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Fesenmeier Föcking Krefeld Ott"L'imperativo (stoico) dello scrivere": A colloquio con Mauro Covacich
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5 «L’imperativo (stoico) dello scrivere»: A colloquio con Mauro Covacich A cura di Mara Santi Mauro Covacich (Trieste, 1965) si è laureato in filosofia con una tesi su Gilles Deleuze. Nel 1999 riceve il Woursell-Literaturpreis zur Förderung junger europäischer Autoren assegnato dalla Philologisch-kulturwissenschaftliche Fakultät dell’Universität Wien. Attualmente vive e lavora a Roma. Autore di una serie di opere narrative e saggistiche (cfr. Bibliografia) ha esordito nel genere del romanzo, che rappresenta la sua vena più prolifica e innovativa, con L’amore contro (2001), per poi dare vita a una trilogia di romanzi - A perdifiato (2003), Fiona (2005) e Prima di sparire (2008) - che si è evoluta in una pentalogia multimediale, con l’aggiunta di un’installazione video, L’umiliazione delle stelle (2010), nella quale Covacich dà il proprio corpo a uno dei suoi personaggi portandone nella realtà la performance artistica, e con un ultimo conclusivo romanzo: A nome tuo (2011). Mara Santi (professore associato di letteratura italiana presso la Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Gent) studia la narrativa di Mauro Covacich e lo ha intervistato a Roma, il 7 ottobre 2012, a Villa Borghese. Domanda Nelle tue opere compaiono riferimenti espliciti così come richiami impliciti sia a testi letterari che ad opere artistiche - penso a Don DeLillo 1 o a Marina Abramovich 2 - con i quali è evidente che la tua scrittura intrattiene un rapporto diretto e privilegiato. Quali sono i modelli letterari che consapevolmente hai riconosciuto e assunto nella tua formazione e nello sviluppo della tua prosa e per quali ragioni? Mauro Covacich Se dovessi tracciare la storia delle mie influenze dovrei dire che ho cominciato a sentire il bisogno di scrivere a partire da Kafka, è stato il mio big bang, perché gli alimenti della mia scrittura sono - tranne l’ebraismo - tutti molto kafkiani; penso alla colpa, alla vergogna, al rapporto col padre, alla condizione sempre un po’ giudiziaria dei suoi libri. Questo in particolare: la postura di Kafka di fronte a quello che scrive io la sento identica alla mia, ed è sempre una posizione da teste o imputato, nel senso che rispondo sempre a un interrogatorio, mi pongo sempre in una posizione processuale dove c’è qualcuno che mi sta interrogando, qualcuno che sono io, ovviamente, ma che determina comunque quel tipo di non agio che hai quando devi rispondere a un interrogatorio e non sei libero, devi dire veramente come sono andate le cose. Dando la tua versione dei fatti, certo, ma devi dire la verità. Poi ho avuto una forte fascinazione per Peter Handke, c’è stato tutto un periodo in cui ero convinto che mi sarei messo a copiare Handke. In gene- 2_IH_Italienisch_69.indd 5 2_IH_Italienisch_69.indd 5 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 6 A colloquio con Mauro Covacich rale amavo moltissimo la letteratura di lingua tedesca, letta purtroppo sempre in traduzione. Ho letto moltissimo Thomas Bernhard, ho avuto una folgorazione totale per Max Frisch. Frisch è uno dei modelli che ha resistito per me, la lucidità pietosa, la razionalità di Frisch, è una cosa che sento molto mia. Degli italiani, il primo che ho cominciato a sentire come un mio modello è stato Goffredo Parise ed è stato molto tardi. Prima di lui gli italiani li ho letti ma nessuno l’ho sentito un maestro. Tendo molto a dare importanza alla persona oltre che al testo e le scelte che ha fatto Parise, questo suo essere una figura irregolare, il suo non essere comunista in un periodo dove la cultura era in modo abbastanza egemonico cultura comunista, coincide con una mia idea di scrittore. Ad esempio, Parise diceva di non essere un letterato ma uno scrittore, perché il letterato può scrivere libri che si nutrono di libri, può vivere nelle università, nelle redazioni dei giornali, nelle riviste letterarie, mentre lo scrittore deve sporcarsi con la vita e mettersi in gioco. Ecco, questo è uno dei miei precetti: ho scritto tanti libri uno diverso dall’altro, però sono tutti libri impelagati nella vita, che vengono da un’esperienza, in questo senso Parise è stato un modello. Ma anche come scrittore, per questa scrittura sempre molto precisa, fredda e pietosa, un ossimoro, la freddezza pietosa, che ho sempre ricercato mettendo nei miei testi una freddezza che si prende cura dei personaggi che racconta, che non li guarda con distacco. E poi tardi, molto tardi, quindi quando avevo già cominciato la mia carriera di scrittore, nel ’93-’94 mi sono imbattuto in Don De Lillo e lì ho capito cosa dovevo fare nella vita, con Rumore bianco, che era uscito per Tullio Pironti Editore. 3 Rumore bianco per me è stata la scoperta di una voce, di quello che avrei voluto fare. Chiaramente lo ammiro e credo che si senta, mentre tra gli altri americani non trovo ulteriori modelli, ammiro Philip Roth, negli ultimi anni mi sono appassionato a J.M. Coetzee, però non come riferimenti cui ispirarmi. D. Per quanto riguarda invece il versante artistico quali sono i tuoi modelli di riferimento? Covacich Tra i modelli artistici indicherei quelli che cito in Prima di sparire, essenzialmente Marina Abramovich e Sophie Calle, 4 questa per il discorso personapersonaggio, finzione-realtà, e l’altra per l’esposizione di un pezzo della propria vita di cui fa un’opera d’arte. Sono indubbiamente le due artiste del ’900 che più mi hanno colpito. Ma dovremmo aggiungere un altro nome: il regista Krzysztof Kieslowski, da cui derivo l’idea di fare dei romanzi che rimandano internamente per personaggi o tematiche o ambientazioni ad altri romanzi, già dal Decalogo, dove ti ritrovi dei protagonisti che poi diventano secondari 2_IH_Italienisch_69.indd 6 2_IH_Italienisch_69.indd 6 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 7 A colloquio con Mauro Covacich in altri film o comparse che diventano protagonisti. Questo mi è piaciuto subito dal punto di vista del montaggio, dal punto di vista testuale, ad esempio Fiona, è una figuretta quasi impercettibile, in A perdifiato, poi torna e addirittura si guadagna il titolo di un romanzo poi nuovamente passa in secondo piano [in Prima di sparire n.d.c.] e poi ritorna [in A nome tuo n.d.c.]. Da qui viene l’idea di una trilogia, idea che avevo già in mente quando scrivevo A perdifiato. Sempre in ambito cinematografico amo il cinema di Lars von Trier, anche se molti suoi film non sono riusciti, secondo me. Più di tutto mi affascina il fatto che si è inventato Dogma, 5 cioè che si è dato delle regole e in questo mi sento vicino al suo cinema: per me è fondamentale, nel mio lavoro, darmi io delle regole e rispettarle, è infernale ma anche creativo, per usare una parola quanto mai logora. Il fatto di mettermi tanti paletti, tante regole, è per me un modo per produrre risolvendo problemi. D. Quando parli di arte, sia nei romanzi sia in altri contesti, sottolinei l’idea della sacralità e della ritualizzazione del gesto artistico. Mi pare che si possa estendere questa prospettiva al gesto letterario in generale e al tuo in particolare; per esempio, espliciti che la funzione dell’arte è rivelativa e che ha senso solo in chiave etica, tanto che l’idea di artista/ scrittore che emerge dall’insieme di questi spunti è una sorta di sacerdote, portatore di una verità di cui ha il dovere di trasmettere il senso. Covacich Il termine sacralità se riferito a me sembra un po’ sovraccarico temo che rischi di depistare con un di più di ‹megalomania›; però c’è sicuramente una religiosità, una ritualizzazione, c’è soprattutto un rapporto religioso con la scrittura. Per me la scrittura è il posto dove io mi centro, la mia casa, in termini di sacralità potrei dire il mio tempio. Quindi c’è indubbiamente un rapporto religioso con la scrittura, proprio perché io la concepisco come una specie di missione, in questo senso sì, indubbiamente, non come una vocazione, ma proprio come una missione. E sicuramente c’è un forte senso etico: dove ne L’umiliazione delle stelle dico «dovrei / I should» (e non «vorrei / I would») 6 intendo proprio lo sfondo etico del video e della mia scrittura. Non è un semplice desiderio, è l’assunzione di un debito, di un dovere, che ho. Diciamo, lo sfondo stoico (per indicare un altro modello) di quel video e del concetto dell’umiliazione delle stelle, che c’è, forte, anche dal punto di vista cosmico. D. Al tempo stesso però tu neghi qualsiasi aura, qualsiasi possibilità di mitizzazione, al performer (in particolare a te, nell’epifania di Rensich) e neghi eroismo a un gesto che pure rappresenta il confronto dell’individuo con il proprio limite, con la propria essenza di uomo. 2_IH_Italienisch_69.indd 7 2_IH_Italienisch_69.indd 7 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 8 A colloquio con Mauro Covacich Covacich Sì, perché il confronto con il limite non è eroico. In realtà il confronto con il limite con quel set è ridicolizzato, c’è un aspetto di autolesionistico ludibrio, perché correre sul tapis-roulant la maratona è una presa in giro, è comico e grottesco, è correre sul posto, è l’esemplificazione dell’inanità di questo sforzo: per tornare al testo del video dico «dovrei essere giusto e non lo sono», io corro sul posto, faccio questa cosa bellissima, la maratona, e ritualizzo questo gesto bellissimo, dei grandi, in un modo così svilente, così ridicolo, cioè su un tapis roulant. Anche la tensione etica del muoversi eternamente verso il meglio è costantemente compromessa da questa inanità del correre sul posto. Quindi non è un gesto eroico ma semmai penitenziale, mi fa pensare a Sisifo, all’impossibilità di raggiungere, di adeguarti al tuo paradigma etico. Appunto: «I should» non «I would», ed è la base di stoicismo di tutti i miei libri, io mi sento uno stoico, e quindi dal mio punto di vista è proprio questa la questione fondamentale: adeguarsi al proprio senso del dovere. Quando ho smesso di insegnare 7 mi svegliavo al mattino, non dovevo andare da nessuna parte, nessuno mi aspettava; il fatto che venisse messo in discussione il mio senso del dovere verso gli altri, quindi verso il cosmo, era un problema, anzi, «il» problema. E il senso del dovere è fondamentale perché in me si fondono due culture: la cultura che amo, che è la cultura stoica, e la cultura che sopporto, che è la cultura religiosa cattolica. La sopporto ma è comunque radicata in me, cioè il mio immaginario è talmente nutrito di cultura religiosa che non saprei pensare all’amore senza l’idea del peccato, del tradimento, del desiderio, delle proibizioni, in termini cattolici, cioè dell’armamentario ideologico che mi è stato fornito dal cattolicesimo che è quello che poi ha istruito il mio immaginario. D. La struttura ‹a polittico› dei tuoi primi romanzi evolve da una trilogia letteraria in una pentalogia multimediale: quando e come sei ritornato al testo letterario dopo la videoinstallazione o, come tu la definisci, dopo l’opera «video-letteraria»? Covacich Partiamo dalla fine, cioè dall’ultimo libro: A nome tuo. Quando mi sono trovato di fronte alla necessità di scriverlo mi sono trovato anche di fronte al problema di doverlo scrivere, perché questo contrastava completamente con il mio progetto di vita e di lavoro. Io ero arrivato a Prima di sparire con la convinzione, abbastanza radicata, che non avrei più scritto un libro e Prima di sparire, per me, raccontava la deposizione di un fallimento, cioè di come non ero riuscito a scrivere la trilogia, di come non ero riuscito ad andare dove 2_IH_Italienisch_69.indd 8 2_IH_Italienisch_69.indd 8 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 9 A colloquio con Mauro Covacich pensavo si potesse andare poiché avevo scoperto che non si può davvero arrivare nel luogo, diciamo, della ‹verità›, perché ogni volta che credevo di arrivarci non c’era la verità ma c’era un racconto della verità. Prima di arrivare al terzo romanzo credevo che avrei potuto scrivere la verità, portando il lettore nel luogo del dolore e della vergogna, perché nel dolore e nella vergogna uno è se stesso, quindi pensavo che mostrando dove mi sono vergognato, mostrando le situazioni più imbarazzanti di me avrei mostrato la verità. E invece questo progetto era fallito. Forte di questo sconforto avevo deciso di non scrivere più, però, nel frattempo, mi hanno invitato in Messico 8 per delle conferenze, e lì mi sono trovato di fronte questa storia per me meravigliosa 9 e mi è venuta voglia di scriverla. A nome tuo attesta il dibattito interiore che ne è derivato, tra una voce dentro di me che diceva assolutamente che il libro dovevo scriverlo e un’altra voce che diceva il contrario, perché sarebbe stata una contraddizione rispetto al mio progetto e alla ‹dichiarazione› fatta nel terzo romanzo. Tant’è vero che in quel momento consolidavo sempre di più la strada del video, avendo pensato di uscire dalla scrittura provando a fare Dario Rensich, provando a fare questo clone, questa epifania del personaggio cui dò il mio corpo. Ho risolto il conflitto interiore con un escamotage, ossia scrivere e pubblicare la storia che avevo trovato con un altro nome: Angela Del Fabbro. 10 Angela era già per me una figura fantasmatica in Prima di sparire, e allora ho scritto il libro con il suo nome. Questo percorso, però, è stato molto combattuto, sofferto, nel senso che per me scrivere con un eteronimo è stata una forma di suicidio assistito. Essendoci un elemento narcisistico nella scrittura, per il quale chi scrive vuole mettere il proprio nome sotto ciò che scrive, quella soluzione era per me una forma di morte, poiché io non esistevo più, non pubblicamente. Scrivere con il nome di un altro l’ho vissuto come una cosa luttuosa, non gioiosamente come pensavo: evidentemente sono abbastanza fiero delle cose che ho fatto e voglio che portino la mia firma. Non è esagerato dire che ho scritto A nome tuo per riappropriarmi del mio testo e di quello che Angela Del Fabbro mi aveva preso. Al tempo stesso però avevo bisogno di compenetrare Vi perdono con il lavoro precedente, cioè se dovevo ‹risorgere› dopo il tentativo di suicidio era importante che risorgessi in modo coerente con il lavoro precedente, mostrando anche in quello nuovo la storia e come l’ho scritta, come ci sono arrivato, prolungando la poetica di Prima di sparire. In questo senso la struttura di A nome tuo è importante, perché quell’enorme prologo che è L’umiliazione delle stelle, cioè la prima parte, si riconnette allo stile di Prima di sparire e a quella che era la mia visione di come avrebbe dovuto essere la mia scrittura. Inoltre, mettere in A nome tuo il dibattito interiore tra me e il mio eteronimo - Angela Del Fabbro è un eteronimo non è uno pseudonimo 2_IH_Italienisch_69.indd 9 2_IH_Italienisch_69.indd 9 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 10 A colloquio con Mauro Covacich perché è dotato di vita, ha una sua storia e diventa addirittura una presenza nel dibattito - per me ripristina il processo dello scrivere la storia mostrando come la scrivo e ripristina la genesi di Vi perdono nella forma del romanzo. Angela Del Fabbro in questo senso non è un nome falso, non è una scatola vuota, è una presenza consolidata nella mia vita, è un mio fantasma, quello con cui io nel libro non a caso ho un corpo a corpo, fisico, non un dialogo sui massimi sistemi, ma un incontro-scontro. A nome tuo ha raggiunto almeno lo scopo di mostrare le ragioni per le quali ho scelto l’eteronimo e nello stesso tempo lo fa nella forma del romanzo. Svelare poi tutto il processo attraverso la lettera finale, è una sorta di quadratura del cerchio. Inoltre è importante il fatto che A nome tuo è un titolo molto più radicato nel testo di quanto sia Vi perdono, perchè rende sia l’idea di quello che fa il personaggio di Vi perdono/ Musica per aeroporti [cfr. nota 10], cioè va a procurare il farmaco per suicidarsi, a nome di un’altra persona che non ne è in grado, sia la delega della scrittura: «scrivo io per te». D. Rispetto a questo stretto rapporto ‹personale› che stabilisci con i tuoi testi e al loro portato autoreferenziale e autobiografico ritieni che sia corretto, come è stato fatto, parlare di autofiction? Covacich Dal mio punto di vista la mia non è autofiction, benchè tutto autorizzi i lettori a credere che lo sia, nel senso che, anche dove invento, adotto un procedimento opposto all’autofiction. Prendiamo il caso di Walter Siti che è un maestro dell’autofiction e che utilizza il suo nome, lo dà al personaggio principale e crea un effetto mitico della sua persona, ma non usa la sua persona. Se io chiamo Walter Siti il mio protagonista e gli faccio fare delle cose ottengo un effetto mitopoietico, racconto delle favole, approfittando dell’attribuzione di una identità reale al mondo della finzione per ottenerne un effetto di personaggio sulla persona. Il mio tentativo è esattamente opposto: cerco di portare nel personaggio la mia persona, di portare me e la mia vulnerabilità dentro quel personaggio e il mio sforzo è quello di far somigliare quel personaggio il più possibile a me. Quindi io non gli potrei mai far fare delle aberrazioni, non potrei mai mettere in un libro che rubo denaro o che stupro una fanciulla o che corrompo qualcuno perché io nel libro debbo dire solo ed esattamente cose che so e posso fare o ho fatto, cose che riguardano la mia vita. Non potrei fare il contrario perché andrebbe contro la mia volontà. Perché la mia tensione etica, per quanto abbiamo scoperto paradossale, è quella di portare il più possibile il lettore vicino alla mia vita, mettendola dentro la letteratura. Non è autofiction dal mio punto di vista questo, è il contrario, non so come si potrebbe dire. 2_IH_Italienisch_69.indd 10 2_IH_Italienisch_69.indd 10 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 11 A colloquio con Mauro Covacich D. In che termini, quindi, la tua narrativa non è autofiction. Covacich Per forza di cose il mio lavoro assomiglia all’autofiction, ad esempio, appunto, a quella di Siti, perché i piani della realtà e della finzione continuano a fondersi e a mescolarsi, però con lo scopo di sottrarre sempre più spazio tra il lettore e me e quindi togliere sempre più spazio alla menzogna che è intrinseca nel raccontare storie. Come ho ammesso nella lettera finale di A nome tuo, cui già facevo riferimento, so che la mia vita è raccontare storie però per me è un dramma, nel senso che io vorrei portare il lettore nel luogo della verità, invece il molto più accorto, molto più avveduto, molto più colto Siti, sa che questo è impossibile, e fa il contrario: in un’ottica postmoderna dice «io mi chiamo Walter Siti come tutti…». 11 L’incipit di Walter Siti attesta la lontananza tra lui e me. Lui dice «mi chiamo Walter Siti come tutti, alla fine sono un nome, un’identità che può essere frutto di invenzione, che può diventare un contenitore di mille storie possibili col mio nome». Io invece dico: «il mio nome non può essere un contenitore di mille storie possibili, il mio nome è la prova che in quella storia ci sono io.» So che narratologicamente autore e narratore non sono mai la stessa cosa però è proprio questo lo sforzo, di stare dentro questo paradosso, il paradosso di recitare la parte di se stessi. L’autofiction dall’inizio si arrende, sa che noi recitiamo sempre una parte, che siamo sempre delle maschere. Pensa all’ultimo libro di Michel Houellebecq, Houellebecq fa Houellebecq, il famoso scrittore, che viene ucciso, quella è autofiction io non mi farei mai uccidere in un mio libro… D. Al di là della questione teorica tutta la tua prosa tende, in generale, a compenetrare due istanze, che si intrecciano cooperando allo sviluppo della trama e al tema centrale del racconto, ossia un fatto di cronaca unito a un’esperienza individuale, eventualmente esplicita, e un elemento teorico, filosofico. Come nasce in quest’ottica la narrazione e quale lavoro di preparazione implica? Covacich La cosa che a me appassiona di più è lo studio. Tutti i libri li ho scritti a partire da interessi più o meno filosofici: per Fiona ho lavorato sul linguaggio televisivo, sulla semiotica televisiva, per Vi perdono mi interessavano tutte le questioni filosofiche sul suicidio assistito e quindi mi sono letto dei libri sull’argomento. Quanto ai fatti reali che narro tendo a scrivere sempre e soltanto di cose che conosco, o di luoghi in cui sono stato e non scelgo mai un fatto di cronaca in base all’eco giornalistica che può avere avuto o alla sua 2_IH_Italienisch_69.indd 11 2_IH_Italienisch_69.indd 11 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 12 A colloquio con Mauro Covacich presenza nei dibattiti, nell’opinione pubblica, ma in base alla percezione che ne ho avuto io, se questo significa che ha toccato una mia corda un mio elemento vivo, di esperienza. Nel caso di A nome tuo, ad esempio, tengo sempre a precisare che, se l’argomento in modo più lato è la scelta di un malato terminale di poter morire, scendendo nel dettaglio c’è un abisso tra il suicidio assistito, cui mi sono interessato, e l’eutanasia (e quindi tutti i casi di cronaca degli anni scorsi); cioè, se parli di suicidio assistito metti in conto che ci debba essere una responsabilità fisica oltre che psichica della persona. L’intento del libro, dal mio punto di vista, è riflettere sulla questione del suicidio, che in Italia è un grande tabù della cultura cattolica, mentre, come sappiamo, ci sono forme di cultura nobili come lo shintoismo, lo stoicismo o l’epicureismo, in cui è un’ipotesi praticabile o addirittura più che rispettata. Io volevo rimettere in gioco il concetto del suicidio che, come dice Albert Camus in Le mythe de Sisyphe (1942), è l’unico argomento degno di essere discusso filosoficamente e interrogarmi sul fatto se si può avere o meno la libertà di scegliere quando e come morire. D. In quale direzione va il tuo interesse per questo tema che arriva a completamento della ricerca affidata alla pentalogia? Covacich Quando ho cominciato a lavorare su questo tema ero sicuro della mia convinzione di partenza, ossia che mi piacerebbe che esistesse anche in Italia, come in Svizzera o in Oregon, il suicidio assistito, perché, se ho di me un’idea di un certo tipo, il fatto di poter essere totalmente impotente sotto le mani di persone che dispongono del mio corpo e mi fanno vivere in un modo che io non ritengo degno di essere vissuto, attiene a un’idea talmente indecorosa e indegna del mio corpo che io mi vergogno. Il che non è tanto legato a un culto dell’efficienza fisica, al senso del fisico decaduto, ma al fatto che questo non sia più tuo. Però, a me interessa spingermi non dove sono sicuro di me, ma dove non sono sicuro di me, perché è proprio lì che funziona la mia ricerca e il luogo in cui io non ero sicuro di me, rispetto a questo tema, l’ho verbalizzato e affrontato in A nome tuo attraverso il personaggio di Grimaldi. Grimaldi è una persona sana - sia fisicamente che mentalmente - che semplicemente ritiene di aver vissuto abbastanza. Il punto critico è: una persona come Grimaldi può fare ricorso al suicidio assistito? In quel luogo, come mi comporterei? Accetterei che ognuno di noi, sano o malato, possa disporre della sua boccettina a casa: io a questo non so ancora rispondere. E assecondando la mia incertezza, mi sono, come sempre, interrogato scrivendo. 2_IH_Italienisch_69.indd 12 2_IH_Italienisch_69.indd 12 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 13 A colloquio con Mauro Covacich Tra l’altro questa era l’unica ragione per cui io potessi mettermi a scrivere quel libro, che è stato l’incontro di due magneti, da una parte il fatto: mi trovavo in Messico, del tutto casualmente, e su Reforma ho letto un’inchiesta giornalistica su quelli che loro chiamano «i corrieri della morte»; dall’altra parte un’esperienza personale: mia nonna, che aveva all’epoca 103 anni e che da almeno tre anni era un tronco inespressivo, che moriva lentissimamente e a quanto vedevo dolorosamente. Questi due elementi devono aver creato una scintilla, su cui poi mi sono messo a lavorare sul piano filosofico. D. La realtà che entra a far parte dei tuoi libri è sempre di stringente attualità. Come si sviluppa la relazione tra testo letterario e cronaca? Covacich Naturalmente non basta l’argomento importante o di cronaca perché io me ne occupi, c’è bisogno che imbattendomici questo risuoni in una cosa che già c’è dentro di me. In Fiona c’è Il grande fratello di cui ho seguito la prima edizione, nel 1999, per il Corriere della Sera, ma non mi sono messo subito a scrivere il romanzo; la stessa cosa per La poetica dell’Unabomber (1999). Né è necessario che sia un fatto molto discusso: la vicenda di cronaca di A nome tuo, era per molti aspetti del tutto trascurabile (parliamo di un periodo ancora precedente alla vicenda di Eluana Englaro, 12 non c’era un interesse generalizzato) ma ha parlato immediatamente a una mia zona emotiva forte. Ed è sempre stato così: il fatto di cronaca dell’intossicazione del Tibisco, 13 l’avevo vista, mi aveva colpito e avevo cominciato a raccogliere materiali. Mi aveva colpito visivamente, perché avevo immediatamente pensato all’immagine della grande vena della terra, me l’ero immaginata come un organismo vivente, in modo classico, nel quale veniva iniettata questa overdose di veleno, ed è l’immagine che c’è in A perdifiato. Successivamente è venuto un invito in Ungheria, 14 a Budapest, da Budapest sono andato a Szeged [cfr. nota 13], dove dovevo stare tre settimane e sono invece rimasto tutto l’inverno, si è sommata quindi un’esperienza personale e diretta, e quando sono tornato a casa ho scritto il libro. C’è sempre un incrocio e mi accorgo subito se una cosa mi può riguardare, immediatamente sento che ha una temperatura, che ne farò qualcosa, che non la uso per fare un pezzo per un giornale, che non la brucio così. Come nel caso dell’ulivo bruciato nella campagna di Campagnatico [di cui in L’amore contro n.d.c.], su cui era uscito un articolo su La Stampa e io ero andato a vedere per «Diario» 15 e poi, arrivato lì, ho visto che non c’erano gli estremi per farne un reportage, ma per fare altro sì e me lo sono tenuto. Poi ci sono pezzi di vero e proprio studio della realtà. I brani dei maghi in L’amore contro sono stati un bellissimo lavoro che sarebbe un ottimo 2_IH_Italienisch_69.indd 13 2_IH_Italienisch_69.indd 13 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 14 A colloquio con Mauro Covacich oggetto di laboratorio di scrittura. Ho fatto un lavoro certosino nel senso che sono tre voci costruite in modo artificiale attraverso l’ascolto ripetuto di voci vere che poi si sono sintetizzate. Avevo quattro cassette da 2.40, ancora le VHS all’epoca, 16 ore di registrazione di tutti i maghi che all’epoca andavano sulle tv private, o meglio, di quelli che mi piacevano di più. Ho passato mesi ad ascoltarli a verbalizzarli a scrivere a sentire le voci e piano piano queste voci da otto sono diventate sei, una è diventata frutto di due, e poi sono diventate le tre del libro che rappresentavano tre tipi: il naif, Floriano Cagnazzo, la furba, Vangelja, e il terzo, Amelior, che corrispondeva a un cliché forte nei modelli, un tipo umano arrogante, fiero di una sua presunta scienza, che fa degli strafalcioni enormi e che poi… quando fa i tarocchi a Sergio, il protagonista del romanzo che si rivolge al mago per cercare di risolvere i propri problemi, «ci prende», ossia indovina punto per punto tutta la vita del personaggio. Ed è questo che a me piace, nel senso che la mia posizione critica, è una posizione sempre ambigua: io sono critico però aderisco alle cose che racconto, il modo in cui tratto l’astrologia ne è un esempio, perché mentre parlavo di astrologia o di tarocchi mi piacevano moltissimo, come medium per giocare sull’interpretazione dell’animo umano. Quindi per essere sempre onesto con me stesso, non volevo solo mostrare un atteggiamento accigliato e critico nei confronti dell’astrologia, o facilmente sarcastico verso i maghi, che alla fine sarebbe stato facile. E questa per me deve essere una costante nel mio lavoro. D. A proposito dei personaggi: ci sono alcune strutture di interrelazione frequenti tra i personaggi o le tipologie di personaggi che ricorrono nei tuoi testi. Per esempio, il personaggio protagonista maschile trova nel personaggio protagonista o co-protagonista femminile una fonte positiva, che lo sollecita ad aprirsi a una prospettiva futura, che lo fa in qualche misura progredire, spesso perché l’ingresso della figura femminile nella vita dell’uomo si collega al pensiero della paternità. Poi però arriva veramente una figlia, Fiona, e questa entra in conflitto con gli altri personaggi tanto che tutti coloro con cui Fiona entra in relazione (e in particolare i personaggi maschili) subiscono un processo di profonda degradazione. Qual’è il senso del ruolo che hai voluto assegnarle? Covacich Fiona è un’ossessione, una presenza ricorrente nel mio pensiero e mai positiva. Fiona, dal mio punto di vista, è la voce della verità. La cosa che ti inchioda alla verità dei fatti. In A perdifiato svela ai due protagonisti che non ce la fanno realmente ad adottare la bambina. Con una metafora orrenda è una cartina di tornasole. In Fiona ancora di più perché, sempre secondo me, il 2_IH_Italienisch_69.indd 14 2_IH_Italienisch_69.indd 14 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 15 A colloquio con Mauro Covacich protagonista è sostanzialmente vittima della complicità del mondo che lo circonda. La moglie gli è complice perché fa la diversa ma non lo è, cioè accetta tutti i benefici della vita del marito, i suoi collaboratori gli sono complici perché più lui si sporca le mani più il programma va bene e più loro sono felici… e lui è schiavo di questa complicità. Paradossalmente, il fatto di non avere un nemico di non avere un ostacolo di non avere un punto su cui sbattare, nessuno specchio in cui guardarsi lo annienta, e poi arriva invece questa bambina che è quella che ti pone i problemi, perché non parla, è cattiva, nel senso che morde, è un elemento disturbatore, non un elemento connettore, un elemento disturbatore che crea dissidio e l’inchioda a se stesso. Certamente i momenti che Sandro passa con Fiona sono i momenti in cui non può sfuggire a ciò che lui è veramente, in cui è messo di fronte a se stesso da una specie di specchietto che smonta il compromesso, smonta la complicità. Guarda anche cosa diventa in A nome tuo, per me era fondamentale perché Fiona è perfettamente coerente con la figurina che è partita da A perdifiato, diventa di nuovo lo specchio, la voce della verità. Lei «mi» chiede «scrivi per me, scrivimi un libro che faccia vendere di più, non scrivere un libro sulla morte, scrivi un libro su una bella saga famigliare». Questa figura che ti mette di fronte a te stesso mi affascina, ne sono innamorato, ma la vorrei anche brutalizzare e non a caso nel libro ne faccio di cotte e di crude. È una presenza con cui i miei personaggi e il personaggio che sono diventato io in questo percorso fanno fatica a fare i conti, perché dice la verità, e non a caso appunto è l’elemento più vicino alla barbarie della natura, quella priva delle nostre convenzioni, dei nostri compromessi, che ci aiutano a sopravvivere, di quelle convenzioni sociali che invece lei non ha. Note 1 Don DeLillo (New York 1936) è considerato il maestro della narrativa postmoderna è autore di: Americana (1971), End zone (1972), Great Jones street (1973), Ratner’s star (1976), Players (1977), Running dog (1978), The names (1982), White noise (1985), Libra (1988), Mao II (1991), Underworld (1997), The body artist (2001), Cosmopolis (2003), The falling man (2007), Point Omega (2010). 2 Marina Abramovich (Belgrado 1946) è stata tra i pionieri dell’arte performativa ed è tutt’ora figura di riferimento nel panorama artistico mondiale. Dal 1975 al 1988 ha collaborato con il performer tedesco Ulay; dal 1988 ha realizzato performance individuali tra le quali si ricordano Objects Performance Video Sound (1995), Balkan Baroque (1997), Artist Body - Public Body (1998), The House with the Ocean View (2003), The Star (2004), Seven Easy Pieces (2005), The Artist is Present (2010). 3 Don DeLillo, Rumore bianco, traduzione di Mario Biondi, Napoli: Pironti 1987. 2_IH_Italienisch_69.indd 15 2_IH_Italienisch_69.indd 15 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 16 A colloquio con Mauro Covacich 4 Sophie Calle (Parigi 1953) artista concettuale che nella propria carriera ha attraversato diversi generi e sperimentato numerosi mezzi espressivi dai libri alla fotografia, dal video e dai film alla performance. Tra le sue realizzazioni si ricordano: The Sleeper (1979), The Shadow (1981), The Blind (1986), Double Blind (1999), Sophie Calle: Did you see me? (2004), Appointment with Sigmund Freud (2005), Exquisite Pain (2005), En finir (2005), Take Care of Yourself (2007), Sophie Calle: Double Game (2007), Sophie Calle: The Reader (2009). 5 Dogma 95 è un movimento cinematografico animato da Lars von Trier che, nel 1995, ha fissato un decalogo di norme, relative alla realizzazione tecnica di un film, cui un regista deve attenersi per dare vita a un cinema non artefatto e non compromesso dalla innaturalità degli effetti speciali. Il manifesto prevede che le riprese vengano effettuate in luoghi e con oggetti reali, che il suono non sia prodotto separatamente all’immagine, che la macchina da presa sia a mano e non fissa, che il film sia a colori e senza illuminazione artificiale né ottiche o filtri; inoltre vieta la simulazione dei fatti (esempio: un omicidio), l’ambientazione al di fuori del tempo presente e i film di genere. 6 Il riferimento è al testo del pamphlet che accompagna il DVD della videoinstallazione L’umiliazione delle stelle, realizzata nel 2010. Se ne può vedere un brevissimo estratto nel video intitolato Verso l’umiliazione delle stelle disponibile sul canale YouTube della Fondazione Claudio Buziol: http: / / www.youtube.com/ watch? v=cHRjBhUt88M (7.2.2013). 7 Dopo la laurea e prima di dedicarsi completamente all’attività di scrittore Covacich è stato insegnante di scuola superiore dal 1993 al 1999. 8 Nel maggio del 2008, invitato dall’Istituto Italiano di Cultura per un tour culturale in varie città messicane. 9 La storia dei cosidetti «corrieri della droga» che procurano - nel caso che poi è diventato soggetto del libro A nome tuo, a persone affette da mali incurabili - medicinali che inducono la morte se assunti in determinate dosi (cfr. infra). 10 Allude a Vi perdono [a firma: Angela Del Fabbro], Torino: Einaudi 2009, poi confluito in A nome tuo, Torino: Einaudi 2011, con il titolo di Musica per aeroporti, che originariamente Covacich aveva dato al testo e che era poi stato cambiato in Vi perdono dietro suggerimento della casa editrice. 11 Walter Siti, Troppi paradisi, Torino: Einaudi 2006. 12 Covacich allude a Eluana Englaro, la donna che, entrata in coma nel 1992, è stata tenuta in vita artificialmente sino a che il padre ha chiesto e ottenuto, nel 2009 e solo dopo un lunghissimo processo, la cessazione delle cure mediche. Come lo stesso Covacich non manca di sottolineare, il cosiddetto «caso Englaro» è un caso di eutanasia e non di suicidio assistito, ma nell’accesissimo dibattito, anche politico, che la vicenda ha suscitato in Italia soprattutto negli anni conclusivi della vicenda, eutanasia e suicidio assistito si sono spesso trovati affiancati e confusi. 13 Affluente di sinistra del Danubio che per una parte del proprio percorso attraversa l’Ungheria e tocca, tra le altre, la cittadina di Szeged (in italiano Seghedino), al confine con la Serbia. Nel 2000 le acque del Tibisco (e del Danubio) vennero gravemente contaminate dal cianuro fuoriuscito da un lago di decantazione di una miniera in Romania. 14 Tra l’ottobre e il dicembre del 2001. 15 «Diario della settimana», supplemento del quotidiano L’Unità. 2_IH_Italienisch_69.indd 16 2_IH_Italienisch_69.indd 16 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 17 A colloquio con Mauro Covacich Bibliografia delle principali opere di Mauro Covacich Safari, Radiodramma per la regia di Edoardo Winspeare, con Lamberto Probo e Massimiliano Speziani, per la serie Atto Unico Presente, a cura di Anna Antonelli e Lorenzo Pavolini, Radio 3, 6-7/ 4/ 2002, poi edito con prefazione di Magda Poli, Pordenone: Associazione provinciale per la prosa 2003. Storia di pazzi e di normali. La follia in una città di provincia. Roma: Theoria 1993; Storia di pazzi e di normali. Roma: Laterza 2007. Colpo di Lama. Vicenza: Neri Pozza 1995. Mal d’autobus. Vivisezione di animali, uomini e sentimenti. Milano: Tropea 1997. Anomalie. Milano: Mondadori 1998; ivi: 2001. La poetica dell’Unabomber. Roma: Theoria 1999. L’amore contro. Milano: Mondadori 2001; Torino: Einaudi 2009. A perdifiato. Milano: Mondadori 2003 [Trieste: FVG 2003, La biblioteca del Piccolo. Trieste d’autore n. 14, suppl. a Il piccolo. Giornale di Trieste]; Torino: Einaudi 2005. Fiona. Torino: Einaudi 2005; ivi: 2011. Trieste sottosopra. Quindici passeggiate nella città del vento. Roma: Laterza, 2006. [Traduzione in tedesco: Triest verkehrt. Berlin: Wagenbach 2012.] Café zentral. Mantova: Corraini, 2006. Prima di sparire. Torino: Einaudi, 2008; ivi: 2010. Vi perdono [a firma: Angela Del Fabbro]. Torino: Einaudi 2009. L’umiliazione delle stelle, DVD, Roma: Buziol, Torino: Einaudi, Roma: MAM Magazzino d’Arte Moderna 2010. A nome tuo. Torino: Einaudi 2011. L’arte contemporanea spiegata a tuo marito. Roma: Laterza 2011. 2_IH_Italienisch_69.indd 17 2_IH_Italienisch_69.indd 17 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05