmente spaventato all ’ inedita vista di una nave, che associa poi a visioni a lui note, man mano che Argo si avvicina; l ’ esperienza del pastore, che post autem signis certioribus quale sit id de quo dubitaverit incipit suspicari, è accostata a quella dei filosofi, che raggiungono la verità solo per tentativi progressivi. Prisciano (GL III 424, 15), attestando l ’ uso di senari nei prologhi, trasmette consecutivamente 6 versi, riporta il nome del poeta e il titolo alternativo del dramma (Accius in Argonautis) 555 , di cui costituisce l ’ unica occorrenza, e cita prima i vv. 10 - 12, poi i vv. 2 - 4. Infine, il solo v. 9 è riportato da Nonio (128 L) a proposito del significato di conciere e attribuito alla Medea di Accio. L ’ ordine corretto dei versi è dato da Cicerone che, però, in alcuni punti presenta un testo ametrico: a) al v. 2 l ’ anapesto strepitu in luogo di spiritu: la clausola sonitu et spiritu, correttamente trasmessa da Prisciano, è confermata anche dal confronto con Enn. scen. 10s. Vahl. 2 = 3s. Joc. dell ’ Achilles (per ego deum sublimas subices / umidas, unde oritur imber sonitu saevo et spiritu); b) al v. 3 evolvit in luogo di volvit, anche in questo caso corretta la lezione di Prisciano; c) al v. 4 profluit in luogo di reflat 556 dei codici priscianei, confermato, del resto, anche dall ’ omeoarto 553 Cfr. almeno Degl ’ Innocenti Pierini 1999, ma i testi sono davvero numerosi (Erasmo 2015, in part. 29 - 31, aggiunge ora anche la Fedra di Seneca). 554 Sbigottimento e stupore costituiscono la Stimmung di questo frammento, come sottolinea in particolare Degl ’ Innocenti Pierini 1999. 555 Sulla questione del doppio titolo cfr. supra, introduzione a questo dramma, pp. 157. 556 Non sono necessari, dunque, gli interventi proposti da Vossius 1620 a proposito del primo e del terzo dei casi presentati (su cui cfr. apparato). La Medea sive Argonautae di Accio 162 <?page no="175"?> con respergit. A questi si aggiunge al v. 11 undantes veniant freto per undanti in fracto di Prisciano, corretto facilmente in undanti (o -e) in freto. Ulteriori questioni testuali riguardano il v. 2 e il v. 12. Nel primo caso, è difficile scegliere tra fremebunda e fremibunda 557 : se, infatti, la seconda forma è più attestata nei codici, la prima è più antica e presenta un esito apofonico frenato (probabilmente favorito dell ’ influenza della vocale ‘ e ’ nella sillaba precedente e, in ogni caso, raro, attestato, oltre che per questo aggettivo, solo per tremebundus e gemebundus 558 ), mentre fremibunda potrebbe essere stata suggerita dall ’ analogia con le più numerose forme in -ibundus. Al v. 12, infine, non c ’ è motivo di correggere il tràdito eruit 559 : il verbo ha suscitato perplessità per il senso, e tra gli interventi proposti il più fortunato, accolto da Ribbeck, è stato erigit di Lachmann, ad Lucr. 5, 1388 (poi relegato in apparato dagli editori moderni di Cicerone e di Accio 560 ). In realtà, l ’ espressione si comprende se si pensa a una contrazione espressiva del concetto e si sottintende un participio come iaciens: il poeta, cioè, descrivendo la scena della massa divelta e poi scaraventata verso il cielo, si soffermerebbe sul primo dei due momenti, sottintendendo il secondo, facilmente desumibile dall ’ espressione del moto a luogo che precede il verbo (ad caelum) 561 . Una conferma per questa lezione può essere data dalla frequenza di richiami a distanza tra i versi: l ’ infinito arcaico volvier del v. 5 riprende il volvit (allitterante) del v. 3; al v. 12 molem (con poliptoto) il moles del v. 1; ex profundo l ’ ex alto del v. 2 (con variatio sinonimica); saxeam il saxum del v. 7 e, appunto, eruit sembra riecheggiare il ruit del v. 4. Infine, la lezione potrebbe essere assicurata da due luoghi virgiliani in cui sembra ricorrere un ’ allusione a questo frammento, e cioè Verg. georg. 1, 318 - 320 (in cui si legge eruerent: saepe ego. . . / omnia ventorum concurrere proelia vidi, / quae gravidam late segetem ab radicibus imis / sublimem expulsam eruerent) e Aen. 2, 608 - 612 (in cui c ’ è eruit, peraltro in posizione enfatica all ’ inizio di un verso che è legato al precedente da enjambement: hic, ubi disiectas moles avulsaque saxis / saxa vides mixtoque undantem pulvere fumum / Neptunus muros magnoque emota tridenti / fundamenta quatit totamque a sedibus urbem / eruit) 562 . I senari si caratterizzano per un notevole virtuosismo 563 . In particolare, si nota la presenza di iuncturae e di effetti sonori interessanti; linguaggio e forma appaiono come condensati e permettono all ’ ascoltatore/ spettatore di visualizzare immediatamente l ’ immagine espressa. Il v. 1 è chiuso da labitur, verbo che in poesia 557 Sul tema cfr. soprattutto Pianezzola 1965, 59 - 60 e 96 e Nosarti 1999, 73. 558 Cfr. Pianezzola 1965, 59 - 60. 559 Per le argomentazioni che seguono cfr. Falcone 2014, pp. 204 e 209, con n. 27. 560 Ax 1933; Warmington 1936; Klotz 1953; Mette 1964; D ’ Antò 1980; Dangel 1996. Eruit è mantenuto anche da Zillinger 1911, 136. 561 Rimando a Nosarti 1999, 74. 562 Per il primo passo cfr. Nosarti 1999, 71s. e Falcone 2014, 204 e n. 7; per il secondo cfr. Falcone 2014, soprattutto p. 209, con n. 27. 563 Il virtuosismo di Accio in questi versi è sottolineato da Timpanaro 1996, 202. Fr. 1 163 <?page no="176"?> epica si trova frequentemente in apertura di esametro ed è spesso legato al tema della navigazione: cfr. Ennio, ann. 376a Sk. = 386a Vahl. 2 e 505a Sk. = 478a Vahl. 2 (labitur uncta carina), ripreso e variato da Virgilio (Aen. 8, 91: labitur uncta vadis abies. . ., e 10, 687: labitur alta secans. . .). Ai vv. 2 - 4 viene descritta la moles, e il poeta si sofferma sull ’ alterazione del mare 564 al suo passaggio, utilizzando un ’ abbondante quantità di termini legati alla sfera marina. In particolare, al v. 2 l ’ aggettivo fremebundus (per la forma corretta cfr. supra) è da riferire tanto alla sfera visiva quanto a quella sonora 565 e ricorre qui per la prima volta in un testo poetico. L ’ attenzione alla dimensione acustica è ulteriormente evidenziata dalla presenza di figure di suono: a) la dittologia sinonimica sonitu e spiritu, sostantivi isosillabici e in omeoteleuto, chiude il secondo verso dopo l ’ incisione semisettenaria; b) il terzo verso è dominato dalla sequenza allitterante volvit vortices vi, interrotta dopo il verbo dall ’ incisione semiquinaria, che fa anche sì che i due verbi (volvit e suscitat) si trovino entrambi in posizione di rilievo rispettivamente a fine emistichio e fine verso; c) il v. 4 si caratterizza per la presenza di due allitterazioni intrecciate: la prima, trimembre, lega ruit respergit e reflat e fa da cornice alla seconda, bimembre (prolapsa pelagus), a sua volta spezzata dall ’ incisione; peraltro, la geminazione del preverbio sembra generare un uso anomalo del verbo reflat in relazione alla nave (in realtà alla, ancora indefinita, moles) e non al vento, di cui è detto di solito 566 : di fatto, l ’ indefinitezza dell ’ entità mostruosa agli occhi del pastor e il suo senso di sbigottimento di fronte all ’ enorme essere che avanza rumorosamente spiegano l ’ uso apparentemente improprio del verbo anche su un piano psicologico. Alla prima descrizione del fenomeno, confusa e connotata in termini di paura, fanno seguito le interpretazioni razionalistiche avanzate dal parlante (vv. 5 - 12). Le prime due possibilità sono introdotte dall ’ anaforico dum, che vale come modo 567 , e la terza da aut (vv. 5 - 8): tutte e tre fanno riferimento alle conseguenze di una terribile tempesta in mare. Il v. 6 è in forte enjambement con il successivo, in cui il soggetto dell ’ infinitiva (saxum) è isolato enfaticamente all ’ inizio del verso. Se l ’ immagine espressa sembra indicare turbini vorticosi creatisi dalla violenza delle onde, il nesso globosos turbines al v. 7 non sembra avere paralleli. Infine, si può notare che il v. 8 è costituito da quattro parole soltanto e il secondo emistichio è occupato interamente dall ’ ablativo assoluto. Al v. 9 nisi introduce l ’ ultima delle possibili interpretazioni naturalistiche del fenomeno, e sposta l ’ attenzione dal mare alla terra: terrestres . . . strages in iperbato fa da cornice al soggetto pontus. All ’ ultima possibilità, quella divina, sono dedicati i vv. 10 - 12, 564 La presenza del mare nei frammenti tragici è abbondante. Si vedano Saint - Denis 1935 e Mantovanelli 1981, 56s., in particolare per il valore di ex alto al v. 2 e di ex profundo al v. 12. 565 Sul valore ‘ sonoro ’ di fremebundus cfr. Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 224 e Traina s. v. ‘ fremo ’ in EV. Per la compresenza del valore acustico e di quello visivo e per la connessione con il verbo fremo cfr. Pianezzola 1965, 96. 566 Per queste figure cfr. Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 224 n. 10; De Rosalia 1971, 139ss. per l ’ allitterazione; si veda anche il commento di Pease 1958, ad loc. 567 Timpanaro 1978, 276; Dangel 1994, ad loc.; Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 223; Pease 1958, ad loc. La Medea sive Argonautae di Accio 164 <?page no="177"?> in cui sembra essere echeggiata la creazione di isole 568 , come pare indicare la presenza del nesso molem saxeam (una iunctura che richiama a distanza ben due termini già menzionati nei versi precedenti: moles, ma qui con valore più concreto, e saxum, qui nell ’ aggettivo derivato). In particolare, Tritone (figura che nella produzione poetica successiva passerà in secondo piano rispetto a Nettuno 569 ) è dotato del suo attributo tipico, la fuscina: il dio e il suo tridente sono messi in posizione di rilievo, a cavallo dell ’ incisione, al v. 10. Dalle osservazioni di Cicerone e Prisciano relative al contesto prologico e alla persona loquens si trae un ’ importante considerazione di natura drammaturgica: la tragedia di Accio si apriva con il monologo di un personaggio minore, secondo una consuetudine piuttosto frequente nel teatro antico (basti ricordare l ’ esordio dell ’ Agamennone di Eschilo o, per rimanere nell ’ ambito del mito di Medea, quello della Medea di Euripide ripreso da Ennio), arricchito dal confronto con alcuni luoghi di Apollonio Rodio, da cui Accio potrebbe aver tratto ispirazione, caratterizzato dal pathos provocato dalla vista del monstrum e fortemente connotato psicologicamente. Il frammento, infatti, presenta molti elementi in comune con il tema della poetica tempestas, calibrati “ in un incalzante susseguirsi di concitate supposizioni alternative ” 570 , che si intersecano con il topos della vista della nave dall ’ alto. Il mantenimento di una Stimmung alessandrina generale risulta evidente, anche se è difficile individuare un confronto puntuale preciso con gli ipotesti. In particolare, i versi sono stati opportunamente accostati ad Ap. Rh. 4, 316 - 322, in cui i pastori si spaventano alla vista di Argo, la paragonano a un mostro marino e si danno alla fuga 571 . In questo caso, diversamente da altri luoghi in cui pure si fa riferimento alla vista di Argo dall ’ alto da parte di qualche personaggio (per es. 1, 549s. con l ’ ammirazione delle Ninfe da un monte), tre elementi in particolare sembrano suggerire un rapporto più stretto con il prologo acciano: a) la presenza dei pastori (certa nella tragedia per via della menzione ciceroniana, ille apud Accium pastor); b) il tema della paura (ancora una volta desumibile dal contesto di citazione ciceroniano: primo admirans et perterritus); c) la fuga, attestata dal fr. 5 (che proprio per questo si può molto verisimilmente ricondurre alla sezione prologica). Se la vicinanza tra i contesti è chiara, Accio sembra tuttavia essersi servito del luogo epico solo come spunto, e avere inserito all ’ interno dei suoi versi una piccola 568 Come nota Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 223 n. 7. 569 Cfr. Falcone 2014, 208s. 570 Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 223. 571 τηλόθεν . εἱαμενῇσι δ᾽ ἐν ἄσπετα πώεα λεῖπον / ποιμένες ἄγραυλοι νηῶν φόβῳ , οἷά τε θῆρας / ὀσσόμενοι πόντου μεγακήτεος ἐξανιόντας . / οὐ γάρ πω ἁλίας γε πάρος ποθὶ νῆας ἴδοντο , / οὔτ᾽ οὖν Θρήιξιν μιγάδες Σκύθαι , οὐδὲ Σίγυννοι , / οὔτ᾽ οὖν Γραυκένιοι , οὔθ᾽ οἱ περὶ Λαύριον ἤδη / Σίνδοι ἐρημαῖον πεδίον μέγα ναιετάοντες . La lettura del passo può essere accompagnata da quella dello scolio (schol. 315 - 8 a): οἱ δὲ νομεῖς δόξαντες τὰς ναῦς ( πάσας ἀκ ουστέον ) θαλάττια θηρία εἶναι , δείσαντες εἰς φυγὴν ἐτράπησαν , nonché dai commenti di Fränkel 1968, 476s.; Livrea 1973, 105. Fr. 1 165 <?page no="178"?> ‘ contaminazione ’ : ingenti sonitu et spiritu del v. 2, infatti, potrebbe riecheggiare l ’ espressione δεινὸν μορμύρουσα di Ap. Rh. 1, 543 572 . La vista della nave Argo è un tema interessante per più ragioni: se da una parte, infatti, trova riscontro anche in ambito archeologico già nelle prime fasi della cultura romana (si pensi alla rappresentazione della prua di Argo sulla celebre Cista Ficoroni), e la navigazione (con le guerre per mare) è un argomento di attualità (cfr. quanto osservato a proposito del fr. 1 di Ennio e del dettaglio dell ’ abiegna trabes), esso richiama in filigrana quello della novitas di Argo, alla cui costruzione ‘ miracolosa ’ già aveva fatto riferimento sulla scena latina Ennio nel prologo (rimando supra al commento). Lo sbigottimento di fronte al mirum sono temi che ricorrono ancora in Catull. 64 (in particolare ai vv. 12s.) e Ov. met. 8, 217 - 220, a proposito del volo di Dedalo e Icaro 573 . Fr. 2 (= fr. II, 403 - 404 Ribb. 3 = fr. II, 480 - 481 Dangel) ia 6 ut inciti atque alacres rostris perfremunt delphini come delfini agili e veloci fremono grandemente coi rostri Cic. nat. deor. 2, 89: dubitat primo quae sit ea natura quam cernit ignotam; idemque iuvenibus visis auditoque nautico cantu, sicut: inciti . . . delphini. 1. sicut inciti codd. sic Ciceroni fortasse tribuendum sic / ut inciti Bothe 2 sicut citi Ald. sicut citati Warm. sic aut inciti Ribb. 1 sicut lascivi Ribb. 2 - 3 simis inciti Lachmann Il frammento è trasmesso nello stesso contesto ciceroniano dei frr. 1 e 3, e faceva parte del monologo prologico affidato a un pastor. Stando al testimone (su cui cfr. commento al fr. 1), il pastore sembra a questo punto individuare alcuni elementi del monstrum: in particolare, inizia a sciogliere i dubbi relativi alla natura ignota di ciò che vede all ’ orizzonte, notando due elementi (ancora poco chiari), che Cicerone condensa nei due ablativi assoluti iuvenibus visis auditoque nautico cantu, che egli paragona al movimento e al verso dei delfini. Al v. 1 la lezione sicut inciti, trasmessa unanimemente dai codici, è senz ’ altro errata in quanto ametrica (impossibile una sequenza cretica iniziale). Si è pensato, pertanto, di correggere il testo. Queste le principali proposte avanzate dalla critica: - Sicut citi, proposta poco fortunata dell ’ Aldina (accolta dubitanter dallo Scriverius e poi dal Delrius). Una confusione tra citi e inciti sarebbe tutt ’ altro che difficile e potrebbe essere ricondotta addirittura allo stesso Cicerone, che - come visto a proposito del frammento precedente - sembra citare a memoria i versi 572 Così Delage 1935, 110. 573 Per Catullo cfr. Fernandelli 2012, in part. 21s.; 122; 171 e n. 90. Per Ovidio cfr. Kenney 2011 ad loc. La Medea sive Argonautae di Accio 166 <?page no="179"?> acciani. Non mancherebbero, del resto, loci paralleli che possano giustificare la presenza di citi 574 : il paratragico Plaut. Amph. 244s. (equites parent citi: ab dextera maxumo / cum clamore involant impetu alacri), in cui poco dopo citi ricorre anche il nesso alacri impetu; Plaut. Amph. 1111 (pergunt ad cunas citae) e 1115 (citus e cunis exsilit); Stich. 391s. (ego huc citus / praecucurri); particolarmente interessante il parallelo con Enn. scen. 65 - 68 Vahl. 2 = 43 - 46 Joc. (iamque mari magno classis cita / texitur. exitium examen rapit: / adveniet, fera velivolantibus / navibus complebit manus litora) in cui il termine ricorre in un contesto marino in riferimento alla flotta. - Un po ’ più difficile da spiegare la genesi dell ’ errore se si pensa a sicut citati, proposto da Warmington e accolto dalla maggioranza degli editori (in ultimo anche da Dangel), che in ogni caso presenterebbe un paio di paralleli acciani interessanti (v. 381 Ribb. 3 : reprime parumper uim citatum quadrupedum; vv. 581s. Ribb. 3 : Sol qui micantem candido curru atque equis / flammam citatis fervido ardore explicas), e che rimane una soluzione degna di attenzione. - Sicut lascivi di Ribbeck (che ha avuto una certa fortuna 575 ) si allontana troppo dal testo tràdito, anche se resta interessante da un punto di vista storico-letterario, in quanto la lascivia dei delfini è attestata ai vv. 5s. Ribb. 3 dell ’ Aegisthus di Livio Andronico (tum autem lascivum Nerei simum pecus / ludens ad cantum classem lustratur) e potrebbe essere ipotizzata per Levio 576 . - Diverso l ’ intervento di Bothe, che mantiene il testo tràdito, disponendolo su due versi (sic / ut inciti). Ciò isolerebbe sic alla fine del verso precedente, una posizione non comune, attestata in alcuni luoghi di poesia esametrica 577 , e solo due volte in contesti giambici: di queste, un ’ occorrenza è in Accio (vv. 45s. Ribb. 3 : sic / multi, animus quorum atroci vinctus malitia est, trasmesso da Non. 257 M) 578 ; l ’ altra è in Ter. Andr. 805s. (quid vos? quo pacto hic? satine recte? : : nosne? sic / ut quimus, aiunt, quando ut volumu' non licet): il cambio di interlocutore precede nosne, e sic a fine verso è seguito immediatamente da ut (come sarebbe nel nostro frammento accettando la proposta di Bothe), ma si deve notare che ut qui è anaforico e funzionale all ’ opposizione tra ut quimus e ut volumus. Il contesto, 574 Ad essi fa riferimento anche Jocelyn 1967, 215, nel commento al luogo enniano dell ’ Alexander. 575 Oltre alle edizioni di Merry ed Ernout si ricorda qui almeno Stebbins 1929, 92. 576 L ’ ipotesi dipende dall ’ interpretazione del fr. 5 Bl. 2 degli Erotopaegnia (lasciviterque ludunt), per il quale è stata proposta da Rivoltella 2009 l ’ appartenenza al medesimo contesto del fr. 21 Bl. 2 (dal Sirenocirca: delphine cinctis vehiculis hippocampisque asperis), in cui si parla di un corteo marino: la collocazione tradizionale del frammento leviano dopo il fr. 14 Bl. 2 rimane, tuttavia, un ’ ipotesi che non può essere scartata. 577 Si tratta, in particolare di Enn. ann. 286 Sk. e 385 Sk. = 394 Vahl. 2 ; Hor. sat. 1, 10, 5; ars 410 e 432; Ov. met. 9, 280; Val. Fl. 6, 163 e 7, 581; Iuv. sat. 1, 42 e 10, 123. Più interessante per la proposta di Bothe Hor. sat. 1, 1, 101s., in cui sic a fine del primo verso è seguito da ut all ’ inizio del secondo (ma si deve notare che ut è anaforico, anticipato già a inizio frase nel verso precedente): quid mi igitur suades? ut vivam Naevius aut sic / ut Nomentanus? 578 L ’ espunzione di sic, proposta da Vossius (cfr. Dangel 1995, 169), non sembra giustificabile. Fr. 2 167 <?page no="180"?> dunque, sembra essere affatto diverso da quello acciano, ma non si può negare che l ’ ipotesi sia assolutamente degna di considerazione. Se osserviamo, tuttavia, l ’ intero contesto di trasmissione del frammento, possiamo forse attribuire il sic a Cicerone, e non ad Accio, e pensare che costituisca di fatto la modalità con cui viene introdotta la citazione. Tralasciando, per il momento, la complessa questione relativa alla citazione del fr. 3, ci si può concentrare su come vengono introdotti i primi due: il fr. 1 è citato dopo l ’ espressione hoc modo loquitur (preceduta da considerazioni sullo stato psicologico del pastore); il fr. 2, dunque, sottintendendo loquitur, potrebbe essere introdotto da sic, preceduto dai due ablativi assoluti iuvenibus visis auditoque nautico cantu. Un altro luogo ciceroniano in cui vengono citati testi diversi all ’ interno di un discorso unitario può aiutare a far luce sulla questione: si tratta di inv. 1, 91, in cui viene spiegato cosa si intende per mala definitio. Riporto di seguito il testo, evidenziando le modalità di introduzione della citazione: mala definitio est, cum aut communia describit, h o c m o d o : “ Seditiosus est is, qui malus atque inutilis civis ” - nam hoc non magis seditiosi quam ambitiosi, quam calumniatoris, quam alicuius hominis improbi vim describit - ; aut falsum quiddam dicit, h o c p a c t o : “ Sapientia est pecuniae quaerendae intellegentia ” ; aut aliquid non grave nec magnum continens, s i c : “ Stultitia est inmensa gloriae cupiditas ” . Come si vede, il primo esempio è introdotto da hoc modo, il secondo da hoc pacto e infine l ’ ultimo da sic. Dunque, l ’ uso di sic per introdurre una citazione all ’ interno di un contesto più ampio non è estraneo a Cicerone, e d ’ altra parte lo si ritrova, per esempio, anche in Rhet. Her. 4, 34 (ex eodem genere, ut ad nostram quoque personam referamus subiectionem, sic: ) e 4, 37 (disiunctum est, cum eorum, de quibus dicimus, aut utrumque aut unum quodque certo concluditur verbo, sic: ). Accettando questa ipotesi, la similitudine marina sarebbe introdotta da ut e si manterrebbe interamente il testo tràdito. La soluzione, poi, restituisce un senario accettabile, in cui va presupposto iato dopo atque, in incisione dopo il quinto elemento, sede ‘ istituzionale ’ di possibile iato nei senari giambici 579 . La dittologia sinonimica inciti atque alacres presenta un ’ allitterazione tra congiunzione e secondo aggettivo a cavallo dell ’ incisione (con in più iato), e descrive una caratteristica topica del delfino, cioè la sua velocità 580 . L ’ ablativo semplice rostris ha valore strumentale e indica precisamente il becco dei delfini, rispecchiando così la tendenza alla precisione lessicale notata nel frammento anche a proposito dell ’ uso del grecismo delphini nel verso successivo 581 . In perfremo, più raro del semplice fremo, che ricorre spesso in contesti marini (si veda anche il fremebunda del fr. 1) e che corrisponde al greco βρέμειν 582 , il preverbio sottolinea 579 Rinvio a Questa 2007, 194. Non sembra attestato, invece, un trattamento eterosillabico del nesso muta cum liquida di ‘ alacres ’ . 580 Cfr. Stebbins 1929, 93. 581 Cfr. Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 106. Ai rostri della nave pensa, invece, fraintendendo il testo, Resta - Barrile 1969, 79 che traduce: “ si muovon agili come delfini / tra i banchi della nave ” . 582 Cfr. Buecheler 1884, 409. La Medea sive Argonautae di Accio 168 <?page no="181"?> l ’ intensità dell ’ azione. La cospicua presenza del delfino nei testi letterari antichi rende ragionevole non cercare un unico modello di riferimento, ma piuttosto pensare all ’ utilizzo di un topos presente in numerose descrizioni greche e poi latine 583 , ma che godeva di una certa fortuna anche nelle rappresentazioni iconografiche (il delfino era molto presente a Roma anche su monete e oggetti di vita quotidiana) 584 . Fr. 3 (= fr. III, 404 - 405 Ribb. 3 = fr. III, 481 - 482 Dangel) ia 6 Silvani melo consimilem ad aures cantum et auditum refert riporta alle orecchie un canto e un suono simili al canto pastorale di Silvano Cic. nat. deor. 2, 89: item alia multa: Silvani . . . refert. 1. trib. Accio etiam item alia mota vel muta Buecheler item alto mulcta Ribb. 1-2-3 item alta moles Müller || 2. consimilem Ribb. consimile codd. | cantum et auditum codd. plerr. edd. cantum exauditu Bothe cantum atque auditum Merry È questo l ’ ultimo frammento citato da Cicerone e attribuibile con certezza al monologo iniziale del pastor, come i frr. 1 e 2 ai quali è accomunato anche dall ’ identità metrica. Anche qui il pastore accosta un dettaglio della nave a un ’ esperienza a lui nota 585 : in particolare, il canto e il suono che ode provenire dal monstrum gli appaiono del tutto simili al canto pastorale di Silvano. Alcuni editori 586 hanno unito i frr. 2 e 3 in un unico testo, del quale ritenevano facesse parte anche la sequenza item alia multa. Il problema che si pone in questo caso è che, così come è trasmessa, l ’ espressione non si armonizza nella sintassi del frammento, e si rende necessario intervenire sul testo. Le proposte, indicate in apparato, mirano a restituire il soggetto del verbo refert (v. 2), individuandolo sostanzialmente nella moles, esplicitamente (così correggeva il testo Müller 1898 583 Si è pensato, in particolare, a Ap. Rh. 4, 933 - 936 e Eur. El. 435ss. (Delage 1935, 113). Tralasciando il materiale epico, per il mondo latino, oltre al fr. 21 Bl. 2 di Levio già citato, su cui si veda almeno Courtney 1993, 135, si pensi almeno a Ov. epist. 18; Sen. Oed. 466. 584 La bibliografia relativa ai delfini è cospicua. Si ricordino almeno Saint - Denis 1935; 1947, 31s. (in cui è sottolineta la “ rapidité et bonds enjoués ” ); Wellmann in RE s. v. ‘ Delphin ’ . Soprattutto Keller 1887, 211 - 235: in particolare 215s. sulla descrizione del comportamento dei delfini che giocano attorno alle imbarcazioni; 216s. sulla presenza dei delfini su oggetti e monete, nonché come accessorio di abbellimento delle navi, in modo da riprodurre giochi d ’ acqua; sulla costruzione di navi con la forma di coda di delfino cfr. anche Stebbins 1929, 58. 585 Cfr. per l ’ interpretazione generale anche Baier 2002, 56. 586 La proposta, accolta da Ribbeck nelle sue edizioni dei frammenti (che correggeva con item alto mulcta) e difesa nella seconda, Corollarium LVIIs., ha avuto una certa fortuna, ma viene rifiutata dagli editori più recenti (e già da Zillinger 1911, 136). Fr. 3 169 <?page no="182"?> nell ’ edizione del de natura deorum) o per mezzo di un participio femminile (come mulcta di Ribbeck). L ’ espressione, tuttavia, può essere intesa come formula di introduzione della citazione in un contesto in cui i testi poetici sono inseriti in sequenza nel discorso ciceroniano e, come visto a proposito del fr. 2, introdotti con una certa variatio. Se, poi, si tiene conto del duplice ablativo assoluto che precede la citazione del fr. 2, iuvenibus visis auditoque nautico cantu, sembra che i due esempi siano riferibili l ’ uno al primo e l ’ altro al secondo elemento: in effetti, il movimento rapido dei delfini si adatta benissimo a un paragone con quello dei rematori, mentre questo frammento ‘ sonoro ’ è adatto al parallelo con il canto nautico. Per queste ragioni, si ritiene opportuno attribuire a Cicerone l ’ espressione item alia multa e considerarla una formula di passaggio che collega i due testi poetici, provenienti dallo stesso contesto ma non immediatamente consecutivi, tra i quali verisimilmente potevano esserci altre parole del pastore non riconducibili però al processo di accostamento tra ignoto e noto che è funzionale al discorso ciceroniano. Il risultato, forse, non è pienamente soddisfacente, in quanto il dettato che ne risulta appare come condensato e ci si aspetterebbe forse qualcosa come ut per completare il senso: ‘ e così molte altre espressioni come. . . ’ . Non sembra, tuttavia, giustificato, in linea di principio, attribuire ad Accio un ’ espressione che, pur con qualche difficoltà, appare spiegabile se considerata come formula introduttiva ciceroniana. Al v. 2, sembra necessaria la correzione del tràdito consimile in consimilem, seguendo Ribbeck; il singolare si intende come legato a senso a entrambi gli elementi della dittologia cantum et auditum, sulla quale non si ritiene necessario intervenire. Al v. 1 è particolarmente interessante l ’ accostamento dell ’ italico Silvano e del grecismo melo. Silvano è una divinità popolare legata alla natura e anche alla musica: un suonatore di syntonum (strumento che doveva essere simile alle moderne nacchere), seduto sulla sella syntoniacis, accompagnava con il suono i riti dedicati al dio, che viene rappresentato dai poeti 587 come dotato di fistula, un tipo di zampogna (diversamente, nell ’ iconografia il dio non sembra accostato alla musica: sono problematici alcuni casi in cui una figura dotata di syrinx potrebbe essere identificata con Silvano). Melo (che può rappresentare entrambe le forme melos e melus) è un grecismo (già neviano), come tale ricercato per necessità di precisione lessicale: ciò risulta tanto più evidente in quanto al verso successivo ricorre il più generico cantus 588 . 587 Su Silvano cfr. Dorcey 1992, 3; 20s. (definito patrono dei pastori in Verg. Aen. 8, 600s.; Hor. carm. 3, 29, 21s.; Prop. 4, 4, 11s., nonché nel materiale epigrafico); 93 e n. 57 (sulla sella syntoniacis cfr. in particolare CIL IX 2125 da Vitulano); 36 n. 14 (per l ’ attributo della fistula e il legame del dio con la musica in genere: Calpurnio Siculo 2, 28; Prop. 4, 4, 11; CIL IX 3375; CIL XII 103; CIL VIII 27764). 588 Cfr. Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 103s. La Medea sive Argonautae di Accio 170 <?page no="183"?> Al v. 2, cantum et auditum costituiscono una coppia che è fonicamente armonizzata nel verso per mezzo di uno schema di allitterazioni ABAB (consimilem aures cantum auditum), su cui interviene l ’ incisione semiquinaria. Infine, la locuzione ad aures . . . refert, come anticipato, è priva di un soggetto: alternativamente all ’ ipotesi della moles (vd. supra), si potrebbe forse pensare a qualcosa come ventus, anche sulla base del confronto con Verg. ecl. 3, 73 (partem aliquam, venti, divum referatis ad aures! ). L ’ espressione ad aures (o -is) referre è usata anche in contesti legati alla sfera del sacro (come si può notare sulla base del confronto con il passo virgiliano appena citato e con Catull. 63, 75: geminas deorum ad aures nova nuntia referens): il pastore potrebbe voler sottolineare, dunque, come il fenomeno sia qualcosa di ‘ divino ’ , di insolito, giustificando anche mediante l ’ uso di questo lessico il paragone con i canti rituali in onore del dio Silvano. Nelle Argonautiche di Apollonio Rodio gli elementi che legano Argo al suono sono sostanzialmente due 589 : a) la quercia parlante di Dodona, che si fa sentire in alcune fasi del viaggio argonautico e la cui presenza è attestata da varie fonti 590 : cfr. in particolare Ap. Rh. 1, 526s. ( ἐν γάρ οἱ δόρυ θεῖον ἐλήλατο , τό ῥ᾽ ἀνὰ μέσσην / στεῖραν Ἀθηναίη Δωδωνίδος ἥρμοσε φηγοῦ ) e 4, 580 - 583 ( αὐτίκα δ᾽ ἄφνω / ἴαχεν ἀνδρομέῃ ἐνοπῇ μεσσηγὺ θεόντων / αὐδῆεν γλαφυρῆς νηὸς δόρυ , τό ῥ᾽ ἀνὰ μέσσην / στεῖραν Ἀθηναίη Δωδωνίδος ἥρμοσε φηγοῦ ); b) la presenza in nave di Orfeo e dei suoi canti: nel prologo, dopo la menzione delle Muse è di Orfeo che si parla per primo (Ap. Rh. 1, 23 - 27: πρῶτά νυν Ὀρφῆος μνησώμεθα , τόν ῥά ποτ᾽ αὐτὴ / Καλλιόπη Θρήικι φατίζεται εὐνηθεῖσα / Οἰάγρῳ σκοπιῆς Πιμπληίδος ἄγχι τεκέσθαι / αὐτὰρ τόνγ᾽ ἐνέπουσιν ἀτειρέας οὔρεσι πέτρας / θέλξαι ἀοιδάων ἐνοπῇ ποταμῶν τε ῥέεθρα ) ed è al ritmo della sua cetra che si rema in 1, 540s. ( ὧς οἱ ὑπ᾽ Ὀρφῆος κιθάρῃ πέπληγον ἐρετμοῖς / πόντου λάβρον ὕδωρ , ἐπὶ δὲ ῥόθια κλύ ζοντο ) 591 . Se si tiene conto del senso generale del frammento acciano, in cui il canto proveniente dalla nave Argo è paragonato alle melodie pastorali di Silvano, non sembra improbabile pensare che il canto udito dal pastore fosse quello di Orfeo, celeberrimo Argonauta e mitico cantore. 589 Come nota anche Dangel 1995, 350. 590 Cfr. Ps. - Apollod. 1, 9, 16: κατὰ δὲ τὴν πρῷραν ἐνήρμοσεν Ἀθηνᾶ φωνῆεν φηγοῦ τῆς Δωδωνίδος ξύλον e Schol. Lycophr. 175. 591 I due elementi sono accostati dall ’ Ipsipile staziana in Theb. 5, 340 - 345 (ast ubi suspensis siluerunt aequora tonsis, / mitior et senibus cycnis et pectine Phoebi / vox media de puppe venit, maria ipsa carinae / accedunt. Post nosse datum est: Oeagrius illic / adclinis malo mediis intersonat Orpheus / remigiis tantosque iubet nescire labores). Fr. 3 171 <?page no="184"?> Fr. 4 (= fr. IV, 407 Ribb. 3 = fr. IV, 483 Dangel) tr 7 ego me extollo in abietem, alte ex tuto prospectum aucupo io mi arrampico su un abete; e dall ’ alto, da un punto sicuro, scruto la distesa marina Non. 467 M (= 748 L): aucupavi, activum positum pro passivo. Titinius Veliterna (151) . . . Plautus Truculento (964) . . . idem Menaechmis (570) . . . Ennius Medea (218) . . . Pacuvius Chryse (95) . . . Accius Astyanacte (165) . . . idem Medea (407): ego . . . aucupo. alte codd. altam Bothe | prospectum codd. recc. prospectans codd. vett. | aucupans Bothe dubitanter in app. Nonostante il frammento non sia trasmesso nello stesso contesto dei precedenti e sia costituito da un settenario trocaico (e non già, come gli altri, da un senario giambico), è verisimile pensare che appartenesse alla stessa scena: il pastore, dopo aver udito il canto, si arrampica su un abete per dare uno sguardo prospettico all ’ orizzonte da un punto sicuro. Il verso è trasmesso da Nonio a proposito del verbo aucupare. Prospectum dei codici più recenti è preferito al participio prospectans di quelli più antichi, che veniva scelto, invece, dai primi editori ed è ora proposto da Gatti - Salvadori 2014. Soprattutto il parallelo con Pac. trag. 96 Ribb. 3 (incipio saxum temptans scandere / vorticem, e summisque in omnis partes prospectum aucupo) 592 sembra confermare la lezione prospectum, per via del nesso con aucupare. Prospectum sembra preferibile anche per ragioni linguistiche: se pure il frequentativo prospecto ricorre spesso senza oggetto, esso ha in genere il significato di ‘ guardare a lungo ’ , ed è detto, per esempio, di sentinelle di guardia o di marinai o animali che continuano a guardare da un punto di osservazione il mare, una battaglia che si svolge o qualsivoglia altro evento 593 . Prospectum indica il colpo d ’ occhio dall ’ alto e ricorre in contesti simili a questo, per esempio, in Cic. Att. 12, 9; Catull. 64, 241; Verg. Aen. 1, 181 (in questi ultimi due passi il prospectum viene cercato salendo in un punto sopraelevato). Da un punto di vista metrico, inoltre, la scelta di prospectans implicherebbe una scansione bisillabica del secondo anceps e del terzo longum, mentre con prospectum (in sinalefe, e l ’ abbondanza di sinalefi nel verso potrebbe forse costituire un ulteriore segnale della correttezza di questa lezione) il secondo anceps sarebbe realizzato da una sola breve (e le altre tre brevi andrebbero a costituire l ’ intero terzo piede). Il settenario trocaico presenta incisione mediana preceduta da monosillabo prepositivo in sinalefe con quanto precede, abbinata a incisione 592 Proposto da Bothe nell ’ apparato della sua seconda edizione dei frammenti. 593 ThlL 10 / 2, 2203 - 04. La Medea sive Argonautae di Accio 172 <?page no="185"?> secondaria dopo il decimo elemento 594 . L ’ abbondanza di sinalefi (ben cinque) allunga il verso. Notevoli, sotto il profilo stilistico, il poliptoto iniziale ego me, che sottolinea la focalizzazione narrativa costituendo anche un elemento di pathos. Ciò è in linea con la coloritura sostanzialmente ‘ epica ’ di queste prime fasi del dramma (cfr. commento al fr. 1), ma sembra anche corrispondere a un interesse, riscontrabile nei tragici latini, per una più attenta caratterizzazione dei personaggi minori (per restare nell ’ ambito delle tragedie relative a Medea, basti pensare all ’ attenzione riservata da Ennio alla nutrice). Se extollere equivale a se erigere, con valore proprio, fisico, di salire, arrampicarsi 595 . La presenza dell ’ abies viene spiegata da Dangel come un elemento che permetterebbe la localizzazione della vicenda a Peuce 596 : l ’ idea potrebbe essere confermata dal tema stesso della tragedia, se si accetta l ’ ipotesi che il dramma comprendesse l ’ assassinio di Absirto (cfr. fr. 15*), ma sembra troppo vago il solo riferimento a un albero per poterlo dimostrare con certezza. D ’ altra parte, la scelta semantica dell ’ abies potrebbe essere interpretata anche come un omaggio al celebre abete del prologo di Ennio (tanto più interessante in quanto, come visto a proposito del fr. 1 enniano, la sostituzione del pino con l ’ abete, attuata da Ennio, rimane un unicum nella letteratura latina). Con un cumulo di riferimenti relativi all ’ altezza e alla sicurezza (alte ex tuto) si rappresenta un luogo elevato di osservazione, quali ce ne sono molti in tragedia (si pensi al racconto del messaggero relativo a Penteo nelle Baccanti di Euripide oppure, ancora, alla celebre scena della guardia nell ’ Agamennone eschileo 597 ) e in epica (significativo l ’ esempio delle scene di teichoskopia). La sottolineatura del tema della sicurezza, inoltre, tenendo conto della focalizzazione interna della persona loquens, implica un mantenimento ancora della condizione di paura e sbigottimento che caratterizza il pastore in tutto il contesto prologico. Il presente storico rende più immediata la percezione della vista prospettica, mentre la scelta di aucupare (qui con diatesi attiva, come nota Nonio) non sembra casuale in bocca a un pastore, essendo in origine legato alla sfera lessicale della caccia 598 . 594 Sul prepositivo si veda Questa 2007, p. 360. 595 ThlL 5/ 2, 2033, 29 - 34. 596 Come in Ap. Rh. 4, 310. Cfr. Dangel 1994, 350. 597 Un Penteo in posizione elevata per vedere, non visto, le Baccanti è descritto ai vv. 1095 - 1098 del dramma euripideo e dall ’ alto della torre parla il messaggero dell ’ Agamennone ai vv. 1 - 5 (su cui si veda il commento di Fraenkel 1950 ad loc.). 598 Cfr. recentemente Aricò 2013, 17 - 21. Fr. 4 173 <?page no="186"?> Fr. 5 (= fr. VI, 409 - 410 Ribb. 3 = fr. V, 484 - 485 Dangel) tr 7 < ̵× ̵ > vagant pavore, pecuda in tumulis deserunt. qui nos pascet postea? errano in preda al terrore, abbandonano le bestie nelle alture. Chi ci nutrirà d ’ ora in poi? Non. 159 M (= 234 L): pecua et pecuda ita ut pecora veteres dixerunt. Naevius Gymnastico (56) . . . idem Lycurgo (44) . . . Accius Astyanacte (177) . . . idem Medea (409): vagant . . . postea? Marcus Tullius de Republica lib. IV (1) . . . Accius Diomede (271) . . . Caecilius Imbriis (93) . . . Sisenna Historiarum lib. IV (76) . . . Non. 467 M (= 749 L): Vagas pro vagaris. Plautus in Milite (423) . . . Serenus in Opusculis (15) . . . Pacuvius Medo (225) . . . Accius Baccheis (235) . . . Turpilius Leucadia (121) . . . Accius Tereo (643) . . . item Medea (409) vagant . . . deserunt Ennius Hectoris Lytris (151) . . . Pacuvius Periboea (302) . . . Varro Pseudulo Apolline, περὶ θεῶν διαγνώσεως (438) . . . idem Hercules Tuam Fidem (215) . . . 1. <per campos> D ’ Antò <passim nunc> vel <passim tunc> Nosarti dubitanter | tumulo Urbin. 308 | deserunt codd. Non. 467 sederunt codd. Non. 159 sederet Urbin. 308 Non. 159 || 2. qui nos B A quis nos rell. codd. qui nobis Bothe dubitanter in app. quis quis vos Heinsius <A> qui vos Ribb. qui oves Dangel Dal momento che il frammento sembra riflettere molto da vicino Ap. Rh. 4, 316 - 318 ( εἱαμενῇσι δ᾽ ἐν ἄσπετα πώεα λεῖπον / ποιμένες ἄγραυλοι νηῶν φόβῳ , οἷά τε θῆρας / ὀσσόμενοι πόντου μεγακήτεος ἐξανιόντας ) 599 , lo stesso ipotesto dei frr. 1 - 3, è altamente probabile che debba essere collocato all ’ interno della scena prologica: qui il parlante descrive la paura del gruppo di pastori, che vagano per i campi abbandonando le greggi. Il testo è trasmesso due volte da Nonio (in 234 L in maniera più estesa, in 749 L solo il primo verso). I versi sono settenari trocaici incompleti (mutilo della parte iniziale il primo, di quella finale il secondo) 600 , il primo dei quali ha incisione mediana. A integrazione del primo verso sono state proposte varie soluzioni: per campos di D ’ Antò, che arricchirebbe lo schema delle allitterazioni, non rispetta la norma di Meyer, e potrebbe essere migliorato ex. gr. con perque agros 601 ; passim nunc (o tunc) di Nosarti, invece, si accorderebbe bene con il concetto di vagare e i loci paralleli a sostegno dell ’ ipotesi (che deve essere mantenuta comunque in 599 Si veda Livrea 1973, ad loc. Per i rapporti con Accio cfr. Delage 1935, 111. 600 La proposta di Lindsay è accolta unanimemente dalla critica: cfr. Nosarti 1999, 75. 601 Come propone Nosarti 1999, 75 n. 69. L ’ espressione sarebbe identica a quella del fr. 15*, v. 4 (cfr. infra). La Medea sive Argonautae di Accio 174 <?page no="187"?> apparato) sono numerosi 602 . Sempre al v. 1 sono i codici di 749 L a dare la lezione corretta deserunt, mentre sederunt è frutto di errore. Più complessa la questione relativa al nos del v. 2, tràdito unanimemente dai codici. L ’ accostamento con pascet, infatti, è sembrato strano e la critica è intervenuta sul testo. La proposta oves di Dangel semplifica il senso mantenendo il metro ed è giustificata dalla studiosa in quanto costituirebbe una resa di πώεα di Ap. Rh. 4, 316 603 , mentre per vos (soluzione ancora più economica paleograficamente) si crea il problema di trovare delle analoghe allocuzioni al gregge in ambito teatrale o anche epico. Si condivide la posizione di Timpanaro e Nosarti, mantenendo il testo tràdito: pascet, termine proprio della pastorizia, è usato con il valore traslato, molto testimoniato non solo in relazione a schiavi, di ‘ procurare da mangiare ’ 604 ; inoltre, se - come per i frammenti precedenti - il parlante è il pastor, l ’ uso di nos sarebbe pienamente conforme al tono del monologo e alla situazione emotiva che viene descritta. Condividendo l ’ interpunzione proposta da Dangel, si intende pavore legato a vagant in modo da staccare dopo l ’ incisione l ’ espressione della conseguenza del timore, cioè l ’ abbandono delle greggi 605 . Da notare la doppia allitterazione in ‘ p ’ (pavore pecuda nel primo, a cavallo dell ’ incisione, e pascet postea nel secondo verso). Fr. 6 (= fr. VIII, 412 - 413 Ribb. 3 = fr. VI, 486 - 487 Dangel) ia 6 < × ̵ × ̵ × ̵ > ut tristis turbinum toleraret hiemes, mare cum horret fluctibus perché resistesse alle violente e turbinose tempeste, quando il mare si rigonfia di flutti Non. 422 M (= 683 L): horrendum et horridum habent plurimam diversitatem. est enim horrendum taetrum et vitabile. Vergilius Aen. Lib. III (679) . . . horridum plerumque exstans et prominens et erectum. Vergilius Aen. Lib. IV (251) . . . Plautus in Pseudolo (68) . . . Accius Medea (409) ut . . . fluctibus. 602 Tra quelli riportati da Nosarti 1999, 75s., degni di nota soprattutto i due acciani: perque agros passim dispergit corpus (su cui cfr. infra, commento al fr. 15*) e v. 271 Ribb. 3 : passimque praeda pecua vallebant agris. 603 Dangel 1995, 350. 604 Timpanaro 1996, 206; Nosarti 1999, 76. Se si accettasse la correzione vos, invece, sarebbe opportuno pensare ad una Stimmung da epillio alessandrino, come suggerisce Degl ’ Innocenti Pierini 1999, 225 e n. 14. 605 Cfr. anche Nosarti 1999, 75. Fr. 6 175 <?page no="188"?> Lucilius Satyrarum lib. XVI (15) . . . M. Tullius de Republica lib. I (63) . . . idem de Republica lib. IV (6) . . . Varro epistula ad Caesarem . . . Sisenna Hist. lib. IV (104) . . . hiemes HPE 2 G hiemeris L hienis E 1 | horret codd. horreret Bothe Il frammento fa riferimento alla solidità della nave Argo, sottolineata in diversi luoghi delle Argonautiche di Apollonio Rodio (cfr. infra). La frequenza e la proverbialità del tema non sembrano fornire argomenti sufficienti per l ’ individuazione della persona loquens. Se si collega questo testo con il fr. 7 (su cui cfr. infra), si potrebbe pensare (in via del tutto ipotetica) a un discorso di Giasone, sbarcato sulla terra abitata dal pastore cui era affidato il prologo. Il testo è trasmesso da Nonio a proposito del significato di horridum (aggettivo che in realtà non è presente in Accio) con indicazione di autore e titolo del dramma. Al secondo senario (caratterizzato dalla presenza di ben tre elementi bisillabici: primo, quarto e sesto) i codici riportano la forma horret, corretta da Bothe in horreret. Modificando il testo si eviterebbe l ’ iato prosodico dopo cum (postulato già da Scriverius e Delrius), e la soluzione sarebbe più economica forse rispetto a quella prospettata dal Vossius (che proponeva l ’ inversione cum mare, privando il testo di una bella anastrofe), ma in ogni caso non necessaria. In assenza di un contesto metrico di riferimento più ampio, infatti, non sembra corretto in linea di principio modificare il testo tràdito per evitare un fenomeno, quello dell ’ iato prosodico, che non era assente nei testi drammatici latini di quest ’ epoca 606 . Notevole, sul piano fonostilistico, l ’ allitterazione trimembre in ‘ t ’ a cavallo dei due versi. Il tema di Argo come nave in grado di superare le tempeste è di ascendenza epica ed è trasferito nel genere drammatico sia da Accio che da Ennio. Turbo (o turben) ricorre insieme con hiems in Virgilio (georg. 1, 320 e 3, 470), e in genere gli è attribuito l ’ aggettivo ater. Accio lega qui l ’ allitterante tristis (con valore causativo) a hiems: il risultato è un nesso elaborato in una sorta di variatio (all ’ aggettivo tristis segue il genitivo plurale turbinum e i termini sono entrambi legati al medesimo sostantivo che ricorre in iperbato al verso successivo dopo il verbo allitterante toleraret). Anche altrove hiems ricorre con fluctus (qui all ’ ablativo strumentale) a proposito di tempeste in mare 607 . Horreo mantiene il suo valore materiale, in riferimento all ’ increspatura della superficie del mare 608 e, in connessione con cum fornisce una semplice indicazione temporale. Il tema della solidità di Argo è tradizionale e molto presente in Apollonio Rodio. In particolare, oltre alla fugace, e stereotipata, menzione prologica di 1, 4 606 Cfr. in particolare gli ammonimenti di Questa 1978, 135s. L ’ iato è postulato qui anche da Barabino 1980, 15; Lennartz 2003, 131s., n. 167. Su iato prosodico cfr. anche Questa 2007, 185 ss. Anche se stampano nel testo l ’ integrazione, anche Gatti - Salvadori 2014 preferiscono in apparato horret. 607 Per es. in Cic. Verr. 2, 91 (hiemi fluctibusque sese committere); Hor. epod. 2, 52 (Eois intonata fluctibus hiems); Val Fl. 2, 435 (laedere fluctu audet hiems). Cfr. ThlL 6/ 3, 2774, 34 - 84. 608 Cfr. ThlL 6/ 3, 2977, 52 - 54. La Medea sive Argonautae di Accio 176 <?page no="189"?> ( εὔζυγον Ἀργώ ), esso è ricordato in 1, 109 - 114 (il catalogo: αὐτή μιν Τριτωνὶς ἀριστήων ἐς ὅμιλον / ὦρσεν Ἀθηναίη , μέγα δ ' ἤλυθεν ἐλδομένοισιν· / αὐτὴ γὰρ καὶ νῆα θοὴν κάμε , σὺν δέ οἱ Ἄργος / τεῦξεν Ἀρεστορίδης κείνης ὑποθημοσύνῃσι· / τῶ καὶ πασάων προφερεστάτη ἔπλετο νηῶν / ὅσσαι ὑπ’ εἰρεσίῃσιν ἐπειρήσαντο θαλάσσης ); 2, 1184 - 1191 (il discorso di Giasone ad Argo: (. . .) πάρεστι δὲ τῆσδ’ ἐπὶ νηός / ἔνθα καὶ ἔνθα νέεσθαι ὅπῃ φίλον , εἴτε μετ ' Αἶαν / εἴτε μετ’ ἀφνειὴν θείου πόλιν Ὀρχομενοῖο . / τὴν γὰρ Ἀθηναίη τεχνήσατο καὶ τάμε χαλκῷ / δούρατα Πηλιάδος κορυφῆς πάρα , σὺν δέ οἱ Ἄργος / τεῦξεν· ἀτὰρ κείνην γε κακὸν διὰ κῦμ’ ἐκέδασσεν , / πρὶν καὶ πετράων σχεδὸν ἐλθέμεν αἵ τ ' ἐνὶ Πόντου / στεινωπῷ συνίασι πανήμεροι ἀλλήλῃσιν ); 3, 343s. (il discorso di Argo a Eeta: ἡ δ᾽ ἐνὶ γόμφοις / ἴσχεται , ἢν καὶ πᾶσαι ἐπιβρίσωσιν ἄελλαι ; questo passo è stato già proposto dalla critica come ipotesto per il frammento acciano 609 ). In tutti i casi, si fa riferimento agli aspetti miracolosi della costruzione della nave 610 e all ’ intervento divino: un cenno alla solennità dell ’ operazione era già in Ennio (cfr. fr. 1), e il tema è ripreso poi da Catull. 64. Fr. 7 (= fr. VII, 411 Ribb. 3 = fr. VII, 488 Dangel) ia 6 prima ex immani victum ad mansuetum applicans per prima, passando da un modo di vivere bestiale a uno civile Non. 323 M (= 506 L): inmane rursum minime bonum, [et] nocens. Accius Medea (411) prima . . . applicans. Vergilius Georg. lib. IV (458) . . . Accius Philocteta (560) . . . M. Tullius de Republica lib. III (32) . . . idem de Officiis lib. I (57) . . . Vergilius Aen. lib. I (347) . . . Varro Meleagris (299) . . . prima codd. primum Bothe primo Delrius | victum plerr. codd. victu Basil. (fortasse verius Ribb. 2 ) Il frammento sembra far riferimento al tema del progresso. La difficoltà di contestualizzazione è data dall ’ assenza di un soggetto espresso e di un verbo di forma esplicita. Rimane verisimile pensare a un collegamento con il tema della funzione civilizzatrice della prima nave, testimoniato da Catull. 64, 11 (illa rudem cursu prima imbuit Amphitritem) e opposto a quello, reso celebre da Seneca, del cosiddetto nefas argonautico 611 . Il testo del senario, trasmesso da Nonio a proposito del valore di immane con indicazione di autore e titolo, è sicuro; si può segnalare il trattamento consonantico 609 Delage 1935, 112. 610 L ’ intervento divino nella costruzione di Argo è presente anche nel fr. 57 Wyss (= 68 Matthews) della Lyde di Antimaco. 611 Così Dangel 1990, 114 - 116 e 1995, 350. Sul complesso problema della ‘ prima ’ nave (non solo in relazione a Catullo) cfr. Fernandelli 2012, XXVII e n. 32. Fr. 7 177 <?page no="190"?> della u di mansuetum, normale in tutti i composti di suesco 612 . Non sono necessari gli interventi proposti per prima: si potrebbe integrare il soggetto in qualsiasi modo (non si esclude - in via del tutto ipotetica - un riferimento alla nave Argo, primo veicolo di progresso per l ’ umanità, che avrebbe il conforto del parallelo con Catull. 64, 11), e anche Ribbeck in ultima analisi si decide per il mantenimento del testo tràdito. Victum della maggioranza dei codici va conservato: ex immani si può interpretare come ellittico di victu 613 ed è seguito da un ’ anastrofe (victum ad mansuetum), con la preposizione incastonata tra il sostantivo e l ’ aggettivo. Paleograficamente victu potrebbe essere spiegato come un errore meccanico, o si potrebbe pensare alla persistenza dell ’ ablativo dopo immani. In ogni caso, se si preferisse l ’ ablativo, l ’ espressione ellittica sarebbe ad mansuetum. L ’ incisione semiquinaria mette in evidenza l ’ opposizione semantica tra immanis e mansuetus, sottolineata anche dalla struttura del verso, in cui victum si trova esattamente al centro. L ’ opposizione tra bestialità e civiltà è espressa anche altrove mediante l ’ uso di immanis: cfr. per esempio Cic. Sest. 92 (atque inter hanc vitam perpolitam humanitate et illam immanem nihil tam interest quam ius atque vis) 614 . Ben diversa sarà la Stimmung del secondo coro della Medea senecana, in cui si fa riferimento al tema presentandolo come un nefas (vv. 301s.: audax nimium qui freta primus / rate tam fragili perfida rupit 615 ): Seneca sembra riprendere e rovesciare il tema della solidità della nave Argo (già presente in Apollonio e sviluppato da Accio al fr. 6, e in parte da Ennio nel prologo), insistendo invece sulla sua fragilità, e quello del progresso dell ’ umanità, deducibile da questo frammento, ma interpretandolo come un elemento di rottura dell ’ equilibrio naturale del cosmo. Fr. 8 (= fr. XII, 417 Ribb. 3 = fr. XIV, 495 Dangel) ia 8 tun dia Mede ’ s, cuius aditum exspectans pervixi usque adhuc? sei forse tu la divina Medea, aspettando il cui arrivo vissi fino ad ora? Non. 238 M (= 355 L): aditus rursum adventus. Accius Medea (417) tun . . . adhuc. M. Tullius ad Caesarem Iuniorem lib. I (fr. 1) . . . tun dia Mede ’ s Ribb. 2 - 3 tunc (tum L) diomedes et codd. tune Diomedes es Scriverius dubitanter in app. (in fabulae indice Diomedi, non Medeae dubitanter trib.) tun dia Medea es Passerat Ribb. 1 Dangel tun dic Medea es Lachmann tum alia Mede ’ s et cuius Lindsay | expectant codd. expectans Passerat 612 Cfr. almeno Lindsay, ELV 143; Questa 2007, 125; 174; 182. 613 Cfr. D ’ Antò 1980, ad loc. Lo studioso rinvia ai vv. 160, 402, 407 Ribb. 3 di Accio. 614 Ma anche Cic. leg. 2, 36 e nat. deor. 2, 148. Cfr. ThlL 7/ 1 439, 55 - 64. 615 Per questi versi cfr. Biondi 1984, 87 - 91. La Medea sive Argonautae di Accio 178 <?page no="191"?> Se si accolgono gli interventi testuali sulla prima parte del frammento (su cui cfr. infra), il verso sembrerebbe appartenere a un dialogo rivolto a Medea, che viene salutata come ‘ divina ’ da una persona loquens non identificabile, che l ’ ha attesa a lungo. La contestualizzazione è difficile: si può solo notare che l ’ argomento magico-religioso accomuna questo frammento al fr. 9, anche se ciò non implica necessariamente la loro appartenenza alla medesima scena, fatto verisimile (vista anche l ’ identità metrica) ma non dimostrabile. Il testo appare pesantemente corrotto nella prima parte. Per il tràdito tunc (o tum) diomedes et sono state proposte diverse soluzioni. Alcuni critici hanno tentato di mantenere il nome di Diomede: di conseguenza, o hanno assegnato il frustulo al Diomedes di Accio 616 oppure hanno cercato di individuare nel mito qualche elemento che ricollegasse questo personaggio a Medea (così Mette, che riporta un episodio che lega Oineo a Diomede, appunto, testimoniato da Pausania 617 ). In realtà, da una parte l ’ esplicita menzione del titolo Medea (storpiato in Meda in parte della tradizione) non sembra giustificare l ’ attribuzione del frammento al Diomedes, dall ’ altra l ’ episodio di Oineo e Diomede, come deve ammettere lo stesso studioso 618 , allontana molto da quella che sembra essere la trama della tragedia di Accio. Inoltre, il contesto noniano in cui è inserito il verso riporta in una serie di lemmi vicini tra loro anche altri frammenti del Diomedes (in particolare, v. 281 R. 3 e v. 279 R. 3 sotto il lemma ‘ adtendere ’ con menzione esplicita del titolo). Ciò potrebbe avvalorare l ’ ipotesi che diomedes sia frutto di un ’ alterazione del testo tràdito favorita dalla presenza di più frustuli provenienti dalla stessa tragedia. Sembra dunque opportuno correggere il testo del frammento e attribuirlo alla Medea. La soluzione di Ribbeck 3 (tun dia Mede ’ s) appare convincente. Sulla forma Mede, da preferire a Medea (accolta, però, ancora da Dangel), non pare si debba dubitare ancora. È ragionevole pensare che Accio abbia tenuto presente il fr. 10 della Medea di Ennio, in cui la forma da accogliere è proprio Mede 619 . Gioca a favore di questa lezione anche la sua posizione di rilievo all ’ interno dell ’ ottonario giambico, immediatamente prima dell ’ incisione dopo il quinto elemento (che è associata a quella dopo l ’ undicesimo, come in Plaut. Amph. 183 e 257 e Ter. Ad. 188 616 Così è stato proposto dallo Scriverius, dubitato dal Delrius, sostenuto da Bergk 1874, 347, e riargomentato da Lennartz 1994, 104. 617 L ’ ipotesi è di Mette 1964, 150, che fa riferimento a Pausania 2, 25, 2: Οἰνέα γὰρ τὸν βασιλεύσαντα ἐν Αἰτωλίᾳ λέγουσιν ὑπὸ τῶν Ἀγρίου παίδων ἐκβληθέντα τῆς ἀρχῆς παρὰ Διομήδην ἐς Ἄργος ἀφικέσθαι . 618 Mette 1964, 150: “ eine ganz andere Richtung aber führen die iambischen Oktonare . . . ” (lo studioso riconduce a questa scena anche alcuni altri versi), e, poco oltre (151): “ eine singuläre Kontamination ” . 619 Per ulteriori argomentazioni e passi paralleli cfr. supra, commento al fr. 10 di Ennio e nn. 257 e 258. A un omaggio di Accio a Ennio pensa Nosarti 1999, 77s. Fr. 8 179 <?page no="192"?> e 220 620 ). Importante anche l ’ accostamento con l ’ aggettivo dia 621 , che è entrato nella dizione poetica, in particolare epica, ma è originariamente un termine della sfera sacrale: ciò è perfettamente in linea con le analogie individuate tra la caratterizzazione di Medea a Roma e alcune figure ctonie quali Angitia (che è definita diivia in alcune epigrafi) 622 , e soprattutto può richiamare l ’ espressione dea dia tipica dei carmina 623 ; del resto, l ’ aspetto ‘ divino ’ di Medea è un tratto valorizzato molto anche nelle opere letterarie greche 624 . Infine, la correzione expectans di Passerat è necessaria per il senso. In pervixi il preverbio sottolinea il carattere perfettivo dell ’ azione. Si può notare una coloritura ‘ sacrale ’ nella struttura stessa della formulazione, in cui al nome proprio preceduto dall ’ attributo fa seguito una relativa (analogamente a quanto accade nella forma dell ’ inno) 625 . Il tono e il senso del frammento, in cui un personaggio saluta Medea dopo averla attesa a lungo, ricorda anche la situazione del fr. 15 del Medus di Pacuvio (al cui commento rimando). Fr. 9 (= fr. XIV, 419 Ribb. 3 = fr. XV, 496 Dangel) ia 8 principio extispicium ex prodigiis congruens ars te arguit in primo luogo l ’ arte congrua degli estispici ti rivelò dai prodigi Non. 16 M (= 23 L): extispices proprie aruspices dicti sunt, quod exta spiciant. Accius Medea (419) principio . . . arguit. Varro Serrano, περὶ ἀρχαιρεσιῶν (451) . . . extispicium (-tium G) codd. extispicum Scaliger plerr. edd. | te ars Bothe La contestualizzazione del frammento dipende dal senso che si attribuisce al termine arguit, da intendere piuttosto con il valore di ‘ rivelare ’ che con quello negativo di ‘ condannare ’ 626 . In ogni caso, il frustulo è avvicinato al fr. 8 da due elementi: la presenza di termini legati alla sfera sacrale (extispicium e prodigiis) e l ’ identità metrica. Si può dunque pensare che la persona loquens spiegasse che l ’ arrivo di Medea fosse stato annunciato da alcuni prodigi ed estispici. Il frammento è trasmesso da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma. La forma tràdita extispicium è stata corretta in genere in extispicum, ma 620 Cfr. Questa 2007, 350s. e n. 8. 621 Da preferire a dic, bella proposta di Lachmann, approvata anche da Leo 1910, 15. Sul valore di dia come termine a metà tra un grecismo e un calco (per l ’ esattezza come parola latina, il cui uso è influenzato da termini greci corradicali o quasi omofoni) cfr. Bagordo 2002, 41. 622 Per Angitia, cfr. introduzione generale, in particolare p. 10. 623 Si vedano anche Dangel 1995, 351 e Nosarti 1999, 78. 624 Si veda almeno Konstan 2008. 625 Cfr. Falcone 2013, 315s. 626 ‘ Condannare ’ intende Ribbeck 1875, 534. Per i valori di arguo cfr. ThlL s. v. La Medea sive Argonautae di Accio 180 <?page no="193"?> sembra possibile mantenerla (contra Mazzacane 2014). Mancano, infatti, motivazioni metriche cogenti: le due sillabe brevi spi-ci, infatti, occupano il quinto elemento dell ’ ottonario, un anceps (seguito da -um in sinalefe con ex) che verrebbe così ad essere bisillabico, come lo sono con certezza il secondo e l ’ ottavo elemento 627 . Inoltre, intendendo il termine come forma di genitivo plurale (e non già come nominativo singolare, sulla questione vd. infra), si ricorda che le desinenze -ium e -um si alternano in questa fase del latino. L ’ intervento sul testo e la correzione extispicum, d ’ altra parte, sono corroborati dal confronto con il frammento trag. inc. inc. 88 Ribb. 3 (inter se strepere aperteque artem obterere extispicum), in cui extispicum è correzione di Ribbeck per extispicium dei codici, qui opportuna e necessaria vista la posizione metrica in clausola di settenario trocaico. Sono questi gli unici due casi poetici in cui ricorre il termine: in assenza di ulteriori paralleli, non sembra forse necessario intervenire sul testo. Principio può avere valore temporale o seriale. Extispicium si può intendere come genitivo plurale di extispex, e in questo caso va legato in iperbato a congruens ars, oppure come nominativo singolare (soggetto di arguit, di cui congruens ars costituirebbe apposizione): la prima soluzione sembra preferibile tenendo conto del lemma noniano; inoltre, il termine extispicium ricorre per lo più al plurale (a quanto mi consta, unica occorrenza al singolare in Suet. Nero 56, 1, 10 628 ). Ars sembra assumere qui il valore di ‘ tecnica professionale ’ , come in Cic. div. 1, 11: duo sunt enim divinandi genera, quorum alterum artis est, alterum naturae. Sembra che ex prodigiis sia da intendere come legato al verbo arguit, sulla base del confronto con Apul. apol. 25, 5 (quin igitur etiam ex aliis plerisque (si parla di prodotti alimentari) me arguitis? ) e non a congruens. La struttura del verso, dunque, sembra essere caratterizzata dall ’ abbinamento di una figura di posizione con una di suono: da una parte, infatti, è presente un doppio iperbato intrecciato secondo una struttura ‘ ABAB ’ , dall ’ altra gli stessi elementi sono legati anche da una doppia allitterazione secondo uno schema ‘ aabb ’ : extispicium (A-a) ex prodigiis (B-a) / . . . ars (A-b) . . . arguit (B-b). Da notare, ancora, che l ’ ultima allitterazione in arisola di fatto al suo interno il pronome personale te, evidenziandolo. La menzione degli extispicia 629 costituisce un tratto di Romanisierung legata alla sfera rituale. Dunque, si deve immaginare una situazione in cui il personaggio parla di extispicia praticati in seguito ad alcuni prodigi che risultavano inspiegabili 627 Sulla particolarità di questi elementi in un verso con incisione dopo il nono elemento (caratteristica introdotta da Terenzio e presente anche nel fr. 16 della Medea di Accio) cfr. Questa 2007, 349. 628 Altre occorrenze del termine, meno frequente di haruspicina, in Plin. nat. 7, 203; Apul. Socr. 7; Cens. 4, 13. 629 Il rito è attestato tanto nel mondo greco, quanto in quelli etrusco e romano, e i rapporti tra queste due ultime esperienze sembrano essere molto stretti, tanto che si è parlato di sincretismo rituale tra la litatio romana e l ’ aruspicina etrusca: cfr. RE VII, 2449ss. (Thulin); Blecher 1905 (a pp. 181 - 192 le testimonanze sul rito etrusco-romano); Schilling 1962; Bloch 1963, passim. Fr. 9 181 <?page no="194"?> e dichiara che mediante questa tecnica è stato presagito l ’ arrivo di Medea. Ciò sembra pienamente in linea con le informazioni che abbiamo relativamente ai prodigia, che erano in genere di segno negativo e avevano in sé segni premonitori, che richiedevano un ’ espiazione rituale. Fr. 10 (= fr. XIII, 418 Ribb. 3 = fr. X, 491 Dangel) tr 7 qui potis est repelli quisquam, ubi nullust causandi locus? come può qualcuno essere scacciato, se non ha possibilità di difendersi? Non. 89 M (= 126 L): causari, causam dicere vel defendere. Accius Medea (418): qui . . . locus? . . . Afranius Emancipato (91) . . . Pacuvius Armorum Iudicio (23) . . . repelli codd. refelli Gulielmius Bothe dubitanter in app. | nullust Vossius nullus est codd. I frr. 10, 11 e 12 potrebbero rientrare in un dialogo tra Medea e Giasone, analogo forse a quello di Ap. Rh. 4, 350 - 409, contesto in cui la donna, spaventata all ’ idea di essere riconsegnata alla famiglia, elabora con l ’ eroe greco un piano per uccidere il fratello. In questo frammento, la persona loquens potrebbe essere Medea, che chiederebbe con ansia a Giasone se ha intenzione di cacciarla via. Non è individuabile un riscontro puntuale nei versi di Apollonio Rodio, ma il tono del primo discorso di Medea (vv. 350 - 380) potrebbe aver costituito la fonte di ispirazione per il poeta latino. Meno convincente l ’ ipotesi che si faccia riferimento al topos dell ’ impossibilità di rifiutare la persona amata 630 , soprattutto se si pensa alla drammaturgia della tragedia e alla caratterizzazione della protagonista quali si possono tracciare sulla base degli altri frammenti superstiti. Il parallelo con il contesto apolloniano, cui anche i frammenti successivi sembrano corrispondere - soprattutto per l ’ idea (molto feconda sul piano drammaturgico) dell ’ elaborazione di un piano nell ’ ambito di un dialogo tra Medea e Giasone - , rende molto verisimile la contestualizzazione proposta. L ’ ipotesto di riferimento va dunque tenuto presente soprattutto a livello macrotestuale, anche in assenza di precisi riscontri lessicali. Il testo è tramandato da Nonio con indicazione di autore e titolo dell ’ opera, Non sembra necessario intervenire sul tràdito repelli, anche se è stato generalmente 630 Marginalmente si può notare che il valore inerente alla sfera erotica sotteso alla traduzione di Argenio 1962, e illustrato nelle sue note di commento, è proprio esclusivamente di repelli ed è questo il termine che dunque lo studioso avrebbe dovuto stampare nella sua edizione (in cui ricorre, invece, refelli). La Medea sive Argonautae di Accio 182 <?page no="195"?> corretto con refelli 631 . Il verso è un settenario trocaico con incisione mediana preceduta da bisillabo pirrichio in sinalefe con quanto precede. La tradizione manoscritta presenta la forma ‘ sciolta ’ nullus est, ma l ’ aferesi - già notata dal Vossius - è necessaria. Qui ha valore avverbiale ed è inteso come ablativo strumentale dell ’ interrogativo quis 632 . Causari, motivo della citazione, ricorre nel latino arcaico solo nei passi riportati in questo lemma di Nonio (oltre ad Accio, cioè, in Afranio e Pacuvio). Repelli sembra avere qui il senso concreto di ‘ essere allontanato ’ , anche se non si può escludere del tutto il valore giuridico di ‘ essere confutato ’ . Fr. 11 (= fr. X, 415 Ribb. 3 = fr. XI, 492 Dangel) tr 7 exul inter hostis, exspes, expers, desertus, vagus esule in mezzo ai nemici, senza speranze né beni, abbandonato, errante Non. 12 M (= 18 L): exspes dicitur sine spe. Accius Eurysace (376) . . . idem Medea (415) exul . . . vagus. exspes L expes rell. codd. | exul Iunius exuli codd. La presenza degli aggettivi maschili costituisce un argomento interno a favore della contestualizzazione del frammento nello stesso dialogo del fr. 10: Medea, spaventata all ’ idea di essere abbandonata, minaccerebbe Giasone, augurandogli la tristissima condizione dell ’ esilio. Questa ipotesi sembra essere avvalorata anche dal confronto con Ap. Rh. 4, 381 - 387: σὺ δέ κεν θυμηδέα νόστον ἕλοιο; / μὴ τόγε παμβασίλεια Διὸς τελέσειεν ἄκοιτις , / ᾗ ἔπι κυδιάεις· μνήσαιο δὲ καί ποτ ' ἐμεῖο / στρευγόμενος καμάτοισι , δέρος δέ τοι ἶσον ὀνείρῳ / οἴχοιτ’ εἰς ἔρεβος μεταμώνιον· ἐκ δέ σε πάτρης / αὐτίκ’ ἐμαὶ ἐλάσειαν Ἐρινύες , οἷα καὶ αὐτή / σῇ πάθον ἀτροπίῃ (. . .) 633 . Il testo del frammento è tràdito da Nonio con l ’ indicazione di autore e titolo; exspes di L è forse da preferire, come confermato dalla grafia del lemma 634 ; exuli dei codici è senz ’ altro errato, originatosi dalla geminatio della vocale iniziale di inter. Si accoglie l ’ interpunzione proposta da Dangel. 631 Bothe 1834 2 , 213 in apparato ipotizza un passaggio grafico attraverso una forma rephelli, ma mantiene comunque nel testo repelli. Oltre che da Ribbeck 1-2-3 , refelli è preferito anche dagli editori di Nonio (cfr. Lindsay 1903 e ora Mazzacane 2014). 632 Sembra ancora valida la tesi esposta da Wichmann 1875 e Kienitz 1879; cfr. De Rosalia 1982 s. v. 633 Il parallelo è stato individuato già da Ribbeck 1875 e Delage 1935, 112s. 634 Exspes è scelto dagli editori di Accio, diversamente da quelli di Nonio (Lindsay 1903 e ora Mazzacane 2014). Fr. 11 183 <?page no="196"?> Il verso costituisce una descrizione caricata pateticamente della condizione dell ’ esule. Il pathos si realizza mediante il cumulo di aggettivi legati tra loro mediante figure di suono: exul apre il verso in posizione enfatica e si lega agli allitteranti exspes ed expers, la cui allitterazione iniziale è da intendersi, come ben precisato da La Penna, come una particolare forma di omeoarto, o ‘ apprefissazione ’ , nonché come la resa con mezzi latini di un topos già greco 635 ; gli ultimi due termini sono in omeoteleuto. La quasi totale coincidenza tra fine di parola e di piede metrico, inoltre, sembra creare un ritmo ‘ soffocato ’ , che esalta ulteriormente il cumulo sinonimico. Convenzionalmente porrei incisione mediana dopo l ’ ottavo elemento del settenario trocaico 636 , ma proprio la coincidenza tra piede e parola rende particolarmente difficile la collocazione delle cesure 637 : la libertà espressiva dell ’ attore verisimilmente trovava spazio in situazioni patetiche di questo tipo. Giasone è minacciato di subire tutto quello che Medea, ironicamente, effettivamente subirà (e che le elaborazioni precedenti ad Accio avevano evidenziato): egli si troverà in mezzo ai nemici (e in bocca a Medea ciò ricorda i numerosi nemici che la donna si lascia alle spalle durante la fuga: la famiglia che ha tradito, come già poco prima nel modello, Ap. Rh. 4, 377s., ma anche, per esempio, le figlie di Pelia, cfr. Medea exul, fr. 12); sarà privo di qualsiasi speranza (exspes) e di qualsiasi mezzo di sussistenza (expers); sarà abbandonato da tutti (desertus); sarà costretto a continui spostamenti (vagus) 638 . Del resto, il legame di Medea con il tema dell ’ esilio è presente già in altri frammenti tragici analizzati supra (Ennio, frr. 5; 9; 12; Pacuvio, fr. 8), con i quali questo frustulo acciano interseca la sua fortuna. Da segnalare la dipendenza da questo frammento di Lucilio, vv. 58s. K = 82s. M (non dico: ‘ vincat licet, et vagus exulet, erret, exlex ’ ) 639 e la presenza del tema delle minacce in Ov. epist. 6, 162 (erret inops, exspes, caede cruenta sua) e Sen. Med. 20s. (vivat. per urbes erret ignotas egens / exul pavens invisus incerti laris). 635 Cfr. La Penna 1990, in particolare 66. Lo studioso riporta numerosi loci paralleli. 636 Non sembra condivisibile l ’ interpretazione del verso come ottonario giambico con lacuna di indifferens iniziale proposta da D ’ Antò 1980. 637 Sulla difficoltà di analizzare le incisioni in versi privi di polisillabi cfr. Ceccarelli 1990, 12s. 638 Simili riferimenti all ’ esilio in Enn. scen. 22 Vahl. 2 = 16 Joc.: multis sum modis circumventus, morbo exilio atque inopia e Acc. trag. 333s. Ribb. 3 : nunc per terras vagus, extorris / regno, exturbatus mari . . . (accolgo l ’ interpunzione proposta da Nosarti 1999, 114ss.). 639 Il contesto è la critica di Lucilio al pathos eccessivo del teatro tragico latino. Sulla presenza di Accio in questo testo cfr. Barr 1965. La Medea sive Argonautae di Accio 184 <?page no="197"?> Fr. 12 (= fr. IX, 414 Ribb. 3 = fr. XII, 493 Dangel) ia 8 nisi ut astu ingenium lingua laudem et dictis lactem lenibus a meno che io con l ’ inganno non lodi con la lingua la sua indole e non lo seduca con parole dolci Non. 16 M (= 23 - 24 L): lactare est inducere vel mulgere, vellere, decipere. Accius Medea (414) nisi . . . lenibus. Pacuvius Iliona (211) . . . Caecilius Hypobolimaeo Rastraria (91) . . . Accius Alcimeone (66) . . . Varro ῎Ονος λύρας (360) . . . Cicero Tusculanarum lib. IV (16) . . . astu codd. † astu Scriverius | laudem codd. ludam Müller | et om. Delrius Il dialogo tra Medea e Giasone in Apollonio Rodio conduce all ’ elaborazione di un piano ai danni di Absirto, che viene ingannato dalla sorella e ucciso dall ’ eroe greco. Il confronto di questo frammento con Ap. Rh. 4, 411 - 418 640 sembra mostrare notevoli affinità (cfr. infra) e favorisce la contestualizzazione del frustulo nella stessa scena dei frr. 10 e 11. Medea si dichiarerebbe qui disposta a irretire il fratello, per attirarlo in una trappola mortale. Non c ’ è da dubitare del testo tràdito da Nonio (con indicazione di autore e titolo): non sembrano necessarie la congettura dello Scaligero, riportata nelle edizioni di Bothe e Ribbeck (ingenii fingam laudem dictis lactem mollibus vel lenibus), i dubbi relativi ad astu (forma su cui si veda infra), la proposta eludem per laudem avanzata da Heine nel ThlL (7/ 2, 855, 36) s. v. ‘ lacto ’ (che pure renderebbe più evidente il tema della fraus). Il verso è un ottonario giambico con incisione dopo il nono elemento, preceduta da monosillabo in sinalefe 641 . Si fa qui riferimento al tema dell ’ abilità retorica di Medea, di cui l ’ elaborazione stilistica del frammento sembra essere quasi un ’ esemplificazione e una celebrazione (per ulteriori osservazioni relative a questo tema e alla sua presenza in connessione con il mito di Medea a Roma cfr. quanto detto a proposito del fr. 9 di Ennio 642 ). Notevole l ’ elaborazione fonostilistica: i verbi sono in omeoteleuto e legati per allitterazione con lingua e lenibus; la struttura delle figure è chiastica (lingua laudem, ablativo strumentale-verbo / lactem lenibus, verbo-ablativo strumentale) e isola al suo interno dictis, a sua volta legato in iperbato a lenibus. 640 Φράζεο νῦν ( χρειὼ γὰρ ἀεικελίοισιν ἐπ’ ἔργοις / καὶ τόδε μητίσασθαι , ἐπεὶ τὸ πρῶτον ἀάσθην / ἀμπλακίῃ , θεόθεν δὲ κακὰς ἤνυσσα μενοινάς ) · / τύνη μὲν κατὰ μῶλον ἀλέξεο δούρατα Κόλχων , / αὐτὰρ ἐγὼ κεῖνόν γε τεὰς ἐς χεῖρας ἱκέσθαι / μειλίξω· σὺ δέ μιν φαιδροῖς ἀγαπάζεο δώροις , / εἴ κέν πως κήρυκας ἀπερχομένους πεπίθοιμι / οἰόθεν οἶον ἐμοῖσι συναρθμῆσαι ἐπέεσσιν . 641 Cfr. Questa 2007, 352s. 642 Sul tema della capacità persuasiva di Medea, peraltro tradizionale, evidenziata da questo frammento acciano cfr. Slater 2002, 293 e n. 13, che riporta il parallelo (suggeritogli da A. Bagordo) con gramm. 5 - 6 D. (dai Didascalica di Accio): *audax, *falsifica*, gnati mater pessimi / odibilis, natura impos, excors, ecfera. Fr. 12 185 <?page no="198"?> Il verbo lactare, frequentativo di lacio, è specifico per l ’ inganno e si trova altrove in Accio e Pacuvio 643 . Astu ricorre sempre all ’ ablativo in epoca repubblicana in Plauto, Terenzio, Pacuvio e Accio 644 . Sembra interessante in particolare la sua occorrenza all ’ interno della iunctura plautina docte atque astu (Most. 1069 e Poen. 111; a cui si può aggiungere docte atque astute di Rud. 928 e 1240), in cui il tema della sapientia retorica appare legato a quello dell ’ astuzia. Particolarmente interessante in questo caso risulta il confronto con alcuni elementi del modello greco: a) il termine μητίσασθαι (v. 412) sembra essere richiamato da astu a cui è accomunato dal riferimento all ’ ingegno e all ’ astuzia; b) μειλίξω (v. 416) è in posizione enfatica a inizio verso, in forte enjambement con il precedente; il verbo indica icasticamente l ’ abilità di ‘ addolcire ’ l ’ interlocutore e può essere riecheggiato nel frammento acciano da lactare, abbinato all ’ aggettivo lenibus (legato a dictis); c) ἐμοῖσι συναρθμῆσαι ἐπέεσσιν (v. 418): la posizione dei due termini al dativo, intervallati dal verbo, sembra essere rispecchiata da dictis lactem lenibus (qui, però, il sostantivo precede l ’ aggettivo, prosodicamente adatto in clausola). Fr. 13 (= fr. XI, 416 Ribb. 3 = fr. VIII, 489 Dangel) ia 6 perite in stabulis frenos immittens feris mettendo abilmente il morso ai cavalli nelle stalle Non. 307 M (= 478 L): ferus iterum ecus. Vergilius [Aen.] lib. II (51) . . . Accius Medea (416) perite . . . feris. stabuleis (vel -is) Urbin. 308 stabulo G Ribb. stabulae (vel -e) rell. codd. bis tabule Basil. instabilis Bothe in app. Il senario non è facilmente contestualizzabile. La principale difficoltà è dovuta all ’ interpretamentum dato da Nonio per il termine ferus, cui è attribuito il valore di ‘ cavallo ’ . Parte della critica, infatti, ha rifiutato questo significato, optando per un senso generico di belua 645 , che permetterebbe di riferire il frustulo ai dracones aggiogati al carro di Medea o ai tori domati da Giasone 646 . Tuttavia, in assenza di un contesto più ampio non sembra opportuno dubitare dell ’ interpretazione di Nonio, che è corretta nel caso virgiliano riportato nel medesimo lemma (Aen. 2, 51, a 643 Cfr. ThlL 7/ 2, 855. 644 Cfr. ThlL 2, 983. 645 Così De Rosalia 1982, 60, s. v. ‘ fera ’ . 646 Alla seconda ipotesi pensa Warmington 1936, 463, che ascrive il frammento a un dialogo tra Medea e Giasone, in cui la prima rinfaccerebbe all ’ eroe il suo aiuto nell ’ aggiogamento dei tori. La Medea sive Argonautae di Accio 186 <?page no="199"?> proposito del cavallo di Troia 647 ; il valore di ferus come cavallo ricorre anche in Aen. 5, 817s., iungit equos auro genitor, spumantiaque addit / frena feris manibusque omnis effundit habenas, in cui il soggetto è Nettuno). Del resto, nelle Argonautiche di Apollonio Rodio sono effettivamente menzionati alcuni cavalli straordinari in 4, 219 - 225 648 . Interessano, in particolare, gli ultimi due versi, in cui è citato Absirto che regge le redini. Si potrebbe supporre che Accio si riferisse a questi cavalli, dono del Sole, in un racconto relativo all ’ inseguimento da parte di Absirto e conseguentemente alla sua morte: una precisa contestualizzazione, tuttavia, rimane molto difficile. I codici trasmettono le forme stabulo e stabulis: la seconda sembra preferibile (e del resto è stata accolta da molti editori: Stephanus, Delrius, Bothe e Lindsay in particolare), viste le occorrenze sempre al plurale del termine in tragedia 649 . La sofisticata proposta di Bothe, instabilis, è da confinare in apparato: potrebbe essere legata, come forma di accusativo plurale, ai freni degli animali, ma da riferire in enallage agli animali stessi e dunque, pensando all ’ instabilità delle fiere, si comprenderebbe la peritia cui si fa riferimento nel frammento. Fr. 14 (= fr. V, 408 Ribb. 3 = fr. XIII, 494 Dangel) ia apud vetustam turrem vel tr presso la torre antica Prisc. GL II 336, 18: ‘ turrim ’ et ‘ turrem ’ ab hac ‘ turri ’ et ‘ turre ’ . Accius in Medea: apud . . . turrem. Il frammento, davvero troppo esiguo per essere collocato con certezza in un contesto, potrebbe forse fare riferimento al luogo in cui Absirto viene ucciso. Tràdito da Prisciano, sembra avere andamento giambico (forse preferibile) o trocaico se si scandisce apud come pirrichio (scansione frequente nei testi drammatici repubblicani 650 , in genere però con pronomi personali) con conseguente tribraco iniziale. 647 Su cui cfr. Speranza 1964, 18, ad ‘ feri ’ : “ frequente nei poeti, sostituisce il nome specifico di un animale, per lo più selvatico. Qui è detto del cavallo, per metterne meglio in rilievo la mole mostruosa ” . 648 ὁ δ’ εὐτύκτῳ ἐνὶ δίφρῳ / Αἰήτης ἵπποισι μετέπρεπεν οὕς οἱ ὄπασσεν / Ἠέλιος πνοιῇσιν ἐειδομένους ἀνέμοιο , / σκαιῇ μέν ῥ’ ἐνὶ χειρὶ σάκος δινωτὸν ἀείρων , / τῇ δ’ ἑτέρῃ πεύκην περιμήκεα , πὰρ δέ οἱ ἔγχος / ἀντικρὺ τετάνυστο πελώριον· ἡνία δ’ ἵππων / γέντο χεροῖν Ἄψυρτος . Il luogo è richiamato opportunamente da Dangel 1995, 350. 649 Pac. trag. 16, 121, 222 Ribb. 3 . Cfr. Castagna 1996, s. v. 650 Si vedano in proposito almeno Questa 2007, 92 - 94; Bettini 1990, 326 e bibliografia ivi citata. Fr. 14 187 <?page no="200"?> Turris è corradicale o calco del greco τύρσις (o della sua variante τύρρις attestata da Hsch. τ 1683 H. - C.) 651 . In Apollonio Rodio, il luogo in cui avviene il delitto è il tempio di Artemide (4, 452ss.), nello specifico il suo vestibolo (4, 471), ma la tradizione sulla vicenda è varia (cfr. fr. 15). Fr. 15* (= fr. inc. inc. XCII 165 - 171 Ribb. 3 ) tr 7 postquam pater adpropinquat iamque paene ut comprehendatur parat, puerum interea optruncat membraque articulatim dividit perque agros passim dispergit corpus; id ea gratia ut, dum nati dissipatos artus captaret parens, 5 ipsa interea effugeret, illum ut maeror tardaret sequi, sibi salutem ut familiari pareret parricidio dopo che il padre si avvicina e ormai è quasi sul punto di prenderla, in quel mentre ammazza il ragazzo e ne divide le membra spezzandole nelle articolazioni e disperde il corpo qua e là per la campagna; il motivo è far sì che, mentre il padre cerca di raccogliere le membra disperse, ella nel frattempo possa fuggire, perché il lutto lo faccia tardare nell ’ inseguirla, ed ella si procuri la salvezza mediante l ’ omicidio del fratello Cic. nat. deor. 3, 66 - 67: Hanc videlicet rationem, quam vos divino beneficio homini solum tributam dicitis, bestiae non habent; videsne igitur quanto munere deorum simus adfecti? Atque eadem Medea patrem patriamque fugiens: postquam . . . parricidio. Huic ut scelus sic ne ratio quidem defuit. 1. postquam plerr. codd. posquam A || 4. perque edd. peraque Vind. parque Erl. || 5. dissipatos codd. disputatos Leid. C dissupatos Ribb. | captaret codd. aptaret Kiessling artaret dubitanter Ribb. Sull ’ attribuzione dei settenari, trasmessi da Cicerone senza indicazione di autore e titolo del dramma, la critica è discorde 652 e si comprende la scelta prudente di 651 Cfr. LEW s. v.; vd. anche Dangel 1995, 351. 652 Alla Medea di Ennio pensano Osann 1816, 125; Bothe 1834 2 , 55; Warmington 1936, 600 (dubitanter); Rivoltella 2008, 8, che promette di approfondire le motivazioni in altra sede. Il frammento è ritenuto adespoto dalla maggior parte dei critici: tra gli altri, Klotz 1953, 343; Jocelyn 1967, 348 (con utile sintesi della questione), che non esclude del tutto la paternità enniana ( “ However in order to put them in the Medea exul on need only make the assumption that Ennius gave one of Euripides ’ choral odes a new content ” ); Arcellaschi 1990, 168 (che pensa a un contemporaneo di Cicerone); Schauer (TrRF 2012, adesp. 74); Filippi 2015, 208 (e n. 41). Ribbeck colloca il frammento tra gli incerta, ma ne propone (1875, 535) l ’ attribuzione ad Accio, accolta da Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 147 - 154; van der Bruwaene 1981, ad loc.; Mattiacci 1994, 60 - 62. La Medea sive Argonautae di Accio 188 <?page no="201"?> Schauer 2012 (TrRF) di mantenere il frammento tra gli adespota; nonostante le difficoltà legate soprattutto allo stile della narrazione, sembra verisimile pensare che il testo potesse appartenere alla Medea sive Argonautae di Accio sulla scorta delle considerazioni avanzate da Degl ’ Innocenti Pierini a proposito di Ov. trist. 3, 9, in cui evidenti riferimenti al prologo del dramma acciano rendono altamente probabile un ’ allusione allo stesso dramma anche per i versi che riguardano la morte di Absirto (vv. 27 - 34: atque ita divellit divulsaque membra per agros / dissipat in multis invenienda locis / (neu pater ignoret, scopulo proponit in alto / pallentesque manus sanguineumque caput), / ut genitor luctuque novo tardetur et, artus / dum legat extinctos, triste retardet iter. / inde Tomis dictus locus hic, quia fertur in illo / membra soror fratris consecuisse sui) 653 . Pur riconoscendo la problematicità dell ’ attribuzione, si è scelto di inserire il testo all ’ interno della sequenza dei frammenti della Medea acciana, e di collocarlo prima dei frr. 16 e 17, che sembrano descrivere la disperazione di Eeta, e 18, sul rovesciamento della sorte. Il frammento è citato da Cicerone subito dopo il fr. 9 della Medea di Ennio (al cui commento rimando per ulteriori informazioni sul contesto di trasmissione), ed è seguito da celebri versi dell ’ Atreus di Accio. A parte qualche varia lectio di scarso interesse, il testo è sicuro, e non è necessario intervenire sul tràdito captaret. La scena è parafrasata dallo stesso Cicerone anche nella pro lege Manilia, in cui la fuga di Medea che disperde le membra del fratello per rallentare l ’ inseguimento del padre è paragonata a quella di Mitridate, che riesce a fuggire distraendo i Romani con oro e argento (22) 654 : primum ex suo regno sic Mithridates profugit ut ex eodem Ponto Medea illa quondam fugisse dicitur, quam praedicant in fuga fratris sui membra in eis locis qua se parens persequeretur dissipavisse, ut eorum conlectio dispersa maerorque patrius celeritatem consequendi retardaret. Sic Mithridates fugiens maximam vim auri atque argenti pulcherrimarumque rerum omnium quas et a maioribus acceperat et ipse bello superiore ex tota Asia direptas in suum regnum congesserat in Ponto omnem reliquit. Haec dum nostri conligunt omnia diligentius, rex ipse e manibus effugit. Ita illum in persequendi studio maeror, hos laetitia tardavit. I versi sono settenari trocaici, il primo dei quali incompleto. Le incisioni (al v. 3 quasincisione) sono tutte mediane, e ai vv. 2 e 6 seguono monosillabo in sinalefe. Da un punto di vista sintattico, il testo risulta bipartito: mentre nella prima parte (vv. 1 - 4), con l ’ eccezione di paro ut e congiuntivo (costrutto abbastanza presente nei testi drammatici, si veda Pacuvio fr. 28), prevale la paratassi, la seconda 653 Degl ’ Innocenti Pierini 1980, 147 - 154. L ’ ipotesi è corroborata da Mattiacci 1994, 60 - 62 che offre nuove argomentazioni legate alla fortuna del frammento in Apul. Met. 7, 26 (sulla morte di un puer). Ovidio fa riferimento all ’ episodio anche in epist. 6, 129s.: spargere quae fratris potuit lacerata per agros / corpora, pignoribus parceret illa meis? 654 Sul contesto dell ’ orazione in cui Cicerone perora l ’ imperium per Pompeo cfr. Jonkers 1959, 35s.; Torelli 1982, in part. 24s.; Montecalvo 2006, 447s. Fr. 15 189 <?page no="202"?> (vv. 5 - 7) è ipotattica e caratterizzata dalla presenza di ut polisindetico. Il legame tra le due sezioni è costituito da id ea gratia (v. 4), in cui il pronome id è anaforico e l ’ espressione ea gratia ha, al contrario, funzione prolettica. Al v. 3 si può notare come la scelta di un verbo quale optrunco (frequente anche in Plauto 655 ) sia in linea con lo stile espressionistico del frammento: esso ricorre (nella variante senza assimilazione obtrunco) anche in Verg. Aen. 2, 663 (gnatum ante ora patris, patrem qui obtruncat ad aras) e 3, 332 (patriasque obtruncat ad aras), e che il secondo di questi versi viene utilizzato nel centone di Osidio Geta (v. 297) per descrivere l ’ infanticidio di Medea. Ai vv. 3 - 4 il poeta si sofferma sul tema, ripreso al v. 5 dall ’ espressione dissipatos artus, della disarticolazione delle membra, divelte e smembrate (articulatim) e poi sparse per i campi: l ’ espressionismo della scena, con il gusto per la precisione del dettaglio tipico del teatro latino di età repubblicana, ha in nuce già quella violenza che caratterizzerà scene quale quella dell ’ uccisione dei figli di Tieste nell ’ omonima tragedia di Seneca. In particolare sono da notare, oltre all ’ insistenza fonica sulla labiale sorda, l ’ uso - raro in poesia - dell ’ avverbio articulatim; la ripetizione del prefisso dis; il pleonasmo perque agros passim; la posizione enfatica di corpus alla fine del periodo (e subito dopo l ’ incisione). La connessione del sostantivo artus con verbi a prefissazione disricorre anche in altri contesti analoghi, per es. nel v. 159 R. 3 del Dulorestes di Pacuvio, in cui artus distrahere indica una tortura corporale: clausam et fatigans artus torto distraham. Al v. 5 interessante risulta l ’ ordo verborum, che isola all ’ inizio e alla fine della frase i due sostantivi che indicano il rapporto familiare (nati e parens); il frequentativo captaret, poi, retto da dum, esprime l ’ idea di un tentativo che richiede del tempo e anticipa così il concetto della facilitazione della fuga, espresso ai versi successivi. Al v. 6 si può notare che, come nel v. 3, interea è preceduto da sinalefe ed è in sinalefe esso stesso con la lunga che segue: ordo verborum e struttura metrica contribuiscono a veicolare il messaggio che l ’ efferato crimine commesso da Medea è finalizzato alla propria fuga e alla propria salvezza. Inoltre, al di là della sottolineatura del tema del maeror 656 , elemento importante per la caratterizzazione di Eeta nel dramma acciano (come si vedrà a proposito dei frr. 16 e 17, ma anche 18), si può notare anche che l ’ infinito sequi è allitterante con i due termini iniziali del verso successivo (sibi salutem), il primo dei quali è opposto enfaticamente a illum del v. 6 (in fine di emistichio con ut in sinalefe). Il v. 7 si apre con l ’ allitterazione in ‘ s ’ e si chiude con quella in ‘ p ’ (pareret parricidio), evidenziata dalla sapiente distribuzione delle parole nel verso, con i termini chiave familiari e parricidio (da riferire all ’ uccisione di parenti in generale, 655 Spesso con funzione parodica, cfr. Rivoltella 2008. 656 Dettaglio che viene valorizzato anche da Cicerone nel passo della pro lege Manilia riportato sopra, in cui ricorre l ’ espressione maerorque patrius. La Medea sive Argonautae di Accio 190 <?page no="203"?> e dunque anche di fratelli, non necessariamente di genitori 657 ) in posizione enfatica rispettivamente a fine emistichio e fine verso. L ’ espressionismo contribuisce a rappresentare l ’ efferatezza del crimine ai danni di Absirto, episodio importante del mito di Medea (su cui cfr. introduzione, p. 19s.). In questi versi si riprende l ’ elemento dello smembramento con lo scopo di rallentare l ’ inseguimento di Eeta, ma con una interessante e rilevante differenza rispetto alle fonti a noi note: il corpo di Absirto, infatti, viene disperso nei campi (per. . . agros, v. 4) e non già, come nella tradizione precedente, in acqua (che si tratti di fiume o di mare). Non si può essere certi del fatto che nel dramma acciano il fratello di Medea fosse senz ’ altro un bambino 658 , anche perché il valore di puer (v. 3) non esclude la possibilità di un riferimento a un giovane uomo 659 (e giovane è definito Absirto anche nello scolio ad Ap. Rh. 4, 223 - 230, riportato nell ’ introduzione, p. 19s.). Se a ciò si aggiunge quanto osservato a proposito della possibile contestualizzazione dei frr. 12, 13 e 14, si ritiene verisimile pensare che Medea abbia ucciso il fratello, che la stava inseguendo, dopo averlo ingannato, e che dunque Accio abbia in qualche modo ‘ contaminato ’ i diversi rami della tradizione mitografica. L ’ ipotesi, come è ovvio, non è dimostrabile, ed è naturalmente connessa con la questione dell ’ attribuzione dei versi alla tragedia acciana, ma gli indizi che potrebbero appoggiarla sembrano tuttavia da tenere in considerazione. Fr. 16 (= fr. XVI, 421 Ribb. 3 = fr. XVI, 497 Dangel) ia 8 pernici orbificor liberorum leto et tabificabili a causa di una morte rapida e che porta a consunzione sono privato dei figli Non. 179 M (= 263 L): tabificabile vel tabificum. Accius Medea (421) perneici . . . tabificabili. Cicero Tusculanarum lib. IV (36) . . . pernici Gulielmius par neci (neti L) codd. Delrius perneici Müller | leto codd. lecto B A I frr. 16 e 17 potrebbero appartenere ad una tragica scena che vedeva come protagonista Eeta, la cui sorte era stata completamente rovesciata. Il re sembrerebbe fare riferimento alla perdita dei suoi due figli (ma sui problemi legati a questa interpretazione cfr. infra). 657 E anzi l ’ uso si estende agli omicidi in generale; cfr. in proposito Neue Pauly s. v. ‘ parricidium ’ . 658 Così Pease 1958, 1146. 659 Il valore usuale è riferito a bambini e adolescenti fino a 17 anni (cfr. ThlL X/ 2, 2512, 26 - 49), ma sono attestati anche casi relativi a ragazzi un po ’ più grandi (per es. CIL XIV 5238, 19 anni; CIL XI 7564, 22 anni). Fr. 16 191 <?page no="204"?> Il frammento, tràdito da Nonio con indicazione di autore e titolo, restituisce un ottonario giambico con incisione dopo il nono elemento 660 , a ponte della quale si situano i due termini allitteranti liberorum e leto. L ’ economica correzione pernici per il tràdito par neci sembra senz ’ altro da accettare. Un problema esegetico è dato dalla presenza del plurale liberorum per il quale sono state proposte diverse soluzioni: si è pensato a) alla morte di due figli di Eeta, intendendo dunque il plurale con valore proprio; b) all ’ uso poetico di un plurale in luogo del singolare, con funzione di incremento del pathos; c) alla perdita dei due figli a causa della morte di Absirto, di cui Medea si è resa colpevole: dunque un unico omicidio avrebbe privato Eeta di entrambi i figli 661 . Il verso è caratterizzato dalla presenza di due hapax, orbificor e tabificabilis, entrambi composti con lo stesso radicale di facio. Particolarmente interessante e utile ai fini dell ’ interpretazione e della contestualizzazione del frammento risulta essere la presenza del tema dell ’ orbitas, non raro sulle scene latine: orbus non indica soltanto la privazione conseguente alla morte, quanto piuttosto la privazione in generale (di solito di un consanguineo) 662 e dunque l ’ uso del verbo orbificor non sembrerebbe ostacolare l ’ interpretazione in base alla quale Eeta farebbe riferimento alla perdita sia di Absirto, in seguito alla sua uccisione, sia di Medea. Il lungo aggettivo, d ’ altra parte, indica esplicitamente la rapida consunzione causata dalla morte e potrebbe creare qualche difficoltà per questa ipotesi, dal momento che sembra focalizzare l ’ attenzione soprattutto sul cadavere di Absirto. 660 Come nel fr. 9 del medesimo dramma. 661 Per la prima ipotesi cfr. Ribbeck 1875; per la seconda cfr. Schierl 2002, 279s. La terza ipotesi, che sembra la più verisimile, è di Baier 2002, 54. Tenendo conto del fatto che l ’ aggettivo pernix è detto della fuga in Apul. Met. 5, 21, 2 (a proposito delle sorelle di Psiche) e che alla velocità di una corsa potrebbero far pensare anche Plaut. Mil. 630 (clare oculis video, pernix sum pedibus, manibus mobilis) e Men. 867 (cursu celeri facite inflexa sit pedum pernicitas), si potrebbe forse ipotizzare un ’ integrazione <fuga> nel verso precedente, con una strutturazione fonostilistica del verso tale da isolare in posizione enfatica nel centro liberorum, allitterante con leto, e da far coincidere il secondo emistichio del verso con l ’ unità sintagmatica. L ’ ipotesi risolverebbe il problema della presenza del plurale ma non sembra tuttavia accettabile per via di alcuni problemi: innanzitutto, la scarsità di attestazioni relative a pernix; poi, il fortissimo enjambembent che si dovrebbe presupporre (generalmente non frequente nei versi lunghi); infine, e la considerazione sembra decisiva, la necessità di intendere in anastrofe ‘ leto et ’ , secondo una struttura che non risulta mai attestata per il latino arcaico. Dunque, il testo tràdito deve essere mantenuto e ritenuto completo. 662 Per il concetto di orbitas cfr. ThlL s.v., IX, 2, 921, 74 - 923, 4. La Medea sive Argonautae di Accio 192 <?page no="205"?> Fr. 17 (= fr. XV, 420 Ribb. 3 = fr. IX, 490 Dangel) tr 7 lavere salsis vultum lacrumis. . . bagnare il volto di lacrime amare Non. 504 M (= 810 L): lavere inde (scil. a lavit pro lavat) tractum est. Naevius Danae (6) . . . Ennius Telamone (283) . . . idem Hecuba (164) . . . Lucretius lib. V (950) . . . Accius Medea (420) lauere . . . lacrumis. Varro ᾽Ανθρωποπόλει , περὶ γενεθλιακῆς (39) . . . idem ῾Εκατόμβῃ , περὶ θυσιῶν (94) . . . Afranius Suspecta (302) . . . lacrimis Bamb. Presa coscienza della perdita dei figli (fr. 16), Eeta si abbandonerebbe a un pianto amaro 663 : il tema del rovesciamento della sorte (presente nel fr. 18), legato in genere alle figure reali, sembrerebbe sostenere questa contestualizzazione. È però altrettanto probabile pensare alle lacrime di Medea, nel momento in cui pensa di essere riconsegnata ai Colchi 664 , poco prima della fuga da casa 665 , o dopo l ’ uccisione del fratello 666 : la caratterizzazione della protagonista in Apollonio Rodio, infatti, rende molto probabile il riferimento a Medea in un contesto di pianto. Il frammento è tràdito da Nonio con indicazione di autore e titolo del dramma. Il testo è sicuro; sono da segnalare solo alcune varianti grafiche relative a lacrumis 667 . Si interpreta il verso come settenario trocaico incompleto, vista la presenza di tribraco iniziale 668 . I termini lavere e lacrumis sono legati tra loro da allitterazione, e ricorrono spesso insieme nei tragici latini 669 . Oltre a Acc. trag. 578 Ribb. 3 (salsis cruorem guttis lacrimarum lavit) e Afr. com. 322 Ribb. 3 (viden tu lavere lacrimis me tuum collum, pater? ), particolarmente interessante appare il confronto con due loci enniani, rispettivamente dal Cresfonte e dal Telamone: ai vv. 131s. Vahl. 2 = 138s. Joc. (neque terram inicere. . . / mihi licuit miserae, neque lavere lacrimae salsae sanguinem), infatti, si farebbe riferimento ad un personaggio (Merope) che non è in grado di tributare gli onori funebri ai suoi cari defunti, mentre in scen. 311 Vahl. 2 = 276 Joc. (strata terrae lavere lacrumis vestem squalam et sordidam) si tratterebbe 663 Così interpreta anche D ’ Antò 1980, ad loc. 664 Così intende Dangel 1995, ad loc. Si veda Ap. Rh. 4, 1062 - 1067 e Livrea 1973, ad loc., che parla di immagine tragica, facendo riferimento a Eur. Hel. 633. 665 Come, per esempio, in Ap. Rh. 4, 34. 666 Cfr. Ap. Rh. 4, 750s. 667 ThlL 7/ 2, 836, 29s. s. v. ‘ lacrima ’ , nota le frequenti variazioni anche nei codici più antichi. 668 Cfr. Questa 2007, 242. 669 Cfr. anche Jocelyn 1967, 281. Fr. 17 193 <?page no="206"?> di Eribea a proposito del figlio Aiace 670 . La connessione delle lacrime con scene di morte (e di morte violenta) che risulta dal confronto con questi frammenti potrebbe supportare l ’ ipotesi che si tratti qui di un padre che piange la morte del figlio (o, meglio, la perdita dei figli, cfr. fr. 16). La iunctura ‘ salsae lacrumae ’ (o guttae) è propria del linguaggio poetico 671 . Fr. 18 (= fr. XVII, 422 - 423 Ribb. 3 = fr. XVII, 498 - 499 Dangel) an 4 fors dominatur, neque vita ulli propria in vita est. la sorte regna sovrana, e nessuno, finché vive, ha un tenore di vita stabile Non. 361 M (= 574 L): proprium rursum significat perpetuum. Sisenna Hist. lib. IV (67) . . . Plautus Cistellaria (Most. 225) . . . Vergilius lib. VI (871) . . . idem lib. III (85) Terentius in Andria (959) . . . Accius Armorum Iudicio (159) . . . idem Medea (422) fors . . . est. Lucilius Satyrarum lib. XVII (13) . . . M. Tullius de Republica lib. IV (5) . . . Afranius Vopisco (358) . . . Lucilius lib. XXVII (6) . . . ulli codd. illi G | quicquam ulli / proprium Ribb. 2 L ’ andamento sentenzioso del frammento anapestico sembra supportare l ’ ipotesi che i versi fossero pronunciati (forse dal coro? ) nel finale della tragedia, in riferimento al rovesciamento della sorte occorso a Eeta. Il testo del frammento, tràdito da Nonio a proposito del valore di proprium, è sicuro. La proposta di intervento avanzata da Ribbeck nella seconda edizione è superata dallo stesso studioso e in effetti non è necessaria. Già a partire da Bothe i versi sono stati interpretati come quaternari anapestici. Nel primo, acataletto, è da notare dieresi preceduta da un longum (soluzione più normale rispetto al bisillabo), mentre secondo e quinto elemento (rispettivamente un longum e un anceps) sono realizzati con due brevi. Il secondo verso è mutilo della seconda parte. Si potrebbe pensare che i versi facessero parte di una serie anapestica κατὰ σύστημα 672 e la struttura metrica potrebbe confermare l ’ ipotesi che ci si possa trovare di fronte ad un brano affidato al coro. L ’ andamento sentenzioso dei versi è indubbio 673 e la vicinanza all ’ esodo di molti drammi euripidei favorisce la collocazione del frammento nel finale della 670 Per la contestualizzazione di questi frammenti rinvio al commento di Jocelyn 1967 ad locc. Si spinge forse troppo in là D ’ Antò 1980, 366, che ritiene il frammento della Medea acciana un ’ evidente ripresa del v. 139 Joc. di Ennio. 671 Cfr. anche De Rosalia 1983. 672 Sugli anapesti si veda, oltre a Questa 2007, 447 ss., soprattutto Boldrini 1984. 673 Si vedano in proposito Tosi 1991, 390s. (soprattutto sulla prima parte del frammento e sul tema del dominio della sorte, accostato anche a Plaut. Capt. 304s.; Sall. Cat. 8,1; Caes. Gall. 6, 30); Scafoglio 2010, 168s. La Medea sive Argonautae di Accio 194 <?page no="207"?> tragedia. Notevole l ’ uso del poliptoto vita / in vita. Il tema cui si fa riferimento è quello del dominio della sorte e del rovesciamento delle condizioni umane, mai eterne. Qualche difficoltà si pone tenendo conto del valore che Nonio attribuisce a proprium (inteso dal grammatico come perpetuum), che viene invece considerato nel significato più usuale di possesso da gran parte della critica moderna, che dunque ritiene errata l ’ interpretazione noniana 674 . Una vicinanza di senso tra proprius e perpetuus si può evidenziare in diversi luoghi a partire da Cic. pro lege Manilia 48 (proprium ac perpetuum) e uno slittamento da ‘ in proprio possesso ’ a ‘ perpetuo ’ si trova in varie occorrenze virgiliane (ecl. 7, 31; Aen. 3, 85 e 167 e 6, 871). Una possibile soluzione al problema potrebbe essere offerta se ci si concentra sulla presenza del poliptoto vita in vita. Accio, cioè, potrebbe aver voluto ‘ giocare ’ con i possibili significati del termine vita: la prima occorrenza, dunque, potrebbe essere intesa come ‘ modo di vita ’ , ‘ stile di vita ’ o simili, dunque con valore traslato, come sinonimo di victus (attestato, per es., in Plaut. Stich. 462: nam ut illa vitam repperit hodie sibi; Trin. 477: neque illi concedam quicquam de vita mea); la seconda, invece, avrebbe senso proprio. Non si farebbe riferimento, perciò, al possesso reale e materiale della vita, ma piuttosto alla stabilità, all ’ eternità delle condizioni di vita per tutto l ’ arco di tempo che è concesso di vivere, e dunque al tema - molto presente sulle scene latine 675 - del rovesciamento della sorte con un nesso più comprensibile con la prima parte del frammento (fors dominatur). Non stupisce, del resto, la presenza di simili giochi verbali in un testo drammatico: basti ricordare il celebre esempio dell ’ enigma della testudo nell ’ Antiopa di Pacuvio (vv. 2 - 8 Ribb. 3 ) 676 . 674 Per esempio da Dangel 1995, ad loc. (che rinvia a Ov. epist. 12, 35) e Scafoglio 2010, 168 il quale offre la seguente traduzione italiana del frammento: “ il caso impera su tutto e nessuno nella vita è padrone della vita ” . 675 Si pensi almeno alla complessa questione relativa al celebre frammento di Pac. trag. XIV, 366 - 375 Ribb. 3 (da attribuire al Chryses). 676 Su cui si veda Schierl 2006, 107 - 110 (ampia casistica sul tema degli enigmi in Monda 2012). Fr. 18 195 <?page no="209"?> Bibliografia Edizioni critiche dei frammenti STEPHANUS 1564 = R. et E. Stephanus, Fragmenta veterum poetarum Latinorum, s. l. [ma Parigi] 1564. COLUMNA 1590 = Q. Ennii Poetae Vetustissimi Quae Supersunt Fragmenta Ab Hieronymo Columna Conquisita Disposita Et Explicata Ad Ioannem Filium, Neapoli 1590. DELRIUS 1593 = Martini Antonii Delrii ex Societate Iesu Syntagma Tragoediae Latinae . . ., Antuerpiae 1593. SCRIVERIUS 1620 = P. Schrijver, Collectanea veterum tragicorum. . ., Lugduni Batavorum 1620. VOSSIUS 1620 = G. I. 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Ribbeck 3 D ’ Anna Schierl TrRF 1 II, 219 - 220 III, 253 - 254 162 2 XVI, 235 XXVIII, 287 188 3 I, 218 V, 256 161 4 III, 221 I, 251 163 5 VIII, 226 II, 252 165 6 IV, 222 IV, 255 168 7 VI, 224 VI, 257 169 8 VII, 225 VII, 258 164 9 X, 228 VIII, 259 166 10* inc. XXXV, 396 XIII, 265 175* 11* — — — 12 inc. XXXVI, 397 IX, 260 171*** adesp. 11 13 XI, 229 X, 261 172 14 XII, 230 - 231 XI, 262 - 263 173 15 XIII, 232 XII, 264 174 16 XVII, 236 XV, 267 176 17 XVIII, 237 XIV, 266 177 225 <?page no="238"?> Fr. Ribbeck 3 D ’ Anna Schierl TrRF 18 V, 223 XXVII, 286 170 19 XV, 234 XXV, 284 187 20 XIV, 233 XVI, 268 180 21 inc. inc. LXXIX, 146 XVII, 269 179*** adesp. 104 22 XIX, 238 XVIII, 270 178 23 inc. inc. CII, 189 - 192 XIX, 271 - 274 181*** adesp. 57 24 XX, 239 XXI, 276 183 25 XXI, 240 XX, 275 182 26 XXII, 241 - 242 XXII, 277 - 278 184 27 inc. inc. XCV, 174 - 175 XXIII, 279 - 280 185*** adesp. 62 28 inc. inc. CI, 186 - 188 XXIV, 281 - 283 186*** adesp. 7 29 IX, 227 XXVI, 285 167 30 XXIII, 243 XXIX, 288 189** adesp. 3 (Medus) Accio, Medea sive Argonautae Fr. Ribbeck 3 Dangel TrRF 1 I, 391 - 402 I, 467 - 478 2 II, 403 - 404 II, 480 - 481 3 III, 404 - 405 III, 481 - 482 4 IV, 407 IV, 483 5 VI, 409 - 410 V, 484 - 485 6 VIII, 412 - 413 VI, 486 - 487 7 VII, 411 VII, 488 8 XII, 417 XIV, 495 9 XIV, 419 XV, 496 10 XIII, 418 X, 491 11 X, 415 XI, 492 12 IX, 414 XII, 493 13 XI, 416 VIII, 489 14 V, 408 XIII, 494 15* inc. inc. XCII, 165 - 171 — adesp. 74 16 XVI, 421 XVI, 497 17 XV, 420 IX, 490 18 XVII, 422 - 423 XVII, 498 - 499 Concordanze delle edizioni dei frammenti 226 <?page no="239"?> Index testium Sono contrassegnati con (*) i frammenti riportati, anche solo parzialmente, da più di un autore o in più luoghi di uno stesso autore. Aug. soliloq. 2, 15, 29 Pacuvio, fr. 12 (*) Char. gramm. 115, 27 B Pacuvio, fr. 4 (*) 169, 20 B Pacuvio, fr. 4 (*) 130, 19 B Pacuvio, fr. 1 354, 25 B Pacuvio, fr. 24 (*) 372, 19 B Ennio, fr. 11 (*) 374, 1 B Ennio, fr. 11 (*) Cic. Att. 7, 26, 1 Ennio, fr. 8 (*) Cic. Cael. 18 Ennio, fr. 1 (*) Cic. de orat. 3, 217 Ennio, fr. 12 Cic. fat. 34 Ennio, fr. 1 (*) Cic. fam. 7, 6, 1 Ennio, fr. 5 7, 6, 2 Ennio, fr. 7 Cic. fin. 1, 4 Ennio, fr. 1 (*) Cic. inv. 1, 27 Pacuvio, fr. 12 (*) 1, 90 Pacuvio, fr. 28 (*) 1, 91 Ennio, fr. 1 (*) Cic. nat. deor. 2, 89 Accio, frr. 1 (*); 2; 3 3, 48 Pacuvio, fr. 21 (*) 3, 65 - 66 Ennio, fr. 9 3, 66 - 67 Accio, fr. 15 3, 75 Ennio, fr. 1 (*) 227 <?page no="240"?> Cic. Rab. Post. 29 Ennio, fr. 8 (*) Cic. rep. 3, 14 Pacuvio, fr. 11 Cic. top. 61 Ennio, fr. 1 (*) Cic. Tusc. 3, 26 Pacuvio, fr. 23 3, 63 Ennio, fr. 3 3, 75 Ennio, fr. 1 (*) 4, 69 Ennio, fr. 13 4, 69 Pacuvio, fr. 27 Diom. gramm. I 382, 14 Pacuvio, fr. 9 (*) I 454, 2 Pacuvio, fr. 24 (*) Don. Ter. in Phorm. 157 Ennio, fr. 1 (*) Explan. in Don. IV 563, 14 Pacuvio, fr. 24 (*) Fest. 214 L (cf. Pauli Epitoma 215 L) Pacuvio, fr. 22 256 L (cf. Pauli Epitoma 257 L) Pacuvio, fr. 30 394 L Pacuvio, fr. 17 488 L (cf. Pauli Epitoma 489 L) Pacuvio, fr. 3 (*) Hier. epist. 127, 5, 2 Ennio, fr. 1 (*) Iul. gramm. V 319, 19 Pacuvio, fr. 24 (*) Iul. Vict. rhet. 12, 415, 24 Ennio, fr. 1 (*) Macr. Sat. III 8, 7 Pacuvio, fr. 15 (*) VI 1, 36 Pacuvio, fr. 7 Mar. Victor. rhet. 1, 19 p. 86 Pacuvio, fr. 12 (*) Index testium 228 <?page no="241"?> Non. Lib.I 10 L (6, M) Pacuvio, fr. 25 I 11 L (6 M) Pacuvio, fr. 26 I 18 L (12 M) Accio, fr. 11 I 23 L (16 M) Accio, fr. 9 I 23 L (16 M) Accio, fr. 12 I 56 L (38 M) Ennio, fr. 2 (*) II 102 L (73 M) Pacuvio, fr. 6 II 104 L (74 M) Pacuvio, fr. 16 II 108 L (77 M) Pacuvio, fr. 29 II 110 L (79 M) Pacuvio, fr. 18 II 120 L (84 M) Ennio, fr. 16 II 126 L (89 M) Accio, fr. 10 II 128 L (90 M) Accio, fr. 1 (*) II 234 L (159 M) Accio, fr. 5 (*) II 250 L (170 M) Ennio, fr. 15 II 250 L (170 M) Pacuvio, fr. 19 (*) II 258 L (176 M) Pacuvio, fr. 19 (*) II 261 L (178 M) Pacuvio, fr. 5 II 263 L (179 M) Accio, fr. 16 III 283 L (192 M) Pacuvio, fr. 10 III 290 L (197 M) Pacuvio, fr. 24 (*) IV 355 L (238 M) Accio, fr. 8 IV 369 L (246 M) Pacuvio, fr. 9 (*) IV 398 L (261 M) Ennio, fr. 6 (*) [Varro, Γεροντοδιδάσκαλος 189] IV 399 L (262 M) Ennio, fr. 6 (*) IV 452 L (292 M) Ennio, fr. 2 (*) IV 461 L (297 M) Ennio, fr. 10 IV 478 L (307 M) Accio, fr. 13 IV 506 L (323 M) Accio, fr. 7 IV 509 L (324 M) Pacuvio, fr. 2 IV 574 L (361 M) Accio, fr. 18 V 683 L (422 M) Accio, fr. 6 VII 748 L (467 M) Ennio, fr. 4 VII 748 L (467 M) Accio, fr. 4 VII 749 L (467 M) Pacuvio, fr. 8 VII 749 L (467 M) Accio, fr. 5 (*) VII 753 L (470 M) Ennio, fr. 14 (*) X 810 L (504 M) Accio, fr. 17 X 814 L (506 M) Pacuvio, fr. 13 Index testium 229 <?page no="242"?> Pomp. V 206, 19 Pacuvio, fr. 24 (*) Prisc. (Institutionum grammaticarum) GL II 87, 15 Pacuvio, fr. 14 GL II 320, 15 Ennio, fr. 1 (*) GL II 336, 18 Accio, fr. 14 GL III 9, 13 Pacuvio, fr. 4 (*) GL III 423, 35 Ennio, fr. 1 (*) GL III 424, 15 Accio, fr. 1 (*) GL II 523, 17 Pacuvio, fr. 3 (*) (de metris fabularum Terentii) III 424, 15 Accio, fr. 1 (*) Prob. Verg. in Ecl. VI, 31 - 33 Ennio, fr. 17 Quint. Inst. 5, 84 Ennio, fr. 1 (*) 8, 34 Pacuvio, fr. 21(*) Rhet. Her. 2, 34 Ennio, fr. 1 (*) 2, 40 Pacuvio, fr. 28 (*) Schol. Veron. Aen. in Aen. V, 93 Pacuvio, fr. 20 Serv. auct. in Aen. XI, 543 Pacuvio, fr. 15 (*) Varr. ling. 6, 60 Pacuvio, fr. 24 (*) 6, 81 Ennio, fr. 6 (*) 7, 9 Ennio, fr. 14 (*) 7, 33 Ennio, fr. 1 (*) 7, 34 Pacuvio, fr. 15 (*) Index testium 230 <?page no="243"?> Index metrorum Per i casi problematici si fornisce l ’ interpretazione che si ritiene più corretta, rinviando al commento per una trattazione esaustiva delle diverse possibilità. Sono contrassegnati con (*) i frammenti in cui ricorre almeno un verso incompleto. ia 6 : Ennio: fr. 1; fr. 2; fr. 3; fr. 8 (*); fr. 12; fr. 14; fr. 15 Pacuvio: fr. 2; fr. 6; fr. 7; fr. 12; fr. 13; fr. 16; fr. 17; fr. 18; fr. 19; fr. 21 (? ) (*); fr. 22; fr. 23; fr. 26 (*); fr. 28 Accio: fr. 1 (*); fr. 2 (*); fr. 3 (*); fr. 6 (*); fr. 7; fr. 13 tr 7 : Ennio: fr. 5, v. 2; fr. 7; fr. 9; fr. 11; fr. 13; fr. 17 Pacuvio: fr. 1 (*); fr. 3; fr. 4 (*); fr. 8; fr. 9; fr. 10 (*); fr. 15; fr. 24; fr. 25; fr. 27 (*) Accio: fr. 4; fr. 5 (*); fr. 10; fr. 11; fr. 15 (*); fr. 17 (*) ia 8 : Ennio: fr. 9, v. 6 Pacuvio: fr. 29 (? ) Accio: fr. 8; fr. 9; fr. 12; fr. 16 tr 8 : Ennio: fr. 5, v. 3; fr. 10 ia 6 vel tr 7 : Ennio: fr. 4 (*); fr. 6 (*) ia vel tr: Pacuvio: fr. 14 (*); fr. 20 (*); Accio: fr. 14 (*) gl: Ennio: fr. 16, v. 1 2 c r : Ennio: fr. 16, v. 2 cr 2 +cr c : Pacuvio: fr. 11 *# an 4 : Pacuvio: fr. 5 Accio: fr. 18 (*) ? : Ennio: fr. 5, v. 1 (*) Pacuvio: fr. 30 (*) 231 <?page no="244"?> Nomi e cose notevoli abete / pino: 38 - 40; 173 Absirto: 19s.; 160; 186s. Egialeo, nome alternativo: 100; 107; 130; 134 - 136 luogo dell ’ uccisione: 188 uccisione: 188 - 192 amore: 4; 13 - 18 figura divina: 147 - 149 innamoramento: 13s. invincibilità: 78s.; 147 - 149 Angitia: 6 - 13 epigrafi e luoghi di culto: 10 forma ed etimologia del nome: 9s. iconografia: 9 testi letterari: 10s.; 103; 122; 128; 179s. 0 antilabé: 99; 109; 112s.; 115 Apollonio Rodio: in Accio: 157s.; 165s.; 174 - 177; 182 - 187; 191 in Ennio: 73s. in Pacuvio: 108; 148s. Argo (nave): costruzione: 36 - 43 nave parlante: 169 - 171 paretimologia 41; 158 - 159; 163 - 171 quercia di Dodona: 171 solidità: 58; 176 - 178 Atene: 31s.; 79 - 83; 97; 130 Ballione: 5 bellezza fisica (topos): 99s.; 124s. βωμολόχος : 134 Calciope: 14 carro di Medea: 8s.; 99s.; 114; 119 - 123; 130s.; 159; 186 Cerere: e Angitia: 10 tempio: 13; 79 - 83 Circe: 6; 11s.; 14; 16 (nn. 60s.) isola di Circe: 107 (n. 391) Colchi (popolazione): 36; 38; 107; 193 Colchide: 4; 7; 15; 17; 32; 69s.; 76; 84 (n. 325); 96 - 100; 102 - 105; 107s.; 129s. Corinto: 34; 53 - 57; 80s. coro: 33 - 35; 53 - 59; 64s.; 69; 84; 89 - 92; 111; 126 (n. 456); 159s.; 194s. 232 <?page no="245"?> Creonte: 16; 20s.; 33 - 35; 59; 61 - 69; 117; 130; 147; 159 (n. 548) Creusa (e sua morte): 13; 20s.; 68s.; 130 delfini: 158; 166 - 170 desinenza -ai: 49 divinazione: 60; 105 draco (e incantamento): 7 - 8; 13; 17; 71 - 74 dracones: vd. serpenti drammaturgia: deissi: 117 segnali scenici: 47s.; 137 segnali di tempo: 64 ‘ tragedie del ritorno ’ : 100; 110 Ea (Aea / Αἶα ): 98; 105 - 109; 130; 135; 151s. Ecate (e suo rapporto con Cerere): 7; 12s.; 14; 126s. Eeta: 6; 11; 15 - 17; 19; 66; 96 - 101; 104 (n. 384); 108; 118; 129; 132 - 151; 159s.; 188 - 194 Egeo: 33 - 35; 79 - 86 Egialeo: vd. Absirto Elena: 15s.; 125 (e n. 454); 148 Eleusinion: 81s. esilio: 33; 41; 55 - 57; 56s.; 64 - 69; 101; 116; 183s. Esone: vd. ringiovanimento espressionismo: 71; 110; 138 - 143; 159; 188 - 191 descrizioni: 123; 125; 137 - 143 Euripide in Ennio: 31 - 33; 38 - 92 extispicium: 5; 12; 180 - 182 Fasi (fiume): 19; 106; 108 figli di Medea (e infanticidio): 8; 21s.; 31; 34; 62s.; 68 (n. 249); 83 (e n. 321); 86 - 89 figure retoriche allitterazione: 39; 43; 46; 47; 51; 56; 60; 70; 76; 81; 91; 106; 122; 126; 148; 150; 164; 168; 171; 174; 176; 181; 184; 185; 190; 192; 193 allitterazione coperta: 56; 131 anafora: 56; 164 anastrofe: 178 asindeto: 92 catacresi: 135 chiasmo: 51; 56; 66; 68; 70; 72s.; 131; 185 cumulo: 60 enjambement: 81; 124; 150 Nomi e cose notevoli 233 <?page no="246"?> figura etimologica: 43; 60; 81; 122 hysteron proteron: 8; 40; 73 iperbato: 46; 181; 185 metafora: 52; 112 omeoarto: 52; 117 omeoteleuto: 58; 81; 117; 122; 164; 184; 185 ordo verborum: 43; 46; 50; 56; 66; 78; 123; 148; 164; 184; 190s. ossimoro: 140 parallelismo: 72 paronomasia: 51; 81; 117 poliptoto: 66; 70; 150; 173; 194 sinonimia: 68; 141; 148; 150; 164; 168; 184 variatio: 176 Giasone: 5; 7 - 8; 13 - 15; 17 - 19; 21; 33s.; 42s.; 61; 63; 68 (n. 249); 69; 71 - 79; 80 (n. 308); 97 - 98; 130; 148s.; 158 - 160; 176; 182 - 186 Giove: 15; 89 - 92; 98 grecismi: 50 (e n. 164); 80; 129; 160; 168; 170; 180 (n. 621) Igino (rapporto con Pacuvio): 96 - 98; 104; 112; 114; 116; 118; 120; 126 - 130; 132 infanticidio: vd. Figli di Medea infinito: 50; 112s. interrogative in sequenza: 74 - 77; 115s.; 146 invocazione, Ere Du-Stil: 84s. ipotassi: 41 (e n. 112); 103; 145; 160; 189s. Ippote: 97 - 101; 128 - 130; 135 Ipsipile: 4; 18; 20; 171 (n. 591) lacrime: 139s.; 193s. macchinazione: 34; 54; 64 - 69 Maenas (cruenta): 22 magia: 3; 4 - 13 mani: coperte di gesso: 34; 53 - 55 intrecciate con quelle dei figli: 21s.; 34; 86 - 89 macchiate di sangue: 44; 55 Marso (figlio di Circe e Ulisse): 12 Marsi (popolazione): 11s. Mede: vd. Medea Medea: caratterizzazione del personaggio: 34; 100; 160; iconografia: 8; 130; 136; 166 ira: 18; 34; 64 - 68 Mede (versione del nome): 70; 179s. Nomi e cose notevoli 234 <?page no="247"?> metis: 41; 76 nome: 43 ratio: 65 - 69 Medo: 95 - 100; 102 - 108; 112 - 118; 128 - 131; 151s. metrica: vd. prosodia e metrica nati dalla terra: 17; 71 - 74 navigazione / mare: 105s.; 113s.; 153; 160 - 173; 175 - 177 Numitore: 98 nutrice: vd. personaggi minori Oistros: 136 oreibasia: 22 Orfeo: 169 - 171 ottativo: 92; 103 Parentalia: 135 - 136 (e n. 500) paratassi: 50; 78; 101; 111; 117; 132; 152; 189 pastor: vd. personaggi minori Pathetisierung / pathos: 33 - 35; 42; 48; 55s.; 68; 75 - 77; 88; 116; 146s.; 152; 159; 165; 173; 184; 192; patria, abbandonata da Medea: 15s.; 43; 69 - 71; 76; 147 - 149 pedagogo: vd. personaggi minori Pelia (e figlie di Pelia): 5s.; 36; 40s.; 74 - 77; 96; 120; 184 Pelio (monte): 36; 40 Perse: 15; 66; 96; 99; 101; 104 (n. 384); 109 - 118; 126s.; 129; 130; 132; 136; 142s.; 151 personaggi minori: nutrice: 33s.; 38 - 44; 48 - 51 pastor: 159; 161 - 175 pedagogo: 33 - 35; 44 - 48; 51 - 53 satelles: 99; 109 - 112 Peuce: 173 poetica tempestas: 161 - 166 progresso, tema del: 160; 177s. prosodia e metrica: aferesi: 115; 183 cantica e versi lirici: 21; 35; 55; 75; 87; 135 (n. 494); 194 correptio iambica: 58; 70; 103; 128; 129; 135 -e caduca: 65 episinalefe: 140 iato: 65; 106; 120; 168; 176 incisioni: 39; 46; 49; 102s.; 109; 116; 117; 129; 131; 140; 148; 164; 172s.; 179s.; 184 Nomi e cose notevoli 235 <?page no="248"?> metri incerti o discussi: 52; 58; 86s.; 89 - 91; 111; 127s.; 133; 135; 166 - 168; 187 scansioni arcaiche: 58; 77; 102s.; 123; 187 sinalefe: 55; 58; 65; 70; 150; 172s.; 181; 183; 185; 189; 190 sinizesi: 90; 103; 144 strappamento: 90 -uconsonantica: 144; 177s. rapporti sociali: 46s.; 56; 78s. regnum: 66; 98 - 100; 108; 132s.; 136 - 143; 149 - 151 retorica: 16; 55 - 57; 67 - 69; 149s.; 185s. ricongiungimento familiare: 103s. riconoscimento, scene di: 99s.; 129; 143 - 147 ringiovanimento: 4 - 6; di Esone: 5s.; dell ’ ariete: 5s. Romanisierung: 33; 47; 55s.; 63; 67; 78s.; 82s.; 92; 136; 181s. sacrale, linguaggio: 42s.; 69; 84 - 86; 89 - 92; 126 - 128; 132; 147 - 149; 179s. sapientia / σοφία , inutilità in amore: 16s.; 60s. satelles: vd. personaggi minori satira (critiche alla tragedia): 9; 122; 184 sententiae: 17; 35; 56 - 59; 59 - 61; 65 - 69; 159; 194s. serpenti: 6 - 9; 111; 119 - 123 Silvano: 169 - 171 Simplegadi: 40; 42 Sole, invocazione: 12; 84 - 86; 89 - 92; 102 - 104; 127 tiranno, figura del: 117; 137 - 143 titoli Doppeltitel: 32 (e n. 90); 157 Medea / Medea exul: 3s.; 79 - 83 tori, aggiogamento: 17; 71 - 74; 186 (n. 646) Trebazio Testa: 54 tricolon: 35; 55s.; 91 Tritone: 161; 165 una dies: 32; 61 - 64; 67s. Varrone menippeo (rapporti con la tragedia): 9; 120 - 122; 141 Virgilio (rapporti con la tragedia): 44; 54s.; 113s.; 139; 163s. Nomi e cose notevoli 236 <?page no="249"?> Passi discussi Oltre ai passi discussi ampiamente e ad alcuni loci particolarmente rilevanti sono riportate le citazioni dei frammenti della Medea exul, del Medus e della Medea sive Argonautae presenti nell ’ introduzione. Acc. Medea sive Argonautae fr. 8: 12 fr. 9: 5; 12 fr. 12: 16 fr. 15*: 16; 19; 22 trag. 23 Ribb. 3 : 55 82s. Ribb. 3 : 55 254 Ribb. 3 : 125 283 Ribb. 3 : 110 449 Ribb. 3 : 146 451 Ribb. 3 : 68 581 - 584 Ribb. 3 : 84 622 Ribb. 3 : 51 Ps. Apollod. 1, 9, 24: 19 1, 9, 28: 96 - 98; 133 Ap. Rh. 1, 4: 176s. 1, 23 - 27: 171 1, 109 - 114: 177 1, 526s.: 171 1, 540s.: 171 1, 543: 166 2, 1184 - 1191: 177 2, 1260 - 1270: 108 2, 1281 - 1284: 108 3, 343s.: 177 3, 1284ss.: 74 4, 144 - 166: 7; 73 4, 219 - 225: 187 4, 316 - 322: 165s.; 174s. 4, 381 - 387: 183s. 4, 411 - 418: 185s. 4, 452ss.: 188 4, 454 - 481: 19 Schol. Ap. Rh. 3, 1093: 107 4, 223 - 230: 19; 191 App. Claud. fr. 3 Bl. 2 : 67 Apul. met. 1, 10: 62 flor. 2, 10: 84s. Aristot. poet. 1254 b 1 - 2: 8 1461 b 19 - 21: 80s. Calv. fr. 6 Bl. 2 : 82 Catull. 64: 76; 166; 172 64, 5: 107 64, 11: 177 Cic. inv. 1, 2: 133; 1, 91: 168 Manil. 22: 189 off. 3, 62: 60 Tusc. 3, 25: 141s. CIL I 2 5 (Caso Cantovios): 11 I, 366 n. 64: 92 Dem. cor. 67: 142s. Diod. 4, 45, 3: 135 237 <?page no="250"?> 4, 55, 5: 130 4, 56, 1: 96 - 98 Enn. Medea exul fr. 1: 16; 18 fr. 3: 18 fr. 5: 16 fr. 7: 17 fr. 9: 16; 18; 20s. fr. 10: 14; 16 fr. 11: 7s.; 13; 17 fr. 12: 6; 16 fr. 13: 14; 18 fr. 14: 13 fr. 15: 12 fr. 16: 21s. fr. 17: 12 trag. 86 - 91 Vahl. 2 = 81 - 86 Joc.: 76 320s. Vahl. 2 = 266 Joc.: 60 345 Vahl. 2 = 301 Joc.: 85s. 401 Vahl. 2 = 342 Joc.: 86 Eur. Med. 1 - 8: 38 - 42 49 - 51: 44 - 48 56 - 58: 48 - 51 67: 52s. 131 - 133: 52 199s.: 52 214 - 218: 53 - 57 250s.: 57 - 59 256: 15 294 - 303: 59s. 303s.: 17 352 - 355: 61 - 64 364 - 375: 65 399s.: 65 432 - 434: 69 475 - 482: 71 - 74 502 - 504: 74 - 77 530s.: 77 - 79 627s.: 69 663 - 759: 80s. 723 - 730: 80 - 83 746s.: 85 752: 85 764: 85 771: 81 772s.: 52 1056 - 1080: 87 e n. 345 1069 - 1073: 86 - 89 1254: 89 1251 - 1260: 89 - 92 1317ss.: 8 1330s.: 69 Schol. Eur. Med. 5: 43 19: 130 56: 48 fr. 905 Kannicht (Egeo): 17; 60 Gell. 2, 27: 138; 142s. 5, 11: 125 Gracch. Orat. fr. 61 Malcovati 4 : 75 Hdt. 1, 2, 1 - 3: 15 Hyg. fab. 23: 19; 27: 95 - 98 Iust. 42, 2, 11 - 3, 2: 96 - 98; 135 Laber. Mim. 104 - 106 Ribb. 3 : 67 Lucil. vv. 58s. K. = 82s. M.: 9; 122; 184 Macr. Sat. 6, 1, 7: 114 Naev. Tarentilla 93s. Ribb. 3 : 57 Passi discussi 238 <?page no="251"?> Ov. epist. 6, 85 - 96: 4; 12: 18 fast. 3, 226: 88s. Medea fr. 1: 18; fr. 2: 22 met. 7, 1 - 71: 13; 100ss.: 17 trist. 3, 9: 20; 189 Pac. Medus fr. 1: 12 fr. 11*: 8; 13 fr. 12: 8s.; 13 fr. 13: 9; 13 fr. 15: 13 fr. 16: 5; 13; 16 fr. 27: 14; 16 fr. 28: 16 trag. 9 Ribb. 3 : 141 20s. Ribb. 3 : 141 142 Ribb. 3 : 119 159s. Ribb. 3 : 64 313s. Ribb. 3 : 141 inc. 366 - 375 Ribb. 3 : 110 Pherecr. fr. 150 K. - A.: 134 Pind. Pyth. 4, 250: 15 Plaut. Pseud. 868 - 872: 5 Trin. 237 - 242: 66 Truc. 270: 138 Plut. Rom. 22: 82s. Publil. Balb. 31: 67 Sall. Hist. fr. 1, 88 M. (=1.81* La Penna- Funari): 138; 142s. Sen. Med. 291s.: 62 297 - 299: 63 380 - 395: 68 397s.: 68 421 - 423: 62 451 - 453: 76 457: 77 466 - 470: 74 475s.: 77 849 - 851: 22 868s.: 68 879s.: 20 893 - 977: 68 1009s.: 89 1017: 62 Serv. ad Aen. 3, 139: 82; 4, 58: 82; 7, 750: 6s. Sil. 8, 497 - 500: 11 Solin. Coll. 2, 28 - 30: 6 Steph. Byz. α 86 Billerbeck: 107 Ter. Ad. 789s.: 50s. Val. Fl. 1, 60ss.: 123 5, 683 - 687: 15; 97s. 8, 10 - 15: 15 Varr. de vita pop. Rom. fr. 284 Salvadore: 83 Men. frr. 284s. Ast.: 9; 120; 122 Passi discussi 239 <?page no="252"?> Verg. Aen. 2, 608 - 612: 163 7, 759s.: 10s. 9, 416: 113s. ecl. 8, 47s.: 44; 54s. georg. 1, 318 - 320: 163 Vib. Seq. geogr. 200: 10 Passi discussi 240 <?page no="253"?> Index verborum abiegnus: 38 - 40 abies: 173 abiugo: 112 altar: 133s. amor: 78s. aeger (animus): 39 arguo: 180s. ars: 181 articulatim: 190 astu: 16; 185s. aucupo: 52s.; 172s. auspicium: 104 averrunco: 127s. baeto: 152 blandiloquentia: 16; 66s. boo: 130s. calamitas: 119; 128 calvor: 145 - 147 camilla: 126s. candeo: 85 cantus: 170s. capto: 190 cerno: 59 clades: 119; 128 cupidus: 70s. custos: 47 desertus: 150s.; 184 dia: 180 dolum: 40s. domi: 56 draco: 72 eccum: 137 erilis: 46 errare: 41s. exanimatus: 44 - 48 extabesco: 140 extispicium: 180 - 182 ferus: 186s. fidus: 46s. florentissimus: 150 forma: 124s. fremebundus: 164 gypsatissimus: 54s. honos: 18; 78s. horreo: 176 horror: 114 ignobilis: 109s. ilico: 104 immanis: 178 inauratus: 43 incitus: 167s. infusco: 140 inluvies: 141 inveho: 120s. itiner: 110s. labor: 163s. lacto: 147; 186 lacruma (salsa): 193s. laetus: 108 lavo: 193 lumen: 63 maeror: 140; 190 melos: 170 miser: 49 - 51 miseria: 49 - 51 moles: 164s. nemus: 42 nuncupo: 144 optrunco: 190 orbificor: 192 paedor: 140 parens: 102 parento: 135s. parricidium: 190s. pasceo: 175 paternus: 76 perfremo: 168s. profundus: 153 propago: 133s. proprius: 195 prospectus: 172s. puer: 191 241 <?page no="254"?> regredior: 105 repagulum: 67s. repello: 183 saevus (amor): 44 salve: 88; 127 sapientia: 61 scabres: 141 sempiterne: 132 similitudo: 145s. situs: 140 sospito: 132 spicio: 90 stabulum: 112; 187 sublimo: 84s. tabificabilis: 192 templum: 81s. tonsilla: 105 - 107 turris: 187s. vita: 195 Index verborum 242 <?page no="255"?> DRAMA - Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption herausgegeben von Bernhard Zimmermann Bisher sind erschienen: Band 1 James Robson Humour, Obscenity and Aristophanes 2006, 215 Seiten €[D] 54,00 ISBN 978-3-8233-6220-3 Band 2 Valentina Origa Le contraddizioni della sapienza Sophia e sophos nella tragedia euripidea 2007, 155 Seiten €[D] 49,00 ISBN 978-3-8233-6226-5 Band 3 Thomas Baier (Hrsg.) Generationenkonflikte auf der Bühne Perspektiven im antiken und mittelalterlichen Drama 2007, 252 Seiten €[D] 54,00 ISBN 978-3-8233-6268-5 Band 4 Athina Papachrysostomou Six Comic Poets A Commentary on Selected Fragments of Middle Comedy 2008, VI, 304 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6378-1 Band 6 Christopher Meid Die griechische Tragödie im Drama der Aufklärung „Bei den Alten in die Schule gehen“ 2008, 136 Seiten €[D] 39,90 ISBN 978-3-8233-6419-1 Band 7 Markus A. Gruber Der Chor in den Tragödien des Aischylos Affekt und Reaktion 2009, 570 Seiten €[D] 78,00 ISBN 978-3-8233-6484-9 Band 8 Matteo Taufer (Hrsg.) Contributi critici sul testo di Eschilo Ecdotica ed esegesi 2012, 276 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6686-7 Band 9 Sotera Fornaro L’ora di Antigone dal nazismo agli ‚anni di piombo’ 2012, 172 Seiten €[D] 48,00 ISBN 978-3-8233-6712-3 Band 10 Mattia DePoli Monodie mimetiche e monodie diegetiche I canti a solo di Euripide e la tradizione poetica greca 2012, 210 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6726-0 Band 11 Stefano Novelli Anomalie sintattiche e costrutti marcati: l`anacoluto in Eschilo 2012, VI, 325 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6786-4 <?page no="256"?> Band 12 Andrea Rodighiero Generi lirico-corali nella produzione drammatica di Sofocle 2012, 236 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6787-1 Band 13 Lothar Willms Transgression, Tragik und Metatheater Versuch einer Neuinterpretation des antiken Dramas 2014, XIV, 934 Seiten €[D] 128,00 ISBN 978-3-8233-6828-1 Band 14 Nuala Distilo Il Prologo dell Ifigenia in Aulide di Euripide Problemi di attribuzione e tradizione testuale euripidea 2013, 152 Seiten €[D] 39,99 ISBN 978-3-8233-6816-8 Band 15 Claudia Michel Homer und die Tragödie Zu den Bezügen zwischen Odyssee und Orestie-Dramen (Aischylos: Orestie; Sophokles: Elektra; Euripides: Elektra) 2014, 263 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6899-1 Band 16 Sarah Henze Adel im antiken Drama Eugeneia bei Aischylos, Sophokles und Euripides 2015, 277 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6914-1 Band 17 Joan Josep Mussarra Roca Gods in Euripides 2015, 236 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-6958-5 Band 18 Maria Jennifer Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Commento a Ennio, Medea exul; Pacuvio, Medus; Accio, Medea sive Argonautae 2016, XII, 242 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-8003-0 Band 19 Valerio Pacelli Teodette di Faselide - Frammenti Poetici Introduzione, testo critico, traduzione e commento 2016, 268 Seiten €[D] 58,00 ISBN 978-3-8233-8004-7 <?page no="257"?> I SBN 978-3-8233-8003-0 www.narr.de Il volume offre un commento ai frammenti delle tragedie latine di età repubblicana incentrate su diverse fasi del mito di Medea: la Medea exul di Ennio, il Medus di Pacuvio, la Medea sive Argonautae di Accio. Nell’introduzione vengono prese in esame questioni inerenti la ricezione e la fortuna del mito nel mondo romano e la sua riproposizione sulla scena. Ciascuna tragedia è analizzata sotto l’aspetto della tradizione testuale, della drammaturgia e del possibile rapporto con i modelli greci; i frammenti vengono proposti in un nuovo ordine che tiene conto della loro possibile successione nello sviluppo originario della trama e il testo è corredato da una nuova traduzione, da un apparato critico e da uno dei fontes. Il commento è incentrato sui contesti di trasmissione, sui problemi critico-testuali, su metrica, lingua, stile e strutturazione retorica dei versi; dove possibile si tenta un confronto con il modello greco e si avanzano considerazioni su aspetti di drammaturgia e performance, al fine di un tentativo, pur sempre incerto, di ricostruzione dei drammi. DRAMA 18 Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Maria Jennifer Falcone Medea sulla scena tragica repubblicana Commento a Ennio, Medea exul; Pacuvio, Medus; Accio, Medea sive Argonautae DRAMA 18 Studien zum antiken Drama und zu seiner Rezeption Bernhard Zimmermann (Hrsg.)