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Narr Verlag Tübingen
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2013
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Fesenmeier Föcking Krefeld OttIl ricordo e la visione
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2013
Patrizia Piredda
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3 4 PAT R I Z I A P I R E D DA Il ricordo e la visione La costruzione autobiografica negli ultimi scritti di Gabriele D’Annunzio Il presente articolo è uno studio sull’ultima produzione dannunziana che si definisce autobiografica. Attraverso l’analisi testuale, metterò in luce come, attraverso la scrittura, D’Annunzio crei un’immagine mitica di se stesso quale uomo eccezionale, unico e al di sopra di tutti gli altri uomini per sensibilità, ardore, passione, eleganza. Tuttavia questa immagine, che D’Annunzio elabora attraverso diverse fasi autobiografiche come preannunciata dal destino fin dall’infanzia, anziché risolversi nell’apoteosi eroica della morte in guerra durante il conflitto del 1915-1918, diventa, nella terza e ultima fase autobiografica, oggetto di una rappresentazione malinconica e decadente, in cui si sostituiscono all’eroismo e al vitalismo estetistico le allegorie cristologiche e la contemplazione della morte. In tutta la sua opera D’Annunzio dissemina tracce della sua vita utilizzando varie modalità espressive che solo nelle ultime opere possono essere definite autobiografiche. 1 Se però generalmente la scrittura autobiografica costringe lo scrittore a cercar di mantenere uno sguardo prospettico sul passato il più possibilmente neutro e oggettivo, D’Annunzio, nel momento in cui ricerca nei meandri dei ricordi gli eventi della sua vita, aiutato dagli appunti che costantemente ha raccolto nei taccuini, «ha bisogno di montare ogni accadimento, di gonfiarlo, di arricchirlo, non solo di mostrare, ma di illustrare con tutti i mezzi della parola quello che è stato e che sta narrando di essere stato.» 2 L’abitudine di appuntare qualsiasi cosa desti il suo interesse, un fatto, un’impressione o una sensazione, su un taccuino che non mancava mai di portare con sé, ha origine nel periodo romano quando D’Annunzio svolgeva prevalentemente l’attività di cronista. Già nei taccuini 3 la scrittura è concepita in funzione di uno scopo pratico-utilitaristico ed è per questo che «insieme con la consapevolezza dei propri mezzi espressivi D’Annunzio ha in effetti avuto da sempre l’abilità di attrezzare un efficientissimo laboratorio di scrittura.» 4 L’abitudine di appuntare tutti i dettagli della quotidianità, che ben presto diventa una tecnica per la composizione di testi letterari, dà vita a un calderone di abbozzi, di parti scritte più o meno organicamente, di piccoli frammenti descrittivi successivamente utilizzati nei romanzi, nei discorsi e nelle composizioni poetiche. Anche il taccuino, dunque, non è composto da una scrittura privata e intimistica, ma è composto come se ci fosse un lettore pronto a leggerne le pagine: da un lato dunque il taccuino «con i suoi periodi franti, paratattici, con i suoi rapidi schizzi aggiunti allo strumento espressivo ‹parola›, denuncia 2_IH_Italienisch_69.indd 34 2_IH_Italienisch_69.indd 34 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 35 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione costantemente il desiderio di impossessarsi dell’oggetto,» 5 dall’altro svela il bisogno costante della presenza dell’altro, del lettore, senza il quale la parola nata come parola estetizzante, ossia protesa a creare un effetto immediato, non avrebbe senso. Solo nell’ultima fase della sua produzione D’Annunzio scrive però delle memorie autobiografiche: per questo Andreoli annota che «sin dalle prime prove D’Annunzio si rivela propenso all’autobiografia, anche se bisognerà attendere gli anni della maturità perché emerga appieno il memorialista, è tuttavia innegabile che gli eroi dei cicli narrativi della rosa, del giglio e del melograno gli somiglino a oltranza.» 6 In questi testi dalla costruzione di se stesso come esteta aristocratico, capace di creare la bellezza che riporterà agli antichi splendori gli uomini, ridotti ad essere una moltitudine informe priva di nobiltà, all’esaltazione del mito di sé come poeta guerriero e mistico veggente, ritirato a vivere nella sua dimora sul lago di Garda, D’Annunzio rivive nel ricordo tutti gli eventi della sua vita che ha sempre definito inimitabile benché suo malgrado, scrive Andreoli, sia stato «fin troppo imitato e due generazioni hanno ormai appreso dall’unico dandy dell’Italia postunitaria come si seduce una donna, come ci si veste, quali sport praticare o dove andare in vacanza.» 7 In questa fase propriamente autobiografica si possono individuare due momenti della scrittura dei ricordi di D’Annunzio: il primo momento è quello del Notturno, che cade durante la pausa dalla guerra nel 1916 dovuta a un ammaraggio di fortuna dal quale D’Annunzio riceve una ferita alla testa e la perdita dell’occhio destro. Il secondo momento è quello caratterizzato dal ricordo melanconico degli anni del Libro segreto. Le tonalità mistiche del primo momento: il Notturno In questo periodo D’Annunzio scrive delle memorie «a caldo», che sono poi pubblicate nel 1921 nel Notturno. In quest’opera, la narrazione diventa la porta che apre alla dimensione del passato e che permette a D’Annunzio di vivere con memorie visionarie il dinamismo e la frenesia che caratterizzarono le esperienze belliche. Steso sul letto scrive: «non sento più il guanciale, non sento più il letto. Odo un rombo confuso, odo il fragore del volo, odo il crepitio del combattimento. Una mano pietosa e rude m’ha discostato, m’ha sospinto. Il mio capo è forato: penzola nel vuoto, dal bordo della carlinga che vibra.» 8 2_IH_Italienisch_69.indd 35 2_IH_Italienisch_69.indd 35 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 36 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda Questa è la descrizione estetizzata del momento in cui subisce la ferita all’occhio, ancora talmente vivo da essere percepito più reale della materialità del letto nel quale si trova immobilizzato. Il Notturno è definito un libro di visioni, di immagini che riaffiorano dal passato allo sguardo interiore del poeta-combattente che, immobile nel buio del suo letto, è costretto a scrivere come la Sibilla su strisce di carta preparate dalla figlia Renata che amorevolmente lo accudisce durante la convalescenza. Se prima della guerra D’Annunzio riesce a vedere come in una visione oracolare il futuro glorioso dell’Italia, dopo la guerra, quando la sua vista è chiusa alle cose terrene presenti, non vede più il futuro ma il passato: «solo il passato esiste, solo il passato è reale come la benda che mi fascia, è palpabile come il mio corpo in croce.» 9 Gli annuncia il dottore: «È oramai cieco senza speranza ma di una cecità che vive della vostra più profonda vita cerebrale esprimendola con segni di continuo variati, interpretandola con figure luminose di origine a voi medesimo ignota, registrandola con non so che scrittura geroglifica ispirata da un mistero ove si addensano e si dissolvono tutti i vostri misteri e quelli de’ vostri maggiori e quelli della vostra discendenza. Un altro uomo assistendo a un tale travaglio direi quasi cosmogonico, impazzirebbe. Voi siete sempre più avido di questi spettacoli appariti a voi solo.» 10 Per capire il ruolo della visione nel periodo della lontananza dall’azione, della staticità, bisogna tener conto che per D’Annunzio è sempre stato valido il chiasmo in cui la morte, quando connessa all’azione eroica, è vitale, mentre la vita, quando connessa alla staticità della non-azione, è mortuaria. Vivere significa agire eroicamente, rendendo la propria esistenza un unicum; mentre chi non agisce vive come un morto in vita. Ma, nell’immobilità della convalescenza, e più tardi nel ritiro dalle scene mondane il rigore con il quale si afferma l’equazione vita=azione/ morte=inazione, è sfumato da un altro costrutto chiasmico nel quale l’azione è sempre vita, ma l’inazione non è più morte bensì visione. La vista metafisica acquisita con la cecità è limitata all’osservazione del passaggio di una via crucis del ricordo dove appaiono, uno dietro l’altro, gli spiriti e i volti, che rivivono nella sofferenza dell’anima: «volti, volti, volti, tutte le mie passioni di tutti i volti, scorrono attraverso il mio occhio piagato, innumerabilmente, come la sabbia calda attraverso il pugno.» 11 I volti si tramutano velocemente e si trasformano in una nuova visione che lo riporta al 15 di maggio del 1915, quando dalla ringhiera del Campidoglio vede i volti del popolo «formati nella bragia carnale, stampati nel fuoco sanguigni,» quando «il tumulto ha il fiato di una fornace.» 12 Que- 2_IH_Italienisch_69.indd 36 2_IH_Italienisch_69.indd 36 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 37 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione sto è stato l’ultimo discorso tenuto da D’Annunzio prima dell’entrata in guerra; un discordo molto animato del quale D’Annunzio ricorda i minimi particolari: «trascino e sono trascinato […] il delirio confuso della moltitudine si fa voce chiara in me […] la folla urla e si torce per generare il suo destino.» 13 Ricorda che a un certo punto qualcuno gli porge la spada di Bixio e lui la mostra alla folla che diviene «come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde.» 14 Il telos di questo scritto è ricordare che in guerra l’ideale eroico si è realizzato nella figura del poeta combattente che ha incarnato la forza, la virilità, la violenza, l’ardore e anche la capacità di sopportare l’altro uomosoldato, percepito come un qualcosa di negativo e di estraneo. Il vero abominio della guerra infatti per il D’Annunzio è la concretizzazione di quello stesso orrore che prova «fin dai primi anni d’età - dell’odore del prossimo, dell’aspetto del prossimo, della vicinanza o del contatto di un estraneo.» 15 D’Annunzio anticipa retoricamente questo suo disgusto per l’altro all’età dell’infanzia per farne un tratto essenziale della sua personalità, un orrore che l’ha costretto a dei veri e propri patimenti durante la promiscuità della guerra che utilizza però per determinarsi come eroe eccezionale, l’unico capace di sopportare il sacrificio che aliena l’individuo per il bene del sacro telos: «il mio sforzo nel tollerare il ‹gomito a gomito› nella nave, nel velivolo, nella trincea, è parte vera del mio eroismo senza misura; ed è la certa diminuzione della mia gioia nell’atto mistico del dono di me, della sfida costante alla morte.» 16 La guerra richiede così all’eroe eccezionale persino di accettare e sopportare il sacrificio del donarsi completamente, pur sapendo che riceverà in cambio una gioia mutilata perché vissuta forzatamente assieme e a contatto con l’altro che poco o nulla ha in sé di eroico. Questo credere fermamente che l’eroismo sia qualcosa di estetizzante, di visibile, di plastico da sovrapporre alla vera guerra, alla realtà delle trincee, all’eroismo fuori dai riflettori, porta D’Annunzio a preferire l’esperienza della guerra in aria la quale in un certo qual modo permetteva che, in una guerra di fatta di numeri più che di soldati, l’individuo potesse essere ancora un guerriero che combatte un duello vis-àvis con il nemico. La guerra aerea è l’incarnazione del mito di Icaro e l’affermazione vittoriosa della tecnologia, dove la presenza dell’altro è fortemente limitata al contatto con un uomo che si percepisce non come un estraneo, perché con il compagno di volo si instaura una particolare affinità, mistura di fiducia, ammirazione e rispetto. 17 Nel momento in cui invece la promiscuità tra l’eroe e i non-eroi, tra chi vive nel bello e chi vive nella sozzura, si fa più forte, ricorda D’Annunzio di dover continuare ad agire «pur 2_IH_Italienisch_69.indd 37 2_IH_Italienisch_69.indd 37 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 3 8 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda mantenendo l’orrido intrico degli eventi nel mondo, pur mantenendo l’atroce lotta della vita esterna», 18 inebriato sempre dalla volontà di vivere ma «non dalla volontà bassa di vivere, da quella canina a quella porcina, ma dalla volontà eroica di vivere per dominare le forze esteriori e per vincere la battaglia.» 19 L’azione eroica, dunque, non può essere vissuta per il D’Annunzio dai soldati che lottano senza l’ubriachezza dei fumi dell’esaltazione mistica ed estetizzante. Opponendo la massa di uomini-soldato a se stesso D’Annunzio retoricamente alimenta una dualità che si trova costante in tutta la sua opera: da un alto si ha tutto ciò che è nobile, bello, estetistico, raffinato, unico, eroico, vitale; dall’altro tutto ciò che è volgare, brutto, molteplice, porcino, tedioso. 20 Nel Notturno questa differenza tra l’uno e i molti, è rappresentata dall’opposizione tra il veggente solitario che racconta e la moltitudine cieca, muta senza parola. Da sempre D’Annunzio invoca la propria diversità, tanto da affermare successivamente nel Libro segreto che, unica voce solitaria, la sua ha proclamato contro l’opinione di tutti la bellezza della guerra: «non ascoltato e vilipeso, io solo annunziavo la guerra come una potenza liberatrice e creatrice, esploravo gli orizzonti con gli occhi avidi ch’erano due prima che la mutilazione, invece di menomare la vista, l’afforzasse e la moltiplicasse nel visibile e di là dal visibile, nel veduto e nel non mai veduto.» 21 Ovviamente la guerra è stata proclamata come evento positivo, bello, vitalistico da molte altre voci, non da ultimi dai futuristi che nel Manifesto di Marinetti la esaltarono come rinnovatrice, forte, purificatrice. 22 Ma lo scopo retorico di questo tipo di proposizioni sta proprio nel creare uno iato tra l’uno e il molteplice, al di là della realtà dei fatti e del contesto al quale tale argomentazione si riferisce, per esaltare attraverso l’opposizione degli opposti l’uno che per D’Annunzio è l’unico vero e possibile eroe: se stesso. Un turbine di visioni emerge ancora davanti agli occhi di D’Annunzio dallo sfondo nero della cecità, e crea una sospensione della stasi a cui è costretto il corpo che giace sul letto, e il supplizio dell’anima causato dalla comparsa di immagini dal passato della guerra. L’inferno della guerra che coinvolge l’uomo nella sua totalità sensoriale, dal dolore fisico agli olezzi acri, al rumore assordante dei bombardamenti, alla vista di scene orribile, ai sapori rancidi e metallici, si trasferisce adesso all’interno della persona stessa e diviene inferno dello spirito e del ricordo. Le visioni vengono definite «folgori di follia» e sono percepite in modo così realistico e crudo che D’Annunzio fa un grande «sforzo per non gridare di spavento e di dolore» e metter fine a quella lunga notte «di fiamme in travaglio.» 23 L’immobilità del corpo è identificata con la morte, così come il letto è identificato con la bara: «tutto è buio. Sono 2_IH_Italienisch_69.indd 38 2_IH_Italienisch_69.indd 38 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 39 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione in fondo a un ipogeo. Sono nella mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina.» 24 In questa dimensione mortuaria passa la processione delle immagini dei compagni morti in battaglia che si presentano agli occhi del poeta così come li aveva visti durante la guerra: gli compare, ad esempio, lo scultore Vincenzo Gemito intento a modellare un pezzo di cera rossa, lo stesso identico gesto che ripeteva ossessivamente e che lo legava ancora al mondo dei «sani» dopo essere diventato demente a causa di una ferita alla fronte. Gemito gli appare «là, nell’inferno» del suo occhio bendato, fino a quando «il suo corpo scompare, divorato dal fuoco che arde» 25 sotto la sua palpebra. Nell’immobilità buia, l’occhio bendato è persino in grado di vedere la dimensione della propria anima, percepita altrettanto reale come quella dei fatti, della contingenza. Questa visione è una sorta di auto-visione o di auto-percezione che permette a D’Annunzio di cogliere «il meraviglioso viso che ora è veramente il suo viso, quello che tanto desiderò avere e non potette,» 26 e di afferrare una verità fino ad allora percepita ma mai pienamente compresa: la sua anima «sapeva la morte essere una vittoria, ma non così grande. Immortale, ella è tuttavia radiosa nella morte, e il vento del volo funebre non la svelle. La carne era il suo peso, ed ora è il suo rapimento. Il sangue era la sua turbolenza, ed ora è il suo miracolo. La vita era il suo limite, ed ora è la sua libertà.» 27 Contro il primato dell’azione, in queste rappresentazioni di visioni si arriva, a un vero capovolgimento di prospettiva e si accoglie l’idea platonica del corpo come soma, come tomba dell’anima, la parte dove risiede la vera vita dell’uomo. Capovolgimento che rimarca l’eccezionalità del poeta-eroe che in azione è sublime corporeità, nella non-azione è sublime spiritualità, ma che, comunque, non annulla l’idea che la vita debba essere vissuta nel presente, dimensione temporale dell’agire, perché solo in questa dimensione temporale il corpo è la materia che accoglie ed esprime l’anima. Questa concezione non muta neanche negli anni Venti quando, «la guerra, ch’era divenuta una vera necessità della sua esistenza, è finita, ormai è inesorabilmente alle spalle; per quanto auspichi e faccia, non riprenderà. L’avventura di Fiume sarà solo una pallida, triste parodia, su scala immensamente ridotta, dell’immane epopea della guerra vera.» 28 2_IH_Italienisch_69.indd 39 2_IH_Italienisch_69.indd 39 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 0 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda Le tonalità crepuscolari del periodo di passaggio: le Favole del Maglio Dopo la guerra e l’impresa di Fiume, ormai prossimo ai sessant’anni, D’Annunzio sa che non ci potrà essere per lui un altro evento del quale essere protagonista attivo: «io sono uno di quei navigatori che, per non udire le sirene del Passato e per non cedere alla tentazione di volgersi indietro mollano la scotta, si turano le orecchie con la cera d’Ulisse. Nondimeno m’accade talvolta di sentir rivivere le cose morte con sì grande polso, che il presente n’è soverchiato e l’avvenire n’è tutto pallido.» 29 D’Annunzio non aveva avuto paura di finire i suoi giorni sul campo di battaglia; perché ciò lo avrebbe immortalato come individuo pensante e soprattutto agente, ma paventava la decadenza fisica. In una lettera a Salandra del 1915 scrive che, una volta finita la guerra, avrebbe voluto tornare alla solitudine: «Qualche mese prima del triste epilogo fiumano, aveva detto al figlio Mario: ‹pensi tu come io possa, dopo lo sforzo di cinque anni di guerra e dopo che ho avuto quasi onori sovrani, ritirarmi in una vita mediocre e rifare il poeta e lo scrivano nazionale? › era come dire, fra l’altro, che non concepiva più il poetare e lo scrivere sciolto dall’azione e dal combattimento.» 30 Tuttavia, nella solitudine D’Annunzio torna a scrivere, ma il suo linguaggio perde gli ‹eroici furori› e assume le tinte crepuscolari e melanconiche del ricordo. Tra il Notturno e Il Libro segreto, D’Annunzio pubblica una serie di scritti autobiografici, composti tra la fine dell’Ottocento e la prima decade del Novecento, nei quali compare la morte come perdita della vitalità, della giovinezza e della virilità, e si colgono le prime tracce linguistiche che indicano la comparsa del sentimento melanconico. Ne Il venturiero senza ventura (scritto tra il 1896 e il 1907), Il compagno dagli occhi senza cigli (1900), Esequie della giovinezza (1903), Dell’amore e della morte e del miracolo (1905) raccolti nel 1924 in Le faville del maglio, D’Annunzio racconta gli anni del collegio, i volti, gli ambienti, le atmosfere e degli episodi di quella vita passata che non amava ricordare: «non so terrore più profondo di quello che m’occupa quando, nella pausa della mia propria volontà che mi crea, io vedo accor- 2_IH_Italienisch_69.indd 40 2_IH_Italienisch_69.indd 40 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 41 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione rere dall’infinito il vento senza nome in esso agitarsi la polvere del passato e levarsi contro a me non come ombre delle cose che furono ma come aspetti di quelle che sono per essere: ond’io non riconosco più la successione della vita né la mutazione della sua sostanza, ma avverto entro me una specie d’immobilità veggente, simile a quella dell’occhio che m’aperse quando nacqui lagnandomi.» 31 Ne Il venturiero, come cita il proseguo del titolo, D’Annunzio descrive esplicitamente la sua esistenza come ‹vivere inimitabile›. Si legge in apertura dell’opera che «tutte queste mie ardue prose furono scritte a chiarezza di me, con la volontà costante di acuire sempre più la mia attenzione sopra la mia vita profonda e con l’assiduo sforzo di cercare quella mia ‹forma pura›, a cui il mio fervore il mio coraggio il mio patimento sono chiamati e destinati.» 32 La scrittura ha il compito di esprimere la personalità dell’autore in modo tale che sia resa più evidente la connessione tra ‹la forma pura› vale a dire la forma perfetta delle sue rappresentazioni artistiche e la vita di D’Annunzio, una connessione viscerale e voluta dal Fato. Non c’è iato né differenza allora tra la parola e la cosa pronunciata perché, scrive D’Annunzio «il mio linguaggio m’appartiene intiero; e circola in me, e si sviluppa e si accresce e si moltiplica in me come la forza vegetale che dell’albero fa una sola creatura compiuta: materia e forma.» 33 Il rapporto tra forma e contenuto che secondo D’Annunzio rende la sua opera unica e la sua vita eccezionale è descritto come qualcosa che nasce dalla più profonda irrazionalità dell’essere umano, da un livello animalesco che sfiora la dimensione ctonia: «io ho la mia bestia meco, quando creo. Quando le scintille si partono da me, allora più sento la materia spessa di cui sono fatto. Tutta la mia sostanza è commossa e sommossa, talché non v’è istinto ferino che non si sollevi dal fondo a soperchiarmi.» 34 Nello scritto, D’Annunzio continua ad argomentare la sua unicità, ponendo queste forze irrazionali e primordiali al fondamento della sua determinazione: quella perfezione che egli incarna e che viene rappresentata nelle sue opere, non è altro che il frutto dell’educazione della sua natura mistico-irrazionale. «Qualis artifex valeo! Qual mirabile strumento sono io divenuto! » scrive poco oltre D’Annunzio: 2_IH_Italienisch_69.indd 41 2_IH_Italienisch_69.indd 41 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 42 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda «il violino escito dalle mani del maestro liutaio non è se non un fanciullo ben nato. Ma sol dopo anni ed anni di vita sonora ei moltiplica la sua virtù e raggiunge la sua perfezione. Per mesi e mesi, a traverso il mio corpo attenuato ed estenuato passò il corpo della poesia. Per mesi e mesi non fui se non l’alveo della mia musicata parola.» 35 In realtà quale sia il processo di formazione di se stesso come entità sublime in grado di creare opere perfette, non è mai descritto dal D’Annunzio perché il raggiungimento della sua perfezione sensibile e spirituale è giustificato con il richiamo al destino. Non avrebbe potuto vivere in nessun’altra maniera D’Annunzio perché quella sua vita era il compimento di una decisione determinata da poteri contro i quali l’uomo non può fare nulla. Poco oltre nel testo de Il venturiero, D’Annunzio racconta che decise un anno di passare del tempo in Svizzera perché in qualsiasi altro posto in Italia si sarebbe confuso «col mare, con la selva, con la pietra» lì, invece, estraneo al paesaggio, poteva sentire e percepire la sua diversità: eppure, quando descrive la sua diversità, non la pone linguisticamente nella dimensione della natura, ma della società: «Certo, la mia cravatta è annodata non senza grazia e squisito è il fiore che porto all’occhiello; ma posseggo un anello più meraviglioso che l’anello di Gige, e qui nessuno lo sa. Quei due bruti ben pettinati, mentre laggiù muovono le mascelle non diversamente da due macacchi sul ramo, ignorano la qualità dell’occhio che li guarda e li scompone ed estrae dai loro ceffi le linee che non rivela alcuno specchio. La mia visione è una sorta di magìa pratica che si esercita su i più comuni oggetti. Avendo ancor calda in me l’impronta ideale delle forme da me generate, penetro nel fondo d’ogni cosa brutta o vile come in un enigma inestricabile che non resiste alla mia destrezza.» 36 La diversità, da questo passo, è del tutto esteriore è estetizzante: D’Annunzio è diverso perché sa che la maschera con la quale appare in società è ben costruita e calibrata razionalmente. La sua eccezionalità deriva dal fatto che egli non solo riesce a scorgere la bellezza delle forme negli oggetti comuni, ma anche perché riesce a riprodurre la perfezione di tale bellezza per esempio nel nodo della cravatta. Qua sta la differenza che D’Annunzio determina tra sé e le altre persone: queste, infatti, non possedendo la sensibilità dell’esteta, possono tutt’al più riconoscere la bellezza nella sua persona, ma non possono riprodurla. L’eccezionalità dannunziana, dunque, è creata linguisticamente attraverso una mistura che ora inneggia all’irrazionale, all’inafferrabile per 2_IH_Italienisch_69.indd 42 2_IH_Italienisch_69.indd 42 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 3 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione giustificare l’unicità determinata dal destino, ora, invece, è posta come il frutto della valutazione razionale. Ancora un’argomentazione volta all’esaltazione del proprio io si trova in Dell’amore e della morte e del miracolo, dove D’Annunzio ricorda le sei settimane durante le quali assisté amorevolmente la sua compagna Alessandra di Rudinì, soprannominata Nike, che aveva dovuto subire tre interventi chirurgici rischiando la morte: anche in questo caso l’attenzione è volta quasi interamente a definire l’eccezionalità dello spirito del poeta: «non so quale ebbrezza di volontà m’infiammi e moltiplichi le mie forze. I medici sono attoniti della mia resistenza» 37 ; l’eccezionalità dell’evento del quale il poeta è osservatore «ho veduto quel che forse nessun altro uomo vide mai: ho veduto sorridere una creatura umana che aveva posato i suoi piedi leggeri su gli asfodeli eterni» 38 ; l’eccezionalità della Volontà del poeta che aveva richiesto il miracolo della salvezza nel nome dell’Amore: e scrive D’Annunzio «nel nome della Volontà, e mi fu dato; nel nome della Volontà d’amore, e mi fu risposto. Con una miracolosa trasfusione di vita, io vinsi la morte.» 39 Negli scritti Il compagno dagli occhi senza ciglia e le Esequie, si inizia a trovare accanto al linguaggio che esalta l’inimitabilità del vivere, anche quel linguaggio melanconico che caratterizzerà Il Libro segreto: in entrambi i ricordi, D’Annunzio fa infatti riferimento alla sua giovinezza ormai svanita. Nel primo testo, dove è narrata la visita di Dario, suo amico fraterno ai tempi del collegio, dice «‹Oh, non sei mutato, quasi, Guarda me! › E vorrei enumerare le lesioni del tempo, esagerarle, apparirgli come un uomo esausto su cui sia sospesa la minaccia, ridiventargli compagno anche nella misera e nella passione. ‹Vedi: non ho più capelli; i denti mi si logorano; la vista mi diminuisce ogni giorno; soffro d’insonnio e d’allucinazione. Tutta questa ricchezza, è illusoria. Sono carico di debiti. O prima o poi, non mi lasceranno se non una cinquantina di libri e una tavola d’abete›.» 40 Nel secondo, invece, oppresso dall’idea di dover festeggiare il suo compleanno, D’Annunzio deve fingere di fronte alla la madre la quale non si rende conto che il figlio non è più ventenne, non è più giovane. La descrizione della maschera che D’Annunzio sa di dover indossare ha i toni mortuari che caratterizzano i corpi mummificati, resi tali proprio per vincere la distruzione del tempo: «Bisogna dunque che io mi imbalsami al fine il cadavere della giovinezza, che fasciato di bende io lo chiuda tra quattro assi e 2_IH_Italienisch_69.indd 43 2_IH_Italienisch_69.indd 43 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 4 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda ch’io faccia passare per quella porta ove lo spettro della vecchiaia è apparso tra i battenti socchiusi e come un cenno quasi familiare m’ha augurato il buon giorno. È apparso e scomparso. Nulla sembra mutato, in me, fuori di me. Non sento alcuna diminuzione vitale, se spie le mie arterie i miei muscoli i miei polmoni il mio cervello. Tuttavia so che lo spettro abominevole è ora nascosto in qualche angolo della casa, dentro un di quegli armarii tarlati, dietro quel mucchio di cartapecore, forse tra quell’oriuolo da polvere e quel cero lacrimoso, nell’ombra perfida, è il nuovo ospite. Scacciarlo non potrò; ma domani forse lo dimenticherò vestendomi di quell’acciaio che ogni mattina suol fabbricarmi il mio coraggio.» 41 Le tonalità melanconiche della seconda fase: il Libro segreto Nell’ultima fase della vita e della produzione artistica dannunziana, la parola spesso cede il posto al silenzio o meglio a un linguaggio che invoca il silenzio di fronte alla decadenza: «nato per esprimere, non mai come ora fui una potenza di espressione in continua opera. Fui grande oratore? Seppi con la parola trarre gli uomini e dominare gli eventi? Ora per lunghi giorni resto in silenzio.» 42 La malinconia, comparsa già nei testi precedenti, nel Libro segreto detta il ritmo della scrittura, accompagnata dall’ironica consapevolezza di chi avrebbe voluto ricevere una morte eroica sul campo di battaglia per non invecchiare, ma che invece vede solo morire i suoi compagni nel fiore dell’età da eroi, mentre lui sopravvivere a quella esperienza per esperire la decadenza della vecchiaia. D’Annunzio, che si era descritto in passato come un superuomo o un eroe di guerra, nel Libro segreto si descrive come un «vecchio guercio» che, «senza denti», ride della vita e del destino beffardo che gli riserva una fine molto lontana dall’ideale di vivere inimitabile che aveva caratterizzato gli anni della sua maturità. E attraverso l’ironica risata sembra percepire la gabbia nella quale ha rinchiuso la sua esistenza costringendosi a recitare la parte del personaggio Gabriele D’Annunzio: come scrive Gianni Oliva, «insomma, nel diario ultimo prevalgono in modo ossessivo i motivi dell’insofferenza, dell’inquietudine, della morte e del nulla, filtrati attraverso una meticolosa introspezione malinconica.» 43 I ricordi si inseguono e compaiono nella sua mente insinuando una consapevolezza amara che D’Annunzio, durante gli anni dell’azione, del movimento, degli scandali, delle avventure, non aveva mai avuto. Prima di morire, egli vuole rivivere tutti gli attimi più significativi della sua vita e nell’ascolto, nella contemplazione del suo passato sente la profonda solitudine del presente e, scrive «odio il mio vivere chiamato 2_IH_Italienisch_69.indd 44 2_IH_Italienisch_69.indd 44 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 5 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione inimitabile, maledico l’ingiustizia che mi mozza e tronca, mi altera e mutila, mi storce e frange.» 44 Ricorda la gioventù e soprattutto la guerra, i suoi discorsi e le sue azioni consapevole del potere che la sua parola estetizzante aveva sulla folla tesa all’ascolto: «o quelli che mi ascoltano, conosco quelli che non mi ascoltano, fin dalle mie prime parole. Modulo la mia voce per sedurre per incantare per domare. Se fallisco, faccio il gesto ironico e iroso di chi stronca e scaglia un raro strumento. E d’un fiato bevo un bicchiere d’acqua.» 45 E poi ancora, ricordando l’impresa fiumana, narra dell’eccezionalità e del carisma della sua persona, del suo corpo e della sua anima, che riusciva con la parola ad esaltare ed inebriare una massa sperduta in preda all’angoscia dell’insicurezza. In questo caso, come tutte le volte che si era trovato a pronunciare un’orazione a favore e in sostegno della guerra, D’Annunzio ricorda l’immediato effetto sulla folla e l’influenza che la sola sua immagine aveva su di loro: «in Fiume d’Italia ho conosciuto intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa. Veramente quella mezza ora che il mio spirito e la mia volontà di dominio vivevano prima ch’io apparissi alla ringhiera, quella misura di tempo senza misura m’era sublime, il popolo tumultuava e urlava chiamandomi. Sotto le mie finestre la disumana massa umana esultava ribolliva ristoppiava come la materia in fusione. Io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. E questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto, con la mia faccia pallida, col mio sguardo guercio.» 46 Finita la guerra, passata la gioventù, D’Annunzio rimane nell’attesa malinconica di una morte senza gloria: là, scrive, «l’oscurità s’addensa. L’angoscia serra […] rimango qui nell’aspettazione atroce; e non seguo l’istinto del mio coraggio, non mi levo, non accorro a respingere il male che si prepara.» 47 Nel mondo fuori, dunque, la sua maschera, il suo mito, non può più esistere attivamente ma solo in forma di ricordo di gesta e di parole di un tempo che fu: l’unico spazio nel quale D’Annunzio riesce a sopportare la vita è la sua casa che ha plasmato in armonia con la sua essenza, tanto che ogni oggetto che la riempie è metafisicamente il suo riflesso. In fin dei conti se «l’uomo coraggioso non è quegli che ha compiuto un atto di coraggio o condotto una 2_IH_Italienisch_69.indd 45 2_IH_Italienisch_69.indd 45 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 6 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda impresa temeraria; ma quegli deliberato a concludere coraggiosamente la sua vita che fu coraggiosa in tutto il suo corso, in tutto il suo corso magnanima,» 48 allora non ha da temere neanche il lento giungere della morte, consapevole che «la carne non è che uno spirito devoto alla morte.» 49 Il Libro segreto inizia sotto il segno della morte: nelle prime righe D’Annunzio pone, infatti, la morte come uno dei segni destinici della sua esistenza, narrando della sua nascita quando dice «fui come imbavagliato dalla morte; sicché non diedi grido.» 50 Retoricamente, dunque, D’Annunzio crea la premessa assiomatica che torna come Leitmotiv in tutto il testo, continuando senza soluzione di continuità a costruire l’immagine unica di se stesso. Tanto la morte l’aveva imbavagliato nel momento della nascita, tanto egli, poeta-eroe, per tutta la vita non ha fatto altro che sfidarla, ricercarla e facendo della parola il suo mezzo espressivo privilegiato per narrare la sua vita eccezionale. Nel libro, così, la morte compare come presenza costante, ed è utilizzata al fine di anticipare il suo mito all’infanzia e alla giovinezza. Nei ricordi narrati ne Il Libro segreto, non importa se veri o falsi, D’Annunzio si dipinge come bambino e adolescente eccezionale. La prima volta che D’Annunzio ricorda essersi confrontato con il pensiero della morte è l’episodio della morte del pony Aquilino. Ricorda che una mattina si era sentito in colpa nei confronti dell’amato Pony perché, istigato dalla sorella Ernesta, gli aveva strappato dei crini. La stessa sera, poi, era andato nella rimessa assieme al fratello e alle sorelle dove i tre bambini avevano assistito a una scena inaspettata: il pony Aquilino era sdraiato agonizzante sulla paglia. La reazione dei tre piccoli osservatori era stata un misto di stupore e dolore assieme: «guardammo senza piangere, con un cuore serrato che non lasciava passare né una goccia di sangue né una lacrima di dolore. Guardavamo per la prima volta la morte, noi che non ci avevamo mai pensato se non nella notte dopo Ognissanti per aspettare che ci portassero i suoi doni.» 51 Per la prima volta la morte compare nell’immaginario di D’Annunzio bambino come un evento doloroso: mentre nella festa di Ognissanti la morte era connessa con l’azione del dare e ricevere i doni, adesso la morte è invece mancanza e sottrazione di vita. Poi oltre la morte è invece connessa alla testarda volontà e al gusto infantile dell’avventura e del pericolo. Nell’episodio ricordato compare nuovamente la dispettosa sorella Ernesta: fu proprio per replicare a un suo dispetto che il piccolo Gabriele, decide di arrampicarsi sul tetto della casa per prendere un uovo di rondine da mostrare alla sorella. Il ricordo è costruito retoricamente secondo un triplo movimento che partendo 2_IH_Italienisch_69.indd 46 2_IH_Italienisch_69.indd 46 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 47 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione dal pericolo dell’avventura, passa per la salvezza e finisce con una rinascita. D’Annunzio scrive infatti che, mentre stava salendo sul tetto, aiutandosi con un «palchetto senza spalliera tutto di faggio», 52 sotto lo sguardo attonito della gente in strada che guardava il bambino arrampicarsi pericolosamente, compare sulla scena, come un deus ex machina, la zia Rosalba che, afferrandolo e tirandolo dentro casa, lo mette in salvo. Dopo lo scampato pericolo, la famiglia composta solo dal padre, dalla madre e dal bambino è riunita in un quadro familiare che viene paragonato all’immagine della sacra famiglia, riuscita a sfuggire all’infanticidio di Erode: tre persone, «tre creature e una creatura sola, come nell’attimo remoto della creazione», dove D’Annunzio, bambino, è bagnato dal nuovo battesimo delle lacrime del pianto materno, per poi venir esposto «al popolo ebro di presagi, già smanioso di foggiare» 53 il bambino in mito. La terza volta che D’Annunzio ricorda di aver sentito in vita sua il richiamo della morte è a venticinque anni. Lontano dal sacro misticismo del primo ricordo, adesso la morte è connessa a Eros, al supplizio dell’innamoramento per una donna che non riusciva né ad avere, né a dimenticare: «L’incontro improvviso di Barbarella nella via romana, la sua bellezza patetica e sensuale, il suo morbo contratto nelle nozze, la turpitudine del marito, l’audacia di costui nell’estorcere e nel frodare, gli impedimenti iniqui alla separazione legittima: e tutta la mia passione non medicabile, l’impossibilità di rinunciare a lei, l’impossibilità di seguire ogni consiglio ragionevole.» 54 L’impossibilità di avere la giovane donna, sigillata da una lettera di addi, getta il giovane D’Annunzio in un profondo dolore che impedisce qualsiasi rimedio, che toglie valore a qualsiasi cosa, che induce a ricercare la morte. Infine D’Annunzio ricorda la prima l’idea della morte lo porta a percepirsi in profonda unione analogica con la figura del Cristo. Il primo ricordo nel quale D’Annunzio si dipinge in termini cristologici, risale a quando quindicenne, andò nella chiesa bolognese di Santa Maria della Vita a vedere la Deposizione di terracotta di cui gli aveva parlato sua zia Maria. La materialità della statua gli fece percepire misticamente la presenza vera del Cristo, unita inesorabilmente alla morte tanto che, nel racconto, la materia della statua si confonde e fino a che non è più possibile capire cosa sia in realtà: «era di carne e d’ossa il cruciato? O era di terra e di fornace? Non sapevo di che sostanza fosse.» 55 Retoricamente la materia-mistica del corpo di Cristo incarnato nella statua è accostata analogicamente al suo giovane corpo che, anch’esso incarnazione di qualcosa di sacro, di mistico e di unico. Questa analogia che accosta due esemplarità, è messa in risalto dalla 2_IH_Italienisch_69.indd 47 2_IH_Italienisch_69.indd 47 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 8 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda narrazione della scena: a fianco della ‹carne› del Cristo, si trovava «la carne putrida e infetta», che il beccaio, quando «voleva frodare i gabellieri,» 56 gettava ai piedi del crocefisso dentro la nicchia della Pietà. Di fronte a tale azione deplorevole e blasfema D’Annunzio «vaccilando e ansimando» scappò via, e nella fuga, cadde, sbatté le ginocchia, la fronte e la bocca ed ebbe la sensazione di morire: «morii. Morii senza morire.» 57 Torna qui, nuovamente, il senso di orrore per l’uomo volgare della massa. Ecco allora l’immagine del suo mito innalzarsi attraverso un espediente retorico all’immagine del Cristo: entrambi, eccezioni venute a portare la sacra parola, l’uno di Dio, l’altro della Bellezza estetizzante, muoiono senza morire. L’inscindibile rapporto che caratterizza l’immagine eccezionale di D’Annunzio tra morte, eroismo, unicità, estetismo e misticismo, è alla base anche dei suoi ricordi di guerra. L’attualizzazione del mito del condottieroeroe non poteva avvenire infatti se non attraverso la sua morte gloriosa, ma tale morte gloriosa è descritta secondo un lessico cristologico: supplizio, martirio, sofferenza, liberazione. D’Annunzio ricorda che durante gli anni della guerra la morte non fu più solo un’idea, un pensiero costante, ma una vera e propria realtà che incessantemente lo aveva torturato, attanagliato, avvolto: «la guerra - quella da me guerreggiata nel mio spazio spirituale ch’ebbe fiumi più sanguigni dell’Isonzo, vette più ardue dell’Ermada e del Grappa, termini più distanti dell’Albio - fu veramente una disfida senza guanto fra me e la morte.» 58 Pur cercando la morte per coronare il suo ideale eroico vive e vede morire uno dopo l’altro i suoi giovani compagni di volo e lentamente inizia a sentire l’inquietudine del dubbio: «già otto de’ miei compagni di Cattaro sono perduti. I migliori. Gli altri sorridono aspettando la loro sorte. Son io dannato a sopravvivere? » 59 Più la morte tarda a giungere, più aumenta il dubbio, il tormento, e l’angoscia di sapere che non avrebbe mai occupato un posto d’eccezione assieme agli eroi e ai poeti: «alla mia età l’Alighieri era sul limitare della morte, il Bonaparte l’aveva già varcato, se Giorgio Barbarelli e Vincenzo Bellini s’eran rivelati e s’erano spenti a trent’anni. La turpe vecchiezza non umiliava la potenza e la grazia.» 60 La morte di Miraglia, il primo pilota che ospita il D’Annunzio nel suo velivolo, è raccontata come un fatto ingiusto, perché «la morte che doveva prendere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l’offerta, contro la giustizia, contro la gloria. Alla cima della gloria, per la coppia alata, è l’olocausto: il sacrificio in cui è arsa tutta la vittima. La sorte del fuoco è la lor vera sorte.» 61 L’ingiustizia sta nel fatto che la morte ha separato una alleanza di amicizia suggellata da un patto silenzioso, rendendo solo uno dei due uomini un eroe, attraverso il sacrificio consumato dal fuoco purificatore, l’elemento della natura si può dire più caro 2_IH_Italienisch_69.indd 48 2_IH_Italienisch_69.indd 48 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 4 9 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione a D’Annunzio, ritardando il compimento di quello che avrebbe dovuto essere invece il suo destino. D’Annunzio allora scrive: «non io soltanto continuavo a soffrire di morire senza morire ma tutti gli Italiani attendevano con giusta fede unanime che al fine il fato si dimostrasse giusto alla mia infelicità dandomi il compimento giusto nella battaglia o di terra o di mare di cielo.» 62 La morte dell’amico è tuttavia un evento eccezionalmente doloroso per D’Annunzio al quale dedica forse le pagine più belle de Il Libro segreto. Quando Miraglia muore D’Annunzio si trova a Venezia: un giorno, mentre posa per il ritratto che la Cinerina sta dipingendo, la figlia Renata irrompe per annunciare la disgrazia: «scendo, col cuore palpitante […] Giuseppe Miraglia è precipitato in mare […] Io, Genua e Renata ci mettiamo a correre per le Zattere in cerca di una gondola, di una qualunque barca […] le ginocchia mi vacillano. La lingua mi s’impiglia… la gente mi guarda. Non so dominare la mia orribile ansia.» 63 Il dolore per la perdita, per il lutto non è in D’Annunzio derivato dallo sgomento di fronte alla carneficina della guerra, ma piuttosto dall’orrore della morte dell’amico. L’amico è l’eroe, il corpo di Patroclo venerato e pianto. Dopo aver visto con i propri occhi il corpo straziato dalla morte violenta che descrive minuziosamente, D’Annunzio è sconvolto: «vogliono trascinarmi via. Mi rifiuto. Resto in ginocchio. Prego di lasciarmi solo. Quando sono solo, mi chino sopra il morto, lo chiamo più volte. Le lacrime gli piovono sul viso. Non risponde, non si muove. Ricado in ginocchio […] Non posso muovermi, non posso alzarmi.» 64 È vera morte se nel ricordo l’immagine del defunto è viva? La realtà dà un’immagine talmente orrenda che non sembra essere vera, mentre vera sembra essere l’immagine scaturita dal ricordo cristallino, forte e vivo del D’Annunzio: «ho con me la morte, l’odore della morte. Renata mi aspetta: sa tutto. Ci abbracciamo piangiamo. Vuol venire a vederlo […] la realtà di tratto in tratto mi sfugge. Rifletto. Chiudo gli occhi. Me lo immagino vivo come ieri; poi lo guardo e lo vedo inerte, esangue. È vero? » 65 2_IH_Italienisch_69.indd 49 2_IH_Italienisch_69.indd 49 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 50 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda Ma la mente, dopo l’impatto con la crudeltà del reale, produce delle alterazioni che impediscono al desiderio di rivedere in vita l’amico perso di alimentarsi. Così, addormentatosi, D’Annunzio ricorda di aver sognato: «quando chiudo gli occhi e il sopore m’invade, vedo il mio amico vivo, che mi viene incontro. Sobbalzo. Sogno ch’egli entra nella Casa rossa e che io gli dico: ‹Sei tu? Sei tornato? › Si scopre, si disviluppa dal mantello nero. Non è lui: è una maschera, una di quelle maschere bianche ingessate che i Veneziani portavano con la bauta.» 66 E la bauta non è altro che una maschera inquietante perché non possiede alcun tratto determinante che possa ricondurre la fissità fredda del suo monocromatismo a un volto umano. Altre volte durante la guerra il destino ha negato la morte eroica e gloriosa a D’Annunzio. Morto Miraglia, D’Annunzio tornerà a volare con un altro compagno, Oreste Salomon. Ma proprio il giorno in cui a causa di un ritardo di D’Annunzio Alfredo Barbieri occupa il secondo posto nel velivolo, la morte sopraggiunge di nuovo. Anche questa volta, scrive D’Annunzio, «il destino aveva scambiato i dadi nel buio. La morte aveva cancellato dalla tessera il mio nome e prestamente scritto quell’altro.» 67 D’Annunzio è condannato a invecchiare ma, scrive, quel corpo straziato dagli anni non è la sua vera immagine. Come accade a Dorian Gray, la morte riuscirà a svelare quale sia il suo vero volto, occultato da una maschera che negli anni ha accumulato le tracce della decadenza della vita terrena. Inversamente a quanto accade a Dorian Gray, l’ultima immagine nella quale il volto del D’Annunzio si fisserà, però, sarà colmo di un nuovo e fresco splendore. Così, scrive: «Mi avviene di dire, quando alcuno osserva non senza pietà che il mio volto è ormai tutt’osso, è crudamente riscolpito nell’osso giallastro, mi avvien di dire: ‹credete che la mia vera maschera carnale sia questa? Guardate il mio naso che per troppa sensualità non è ancor giunto a bene affilarsi. Guardate la mia bocca amara senza rinunzia e senza pace: le stupende suture del mio cranio; i miei occhi affondati nel fuoco perpetuo del mio cervello: il leggero strabismo del destro ferito, che la mia pertinacia tenta ricondurre verso l’asse vincendo il terrore dello specchio mattutino o notturno. Guardate le mie mani che una donna chiamò fiori sottomarini senza gioia, asterie senza ribrezzo. Ma non questa è la mia vera maschera, né queste sono le mie mani ultime. Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la mia morte, 2_IH_Italienisch_69.indd 50 2_IH_Italienisch_69.indd 50 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 51 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione prima che vi s’imprima il gesso memorativo dopo tanto fango non giunto al segno. Allora soltanto io avrò il viso che m’era destinato, immune dagli anni dalle fatiche dai patimenti, dagli innumerevoli eventi che forzò e forza e forzerà pur in estremo il mio disperato coraggio. Allora soltanto, sono alla terza ora, sarà il mio viso la cima sovranamente effigiata della mia anima bella: il viso della giovinezza sublime, di là dell’opera, di là della gloria: la maschera del porfirogenito.›» 68 Abstract. Der Beitrag ist eine Studie zum Spätwerk von Gabriele D’Annunzio, das stark autobiographisch geprägt ist. Durch eine genaue Textanalyse wird herausgearbeitet, wie D’Annunzio sich selbst als Mythos gestaltet, als eine Ausnahmeerscheinung, einzigartig und über allen anderen stehend im Hinblick auf Empfindsamkeit, Kühnheit, Leidenschaft, Eleganz. Es werden speziell zwei Prosatexte D’Annunzios untersucht, die streng genommen dem autobiographischen Genre zugehören: Notturno (1921) und Il Libro segreto (1935). In der Zeit zwischen diesen beiden Werken publiziert D’Annunzio verschiedene früher verfasste Texte mit Erinnerungen. Die erste Phase seines autobiographischen Schreibens ist charakterisiert durch eine mystische Sprache, mit Hilfe derer er sich selbst als Verkörperung des mythischen Helden beschreibt. Die mittlere Phase ist durch eine an den Crepuscolari orientierte Sprache geprägt, der Mythos wird in Erzählungen gestaltet, die aus der Studienzeit berichten. Diese Episoden werden von dem Gedanken der Einzigartigkeit des ästhetisch-mystischen Helden als Schicksal überformt. Das gleiche Schicksal führt ihn jedoch nicht in den verklärten Heldentod im Krieg, sondern zwingt ihn zu einem Leben in Alter und Dekadenz. Die zweite Phase ist deshalb gekennzeichnet von einem melancholischen Stil und von der sukzessiven Wandlung des Mythos vom Selbst zum Christus und Märtyrer, parallel zum Verlust der Lebenskraft und zum Nachdenken über den Tod, der, typisch für das mythische Selbstbild, dem Tode Christi ähnlich ist. Note 1 L’autobiografia in sé è la narrazione della vita di un individuo considerata nel suo insieme, non necessariamente perché l’intera vita dell’autore sia coperta dal racconto, ma perché alcuni eventi «sono investiti comunque da una riflessione generale che riguarda la vita nella sua interezza.» (Franco D’Intino, L’autobiografia moderna. Storia, forme, problemi, Roma: Bulzoni 1998, p. 129). Per questo la materia dell’autobiografia non è la narrazione del passato così come esso è stato, ma come esso è conservato nella memoria dello scrittore che «scarta e omette, pure può aggiungere e trasformare, inventando.» (p. 129). Va da sé che questo tipo di scrittura che si pone come racconto veritiero di una 2_IH_Italienisch_69.indd 51 2_IH_Italienisch_69.indd 51 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 52 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda storia accaduta, ha in sé la possibilità dell’errore dato che la memoria non è una meccanica catalogazione dei fatti, ma una facoltà attiva che seleziona, dimentica e modifica l’accaduto in base ai cambiamenti dell’individuo nel corso del tempo. Di conseguenza è inesatto affermare che vi sia identità tra il racconto narrato e i fatti accaduti, e che vi sia identità, soprattutto, tra quella persona che il narratore era in passato e la persona che è al presente della scrittura. La problematica fondamentale della scrittura autobiografica si sviluppa, dunque, attorno alla questione della «identità fra narratore […] e personaggio. In generale, non solo ciascun io tende ad essere personaggio per l’autore che scrive di sé, ma l’io del passato, per un autobiografo, è sempre un altro pur continuando ad essere anagraficamente se stesso: è sempre un personaggio che, man mano che si allontana nel tempo, più difficilmente può venir rappresentato senza il ricorso alle risorse della distanziazione ironica.» (Bartolo Anglani, I letti di Procuste: teoria e storia dell’autobiografia, Bari: Laterza 1996, p. 38). 2 Riccardo Scrivano, «D’Annunzio biografo di se stesso», in: AA.VV, Le molte vite dell’imaginifico. Biografie, mitografia e aneddotica, 28° Convegno di studi 9-10 novembre 2001 Chieti-Pescara: Centro Nazionali di Studi Dannunziani 2001, pp. 13-30 (p. 18). 3 Due studi accurati sull’utilizzo e il riutilizzo degli stessi materiali che compongono i taccuini di guerra, sono i testi della Costa, Il fuoco invisibile, Firenze: Vallecchi 1985, nel quale si tracciano le parti nella poesia e nella prosa che provengono dagli appunti dei taccuini, e il testo di Bruers, che scrive di aver intrapreso tale studio quando «nel 1935, leggendo, appena apparse, le Cento e cento e cento e cento pagine del Libro segreto di Gabriele D’Annunzio, giunto alla pagina 258 e seguenti ebbi l’impressione che gli episodi di guerra ivi descritti non mi fossero nuovi, infatti, potei accertare che essi erano già stati pubblicati dal Comandante nella Licenza della Leda senza cigni. Diversa la redazione per modificazioni, soppressioni e aggiunte, ma identica la sostanza» (Antonio Bruers, Le tre redazioni di un taccuino di guerra di Gabriele D’Annunzio, Milano: Mondadori 1942, p. 13). Ad esempio, continua Bruers, «alla pagina XL, l’episodio della visita alla Deposizione di Niccolò dell’Arca, nella chiesa di Santa Maria della Vita in Bologna, ha un precedente nelle Faville del Maglio, ed entrambe le redazioni derivano da un inedito Taccuino del 1906» (ibid.). 4 Annamaria Andreoli, «Introduzione», in: Gabriele D’Annunzio, Diari di guerra. 1914- 1918, Milano: Mondadori 2002, pp. v - xlix (p. vi). 5 Simona Costa, Il fuoco invisibile, p. 223. 6 Annamaria Andreoli, «Introduzione», in: Gabriele D’Annunzio, Diari di guerra, op. cit., p. vii. 7 Anna Maria Andreoli, «Lo scriba recluso», in: Gabriele D’Annunzio, Di me a me stesso, Milano: Mondadori 1990, pp. xi - lix (p. xxxi). 8 Gabriele D’Annunzio, Notturno, in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, 2 voll., Milano: Mondadori 1950, vol. 1, pp. 165- 442 (p. 178). 9 Ivi, p. 180. 10 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, op. cit., pp. 639 - 926 (p. 878). 11 Gabriele D’Annunzio, Notturno, op. cit., p. 224. 12 Ivi, p. 235. 2_IH_Italienisch_69.indd 52 2_IH_Italienisch_69.indd 52 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 53 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione 13 Ibid. 14 Ivi, pp. 366 -7. 15 Gabriele D’Annunzio, Di me a me stesso, Milano: Mondadori 1990, p. 29. 16 Ibid. 17 Sulla passione di D’Annunzio per l’aviazione, scrive Asciuti che «in modo particolare il D’Annunzio, sempre sensibile all’effetto degli eventi sull’opinione pubblica e sempre attento a padroneggiare i mass-media comprende l’importanza del nuovo mezzo e le sue utilizzazioni future per quanto riguarda non solo lo stile del suo ‹vivere inimitabile›, ma per tutto ciò che è e poi potrà essere ogni altro suo futuro rituale ‹collettivo›.» E poi ancora: «è risaputo da tutti come il D’Annunzio post-interventista non lesinasse certo la sua presenza sul fronte della guerra, e come tentasse, in tutti i modi, di farsi affidare qualche nuova missione tale da mettersi in luce di fronte non tanto agli altri gradi dell’esercito, ma piuttosto al suo pubblico che non s’era certo dimenticato di lui… appena seppe che il tenente Giuseppe Miraglia stava preparando un volo su Trieste si offrì volontario. Il volo non si tenne, ma il giornale La Tribuna non macò di darlo come avvenuto; così per evitare da un lato che la vita di D’Annunzio, in quel momento ‹preziosa› alle Forse Armate più come mezzo di propaganda che come effettivo valore militare potesse esser messa in pericolo da qualche attività particolarmente pericolosa.» (Claudio Asciuti, Il corsaro e il Trasvolatore. Le crociere celesti di D’Annunzio e Balbo, Genova: Bozzi 1990, p. 12-19). 18 Gabriele D’Annunzio, Di me a me stesso, op. cit., p. 36. 19 Ibid. 20 «Quando invece della malattia mortale, appare nell’uomo il taedium vitae, egli muore, egli deve inesorabilmente morire.» (Ibid.) 21 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 795. In realtà, vi era stata un’ampia discussione pubblica tra gli intellettuali italiani del periodo prebellico sulla possibilità che la guerra fosse o no un elemento in grado di rinnovare e di generare qualcosa di nuovo: e la maggior parte di essi, fra i quali Marinetti, Prezzolini, Papini, era fiduciosa nel fatto che la guerra avesse un potere in grado di rinnovare l’Italia. 22 Filippo Tommaso Marinetti, «Manifesto del Futurismo», in: Marinetti e il Futurismo, a cura di Luciano De Maria, Milano: Mondadori 1973, pp. 5 -7. 23 Gabriele D’Annunzio, Notturno, op. cit., p. 177. 24 Ivi, p. 174. 25 Ivi, pp. 176 -177. 26 Ivi, p. 179. 27 Ibid. 28 Vittorio Martinelli, La guerra di D’Annunzio. Da poeta e dandy a eroe di guerra e «comandante», Udine: Gaspari 2001, p. 302. 29 Gabriele D’Annunzio, «Il compagno dagli occhi senza cigli», in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, op. cit., vol. 2, pp. 413-530 (p. 417). 30 Gioacchino Volpe, Gabriele D’Annunzio. L’italiano, il Politico, il Combattente, Roma: Volpe 1981, p. 115. 31 Gabriele D’Annunzio, «Il compagno dagli occhi senza cigli», op. cit., p. 426. 32 Gabriele D’Annunzio, «Il venturiero senza ventura, e altri studii del vivere inimitabile», in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, op. cit., vol. 2, pp. 1-124 (p. 4). 2_IH_Italienisch_69.indd 53 2_IH_Italienisch_69.indd 53 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 5 4 Il ricordo e la visione Patrizia Piredda 33 Ivi, p. 5. 34 Ivi, p. 12. 35 Ivi, pp. 39-40. 36 Ivi, p. 41. 37 Gabriele D’Annunzio, «Dell’amore e della morte e del miracolo», in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, op. cit., vol. 2, pp. 628-631 (p. 629). 38 Ivi, p. 630. 39 Ivi, p. 631. 40 Gabriele D’Annunzio, «Il compagno dagli occhi senza cigli», op. cit., p. 429. 41 Gabriele D’Annunzio, «Esequie della giovinezza», in: Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni, op. cit., vol. 2, pp. 531-541 (p. 532). 42 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 878. 43 Gianni Oliva, «D’Annunzio: la malinconia come elemento autobiografico», in: Le molte vite dell’imaginifico, Pescara: Ediars 2001, pp. 45-63 (p. 46). 44 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 689. 45 Ivi, p. 739. 46 Ibid. 47 Ivi, p. 777. 48 Ivi, p. 897. 49 Ivi, p. 916. 50 Ivi, p. 649. 51 Gabriele D’Annunzio, Notturno, op. cit., p. 380. 52 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 651. 53 Ivi, p. 654. 54 Ivi, p. 668. 55 Ivi, p. 666. 56 Ivi, p. 668. 57 Ibid. 58 Ivi, p. 683. 59 Ivi, p. 798. 60 Ivi, p. 686. 61 Gabriele D’Annunzio, Notturno, op. cit., p. 180. 62 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 684. 63 Gabriele D’Annunzio, Notturno, op. cit., p. 199. 64 Ivi, p. 201. 65 Ivi, p. 203. 66 Ivi, p. 204. 67 Ivi, p. 231. 68 Gabriele D’Annunzio, Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, op. cit., p. 712. 2_IH_Italienisch_69.indd 54 2_IH_Italienisch_69.indd 54 23.04.13 16: 05 23.04.13 16: 05 55 Patrizia Piredda Il ricordo e la visione Bibliografia Andreoli, Anna Maria: «Introduzione», in: Gabriele D’Annunzio, Diari di guerra. 1914-1918, Milano: Mondadori 2002, pp. v-xlix. 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