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2017
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Fesenmeier Föcking Krefeld OttLa Weltanschauung di Nietzsche nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese
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2017
Valeria Bongiovanni
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13 VA L E R I A B oNgIoVA N N I La Weltanschauung di Nietzsche nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese L’articolo che segue si propone si riconsiderare, da una prospettiva diversa rispetto a quella consueta, una fase del percorso letterario di Cesare Pavese - la cosiddetta «stagione del mito» - e di farlo alla luce del pensiero nietzschiano .* La comune tendenza degli ultimi sessant’anni di critica letteraria sulla figura e l’opera di Cesare Pavese, a parte sporadiche eccezioni, è stata quella di interpretare il ritorno al mito come regressione nel mondo della letteratura, dopo la stagione del «neorealismo all’americana» Si sarebbe trattato dell’ennesima fuga dalla realtà dell’uomo immaturo e inetto - proprio nel senso letterale di in-aptum: ‘non adatto’ alla vita Tale prospettiva ha confinato l’autore nella prigione del mero autobiografismo letterario e in una troppo riduttiva dimensione decadente, i cui esiti sarebbero quelli dell’irrazionalismo, del ritorno all’infanzia e del rifugio nella Natura come fuga dalla Storia - aspetto, quest’ultimo, strettamente correlato al legame con la terra d’origine e dunque accostato ad un esasperato provincialismo di stampo piemontese L’ultima produzione dello scrittore, in particolare Feria d’agosto e i Dialoghi con Leucò, è invece, a nostro avviso, ricerca di quella «immagine concentrata del mondo» che è per Nietzsche, come per Pavese, l’essenza stessa del Mito Tale prospettiva svincola l’opera dello scrittore piemontese da asfissianti cliché, accostandola anche ad una più generale tendenza del Novecento letterario, sia italiano sia europeo che, pur in forme diverse, si rende protagonista della stessa quête: la memoria di Marcel Proust, la coscienza ‘fluida’ di James Joyce, l’afflato mitico di Hermann Hesse, la Morte nelle opere di Thomas Mann rappresentano, per dirla in termini nietzschiani, un punto di fuga dalle forme cristallizzate della realtà apollinea in direzione del dionisiaco Il ricordo, l’inconscio, la morte, la natura, i simboli mitici costituiscono la «maglia rotta nella rete / che ci stringe» di montaliana memoria, che infrange le apparenze e rivela barbagli del fondamento primigenio e unico dell’Essere Pavese lettore di Nietzsche La prima chiara traccia del filosofo tedesco fra le carte di Pavese è in una lettera del 12 novembre 1935, che Pavese aveva scritto alla sorella Maria da Nietzsche e Pavese 2_IH_Italienisch_77.indd 13 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 14 Brancaleone Calabro e in cui chiedeva, fra i nuovi libri da spedire, «tutte le opere di Federico Nietzsche (in italiano) escluso Così parlò Zarathustra (Ed Monanni)» . 1 Questo riferimento ci lascia dedurre due elementi: una lettura completa delle opere del filosofo tedesco durante il confino e la lettura (probabilmente) già avvenuta dello Zarathustra, che Pavese aveva escluso dall’elenco Prima di questa lettera del 1935 non c’è traccia di chiari riferimenti a Nietzsche nel diario né in altre lettere, ma il fatto che il filosofo tedesco rappresenti un termine di confronto ricorrente è quasi certo poiché aspetti peculiari del suo pensiero affiorano dagli scritti del Nostro, anche se talvolta l’appartenenza a Nietzsche è appena accennata o volutamente celata . 2 Per il primo chiaro riferimento a Nietzsche nel diario bisognerà attendere fino al 23 ottobre 1940 Esso rivela una comprensione non superficiale, bensì già piuttosto profonda del messaggio del filosofo, accostato a Leopardi come sostenitore di una superiorità della vita attiva contro quella contemplativa . 3 È certo, infatti, che nell’autunno del 1940 Pavese affrontava la (ri) lettura della Nascita della tragedia, come testimoniato dal testo 4 appartenente alla Biblioteca di Pavese - custodito oggi dal Centro studi «Guido Gozzano - Cesare Pavese» dell’Università di Torino - che reca la nota di possesso «9 ott ’40 | Pavese» Sulla scia della Nascita della tragedia dal ’40 e nei cinque anni che seguono, Pavese affronta in successione la rilettura di tutte le opere più importanti del filosofo È significativo che lo studio sistematico della lingua tedesca da parte di Pavese risalga proprio al 1940, come testimoniato dal «Taccuino segreto», 5 anno dopo il quale le letture di Nietzsche verranno affrontate in lingua originale Ecce homo, infatti, è presente nella Biblioteca dello scrittore nell’edizione in lingua tedesca dal titolo Ecce homo Wie man wird, was man ist per i tipi della Philipp Reclam di Lipsia Non figura la data dell’edizione, ma la nota di possesso sul frontespizio ci informa nel dettaglio sul periodo di lettura: «10 genn ’41finito 30 marzo» A ottobre dello stesso anno è la volta della Volontà di potenza nell’edizione in lingua tedesca Der Wille zur Macht, Stuttgart, Alfred Kröner Verlag, 1930 che sulla prima pagina bianca reca la data del 12 ottobre 1941 Fra i volumi nietzschiani custoditi al Centro Studi Gozzano-Pavese vi è anche Zur Genealogie der Moral, Leipzig, Verlag von Philipp Reclam, S .d ., anche questo con molte sottolineature e note a margine Nel novembre del 1941 l’Einaudi, nella persona di Pavese, allora principale referente per la Casa, offriva a Enzo Paci la traduzione di Der Wille zur Macht con la significativa raccomandazione di «curare molto il lato letterario della versione» Che questo scritto, quasi un compendio del 2_IH_Italienisch_77.indd 14 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 15 pensiero nietzschiano caratterizzato fin dagli inizi da una travagliata vicenda compositiva ed editoriale, 6 fosse particolarmente caro a Pavese, è dimostrato dal fatto che negli anni 1944-45, a ridosso della stesura dei primi Dialoghi, egli ne svolgerà di persona la traduzione, 7 anche perché Enzo Paci, alla Casa, la sua non la consegnò mai Nel 1942, Pavese aveva affrontato quasi certamente la lettura di due testi di critica su Nietzsche: Nietzsche . Versuch einer Mythologie (‘Tentativo’ di una mitologia) di Ernst Bertram del 1918 e l’introduzione al pensiero del filosofo scritta da Karl Jaspers nel 1936 (Nietzsche . Einführung in das Verständnis seines Philosophierens) Li ritroviamo in un appunto di pugno di Pavese che contiene un elenco di testi consigliati dall’amico Giaime Pintor, in viaggio in Germania proprio dal luglio 1942 Nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, Pavese lasciava Torino per recarsi a Casale Monferrato In questo periodo Pavese ha occasione di proseguire le sue letture 8 nella Biblioteca dei Padri Somaschi presso il Collegio Trevisio . 9 La Biblioteca del Collegio era ripartita in due sezioni: la «Biblioteca segreta» che accoglieva i classici dell’Illuminismo francese e una grande quantità di testi clericali assolutamente proibiti, fra cui erano presenti tutte le opere di Friedrich Nietzsche, come conferma Padre Baravalle, contrapposta alla biblioteca «dei Padri» che conteneva i libri di teologia cristiana Pavese vi lesse molto probabilmente altri due testi nietzschiani: Così parlò Zarathustra e Al di là del Bene e del Male, entrambi nell’edizione torinese dei Fratelli Bocca del 1906 Presso i Padri Somaschi Pavese rimase fino all’aprile del 1945 Qualche mese dopo, nel dicembre dello stesso anno, ricco degli spunti delle letture nietzschiane, intraprendeva la stesura dei Dialoghi con Leucò L’opera prende le mosse dalla lacerante consapevolezza di una frattura, della quale troviamo traccia fin dall’ideologia romantica, alveo stesso del pensiero nietzschiano Nodo fondamentale dell’ideologia romantica è, come noto, il tentativo di conciliare il particolare e l’universale, il finito e l’infinito, i quali trovano proprio nel ‘simbolo mitico’ il loro punto di giunzione L’uomo romantico è convinto del fatto che a generare la frattura fra le due istanze sia intervenuto un razionalismo deteriore, il quale ha strappato l’essere umano all’armonia originaria, compromettendo la sua unione con la Natura e con gli altri esseri È sulle fondamenta di questa constatazione che il pensiero nietzschiano edifica se stesso Depurato dagli orpelli spiritualistici e passato attraverso un processo di ‘psicologizzazione’, l’anelito romantico assume in Nietzsche la forma di una contrapposizione apollineo-dionisiaca al centro della quale è l’uomo 2_IH_Italienisch_77.indd 15 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 16 Ora, i Dialoghi con Leucò muovono dalla medesima premessa ed enucleano una visione del mondo e della condizione umana che, a nostro avviso, ripercorre quasi fedelmente tutti i punti salienti della Weltanschauung del filosofo tedesco La ‘morte’ di Dioniso e la nascita degli dei Partiamo da La nube, il dialogo fra Nefele e Issione, composto tra il 21 e il 27 marzo 1946, ma che Pavese decide di collocare per primo I Dialoghi si aprono volutamente nel segno di una forte contrapposizione fra un prima e un dopo, nella consapevolezza che qualcosa è cambiato Afferma la Nube: «Un limite è posto a voi uomini L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo Altre mani ormai tengono il mondo C’è una legge Issione [ . . .] non puoi più mischiarti a noialtre, le ninfe delle polle e dei monti, alle figlie del vento, alle dee della terra È mutato il destino .» 10 Dalle parole di Nefele emerge che «è mutato il destino dell’uomo», al quale è preclusa l’unità con la Terra, e che a «una mano più forte», 11 a «una legge», sono sottoposti sia gli uomini che il mondo Procedendo nella lettura del dialogo apprendiamo che la legge superiore è rappresentata dagli «immortali», gli dei, e che a causa loro anche l’uomo «crede di essere qualcosa più di un uomo», spezzando l’armonia originaria con ciò che lo circonda Già questo dialogo, collocato non a caso ad apertura dell’intera raccolta, contiene in nuce non solo il nodo problematico dal quale si dipanano tutti gli altri dialoghi, ma anche, a ben guardare, il cuore della filosofia di Nietzsche Che cosa è accaduto, dunque? Prima il senso era custodito dalla realtà, il dio si identificava con la natura stessa: in essa l’uomo incontrava il dio Ma ora il senso è fuori dalle cose, trasceso in una ‘divinità’ che differisce dalla terra e la rinnega e nello stesso tempo è distante dall’uomo, è per lui inaccessibile Ciò ha causato una crisi nell’uomo - tutti i personaggi dei Dialoghi ne sono espressione: se la divinità è posta fuori dalla natura, dio diventa principio astratto, legge, dominio sulla natura e sull’uomo, il quale ne riceve un destino imperscrutabile, una ineluttabile «legge cui bisogna ubbidire»: il dio è divenuto il suo «limite» Ad aprire e chiudere i Dialoghi è il senso di una perdita: in quello che era stato inizialmente concepito come il dialogo di chiusura, Gli uomini, leggiamo: «Prima l’uomo la belva e anche il sasso era dio Tutto accadeva 2_IH_Italienisch_77.indd 16 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 17 senza nome e senza legge» (Bia) e Cratos: «Di ogni cosa veniva la fine, ed era un tutto che viveva Adesso invece c’è una legge e c’è una mente» . 12 Tutta la riflessione nietzschiana sull’uomo prende le mosse dalla medesima constatazione di una perdita, e dalla irriducibile differenza tra l’uomo attuale e quello del passato, che nella realtà stessa si imbatteva nel dio: «quando ogni albero può parlare come se in lui ci fosse una ninfa, quando sotto le spoglie di un toro un dio carpisce vergini, quando la stessa dea Atena improvvisamente è vista attraversare le piazze di Atene su di un bel cocchio in compagnia di Pisistrato - e gli onesti ateniesi ci credono - allora in ogni momento, come in sogno, tutto è possibile, e l’intera natura circonda l’uomo come se essa non fosse che una mascherata di dèi che scherzosamente si sono messi a ingannare gli uomini in tutte le forme .» 13 Il passo è tratto dallo scritto Su verità e menzogna in senso extramorale, ove Nietzsche spiega come l’approccio dell’uomo attuale alla realtà e alla verità sia improntato sull’astrazione e sul ricondurre ogni cosa a categorie matematiche, a mere leggi del pensiero, 14 processo cui è sottoposta la divinità stessa . Non stupisce che fra i primi lettori a comprendere nel modo più adeguato il messaggio dei Dialoghi ci sia stato il filologo e storico della filosofia Mario Untersteiner Appena nel 1946 egli aveva pubblicato la sua Fisiologia del mito, che ripercorre proprio il processo di razionalizzazione del mito nel mondo greco e osserva come una tappa fondamentale di questo percorso sia rappresentata da Omero, nella cui opera gli dei vengono posti allo stesso livello degli uomini, separandosi definitivamente dalla natura Il filologo rintraccia tale processo anche nei tragici, notando come con loro sia avvenuto un incremento della riflessione umana in direzione di una spiegazione razionale del mondo Parallelamente allo sviluppo del logos e della capacità analitica dell’uomo, Dio diventa concetto Il filosofo Gianni Vattimo osserva, però, come nella dialettica mitologos si ripeta sempre un circolo i cui termini sono «mito - conoscenza - rimorso» A questa dinamica può essere ricondotto, a nostro avviso, sia il pensiero di Nietzsche che quello di Pavese Le parole di Nefele, nel dialogo pavesiano, sono pronunciate con una nota di nostalgia ma anche di disperazione: il nostos verso l’armonia primigenia è impossibile dopo l’avvento del logos . 2_IH_Italienisch_77.indd 17 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 18 Volontà e destino In un nutrito gruppo di dialoghi (I ciechi, Le cavalle, Il fiore, Schiuma d’onda, I due, La strada, La rupe, L’isola, Le streghe, L’uomo-lupo) Pavese descrive questo mutamento in termini che trovano un perfetto riscontro nella concezione di Nietzsche Prendiamo come punto di riferimento tre dialoghi: I ciechi, Schiuma d’onda, L’isola e confrontiamoli, insieme ad alcune affermazioni del Mestiere di vivere, con la concezione nietzschiana della volontà e del destino nei termini della dialettica libertà-necessità espressa in varie sue opere, in modo particolare nello Zarathustra Quest’ultima, con molta probabilità, è stata la prima opera ad essere letta da Pavese, ma sappiamo che nel 1943-45, durante il suo soggiorno a Casale Monferrato, egli la rilesse insieme ad Al di là del bene e del male, proprio mentre era in corso la preparazione dei Dialoghi Da quando al di sopra dell’uomo è stata data forma ad un dio, anche gli eventi che prima semplicemente accadevano in armonia con la sua volontà, ora sono trama che lo sovrasta e prendono il nome di «destino» - «quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino» 15 , afferma il cacciatore ne L’uomo lupo Ne consegue che l’uomo non è più protagonista degli eventi, bensì ne è schiacciato, li subisce: il labirinto del caso entro il quale si muoveva con libertà è divenuto l’imperscrutabile disegno della necessità Ma, afferma Pavese nel dialogo I ciechi: «Prendi un ragazzo che si bagna nell’Asópo È un mattino d’estate Il ragazzo esce dall’acqua, ci ritorna felice, si tuffa e rituffa Gli prende male e annega Che cosa c’entrano gli dei? Dovrà attribuire agli dei la sua fine, oppure il piacere goduto? Né l’uno né l’altro È accaduto qualcosa - che non è bene né male, qualcosa che non ha nome .» 16 Per Nietzsche e per Pavese non esiste nessun destino superiore: non è un dio a determinare gli accadimenti; ciò che accade all’uomo è inscindibile dal proprio essere, soltanto sulla base del quale l’uomo compie delle azioni e opera delle scelte È questo il senso del motto nietzschiano, che Pavese fa proprio, «wie man wird was man ist» (come si diventa ciò che si è): «diventare ciò che si è», dunque, il destino come propaggine, conseguenza, emanazione del proprio sé Ne deriva che tutto ciò che accade e che è accaduto va accettato, ma non perché imposto dall’esterno, bensì perché connaturato al nostro essere e da esso liberamente scaturito: 17 ciò che è avvenuto è stato voluto da noi, poggiava sulla nostra volontà Proclama Zarathustra: 2_IH_Italienisch_77.indd 18 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 19 «E come potrei sopportare di essere uomo, se l’uomo non fosse anche poeta e risolutore di enigmi e redentore del caso! Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni ‘fu’ in un ‘così volli che fosse! ’ - questo solo significa per me redenzione Volontà - questo è il nome di ciò che libera e reca gioia [ . . .] Vi ho condotto lontano da tutte queste cantilene, quando vi ho insegnato: «La volontà è creatrice .» Ogni ‘fu’ è un frammento, un enigma, un orrido caso - finché la volontà creatrice non dica anche: ‘Ma così ho voluto che fosse! ’ - Finché la volontà creatrice non dica anche: ‘Ma così io voglio! Così vorrò! ’» 18 Quella di Zarathustra è la formula suprema dell’accettazione: trasformare ciò che è accaduto in qualcosa di voluto Pensare che sia stata la volontà ad averlo generato e per questo amarlo: amor fati . 19 Anche per Pavese paradossalmente solo in un modo l’uomo prende il sopravvento sul destino: accettandolo È questo in fondo il senso delle parole di Britomarti a Saffo: «Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte [ . . .] È accettare, accettare, sé stesse e il destino» . 20 Solo così si depone l’ansia per il futuro e la disperazione per il passato - accaduto e come tale immodificabile Solo così l’uomo vive immerso nell’istante e conquista la condizione di immortalità Immergersi nell’istante vuol dire aderire con la totalità del pensiero all’attimo presente, dimentichi del passato e del futuro incerto; dimentichi anche della morte Dice Calipso a Odisseo: «Immortale è chi accetta l’istante Chi non conosce più un domani [ . . .] Ma se tu non rinunci ai tuoi ricordi e ai sogni, se non deponi la smania e non accetti l’orizzonte, non uscirai da quel destino che conosci [ . . .] Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? » 21 Anche nello Zarathustra di Nietzsche l’«istante» è scrigno di eternità; solo chi vive in esso si libera dallo «spirito di gravità» e si aprono per lui le porte dell’eterno ritorno Nella terza parte dell’opera, il viandante Zarathustra risale una montagna È appesantito e ostacolato da un nano che è abbarbicato sulle sue spalle Ma ad un tratto, mosso da coraggio, Zarathustra scaccia il nano: lo «spirito di gravità» Nel momento in cui se ne libera scorge un arco: 2_IH_Italienisch_77.indd 19 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 20 «‘Guarda questo arco! Nano! ’ continuai, ‘esso ha due facce Due strade si incontrano qui: nessuno le ha mai percorse fino alla fine Questa lunga via all’indietro: essa dura un’eternità E quella lunga via in avanti - è un’altra eternità Si contraddicono, queste vie; si urtano reciprocamente: e qui, presso questo arco, è il punto d’incontro Il nome della porta sta scritto in alto: “istante” Ma chi proseguisse per una delle due - e sempre più avanti e sempre più lontano: non credi tu, nano, che queste strade si contraddicano in eterno? ’ ‘Tutte le cose dritte mentono’, mormorò sprezzante il nano ‘Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo’ [ . . .] ‘Guarda’, continuai, ‘questo istante! Da questo arco corre all’indietro una lunga via eterna: dietro di noi c’è un’eternità Non dovrà avere già una volta percorso questa via ognuna delle cose che possono muoversi? Non dovrà, ognuna delle cose che possono accadere, essere già una volta accaduta, compiuta, trascorsa? E se tutto è già esistito: che cosa pensi, nano, di questo istante? Non deve anche questo arco - essere già esistito? E non sono forse tutte le cose annodate in modo tanto saldo, che questo istante trae dietro di sé tutte le cose venture? Così - anche sé stesso? ’» 22 La parola «istante» traduce il termine tedesco Augenblick composto da Augen = occhi e Blick = sguardo, vista (dal verbo blicken = affacciarsi): l’orizzonte dell’uomo deve abbracciare, per Pavese così come per Zarathustra, solo ciò che può essere compreso fra un battito di ciglia, ciò che si offre allo sguardo, cioè il presente Tutto ciò che sta oltre non può essere umanamente contemplato e, anzi, nel tentativo di farlo, l’uomo perderebbe la sua natura umana Si narra che, quando gli dei indiani apparivano agli uomini in forma umana, si riconoscessero proprio per la mancanza delle palpebre: gli occhi del dio non scandiscono gli istanti; essi fissano l’infinito Uomini e dei Nei Dialoghi si intrecciano strettamente due riflessioni: una di ordine per così dire cosmologico e filosofico, un’altra di ordine esistenziale L’uomo distaccatosi dalla natura e svuotato del senso dà vita alla divinità; com’è noto in Nietzsche tutto ciò che è sovrannaturale ha valenza 2_IH_Italienisch_77.indd 20 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 21 negativa poiché figlio dell’angoscia, della necessità e del bisogno, ma in questo panorama gli dei olimpici occupano una posizione particolare L’uomo greco negli olimpici aveva ricreato la sua condizione ideale Afferma Nietzsche in La visione dionisiaca del mondo: «Gli dei greci nella loro compiutezza, quale già ci è dato incontrare in Omero, certo non sono da intendere come figli della necessità e del bisogno: tali esseri non sono certo stati inventati da un animo angosciato, e non è che una geniale fantasia abbia proiettato le sue immagini in cielo per sottrarsi alla vita In essi parla una religione della vita, non del dovere o dell’ascesi o della spiritualità . Tutte queste figure diffondono il trionfo dell’esistenza, un sentimento esuberante della vita accompagna il loro culto . Esse non esigono niente: in esse l’esistente è divinizzato indipendentemente dal fatto che sia buono o cattivo .» 23 La ‘morte’ di Dioniso è parallela, dunque, alla nascita degli dèi: nel momento in cui nega la Natura come proprio principio vitale, è necessario per l’uomo erigere tutto un mondo di divinità che tengano in mano il suo destino e che rappresentino la Legge di tutto ciò che accade Ma in tal modo gli dèi diventano l’ideale di quella vita piena, eterna, ‘sorridente’ di cui l’uomo si è privato proprio nell’atto feuerbachiano di conferirla a loro Anche in alcuni Dialoghi, gli dèi, i «nuovi dèi», divengono termine di paragone positivo per l’uomo in quanto rappresentano l’ideale di immortalità e libertà I dialoghi che ne sono espressione sono costituiti dal seguente gruppo: Le Muse, Schiuma d’onda, Il diluvio, Il mistero, Le streghe, Il lago e L’isola, anche se non mancano elementi di tale riflessione in altri dialoghi come per esempio Gli uomini Negli dèi alberga quella pienezza di vita che l’uomo ha ceduto loro creandoli E perciò essi diventano modello ideale di vita per l’uomo; in essi tornano a congiungersi libertà e necessità . 24 In questo ordine di idee la divinità non è più negativa, bensì positiva La poliedricità e la ricchezza di questi Dialoghi difficilmente può esaurirsi in facili schematizzazioni: al rapporto uomini-dei Pavese conferisce due diverse sfumature La prima è in qualche modo a carattere psicologico, essa ci viene suggerita da Pavese stesso nel diario Il dio vi viene descritto, infatti, come «l’essere indurito», l’individuo «autosufficiente e sovrano» Il dio è «impassibile»: egli conosce il destino e dunque non è vincolato al gioco dei sentimenti e al caos del caso, come gli uomini Questa caratterizzazione trova un perfetto riscontro nelle pagine dello Zarathustra di Nietzsche: 2_IH_Italienisch_77.indd 21 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 22 «Perché così teneri? Fratelli miei, questo io vi domando: non siete forse voi - i miei fratelli? Perché così teneri, così malleabili e condiscendenti? Perché vi è tanta negazione, rinnegamento nei vostri errori? Così poco destino nei vostri sguardi? E se non volete essere dei destini e degli inesorabili: come potreste con me - vincere? E se la vostra durezza non vuole folgorare e dividere e tagliare in pezzi: come potreste un giorno insieme a me - creare? Coloro che creano, infatti, sono duri E per voi deve essere una beatitudine imprimere la vostra mano sui millenni, come su cera Beatitudine, scrivere sulla volontà di millenni come sul bronzo - più duri del bronzo, più nobili del bronzo Solo ciò che è più nobile è del tutto duro Queste nuove tavole, fratelli miei, io pongo sopra di voi: diventate duri! [ . . .] Basta con un dio siffatto! Meglio nessun dio, meglio farsi un destino con le proprie mani, meglio essere un folle, meglio essere da se stessi dio! » 25 In Pavese il dio è l’uomo senza Dio Il dio è l’uomo senza il peso del destino, che può «sorridere» perché sa, e non è sottoposto a nessuna legge né al caso Spiega Gioanola descrivendo gli dei di Pavese: «Gli olimpici qui non sono dèi in senso assoluto, ma sublimazione di un’umanità autosufficiente e padrona del proprio destino» . 26 In Pavese il dio è l’uomo all’ennesima potenza, che non ha paura, che si fa beffa del destino, che è insomma «indurito»: «si conosce tutta la strada, la commozione, il tumulto, la bufera - si lascia che scoppi, senza in fondo esserne presi ne dominati Si ha altro da fare Questo è essere indurito L’«essere un dio» dei dialoghetti mitici è proprio questo «essere indurito» […]» . 27 Nei Dialoghi, dunque, il dio rappresenta da un lato l’ideale modello cui tendere, dall’altro il limite da superare: quando l’uomo si sarà liberato del dio, diverrà egli stesso dio, giacché, come dice Teseo a Lelego, «quel che si uccide si diventa» . 28 «Dio è morto»: solo a questa condizione l’uomo può esplicare tutta la sua volontà di potenza e andare oltre se stesso; essere Übermensch - al di sopra dell’uomo e dunque di se stesso, prendendo il posto di quel dio inesistente che egli ha posto su di sé; essere, dunque, l’«Oltreuomo», padrone di sé e del proprio destino Accanto a questa caratterizzazione del rapporto uomini-dei ve ne è una seconda più a carattere esistenziale ed è ancora una volta nel diario che 2_IH_Italienisch_77.indd 22 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 23 il Nostro vi fa cenno Il 31 ottobre del 1946, Pavese scrive: «Nei dialoghetti gli uomini vorrebbero le qualità divine; gli dei le umane Non conta la molteplicità degli dèi - è un colloquio tra il divino e l’umano» . 29 Nel periodo in cui fu fatta questa affermazione, siamo già più che a metà del percorso compositivo dei dialoghi, Pavese prende atto del fatto che in molti di essi c’è un legame fra l’uomo e il dio che non è più oppositivo, bensì il dio rappresenta nient’altro che la condizione ideale in cui trova realizzazione il desiderio di immortalità, di eternità dell’uomo Ciò accade in particolare in tre dialoghi - Il mistero, Il diluvio, Le Muse - che Pavese, in un indice dattiloscritto del settembre 1946, raccoglie sotto l’etichetta di «Déi buoni» e, nonostante l’ultimo sia stato redatto qualche mese prima degli altri due, 30 nell’edizione definitiva Pavese decide non a caso di collocarli in successione, a ridosso del dialogo finale Aggiungeremmo a tal proposito, parafrasando Pavese, che non conta la molteplicità delle figure: è un colloquio dell’uomo con se stesso, combattuto fra il proprio stato di finitezza, angosciante ma colma di ebbrezza e il desiderio di eternità, serena ma appiattita nella monotonia A questo punto si verifica quella che Gioanola definisce «l’intatta incapacità di Pavese di uscire dalla dialettica drammatica degli assoluti» Invero, infatti, la dialettica dei Dialoghi si muove tutta fra due estremi: il titanico e il divino, in mezzo ai due si colloca l’uomo Ma queste non sono realtà altre dall’uomo, bensì sue modalità d’essere che in questi due stati vengono come ‘drammatizzate’: il selvaggio, il dionisiaco, l’inconsapevolezza ferina e felice nel primo e il desiderio di eternità nel secondo «L’uomo è una corda annodata fra la bestia e l’oltreuomo sospesa su un abisso» - afferma lo Zarathustra di Nietzsche Tale stato di sospensione è peculiare dell’uomo e anche se ciò si configura come finitezza, incertezza e inquietudine, è per lui sinonimo di vita Se egli tendesse verso un solo estremo, infatti, annullerebbe la sua natura: «non sai che il selvaggio e il divino cancellano l’uomo? », 31 chiede Endimione allo straniero nel dialogo La belva Si osservi come vengono schematizzate da Pavese le tematiche dei dialoghi nell’ultimo indice in ordine cronologico, quello che si presuppone essere il definitivo: caos x dèi umanità schiacciata umanità tragica umanità sorridente e dèi 32 2_IH_Italienisch_77.indd 23 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 24 L’umanità è schiacciata tra il caos del titanico e il divino, dunque: in ciò consiste la condizione tragica dell’esistenza Altro non è che la questione della «insecuritas humana», 33 così definita da Peter Wust, il filosofo esistenzialista di ispirazione cristiana che Pavese lesse nel 1944, quando a Serralunga di Crea presso i padri Somaschi, già pensava alla stesura dei Dialoghi A tal proposito Nietzsche nella Genealogia della morale afferma che «l’uomo è l’animale non ancora fissato» In mezzo a questi due estremi l’uomo è sospeso fra pieno godimento della terra e riflessione per ergersi al di sopra della contingenza, insomma desiderio di eternità Lo stato bestiale e quello divino, però, sono due estremi che finiscono per toccarsi: dice Circe a Leucotea, che la bestia è più vicina agli immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso, «la bestia che mangia, che monta, e non ha memoria» . 34 Ma quello della bestia non è godimento, giacché quest’ultimo è aver coscienza del piacere provato e non è d’altri se non dell’uomo D’altro canto la vita incessante degli dei è «monotona e triste e non c’è parola che ne dica il tedio», dice Saffo a Britomarti Le tanto agognate serenità e immortalità sono solo noia e monotonia Nei tre dialoghi finali del Mistero, Il diluvio e Le Muse c’è un vero e proprio inno alla condizione umana, celebrata sia dal mondo divino - nel Mistero parlano Dioniso e Demetra - sia dal mondo titanico - nel Diluvio parlano un satiro e un’amadriade - fino alle Muse, in cui a dialogare sono una dea e un uomo: Mnemòsine ed Esiodo «Tutto quello che toccano diventa tempo Diventa azione Attesa e speranza Anche il loro morire è qualcosa», afferma Demetra degli uomini, e Dioniso: «Dappertutto dove spendono fatiche e parole nasce un ritmo, un senso, un riposo [ . . .] Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare e prevedere» . 35 «Perché non capiscono che proprio la loro labilità li fa preziosi? », si chiede l’amadriade, e il satiro a lei: «Tutto non si può avere, piccola Noi che sappiamo, non abbiamo preferenze E loro che vivono istanti imprevisti, unici, non ne conoscono il valore Vorrebbero la nostra eternità Questo è il mondo» . 36 Né bestia né dio, dunque, bensì semplicemente uomo È per questo che Virbio, rifiutando a Diana l’immortalità, può affermare: «Chiedo di vivere, non di essere felice» Ma per riappropriarsi di sé l’uomo deve prima di tutto uccidere lo “spirito di gravità” In che modo può verificarsi ciò? «Non con l’ira, ma col riso si uccide Avanti, uccidiamo lo spirito di gravità! », 37 afferma Zarathustra 2_IH_Italienisch_77.indd 24 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 25 Sorvolando il destino: riso e sorriso In Nietzsche il riso è «la risata dell’altezza» Ride chi ama la terra e la propria vita, 38 e in tal modo non ha più paura del dio, perché si erge anche al di sopra di consolazioni metafisiche di cui non ha bisogno Zarathustra è «il ridente» e gli «uomini superiori» sono coloro che hanno «imparato a ridere» Si noti come anche nella Bibbia il riso è proprio di coloro che hanno un forte legame con la terra Nietzsche, nella Gaia scienza, scrive di un moralista francese del Settecento, «Chamfort, un uomo ricco di abissi e sottofondi dell’animo, tetro, sofferente, ardente - un pensatore, che avvertì la necessità del riso come un farmaco salutare per la vita, e che si sentiva pressoché perduto ogni giorno che non aveva riso» . 39 In realtà Heilmittel, qui tradotto come «farmaco salutare», sarebbe da tradurre come ‘mezzo di salvezza’ poiché Heil in tedesco vale proprio ‘salvezza’ Gli uomini ardenti, dal profondo sentimento della vita sono tormentati dal desiderio di trovare nella conoscenza un senso alle cose, questo è ciò che costituisce lo spirito di gravità, poiché la conoscenza conferisce un senso alle cose, 40 ma allontana dalla vita Gli uomini, però, possono trovare la loro salvezza nel riso Nello Zarathustra, Nietzsche narra di una visione: «Vidi un giovane pastore che si torceva, soffocato, convulso, stravolto in faccia, cui un gonfio serpente nero pendeva dalla bocca Avevo mai visto tanto schifo e cereo raccapriccio impresso su un viso? Forse dormiva? E intanto il serpente gli era strisciato dentro la gola - dove si era solidamente piantato mordendo La mia mano tirava e tirava con forza il serpente: invano! Non riusciva a strappare il serpente dalla gola Allora da dentro mi sfuggì un grido: ‘Mordi! Mordi! Staccagli la testa! Mordi! »’ [ . . .] Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo nella gola? Chi è l’uomo a cui strisceranno in gola le cose più pesanti e più nere? - Ma il pastore morse, come gli consigliava il mio grido; morse con un buon morso! Sputò lontano la testa del serpente -: e si alzò con un balzo - Non più pastore, non più un uomo - un trasformato, avvolto di luce, che rideva! Mai prima sulla terra un uomo aveva riso come lui rideva! O fratelli miei, ho sentito un riso che non era un riso di uomo - e adesso mi divora una sete, una nostalgia che non si estingue mai .» 41 2_IH_Italienisch_77.indd 25 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 26 Il senso dell’enigmatica apparizione è il seguente: il serpente simboleggia la conoscenza, talvolta esso ha valore positivo (Zarathustra cammina con un bastone alla cui sommità vi è un serpente che si avvolge attorno al sole), ma Nietzsche mostra come all’estremo la conoscenza porti ad un allontanamento dalla concretezza e dalla terra, di come essa sia spirito di gravità che strangola l’uomo nell’impossibile tentativo di conferire un senso alle cose Anche nei Dialoghi è presente l’enigmatica figura della serpe Ne I ciechi Pavese, per bocca di Tiresia, afferma che «c’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda» Anche di esso può essere data, come in Nietzsche, duplice interpretazione Potrebbe infatti essere inteso come animale che simboleggia il profondo contatto con la terra, acquattato com’è in essa D’altronde le parole di Tiresia seguono l’affermazione che «quel che accade non ha nome» e «Il ragazzo annegato un mattino d’estate, cosa sa degli dèi? Che gli giova pregare? »: ciò che conta è la terra Per converso, però, la serpe potrebbe rappresentare la tentazione di dare un senso alle cose, il nietzschiano «spirito di gravità» Quegli occhi che ci guardano ogni giorno, sono gli occhi «come di chi fissa nel buio» che rendono inquieti i sonni di Endimione, i quali non sono più, come quelli dello straniero - «i sonni del vino e quelli pesanti che si dormono al fianco di una donna» Ogni giorno l’infinito ci viene a visitare e la tentazione di dare un senso divino alla terra è sempre in agguato Per tale motivo, quando l’enigmatico pastore dello Zarathustra uccide il serpente mordendolo, ne scaturisce una risata di tale intensità da sembrare disumana La risata è liberazione . 42 Per chi ride, per l’«uomo superiore», la vita ha la leggerezza di una danza «Quante cose sono ancora possibili! Imparate allora a ridere di voi stessi! Levate in alto i cuori, voi bravi ballerini, più in alto! E non dimenticatemi la buona risata! Questa corona di colui che ride, questa corona intessuta di rose: a voi, fratelli miei, getto questa corona! Io ho chiamato sacro il riso; voi uomini superiori imparate per me - a ridere! » 43 Nei Dialoghi il riso ha il medesimo valore che in Nietzsche, ma Pavese introduce una sfumatura nuova: distingue fra riso e sorriso La critica 44 sovrappone il valore dei due termini e delle due azioni, ma a nostro avviso essi non sono sovrapponibili poiché designano due atteggiamenti differenti Solo per chi è in balia del caso e del destino ignoto l’esistenza è dolore, dunque per l’uomo L’uomo agisce nell’inconsapevolezza, il dio, 2_IH_Italienisch_77.indd 26 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 27 invece, sa: «gli dei sanno - vedono magico-razionalmente e con distacco Gli uomini fanno, non magicamente, con dolore», scrive Pavese nel suo diario il 2 aprile 1947 In Al di là del bene e del male Nietzsche definisce il riso «il vizio olimpico» (IX, 294): gli dei sanno ridere «ad onta di tutte le cose serie» Ma la serenità di non aver domani è solo nell’eterno presente degli dei In Pavese, infatti, il sorriso è sempre e solo degli dei . 45 L’uomo non può sorridere, tutt’al più può ridere Ride chi, nonostante sia consapevole del proprio destino di morte, vive la vita destreggiandosi fra questo pensiero Non a caso nei Dialoghi, solo Ulisse sa ridere Le streghe è il dialogo del riso e del sorriso In esso Circe e Leucotea parlano di Ulisse Ulisse è l’uomo che ha saputo ridere davanti al destino, perché egli è l’astuto per eccellenza, l’ νδρα π λύτρ π ν che non subisce il destino, ma lo volge a proprio favore grazie al suo «multiforme ingegno» Ridere è, anche solo per un attimo, prendere il sopravvento sulla vita, farsi beffa delle catene che ci avvinghiano al destino . 46 Ma sorridere è altro: il sorriso è sereno, può prolungarsi in eterno Solo in un caso l’uomo può sorridere: nel ricordo - «davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati», afferma Circe - perché il ricordo è vita trascorsa e quasi sottoposta ad un processo di imbalsamazione nella memoria; è innocua; è nota perché già accaduta e la si può guardare con serenità Il riso è invece qualcosa di momentaneo, quasi di isterico, improvvisa adrenalinica fuga dalla vita, contatto con il fondo dionisiaco dell’essere Chi ride è salvo e non ha bisogno di consolazioni metafisiche, giacché è dalla paura che esse nascono - dice Prometeo ad Eracle: «Così è degli dei Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dei spariranno» E, riecheggia in Nietzsche: «Dovreste prima imparare l’arte della consolazione dell’al di qua, dovreste imparare a ridere, miei giovani amici; forse in seguito, come ridenti, un bel giorno manderete al diavolo ogni consolazione metafisica» . 47 Il dio è nato dal grembo dell’uomo e della terra: «anche questi dolci e foschi veleni [gli dei] essi presero dal corpo e dalla terra», 48 afferma lo Zarathustra di Nietzsche; «ci hanno trovati nel sangue», dice Dioniso a Demetra nel dialogo pavesiano Il mistero, ed è lì che l’uomo deve far ritorno Il corpo, la terra e l’eterno ritorno Il culmine della riflessione filosofica di Nietzsche conduce alla conclusione che se non esiste nessun principio ordinatore, nessun nous, nessun Dio per cui il mondo debba procedere in senso lineare, avere uno scopo, allora il mondo è natura immanente, ciclo di vita ed eterno ritorno dell’identico Una volta che l’uomo si è emancipato dal pensiero di dio e della trascendenza, 2_IH_Italienisch_77.indd 27 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 28 può tornare a riposare nel grembo della natura da cui proviene Rintracciamo questo passaggio nella parte conclusiva del dialogo La rupe e confrontiamola con la concezione nietzschiana dell’eterno ritorno Scrive Pavese: PROMETEO La morte è entrata in questo mondo con gli dèi Voi mortali temete la morte perché, in quanto dèi, li sapete immortali Ma ciascuno ha la morte che si merita Finiranno anche loro [ . . .] Ma ricordati sempre che i mostri non muoiono Quello che muore è la paura che t’incutono Così è degli dèi Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno ERACLE Torneranno i titani? PROMETEO Non ritornano i sassi e le selve Ci sono Quel che è stato sarà ERACLE Ma foste pure incatenati Anche tu PROMETEO Siamo un nome, non altro Capiscimi, Eracle E il mondo ha stagioni come i campi e la terra Ritorna l’inverno, ritorna l’estate Chi può dire che la selva perisca? o che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco ERACLE Noi mortali? PROMETEO Voi mortali - o immortali, non conta . 49 Eracle e Prometeo immaginano un mondo senza dei Gli dei sono nati dalla paura degli uomini Nella Gaia Scienza di Nietzsche, il V libro reca il titolo «Noi senza paura» ed è proprio quello della liberazione dal dio Liberandosi dell’idea di dio, ci si libera anche dell’idea della morte Non solo perché, come afferma Prometeo, è dal raffronto con l’immortalità del dio che la finitezza dell’uomo emerge in tutta la sua dolorosa evidenza, ma anche per il fatto che scompare la categoria dell’ ‘individualità’ - primo e inevitabile frutto della prospettiva religiosa Soffermiamoci su questo secondo aspetto e vediamo come il venir meno della presenza del dio contribuisca ad avvicinare l’uomo alla Natura, e a mutare il punto di vista sul fenomeno della morte Nelle religioni antiche la venerazione era rivolta a dèi che costituivano fondamentalmente divinizzazioni della natura stessa - dèi della Terra, del Mare, del Sole ecc - o tutt’al più a divinità protettrici delle attività umane (l’agricoltura, la guerra . . .) Nel 1871 questo tipo di religioni fu definito «animista» dall’antropologo inglese Edward Tylor: il ‘divino’ non è altro che la qualità conferita dall’uomo stesso a esseri viventi, fenomeni o oggetti presenti nella propria esperienza quotidiana In questo tipo di religioni non c’è nessun destino particolare che contraddistingue l’uomo e ne fa un «singolo»: ciascuno è parte integrante della Natura - e il destino delle sue crea- 2_IH_Italienisch_77.indd 28 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 29 ture si identifica con la Natura stessa Del resto anche l’elemento divinizzato ne è parte integrante, ed è da questa prospettiva che ci si rivolgeva al dio Le religioni moderne invece, sono caratterizzate innanzitutto dalla presenza di un dio creatore, il quale è totalmente altro da ciò che ha creato, compreso l’essere umano L’uomo nei confronti di Dio ha una responsabilità individuale: il suo operato non ha un significato in sé, ma in quanto si proietta al di fuori, viene giudicato e influisce in modo determinante su una vita ultraterrena di cui la fede nella religione stessa gli offre garanzia Tale vita ultraterrena, che è poi l’esito della Morte, partecipa del sembiante incerto e inverificabile del dio trascendente Ne consegue che l’individuo viene strappato dalla Natura immanente cui appartiene, per essere ascritto ad una categoria ontologica trascendente che non gli è dato conoscere e la cui esistenza, per altro, non gli è dato verificare . 50 Come illuminati da una luce che non vedono, gli uomini, dimentichi del corpo, guardano solo alla loro ombra Eppure quest’ultima viene definita come loro dimensione vera e autentica contrapposta ad una Natura che sarebbe soltanto apparenza e tentazione, in quanto polo opposto alla perfezione dell’idea divina Da quest’ottica la Morte, quando giunge, strappa irrimediabilmente l’individuo alla catena armoniosa dell’Essere e degli altri suoi simili, e rappresenta per lui l’ineluttabile sentenza del dio alla condanna o alla beatitudine Non è Morte come naturale esito della Vita, ma morte inflitta e subìta . 51 Tutto ciò constata Pavese fin dalle parole iniziali della Nube a Issione: «La morte, ch’era il vostro coraggio, può esservi tolta come un bene Lo sai questo? [ . . .] Issione, tu credi che [gli immortali] sian presenze come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino Per te non esistono mostri ma soltanto compagni Per te la morte è una cosa che accade come il giorno e la notte Tu sei uno di noi, Issione Tu sei tutto nel gesto che fai Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra Sono immortali e non san vivere da soli Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi - tutto a loro contenta o dispiace E se tu li disgusti - se per errore li disturbi nel loro Olimpo - ti piombano addosso, e ti danno la morte - quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente .» 52 Da una divinità che protegge l’uomo e lo sostiene, una divinità che intride quello stesso suolo che l’uomo calpesta ad un dio scostante, che giudica e decide del suo destino È un dio che risucchia la potenza dell’uomo, il valore 2_IH_Italienisch_77.indd 29 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 30 dei cui gesti sfuma dal presente concreto nell’intento di incidere su un futuro senza volto L’uomo che ne deriva, quello che Nietzsche chiama «debole», 53 è un uomo depotenziato, che riversa le proprie energie sullo spirito debilitando la potenza del corpo; un uomo che non crea, ma che investe su una pseudo vita ultraterrena che forse non avrà mai, rinunciando all’unica di cui dispone È l’uomo che ha operato il sovvertimento dei veri valori Quei «valori supremi» finora riconosciuti come tali, dal punto di vista del mondo della Natura non sono che dei disvalori Nietzsche inverte la dottrina platonica di un ‘mondo delle idee’ grembo della verità, contrapposto ad uno dove albergano l’apparenza e l’errore: il ‘mondo della natura’ Solo quest’ultimo per Nietzsche rappresenta la vera realtà Esso coincide con l’eterno ritorno: «un mondo in cui ritorna in anni incalcolabili, il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse; un mondo che da ciò che è più calmo, rigido, freddo, trapassa in ciò che è più ardente, selvaggio, contraddittorio […] Questo mio mondo dionisiaco che si crea eternamente, che distrugge eternamente se stesso, questo mondo misterioso di voluttà ancipiti, questo mio ‘al di là del bene e del male’, senza scopo […] - per questo mondo volete un nome? […] Questo mondo è la volontà di potenza - e nient’altro! E anche voi siete questa volontà di potenza - e nient’altro! » 54 Ritornare al dionisiaco significa per l’uomo «ritorno alla natura, cioè alla sua illogica posizione fondamentale verso tutte le cose», 55 spiega Nietzsche Da questa prospettiva l’uomo sarà potenza pura, pura energia vitale La nietzschiana «volontà di potenza», il cui significato viene spesso travisato, non designa altro che la posizione dell’uomo come parte integrante del meccanismo naturale cui appartiene Nessuna volontà individuale di sopraffazione, dunque, bensì volontà come energia di vita che attraversa tutte le cose: il torrente che scorre, il fiume che straripa, il vento che soffia senza curarsi dei semi che porta, fecondando la vita, o di ciò che distrugge, portando la morte Questo punto di vista sconvolge i due punti fermi della condizione umana: la successione temporale e la Morte Da questa prospettiva, infatti, l’uomo non è individuo unico e irripetibile, ma parte di una specie Nell’inarrestabile divenire della Natura, la linearità del tempo si curva nel cerchio perfetto del ritorno dell’identico e la Morte non è altro che il segno della trasformazione incessante della Vita L’immortalità è dunque nel grembo stesso della natura giacché, come afferma Elio Gioanola, a proposito de La luna e i falò, «il morire è diventare 2_IH_Italienisch_77.indd 30 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 31 terra, cioè durata, ripetizione, immobilità: il morire, paradossalmente, non è morire, ma assimilarsi all’eterno durare, è l’estrema forma del ritorno» . 56 In questo modo l’uomo è finalmente libero Parte integrante dell’alveo della Natura egli non è più schiavo dell’indeterminatezza della propria condizione, bensì libero nella causalità della Natura Afferma Pavese: «Noi siamo al mondo per trasformare il destino in libertà (e la natura in causalità)» . 57 Spiega Adorno nella Teoria estetica: «Quando è di fronte alla natura, lo spirito, al contrario di quel che Kant vorrebbe, non si accorge tanto della propria superiorità quanto di avere dimensione naturale Quest’attimo muove il soggetto dal sublime al pianto Il ricordo della natura dà via libera alla consolazione che il soggetto trova nel porsi da sé: ‘La lacrima sgorga, la terra mi riacquista’ Qui l’io, spiritualmente, esce dalla prigionia di se stesso Si accende un bagliore in quella libertà che la filosofia con colpevole errore riserva al contrario, alla tirannia del soggetto La signoria che il soggetto impone alla natura imprigiona anche lui: la libertà dà segno di sé nella coscienza della somiglianza del soggetto con la natura .» 58 E invero, questo senso di appartenenza alla madre Terra, questa eternità dei mortali nel grembo immortale della Natura, Pavese aveva trovato, oltre che in Nietzsche, fra le «foglie d’erba» del poeta americano da lui più amato, Walt Whitman, 59 per eccellenza il cantore del corpo e della pienezza dell’essere Qual è l’unico vero soggetto di tutte le sue poesie, se non il dionisiaco? Qual è, se non la comunione dei corpi fra loro e del corpo 60 con la Natura stessa? Pavese non parla direttamente di corpo, ma il termine «sangue» e l’immagine ricorrente ad esso connessa ne costituiscono una sorta di sineddoche Il corpo, contrapposto alla ragione, è strumento ed espressione dell’irrazionale Tutto ciò che vi è connesso solleva al mistero e al mito Scrive sul suo diario il 7 febbraio 1944: «Il sangue è sempre versato irrazionalmente Ogni cosa è un miracolo, ma nel caso del sangue lo si sente più acutamente, perché di là c’è il mistero Piangere è irrazionale Soffrire è irrazionale Il tuo problema è dunque valorizzare l’irrazionale Il tuo problema poetico è valorizzarlo senza smitizzarlo Quando si sanguina o si piange, lo stupore è che proprio noi si faccia quello che solleva all’universale, al tutti, al mito .» 61 2_IH_Italienisch_77.indd 31 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 32 Questa contrapposizione mito-logos, costante dei Dialoghi, diviene ne I ciechi contrapposizione corpo-ragione, terra-cielo, «roccia-dio» Afferma Tiresia: «La roccia non si tocca a parole [ . . .] Anche in me c’è qualcosa che gode e che sanguina Tutti preghiamo qualche dio, ma quel che accade non ha nome Ti sei mai chiesto Edipo, perché gli infelici invecchiandosi accecano? » . 62 Il mondo concreto è sesso, sangue Esso è il vero dio, il più antico Il dio dentro di noi è «qualcosa che gode e che sanguina» Pavese conclude il dialogo con una oscura domanda rivolta da Tiresia a Edipo: «perché gli infelici invecchiandosi accecano? » Gli infelici, alla maniera leopardiana, sono coloro che attraverso la ragione danno un senso alle cose - secondo il poeta recanatese, infatti, è proprio la ragione a rendere infelici Chi ha sempre voluto andare oltre le cose del mondo, oltre la «roccia», quando invecchia e perde la forza del sangue e della concretezza, consuma il distacco dalla natura, poiché il corpo, unico legame con quest’ultima, perde vigore A quel punto si diventa ciechi: il mondo è solo buio (Tiresia: «Tu sei giovane, Edipo, rischiari tu stesso le cose e le chiami Non sai ancora che sotto la terra c’è roccia e che il cielo più azzurro è il più vuoto Per chi come me non ci vede, tutte le cose sono un urto, non altro» 63 ) Afferma Orfeo: «Tutte le volte che si invoca un dio si conosce la morte […] Non si vince la notte, e si perde la luce Ci si dibatte come ossessi .» Questa l’esortazione di Zarathustra: «Questo essere onestissimo, l’Io, parla del corpo, e vuole ancora il corpo, anche quando poeta e fantastica e svolazza con ali spezzate L’Io impara a parlare sempre più onestamente: e tanto più impara, quanto più trova parole per onorare il corpo e la terra Un nuovo orgoglio mi insegnò il mio Io e io lo insegno agli uomini: di non ficcare più il capo nella sabbia delle cose celesti, ma di portarlo libero, un capo terreno che dà senso alla terra! » 64 Per Nietzsche il vero ‘sapiente’ non è colui che sapendo non fa altro che allontanarsi dalla terra perché affonda sempre più il capo nelle cose celesti: il sapiente (da sapio: «io gusto») è colui che gusta il sapore del mondo; «soltanto vivendo con loro e per loro [gli uomini] si gusta il sapore del mondo», 65 dice Bia a Cratos L’attimo estatico L’intima unione con la Natura, però, ci è preclusa in questo nostro tempo: il senso profondo delle cose viene cercato nelle idee, nella cultura e trasfigurato nel puro concetto Il contatto con il mondo dionisiaco si offre a noi solo 2_IH_Italienisch_77.indd 32 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 3 3 di tanto in tanto, in istanti fulminei, in attimi estatici, nei quali a prevalere è, appunto, la sensazione (dal greco αίσθησις) Sia in Nietzsche che in Pavese, l’attimo estatico è porta per l’Assoluto, contatto con il fondo primigenio dell’essere - anche questo talvolta definito da Pavese come «mito» Ciò che Pavese definisce «attimo estatico», indicato anche come «istante mitico», è un «momento privilegiato dell’esperienza, durante cui si tocca, al di sotto delle contingenti relazioni storiche con la realtà, il ‘fondamento ultimo’ dell’essere» Ancora una volta comprendiamo come la ricerca del mito in Pavese non sia in direzione diacronica, bensì sincronica: lo scavo in direzione del mito non è attraverso il tempo, ma nel presente L’istante mitico è uno stato che coglie l’uomo nel mondo delle apparenze, ma per condurlo al di là di esso Il mondo delle apparenze è «il mondo della individuatio», nella cui contemplazione delle forme l’individuo è colto d’un tratto da un fremito e trova uno spiraglio per l’infinito, che infrange il principium individuationis: l’essenza dell’individuo si confonde con quella della Natura e dell’Essere; ciò costituisce esperienza di verità Così descrive Nietzsche tale esperienza nella Nascita della tragedia: «Il rapimento estatico per lo stesso infrangersi del principium individuationis sale dall’intimo dell’uomo, anzi della natura, allora gettiamo uno sguardo sull’essenza del dionisiaco, resaci ancor più vicina dall’analogia con l’ebbrezza Con l’incanto del dionisiaco non solo si rinsalda il legame tra uomo e uomo: anche la natura estraniata, nemica o soggiogata, celebra nuovamente la sua festa di conciliazione con il proprio figlio perduto, l’uomo […] così ci si potrà avvicinare al dionisiaco Ora lo schiavo è libero, ora si infrangono tutte le rigide, maligne delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la ‘moda sfacciata’ hanno posto fra gli uomini Ora, nel vangelo dell’universale armonia, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso con il suo prossimo, ma una sola cosa con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e soltanto brandelli sventolassero ancora di fronte alla misteriosa unità originaria […] anche in lui [l’uomo] risuona qualcosa di soprannaturale: egli si sente come dio e cammina così estasiato e sollevato […] la potenza artistica dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria, si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza .» 66 2_IH_Italienisch_77.indd 33 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 3 4 Riecheggia in Feria d’agosto, a proposito dei simboli mitici: «Qui tutti gli uomini sono consorti Differente soltanto è il risalto che la vita interiore darà in avvenire a questi simboli: qualcuno sentirà ingigantirsi nell’anima il ricordo remoto sino a comprendervi cielo, terra e se stesso Nulla quindi è salutare come, davanti a qualunque più alta costruzione fantastica, sforzarsi di penetrarla sfrondandone ogni rigoglio e isolandone i simboli essenziali Sarà un discendere nella tenebra feconda delle origini dove ci accoglie l’universale umano, e lo sforzo per rischiararne un’incarnazione non mancherà di una sua faticosa dolcezza Si tratta di cogliere nella sua estasi, nel suo eterno un altro spirito Si tratta di respirarne un istante l’atmosfera rarefatta e vitale, e confortarci alla magnifica certezza che nulla la differenzia da quella che stagna nell’anima nostra o del contadino più umile » 67 Gli scritti di Feria d’agosto sono tutti attraversati da queste atmosfere estatiche, non a caso, sottolinea giustamente Valerio Capasa, in essi il mito si configura come «esperienza mitica» ed essi possono essere utilmente letti in chiave propedeutica ai Dialoghi con Leucò, in quanto ne rivelano la radice esistenziale, la categoria di esperienza, considerata a partire da alcuni momenti di percezione più attenta e profonda, più gravida di passione nei confronti di qualcosa» . 68 Anche Pavese, come Nietzsche, accomuna l’essenza di questi istanti a ciò che più si avvicina all’esperienza del divino Nel dialogo Le Muse, Mnemòsine descrive a Esiodo la fenomenologia di un attimo estatico e rivela che l’esistenza del dio non è altro che passione profonda ma continua che ha la stessa intensità di quegli attimi che per l’uomo durano solo un istante: MNEMÒSINE Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu accarezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un vecchio amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque Altre volte la pioggia che insiste da giorni O lo strido strepitoso di un uccello O una nube che diresti di aver già veduto Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più [ . . .] Non puoi pensarla un’esistenza fatta tutta di questi attimi? 2_IH_Italienisch_77.indd 34 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 35 ESIODO Posso pensarla sì MNEMÒSINE Dunque sai come vivo . 69 Ciò che Nietzsche teorizza in filosofia e che Pavese traspone in letteratura è «attività mitica quotidiana» 70 Sia nel filosofo tedesco che in Pavese si compie quel «trasfunzionare il mito sul piano umano», cui auspicava Thomas Mann nel dialogo con Kerenyi . 71 Il mito, «sottratto al fascismo intellettuale», è riscoperto nella vita di ogni giorno e nel contatto con la Natura Esso è già trapelato nella scrittura e ancora una volta ‘letteraturizzato’ Tali esperienze, culminanti spesso nell’identificazione con la Natura, quasi un’estasi panica alla maniera dannunziana, sono a ben guardare un approdo non insolito nella letteratura novecentesca, soprattutto quella che viene comunemente definita «letteratura della crisi» Vi si ritrova sovente, come anche in Pavese, la contrapposizione fra la città e la campagna, l’età adulta e la fanciullezza, la civiltà e la natura, spesso con un esito di dissoluzione del primo termine nel secondo Il rifiuto della dimensione urbana, matura e sociale non è altro che il disagio provato dai protagonisti nello stato di «individuazione», la quale rappresenta la peculiarità di ciascuna di queste tre dimensioni La città - e la civiltà ad essa connessa - è per eccellenza il luogo ove ciascuno ha un ruolo preciso, costituito dalla professione che svolge e, solo sulla base di questa, viene identificato; la maturità del resto, non è altro che quella fase in cui l’uomo si stacca dal bambino per l’esercizio di un’attività che lo contraddistingue, differenziandolo contemporaneamente dagli altri individui È proprio il rifiuto di tutto ciò a generare la crisi: il personaggio non decide, non sceglie poiché la decisione costituirebbe la piena attuazione del principium individuationis Decidere in latino vale proprio «tagliare», «recidere»: chi sceglie amputa tutti i propri possibili «sé» in virtù di quell’uno solo che può essere; l’atto risolutorio è non decidere, dunque, anzi dissolversi nel flusso naturale da cui si proviene Un esempio fra i tanti della letteratura di questo periodo è rappresentato dal Vitangelo Moscarda di Luigi Pirandello, che a conclusione di Uno nessuno centomila, dissipa le sue incertezze e il suo relativismo gnoseologico nella fusione totale con ciò che lo circonda: «quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove Sono quest’albero Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo Tutto fuori, vagabondo» Sarà casuale il fatto che anche l’itinerario letterario di Pirandello si concluda con un approdo al Mito? No di certo E se per ‘Apollineo’ diciamo ‘Logos’ e per ‘Dionisiaco’ diciamo ‘Mito’, gettiamo una luce nuova su una dialettica che attraversa, in varie forme, tutta la letteratura del Novecento, compresi i nostri Dialoghi . 72 I due termini sono certamente mutuati dalla filosofia nietzschiana Spiega Fausto Curi: 2_IH_Italienisch_77.indd 35 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 36 «Apollo simboleggia il principium individuationis, dunque l’unicità e l’unità del singolo, la sua determinatezza, quindi la sua finitezza, la nettezza e la precisione del segno che lo rappresenta Il principium individuationis è travolto e abolito da Dioniso, cosicché il singolo è invaso dalle potenze telluriche e, smarrendo la propria identità, diventa natura, corpo universale, materia delirante, insieme zolla, fronda, fiore, radice, linfa, vento, nuvola, astro, fiamma, fiumana Un’infrenabile musica cosmica percorre le vene di quello che prima era un essere chiuso in se stesso, nella propria solitudine, nella propria delimitata individualità, rompe la sua finitudine, complica il suo respiro, converte in lava e rugiada il suo sangue, dilata la sua carne, moltiplica le sue membra .» 73 Una fra le forme in cui si esprime nei Dialoghi la presenza del Logos è il tema della nominatio Essa è il primo atto della ragione cosciente: dare nomi alle cose, spiegarle, indicarle con la «precisione del segno che le rappresenta» è la piena attuazione del principium individuationis Essa nulla dice dell’essenza delle cose e dunque le impoverisce, le fissa in uno scheletro e ne fa «parola, illusione, minaccia» (Tiresia) Ma nello stesso tempo è «un modo di nominare che arricchisce la vita», come afferma Dioniso Nel penultimo dialogo dal titolo Le Muse, Pavese getta una luce nuova sul valore della parola D’altronde la letteratura è «parola» per eccellenza; Pavese, dunque, non poteva non difenderne la sacralità E lo fa attraverso la figura emblematica di Esiodo in dialogo con Mnemòsine 74 Attraverso la figura del poeta greco, Pavese insignisce quella parola, che finora aveva avuto valore negativo, di una più profonda dignità Esiodo è poeta; nella Teogonia è proprio colui il quale ode la parola veritiera delle Muse, che nel proemio viene indicata proprio con il termine mythos . 75 Egli conversa con Mnemòsine - la Titanide che unitasi a Zeus concepì le nove Muse Nel dialogo in questione essa non entra nella veste di una dea, bensì - personificazione della Memoria - simboleggia l’arte della parola poetica, dunque la Letteratura Il personaggio ha una identità fluttuante e dai contorni poco definiti, ma alcune parole avvalorano la nostra ipotesi; Mnemòsine è d’altronde madre delle Muse, ispiratrici delle arti e del bel canto L’uomo Esiodo le confessa che lo scorrere incessante dei giorni è per lui «fastidio» e «scontento», e di «conoscere solo la campagna che ha lavorato», ma che salire sul monte e incontrarla, nel ricordo, ammanta il vissuto di felicità poiché «Le cose che tu dici non hanno in sé quel fastidio di ciò che avviene tutti i giorni Tu dai nomi alle cose che le fanno diverse, 2_IH_Italienisch_77.indd 36 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 37 inaudite, eppure care e familiari come una voce che da tempo taceva O come vedersi improvviso in uno specchio d’acqua, che ci fa dire «Chi è quest’uomo? » .» 76 La letteratura come parola che trasfigura il quotidiano, dunque «Letteraturizzare» la vita comporta togliere il fastidio dei giorni Inoltre essa fissa le cose nella nostra memoria, rendendole vivide e care, sottraendole allo scorrere grigio e incessante nel fiume del tempo La letteratura è per prima foriera di «esperienze mitiche» 77 , poiché ammanta le cose di una nuova luce e genera in noi stupore (la radice etimologica stessa della parola stupore, risale al sscr stabh- = rendere fermo e saldo) Il dialogo si conclude con una sorta di ‘investitura’ di Esiodo-Pavese a poeta: «Prova a dire ai mortali queste cose che sai», afferma Mnemòsine Sono anche le parole conclusive dell’opera pavesiana, poiché Le Muse sono l’ultimo dialogo prima del finale Gli dèi che, come già detto, è più un monologo Anche nel prologo della Teogonia, Esiodo viene investito dalle Muse, affinché canti «ciò che sarà e ciò che è» 78 - proprio ciò che Pavese fa con i Dialoghi: prova a dire agli uomini queste cose che sa… Al termine dei Dialoghi torna il nodo di Pavese, che aveva affermato di voler essere il «poeta del contrasto fra letteratura e vita vissuta», conferendo maggior valore al primo termine L’atto di Esiodo di salire sulle alture dell’Elicona per incontrare Mnemòsine, simboleggia l’atto del poeta di guardare «le opere e i giorni» della vita vissuta dalle «altissime altezze» della Letteratura MNEMÒSINE Tu sai che le cose immortali le avete a due passi ESIODO Non è difficile saperlo Toccarle, è difficile MNEMÒSINE Bisogna vivere per loro, Esiodo Questo vuol dire, il cuore puro ESIODO Ascoltandoti, certo Ma la vita dell’uomo si svolge laggiù tra le case, nei campi Davanti al fuoco e in un letto . 79 È ‘ascoltando’ Mnemòsine, dunque la Letteratura, l’Arte, che «si vive per loro», cioè per «le cose immortali» Afferma Nietzsche a conclusione della Nascita della Tragedia: «Quel tramonto della tragedia fu insieme il tramonto del mito Fino a ora i greci erano stati involontariamente costretti a riconnettere ai loro miti tutto ciò che vivevano, anzi a comprenderlo soltanto con questa connessione: in tal modo anche l’immediato presente appariva loro sub specie aeterni e in certo senso come 2_IH_Italienisch_77.indd 37 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 3 8 privo di tempo In questa corrente del senza-tempo ci si immergeva per trovare la pace dal peso e dalla brama dell’attimo E il valore di un popolo - come del resto anche di un uomo - sta solo nel suo saper imprimere sulle sue vicende il sigillo dell’eterno: poiché esso è per così dire deprofanizzato e mostra la sua inconscia e intima convinzione della relatività del tempo e del vero - ossia metafisico - significato della vita .» 80 La tragedia antica, la quale non era altro che ‘vita letteraturizzata’ aveva la funzione di far apparire l’ ‘immediato presente’ sub specie aeterni, di conferirvi eternità È da questa stessa prospettiva che Nietzsche e Pavese guardano all’antichità e alla mitologia Il loro mito è caratterizzato da uno ‘schwebender Mittelzustand’ tra sensibile e sovrasensibile: fra la realtà e il suo senso non c’è nessuna connessione lineare, bensì un ‘volo’ (ted schweben = volare), che solo l’immaginazione può compiere È questo dissidio, questa inconciliabilità che costituisce l’essenza del ‘tragico’ Questa è la funzione che Nietzsche riconoscerà alla tragedia, nella quale le immagini apollinee dell’arte costituiscono la forma finita che suggerisce l’infinito, l’indifferenziato, in una parola il dionisiaco Per questo motivo l’immaginazione letteraria riveste un’importanza fondamentale anche nella poetica del Nostro: essa è quella «facoltà che si libra in mezzo tra la determinatezza e l’indeterminatezza, tra il finito e l’infinito», descritta da Fichte nella Dottrina della scienza L’arte toglie il «fastidio» dai giorni, li «deprofanizza»; ciò che ne rimane è il «vero - ossia metafisico - significato della vita»: il Mito Abstract Der Aufsatz stellt das Denken Cesare Paveses demjenigen von Friedrich Nietzsche gegenüber, eines Philosophen, der für Pavese zeit seines Lebens ein wichtiger Bezugspunkt war Schwerpunkt der Analyse sind die Dialoghi con Leucò, das Buch, das Pavese von seinen Werken am meisten liebte, und das immer noch als undurchsichtig und rätselhaft gilt Die beiden Autoren verbindet ein Streben nach dem Mythos und die Sehnsucht nach einem «konzentrierten Bild der Welt», das das Wesen des Seins konstituiert Der vorliegende Beitrag möchte in aller Bescheidenheit eine Lücke im Mosaik der Literaturkritik zur Auseinandersetzung mit dem Mythos in Paveses Werk schließen und ein neues Licht auf seine Poetik und seine Weltanschauung, die ihr zugrunde liegt, werfen Dabei ist das Ziel, das Werk von den in der Pavese-Literatur verbreiteten Interpretationsschlüsseln zu befreien, die vor allem psychoanalytische und biographische Aspekte und weniger literaturkritische Kategorien berücksichtigt haben Der rote Faden ist die Entdeckung, im Lichte Nietzsches, jener Themen, die Pavese, über den 2_IH_Italienisch_77.indd 38 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 39 begrenzten Zeitraum seines Lebens hinaus, in der Literatur universell verewigt hat, um «den Menschen Poesie zu schenken .» Note *Gli studi finora pubblicati sul rapporto fra Nietzsche e Pavese sono in numero esiguo, senza considerare le incursioni sporadiche sul tema all’interno di più generali lavori sulla figura e l’opera di Pavese, che si limitano per lo più ad accostare la dialettica olimpicotitanica, presente nei Dialoghi, alla nietzschiana contrapposizione apollineo-dionisiaca (L . Mondo, A . Guiducci) . Elenchiamo, accompagnandoli ad una breve descrizione, gli studi specifici sull’argomento finora pubblicati . Nel 1998 Giuseppe Bomprezzi pubblica su Thot: Quaderni della biblioteca ‘Massimo Ferretti’ un breve articolo dal titolo «Pavese lettore di Nietzsche» . Lo studioso nota che «Pavese si è addossato, nell’universo delle lettere italiane, un compito analogo a quello che aveva caratterizzato la storia culturale di Nietzsche: […] di annunciare, cioè, il mito dionisiaco dell’esistenza» («Pavese lettore di Nietzsche», Thot: Quaderni della biblioteca ‘Massimo Ferretti’», Chiaravalle, 1, 1998, pp . 34-35) e afferma che la scrittura di Pavese vive dell’«insaziabile ricerca e dell’intuizione che tutto ciò che è stato, è ancora e ritorna, e sarà per sempre» (p . 35) . L’accostamento a Nietzsche procede e si conclude con un breve accenno all’eterno ritorno e al destino Nel 1999 un editore e scrittore francese, peraltro abile disegnatore, pubblica l’unico volume che si propone finora un confronto tra le due figure: L’immensa solitudine con Friedrich Nietzsche e Cesare Pavese, orfani sotto il cielo di Torino; l’autore è Frédéric Pajak . Il volume ha un taglio espressamente biografico ed è accompagnato da suggestive illustrazioni che scandiscono gli accostamenti della vita dei due autori, che, di fatto, sono notevoli e numerosi Nel 2001 Lorenzo Mondo partecipa al Convegno internazionale di studi su Cesare Pavese (S . Stefano Belbo, 24-27 ottobre) con un intervento dal titolo «Pavese lettore di Nietzsche» . Dopo aver riassunto le esigue citazioni che Pavese fa di Nietzsche nel diario e nelle lettere, Mondo fa un accostamento fra i Dialoghi con Leucò e la Nascita della tragedia e, a proposito di quest’ultima, afferma che «gli va forse riconosciuto il suggerimento dello schema più resistente dei Dialoghi, della più immediata e riconoscibile struttura che è appunto la lotta tra l’apollineo e il dionisiaco (che diventano in Pavese l’olimpico e il titanico, con un rapporto meno conciliato, più antagonistico) . Un nucleo concettuale e immaginativo che troverebbe in Nietzsche la sua prima radice» (Campanello M . [a cura di], Cesare Pavese: atti del convegno internazionale di studi, S . Stefano Belbo, 24-27 ottobre 2001, Firenze: Olschki 2005, p . 18) e conclude con l’ipotesi che si tratti «ben più di una semplice congettura» Lo studio più approfondito sull’argomento risale a dieci anni fa quando, nel 2005, sulla rivista fiorentina Parenklisis, rassegna annuale di cultura della Casa Editrice Clinamen, Andrea Zarrella pubblica un articolo dal titolo «La filosofia di Nietzsche nella poetica del mito di Cesare Pavese» . Il lavoro contiene una notevole quantità di elementi di interesse: l’accostamento fra la concezione di ‘mito’ in Pavese e di ‘tempo’ in Nietzsche, la concezione dell’infanzia nei due e la presenza in essa dello spirito dionisiaco . Ma secondo Zarrella Pavese cerca di chiarire il mito e condurlo al razionale . Nei Dialoghi con Leucò vi sarebbe la lotta per la libertà, per l’apollineo che distrugge il dionisiaco . Si cercherebbe la distruzione del mito . Secondo Zarrella, in Pavese «l’arte ha la funzione 2_IH_Italienisch_77.indd 39 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 4 0 di domare il selvaggio e risolvere il mistero in un bagaglio di conoscenza» (p . 153) e Pavese avrebbe il ruolo che Nietzsche attribuisce a Euripide ne la Nascita della Tragedia: ‘razionalizzatore’ del mito . L’arte avrebbe la funzione di dare un nome al ‘selvaggio’, ma a nostro avviso è il contrario: in Pavese quel ‘selvaggio’, l’arte deve, anzi, ricrearlo Finito di stampare a febbraio, ma edito ad aprile del 2015 è il volume di Antonio Sichera, Pavese . Libri sacri, misteri, riscritture, nel quale un capitolo reca il titolo «Nietzsche, il buddhismo e la gnosi: Il diavolo sulle colline» . Lo studioso fornisce sostanzialmente una interpretazione di Poli, personaggio dell’opera appena citata, all’incrocio tra il buddhismo e il nichilismo nietzschiano: Poli approderebbe, alla fine della storia, all’atteggiamento del «nichilista della Volontà di potenza [che] vive al di là del bene e del male, libero dalla colpa e convinto dell’innocenza basilare dell’esserci» (p . 214) . In Poli, Pavese opera, secondo Sichera, «una mescidazione molto interessante fra i tratti tipici dell’esperienza di Siddharta e la rilettura in chiave decadente e nichilista del buddhismo da parte del Nietzsche del Wille, procurando nel lettore un effetto di fascinazione e straniamento» (p . 215) . L’analisi non va oltre e la «volontà di Pavese di fare i conti, in una chiave esistenziale complessa e rigorosa, con un pensatore che da sempre lo ha attirato [Nietzsche]» (p . 218), rimane solo ipotizzata Finito di stampare a dicembre 2015, ma edito nel marzo del 2016 per i tipi di Aragno, è il volume di Francesca Belviso Amor fati . Pavese all’ombra di Nietzsche L’introduzione di Angelo d’Orsi e il breve saggio dell’autrice ripercorrono in dettaglio l’«affaire Nietzsche» nella casa editrice Einaudi; segue in Appendice la traduzione inedita di Cesare Pavese della Prefazione e dei primi 270 pseudoaforismi de La volontà di potenza di Nietzsche, tradotti dall’edizione Kröner di Stuttgart (1930) . L’autrice riporta il manoscritto della traduzione pavesiana, comparandone in nota i termini con due traduzioni italiane Ho constatato con piacere che gran parte delle osservazioni formulate nel volume dai due studiosi sono in linea con quelle introduttive del mio lavoro di tesi (di cui questo articolo è un estratto), discusso nel maggio 2015, ma realizzato fra il 2013 e il 2014 L’uscita del suddetto volume per i tipi di Aragno è stata accolta da un clima gravido di rinnovato interesse per il rapporto fra Nietzsche e Pavese, troppo a lungo lasciato in ombra eppure fondamentale per comprendere, inquadrandola sotto nuova luce, la poetica dello scrittore piemontese 1 Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, Torino: Einaudi 1977, p . 301 2 Nel 1927 Pavese aveva scritto un’«opera teologica», come lui stesso la definisce, dal titolo «Il crepuscolo di Dio», titolo che riecheggia una certa suggestione nietzschiana all’incrocio tra il «crepuscolo degli idoli» e la «morte di Dio» cantati dal filosofo . La nostra rimane un’ipotesi, ma la «rivoluzione laica» che Pavese inscena in Paradiso e le critiche al cristianesimo nella lettera (Lettere 1926-1950, op . cit . pp . 27-37) di risposta al primo lettore dell’opera, Tullio Pinelli, hanno un piglio inconfondibilmente nietzschiano Ad un certo punto fa la sua comparsa l’enigmatica figura di un «poeta tedesco», di cui Pavese specifica che è «pervenuto in Paradiso per la gran copia di grazia che era piaciuto a Dio di concedergli negli ultimi anni» . Il poeta, dopo essersi dichiarato insoddisfatto della condizione di perenne contemplazione della sublimità divina, muove a Dio la critica più impertinente fra tutte: «Che cosa sei tu che hai creato noi per assumerci a uno spettacolo di amore soddisfatto? [ . . .] So che c’è dei dannati che soffrono cose terribili in fondo all’abisso e la mia gioia non può così essere perfetta, perché se anche 2_IH_Italienisch_77.indd 40 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 41 penso che sono puniti giustamente, allora mi vien da chiedere: perché Tu, o Signore, hai creato l’universo in modo che sulla terra fosse necessario il dolore e per l’Eternità la coesistenza del dolore e del piacere? O Signore, perché creandoli hai dato a coloro che ora sono dannati la possibilità di peccare? Sei Tu la prima origine della colpa e del dolore, non essi» . Al misterioso poeta tedesco spetta la contestazione morale, quella più radicale, che mira alle fondamenta stesse della religione cristiana, basata sulla garanzia del trionfo del Bene sul Male, distinzione che essa stessa ha introdotto . Scrive Nietzsche in Umano troppo umano: «Solo il cristianesimo ha dipinto il diavolo sulla parete del mondo; solo il cristianesimo ha portato il peccato nel mondo . La fede nei rimedi che esso ha offerto contro di esso è stata a poco a poco scossa sin nelle sue più profonde radici: ma tuttora esiste la fede nella malattia che esso ha insegnato e diffuso» (Opere 1870 / 1881 op . cit . p . 822) Pavese nasconde Nietzsche dietro la maschera trasparente dell’ultimo personaggio . Perché proprio un tedesco? E perché poeta? Definirlo filosofo ne avrebbe reso fin troppo evidente l’identità, ma la «gran copia di grazia» necessaria ad accoglierlo in Paradiso non lascia dubbi 3 La vita attiva è virtù femminile; quella contemplativa, maschile . Un significato della mia presenza in questo secolo potrebbe essere la missione di sfatare il leopardiano-nietzschiano mito che la vita attiva sia superiore a quella contemplativa . Dimostrare che la dignità del grand’uomo consiste nel non consentire al lavoro, alla socialità al bourrage . [ . . .] Non dimenticare che si conta per ciò che si è non per ciò che si fa . (Il mestiere di vivere, op . cit . p . 207) 4 Il testo in questione è la prima edizione italiana autorizzata di Die Geburt der Tragödie: La nascita della tragedia, ovvero ellenismo e pessimismo, introduzione e appendice di E . Foerster-Nietzsche, nella traduzione di C . Baseggio per l’Editore Sonzogno di Milano, edita proprio in quell’anno 5 Si tratta di note diaristiche in 29 foglietti, collocabili in un periodo che va, secondo l’ipotesi di Lorenzo Mondo, dall’agosto del 1942 al dicembre del 1943 - secondo nostra ipotesi andrebbe invece anticipata almeno alla metà del 1941, per la presenza di alcune note riferibili ad un libro di Albert Beguìn, che Pavese leggeva proprio in quel periodo . Il diario contiene considerazioni sugli eventi cruciali di quegli anni e dunque vennero espunte per ovvie ragioni da quelle che poi confluiranno nel Mestiere di vivere . La pubblicazione dell’inedito diario è di Lorenzo Mondo (Pavese, il taccuino segreto, «La Stampa», 8 agosto 1990) 6 Per una dettagliata e accurata ricostruzione della vicenda Maurizio Ferraris, «Storia della Volontà di potenza», in: Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, Maurizio Ferraris e Pietro Kobau (a cura di), Milano: Bompiani 1995, pp . 563-688 7 Il testo, nell’edizione Stuttgart del 1939, è già sulla scrivania di Pavese il 12 ottobre del 1941, come indica la datazione apposta sulla prima pagina bianca del testo . Pavese tradurrà La volontà di potenza nel 1944-45 . Dei manoscritti di Pavese rinvenuti dopo la morte nella sua casa, il 30-31 agosto 1950, Massimo Mila invia un elenco a Italo Calvino il 14 settembre del 1950 . Fra questi c’è «Una cartella che reca di pugno di Pavese l’indicazione: «Traduzione di Der Wille zur Macht (’44-’45) e della Weltgeschichte Betrachtungen ’44-’45» . Le due traduzioni sono ms/ , rispettivamente di 184 pagg . numerate sul recto e sul verso, e di 97 pagg . numerate solo sul recto» (Monica Lanzillotta, «Materiali pavesiani», Filologia antica e moderna, 1997, n . 13, p . 111 .) 8 Sull’argomento Manuela Brunetta, «Pavese lettore nella Biblioteca del collegio Trevisio di Casale Monferrato», Studi Novecenteschi, Pisa-Roma, XXII, giugno 1995, n . 49, pp 47-84 2_IH_Italienisch_77.indd 41 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 42 9 Sul periodo trascorso da Pavese presso il Collegio si veda inoltre la testimonianza di Padre Giovanni Baravalle in Cesare Pavese oggi . Atti del convegno internazionale di studi, San Salvatore Monferrato, 25-27/ 9 1987, op . cit . pp . 269-275 10 Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Torino: Einaudi 2010, p . 9; Bia a Cratos nel dialogo Gli uomini: «Prima l’uomo la belva e anche il sasso era dio . Tutto accadeva senza nome e senza legge» (Ivi, p . 146) . A sottolineare l’armonia perduta dell’uomo con la Natura è anche il dettaglio grafico della presenza (o assenza) della virgola nelle enumerazioni: presente a distaccarne gli elementi quando «non sono più dell’uomo» («L’acqua, il vento, la rupe e la nuvola non sono più cosa vostra») e assente a indicarne quasi un’armonica fusione quando «tutto accadeva senza nome» («Prima l’uomo la belva e anche il sasso era dio») 11 Il riferimento, a nostro avviso, non è specificamente metonimia per alludere a Zeus, come ritiene invece Elena Frontaloni, «Dare un nome, rilevare un dio . Extase, formula e tempo nei Dialoghi con Leucò di Cesare Pavese», La Cultura, Bologna, XLIII, aprile 2005, n . 1, p . 103 12 Dialoghi con Leucò, op . cit ., pp . 145-6 . E ancora nel dialogo I ciechi, Tiresia afferma: «Il mondo è più vecchio di loro [gli dei] . Già riempiva lo spazio e sanguinava, godeva, era l’unico dio - quando il tempo non era ancor nato . Le cose stesse, regnavano allora Accadevano cose - adesso attraverso gli dei tutto è fatto parole, illusione, minaccia» (p . 21) 13 Friedrich Nietzsche, Opere 1870/ 1881, Roma: Newton Compton 1993, pp . 99-100 Ne Gli dei, dialogo che chiude la raccolta, composto per ultimo anche in ordine cronologico (9-11 marzo 1947), anche Pavese rivela, con una laconica affermazione, che l’uomo di oggi ha perduto qualcosa: «quei loro incontri» (Dialoghi con Leucò, op . cit . p . 171) 14 «Cos’è per noi in generale una legge di natura? In sé non ci è nota, bensì soltanto nella sua relazione con altre leggi di natura, le quali a loro volta ci sono note soltanto come relazioni . Tutte queste relazioni dunque non fanno che rimandare le une alle altre, mentre le loro essenze in tutto e per tutto risultano a noi incomprensibili; soltanto ciò che noi vi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, dunque i rapporti di successione e i numeri, ci sono realmente noti . […] Questi siamo noi a produrli in noi stessi e da noi stessi con quella necessità con cui il ragno tesse la tela; se noi siamo costretti a concepire le cose soltanto sotto queste forme, allora non c’è da meravigliarsi che noi in tutte le cose propriamente percepiamo soltanto queste forme» (Friedrich Nietzsche, Opere 1870/ 1881, op . cit . p . 98) 15 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 85 16 Ivi, p . 21 17 Afferma Nietzsche: «E qualunque cosa possa ancora venire a me come destino ed esperienza - vi sarà sempre un vagabondare e un salire montagne: infine non si fa esperienza se non di se stessi . È passato il tempo in cui mi potevano ancora succedere fatti casuali; e che cosa potrebbe mai accadermi, che non fosse già propriamente mio! Torna indietro dunque, torna finalmente a casa da me - il mio me stesso, e ciò che di lui fu a lungo in terra straniera e disperso tra tutte le cose e i fatti casuali» (Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 311) . Riecheggia nel diario di Pavese l’8 agosto 1940: «La vita non è ricerca di esperienze, ma di se stessi . Scoperto il proprio strato fondamentale, ci si accorge che esso combacia con il proprio destino e si trova la pace» (Cesare Pavese, Il mestiere di vivere: diario 1935-1950, M . Guglielminetti, L . Nay (a cura di), Torino: Einaudi 2013, p . 198) . 18 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, Roma: Newton Compton 1993, p . 305 19 «La mia formula per ciò che vi è di grande nell’uomo è amor fati: non voler avere nulla di diverso, né davanti né alle spalle, né in tutta l’eternità . Non sopportare, sem- 2_IH_Italienisch_77.indd 42 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 4 3 plicemente, l’ineluttabile e meno ancora dissimularlo - ogni idealismo è menzogna di fronte all’ineluttabile -, ma amarlo…» (Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 857) 20 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 48 21 Ivi, pp . 101-3 22 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 314 23 Friedrich Nietzsche, Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 63 (corsivo mio) . E ancora nella Nascita della tragedia: «Chi, con un’altra religione nel cuore, si avvicina a questi olimpici e cerca in loro altezza morale, anzi santità, spiritualità incorporea, misericordiosi sguardi d’amore, dovrà presto volger loro le spalle scontento e deluso . Niente qui ricorda ascesi, spiritualità e dovere: qui ci parla soltanto un’esistenza rigogliosa, anzi trionfante, nella quale tutto l’esistente è reso divino, non importa se sia buono o cattivo» (Ivi, p 124) 24 Afferma Luigi Pareyson: «Gli dei sono sintesi di assoluto e particolare: cioè sono ‘esseri che in quanto particolari sono assoluti e in quanto assoluti sono particolari’ . Ciò significa che gli dei sono assoluti all’interno della loro limitazione: sono ciò che sono e perché sono; non hanno da adeguarsi a nient’altro che al loro essere; la loro limitazione è la loro perfezione . Da questo punto di vista, ciò che caratterizza gli dei è la loro felicità: essi non hanno doveri diversi dalla loro condizione e dal loro essere; sono al di là del bene e del male, non sono né morali né immorali» (Luigi Pareyson, L’estetica di Schelling, Torino: Giappichelli 1964, p . 95) 25 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 349 26 Elio Gioanola, Pavese e la poetica dell’essere, Milano: Marzorati 1977, p . 272 27 Il mestiere di vivere, 26 gennaio 1946 . E ancora il 6 gennaio 1946: «Gli dèi per te sono gli altri, gli individui autosufficienti e sovrani visti dall’esterno» 28 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 123 29 Ivi, p . 322 30 Le Muse reca la data di composizione 30 gennaio-1 febbraio 1946, mentre Il mistero e Il diluvio rispettivamente 6-7 maggio e 26 maggio-6 giugno 1946 31 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 42 32 Indice dattiloscritto senza data . Le indicazioni tematiche sono annotate a margine dell’elenco dei Dialoghi, che è quello corrispondente alla disposizione nell’edizione definitiva, ma senza un segno di divisione netta tra i dialoghi cui le diciture si riferiscono 33 «L’essere umano non è in una situazione biologica stabile come l’animale, perché per mezzo del suo fattore intellettuale (la riflessione) è proiettato fuori dall’equilibrio biologico dell’animale . Ma non è neppure in una situazione stabile nelle sfere spirituali, come se la pura visione dovesse eliminare ogni inquietudine . L’essere umano è principio intermedio tra bìos e lògos, una natura in ricerca, sempre in cammino, ‘in via’, che abita precariamente sotto una tenda» (Peter Wust, Incertezza e rischio, Brescia: Morcelliana 1985, p . 11) 34 Dialoghi con Leucò, p . 114 . Secondo Heidegger il ruolo del superuomo nietzschiano consisterebbe proprio nel congiungere in sé questi due estremi, egli sarebbe «il compimento dell’ultimo uomo tradizionale, la definizione che cattura l’animale finora non ancora catturato, fissato, che evade, sempre bramoso di ideali ‘veri in sé’, sussistenti Il superuomo è la rationalitas estrema nel conferimento del potere alla animalitas, è l’animal rationale che si compie nella brutalitas» (Martin Heidegger, Nietzsche, Milano: Adelphi 2005, p . 557) 35 Dialoghi con Leucò, op . cit ., pp . 151-2 36 Ivi, p . 159 . Scrive a tal proposito Graziella Bernabò: «La tematica dei Dialoghi, così 2_IH_Italienisch_77.indd 43 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 4 4 come risulta dalla disposizione finale, sembra consistere in una storia ideale dell’umanità (ideale e perciò da non intendersi in senso cronologico), la quale, superato il momento titanico della indiscriminata fusione con le cose, con il subentrare della legge olimpica che porta l’ordine nel caos, viene ad essere vittima delle nequizie divine, ma, nel suo tragico destino di dolore e di morte, afferma la sua dignità e, per questo, rende invidiosi gli dei dall’immobile sorriso» («I ‘Dialoghi con Leucò’ di Pavese tra il mito e il ‘logos’», Acme, Milano, XXVII, maggio-agosto, n . 2, 1974, p . 193) 37 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 250 38 Scrive Nietzsche nel 1881: «Essere uniti nell’inimicizia contro tutto ciò e contro tutti coloro che cercano di insinuare sospetti sul valore della vita: contro i tetri e gli insoddisfatti e i brontoloni . Impedire a costoro di procreare! Ma la nostra inimicizia deve, essa stessa, diventare un mezzo per la nostra gioia! Dunque ridere, deridere, distruggere senza accanimento! Questa è la nostra lotta a morte . Questa vita - la tua vita eterna! » (Frammenti postumi (1881-1882), F . Masini e M . Montinari (a cura di), Milano: Adelphi 1965, p . 378) 39 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 105 40 In Nietzsche, convive in realtà un doppio atteggiamento: il riconoscimento della superiorità di coloro che cercano di dare un senso alle cose attraverso la conoscenza (la cui suprema forma è la filosofia), ma nello stesso tempo la consapevolezza che “la cosa in sé” è “vuota” . Scrive in Umano troppo umano: «Forse allora ci renderemo conto che la cosa in sé è degna di una omerica risata: che essa sembrava tanto, anzi tutto, mentre in effetti è vuota, ossia vuota di significato» (Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 528) 41 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., pp . 315-6 42 Si noti come anche in Pirandello il riso simboleggi il momento vitale, l’istintività che erompe dalle spaccature della forma cristallizzata; esso è il trionfo della vita . Una delle ultime novelle dal titolo C’è qualcuno che ride (1934), risuona del riso innocente e ingenuo di una famiglia, composta da padre e due figli, che spezza la rigidità e l’ipocrisia di una riunione mascherata - simbolo della società e dei ruoli che ciascuno è chiamato a recitare 43 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 396 44 Nell’articolo Il sorriso degli dèi, che dovrebbe costituire la trattazione più ampia sull’argomento, Biasin si limita ad affermare che il sorriso degli dei è «perfezione e morte», dichiarando i due elementi come «l’anelito e la tragedia di Pavese» e, detto questo procede con il reale argomento dell’articolo: un riscontro continuo e dettagliato, ma spesso incongruente, tra i temi dei Dialoghi e la vicenda di Pavese letta in chiave psicanalitica . (Gianpaolo Biasin, «The smile of the Gods», in: A thematic study of Cesare Pavese’s works, Ithaca, N .Y .: Cornell University Press 1968, trad . it . Il sorriso degli dei, Il Ponte, 1969, pp . 718-741) 45 CIRCE: [Ulisse] non seppe mai cos’è il sorriso degli dei - di noi che sappiamo il destino . (Dialoghi con Leucò, p . 114, corsivo mio .) 46 Il riso è atto che Nietzsche attribuisce al leone: una fra le tre tappe della metamorfosi che apre lo Zarathustra . Afferma a proposito del riso del leone James Ogilvy: «Il leone ridente è il simbolo finale della maturazione di Zarathustra, il segno che i suoi fanciulli sono vicini . Il riso del leone combina insieme la spontaneità del fanciullo innocente con la negatività che rende possibile fare con leggerezza ciò che gli altri fanno seriamente . Il riso del leone è un segno dell’immersione nell’immediatezza del momento innocente con le tracce della memoria di ciò che deve essere disprezzato e combattuto» (corsivo mio) 47 Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (a cura di Sossio Giammetta), Milano: Bompiani 2010 2_IH_Italienisch_77.indd 44 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 4 5 48 Ivi, p . 267 49 Dialoghi con Leucò, op . cit ., pp . 73-74 50 «In base al mondo che ci è noto, il Dio umanitario non può essere dimostrato: fino a questa conclusione oggi ci si può spingere e forzare . Ma quale conseguenza ne traete? ‘Egli non può essere dimostrato da noi’: scetticismo gnoseologico . Ma voi tutti temete questa conclusione: ‘in base al mondo che ci è noto, si potrebbe dimostrare un Dio totalmente altro, un Dio che come minimo non è umanitario’ - per farla breve: voi tenete per fermo il vostro Dio e inventate per lui un mondo che non ci è noto» . (F . Nietzsche, La volontà di potenza, op . cit ., p . 546, corsivi nel testo) 51 Afferma a tal proposito Michail Bachtin: «nel tempo folclorico il vicinato di cose e fenomeni doveva avere un carattere del tutto particolare, nettamente distinto da quello dei successivi vicinati della letteratura e, in generale del pensiero ideologico della società di classe . Quando le serie individuali della vita non si erano separate e si aveva l’unità totale del tempo, dal punto di vista della crescita e della fecondità, direttamente contigui dovevano risultare fenomeni come l’accoppiamento e la morte (inseminazione della terra, concepimento) la tomba e il grembo femminile fecondato, il mangiare e il bere (i frutti della terra) accanto alla morte e all’accoppiamento, ecc .; dentro questa serie sono attratte le fasi della vita del sole (la successione del giorno e della notte e delle stagioni) che partecipa, assieme alla terra, all’evento della crescita e della fecondità . […] La vita della natura e la vita umana sono fuse in questo complesso; il sole è nella terra, nel prodotto consumato, e lo si mangia e lo si beve» . In questo nostro tempo, invece, «la morte finisce una vita e la nascita ne comincia un’altra del tutto diversa, la morte individualizzata non è compensata dalla nascita di nuove vite, non è assorbita dalla crescita trionfante, poiché è tolta dalla totalità in cui questa crescita si realizza» (Estetica e Romanzo, Torino: Einaudi 1979, pp . 358; 364) 52 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 10 53 Sul concetto di ‘forte’ e ‘debole’ in: Nietzsche, La volontà di potenza, op . cit ., pp . 471 e segg 54 Friedrich Nietzsche, La volontà di potenza, op . cit ., pp . 561-2 55 Friedrich Nietzsche, Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 535 56 Elio Gioanola, La realtà, l’altrove, il silenzio, op . cit ., p . 55 57 Il mestiere di vivere, op . cit ., p . 388 . Cfr . anche Nietzsche, Così parlò Zarathustra: «Dove tutto il divenire mi sembrò una danza e un malizioso capriccio degli dèi, e il mondo sfrenato e libero nel suo corso e rifluente in me stesso [ . . .] Dove tutto il tempo mi sembrò un beato sarcasmo di attimi, dove la necessità era la libertà stessa, che beata giocava col pungiglione della libertà» (Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 347) 58 Th . W . Adorno,-Teoria estetica, Torino: Einaudi 1977, p . 460 59 Si legga a tal proposito il saggio critico dedicato da Pavese al poeta dapprima apparso con il titolo Interpretazione di Walt Whitman poeta su La Cultura, luglio-settembre 1933, id . Walt Whitman, «Poesia del far poesia» in: Saggi letterari, op . cit ., pp . 127- 148, in partic . pp . 141-2 60 Perfino l’anima Walt Whitman subordina al corpo: è il corpo che la racchiude e la «include»; è il corpo ciò che ha veramente la qualità del divino . Questi i versi di Partito da Paumanok: «Chiedeva forse qualcuno di vedere l’anima? | Guarda la tua forma, il tuo aspetto, persone, sostanze, animali, alberi, i fiumi correnti, le rocce, le sabbie . || Tutti contengono gioie spirituali, che più tardi emanano; | come può il corpo vero morire e venire sepolto? || Del tuo vero corpo, e del vero corpo di ciascun uomo, di ciascuna donna, | ogni elemento sfuggirà alle mani dei becchini trasmigrando verso sfere appropriate, | seco recando quanto l’ha arricchito, dall’istante della nascita all’ora della 2_IH_Italienisch_77.indd 45 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 4 6 morte . || I caratteri disposti dallo stampatore non rendono l’impressione, il significato, il senso principale, | più di quanto la sostanza e la vita di un uomo non lo rendano nel corpo e nell’anima, | indifferentemente, prima della morte o dopo la morte . || Osserva, il corpo comprende e afferma il significato, lo scopo principale, include e afferma l’anima; | chiunque tu sia, quanto superbo e divino è il tuo corpo, o ciascuna sua parte! » 61 Il Mestiere di vivere, op . cit ., p . 274 62 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 23 63 Ivi, p . 21 64 Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 265 65 Dialoghi con Leucò, p . 147 66 Friedrich Nietzsche, Opere 1870/ 1881, op . cit ., p . 121 . È proprio a questa esperienza che il filosofo accosta il rapimento estatico provato dall’individuo di fronte al mito tragico: «Guardammo il dramma e ci spingemmo con sguardo penetrante nel suo intimo e agitato mondo di motivi - e tuttavia ci sembrò come se ci passasse davanti solamente un’immagine simbolica, di cui credevamo quasi d’indovinare il senso più profondo, e che desideravamo tirar via, come una cortina, per scoprirvi dietro l’immagine originaria . La più limpida chiarezza dell’immagine non ci bastava: questa sembrava infatti tanto svelare quanto celare qualcosa; e mentre con la sua rivelazione simbolica sembrava invitarci a lacerare il velo, a scoprire lo sfondo misterioso, d’altra parte proprio quella irradiata onnivisibilità incantava l’occhio e lo tratteneva dal penetrare più a fondo . Chi non ha provato ciò, ossia dover guardare e insieme anelare ad andare oltre lo stesso vedere, difficilmente s’immaginerà con quale precisione e chiarezza questi due processi sussistano l’uno accanto all’altro nella contemplazione del mito tragico» (Ivi, p . 184) 67 Stato di grazia, id . in: Feria d’agosto, op . cit ., pp . 148-9 . E ancora nel Nietzsche della Nascita della tragedia: «Una consolazione metafisica ci strappa momentaneamente dal meccanismo delle forme mutevoli . Per brevi attimi siamo realmente l’essere primigenio stesso e ne sentiamo l’indomita brama e piacere di esistere; la lotta, il tormento, l’annientamento delle apparenze ci appaiono ora necessari per la sovrabbondanza delle innumerevoli forme di esistenza che si urtano e si accavallano nella vita, per l’eccedente fecondità della volontà del mondo; noi veniamo trapassati dal furioso pungolo di questi tormenti nel momento in cui siamo per così dire divenuti una cosa sola con l’incommensurabile piacere originario dell’esistenza, e in cui presentiamo, in estasi dionisiaca, l’indistruttibilità e l’eternità di questo piacere» 68 Valerio Capasa, «Mito come storia nella genesi dei Dialoghi con Leucò», Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, XLV, Bari, 2003, p . 328 69 Dialoghi con Leucò, op . cit ., pp . 165-6 . Nell’aforisma 295 di Ecce Homo, che reca l’emblematico titolo Et in Arcadia ego, Nietzsche riporta la descrizione di un attimo estatico, e lo fa negli stessi termini del Nostro . Scrive il filosofo: «Guardai in basso, su un mare di colline, verso un lago verde latte, attraverso pini e abeti venerandi: intorno a me rocce d’ogni specie e il terreno variopinto di fiori ed erbe . Un armento si mosse, si stese si allungò davanti a me; più lontano mucche isolate a gruppi nell’aria limpida della sera, vicino al bosco di conifere; altre più vicine, più scure, tutto nella paga quiete della sera . L’orologio segnava circa le cinque e mezza . Il toro dell’armento era entrato nel bianco ruscello spumeggiante e, lentamente, con riluttanza e abbandonandosi, ne seguiva il corso impetuoso: così ne traeva una sorta di feroce piacere . I pastori erano due creature brune, di origine bergamasca: la ragazza vestita quasi come un giovinetto . A sinistra rocce scoscese e campi di neve sopra vaste cinte boschive . A destra due enormi picchi ghiacciati, alti sopra me, immersi in una bruma dorata - tutto grande, silenzioso e chiaro . Quell’insieme di bellezza produceva un brivido e una muta adorazione per 2_IH_Italienisch_77.indd 46 12.06.17 11: 15 Valeria Bongiovanni Nietzsche e Pavese 47 l’istante della sua rivelazione; involontariamente, come se non vi fosse nulla di più naturale, in quel puro e nitido mondo di luce, (in cui nulla era brama o attesa, nulla guardava in avanti o all’indietro), si immaginavano eroi greci; bisognava sentire come Poussin e il suo allievo: in modo eroico e idillico insieme» (Friedrich Nietzsche, Opere 1882/ 1895, op . cit ., p . 875) 70 «Esiste un’attività mitica quotidiana, una pratica giornaliera del mito, che ci riguarda tutti e che rende il mito tanto più perturbante e irresistibile quanto meno, nelle concrete circostanze in cui si presenta, esso somiglia al mito della tradizione letteraria . È, questo evento mitico, ciò che d’un tratto interrompe la sequenzialità monotona e la banalità della nostra esistenza, ciò che senza sconvolgerla ne sospende temporaneamente la normalità e l’uniformità per un’improvvisa anomalia che vi introduce; è un battito accelerato, una palpitazione più intensa, gaudiosa o angosciosa, del ritmo che la sostiene . […] Non è lecito pensarlo come una semplice emozione, o, peggio, come l’avvento dell’ ‘irrazionale’ . È, piuttosto, un’improvvisa plenitudine, un culmine emozionale che non appare costituito da una somma, un cumulo, e che inserisce nella scansione tranquilla delle nostre ore un turbamento che ne scompiglia l’ordine solo per pochi istanti» (Fausto Curi/ Lorenzini Niva (a cura di), Mito e esperienza letteraria . Indagini, proposte, letture, Bologna: Pendragon 1995, pp . 40-1) . Nelle opere di Pavese ricorrono spesso le descrizioni di questi istanti aurorali . Si consideri, per esempio, ancora sul legame paesaggio naturale visione mitica, questo passo tratto da Fuoco grande: «È un paese meraviglioso, - disse Giovanni guardando la valle - È magnifico, - io [Silvia] replicai . - Non c’è nessun altro luogo che io conosca che sia valido in me come questo che vedi . I colori, l’aria di questa terra, il paesaggio così combinato . I colori soprattutto, sono colori primordiali . Gli altri colori, quelli delle altre terre, mi sembrano rifratti, impalliditi . Qui ogni cosa ha un colore supremo, non si può immaginare che ci sia altro dopo - Come l’eternità, - disse Giovanni - Press’a poco, - dissi io . A un tratto: - Guarda, - gli dissi . Un falco volteggiava immobile nell’aria Giovanni si fermò guardando come se fiutasse dal cielo il senso delle mie parole Io dissi: - È un effetto curioso ritrovarmi qui dentro . È come un buio che si conosce, non ti posso spiegare» . (Racconti**, Torino: Einaudi 1977, p . 488 .) 71 Karoly Kerenyi/ Thomas Mann, Romanzo e mitologia, Milano: Il Saggiatore 1960 72 A tal proposito dissentiamo vivamente dall’interpretazione di Bernabò per la quale «il mito, inteso come modo per esorcizzare nevroticamente i propri [di Pavese] tabù, e il logos, ossia il momento della chiarezza, della serena presa di coscienza della realtà concreta, è alla base di tutta quanta la sua produzione e che, soprattutto nei Dialoghi con Leucò, viene in primo piano .» (Bernabò Graziella, «‘L’inquieta angosciosa che sorride da sola’ . La donna e l’amore nei Dialoghi con Leucò di Pavese», Studi Novecenteschi, Pisa, IV, 1975, n . 12, p . 330 .) Sui Dialoghi con Leucò come compresenza di Mito e Logos si veda anche: Guglielmi Guido, «Mito e ‘logos’ in Pavese», Convivium, Milano, XXVI, 1958, n . 1; vi si legge: «L’antagonismo tra mito e logos, tra mondo primigenio o titanico, e mondo olimpico o spirituale, forma il tessuto dialettico dei Dialoghi e ne determina la forza drammatica o - conformemente al tono generale di tutto Pavese - lirico-drammatica . Pavese avverte inadeguata e non conciliabile la ragione all’essere, in quanto resiste nell’individuo un fondo originario e mitico, in effetti la sua celata realtà, che sottende e governa tutti i suoi comportamenti vitali e si rivela nella ricorrenza di uno schema iniziale, sottratto alle determinazioni del tempo . Il logos, fondamentalmente alieno dall’ordine delle cose, suscita negli uomini la coscienza, sfornita di ogni attributo 2_IH_Italienisch_77.indd 47 12.06.17 11: 15 Nietzsche e Pavese Valeria Bongiovanni 4 8 di potenza: non inerisce nella loro essenza né trasforma, rinnovandola, la natura» (pp 93-4) 73 F . Curi, La scrittura e la morte di Dio: letteratura, mito, psicanalisi, Bari: Laterza 1996, p . 126 74 Sulla nominatio nei dialoghi con particolare riferimento alle Muse e al ruolo del poeta greco nel dialogo si veda Gabellone Lino, «I nomi e gli dei: la scomparsa del tragico», Paragone, Firenze, XLIV, 1993, in partic . pp . 121-4 75 « αἵ νύ ποθ᾽ Ἡσίοδον καλὴν ἐδίδαξαν ἀοιδήν, / ἄρνας ποιμαίνονθ᾽ Ἑλικῶνος ὕπο ζαθέοιο. / τόνδε δέ με πρώτιστα θεαὶ πρὸς μῦθον ἔειπον, / Μοῦσαι Ὀλυμπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο· / ποιμένες ἄγραυλοι, κάκ᾽ ἐλέγχεα, γαστέρες οἶον, / ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, / ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι » (Esse [le Muse] una volta a Esiodo insegnarono un canto bello, / mentre pasceva gli armenti sotto il divino Elicona; / questo mythos, per primo, a me dissero le dee, / le Muse d’Olimpo, figlie dell’egioco Zeus: / «O pastori, cui la campagna è casa, mala genia, solo ventre, / noi sappiamo dire molte menzogne simili al vero, / ma sappiamo anche, quando vogliamo, il vero cantare» .) (G Arrighetti, Teogonia, Milano: Rizzoli 1998, vv . 22-8 .) 76 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p . 164 77 Alle parole appena citate segue nel dialogo la descrizione di un attimo estatico da parte di Mnemòsine 78 ὣς ἔφασαν κοῦραι μεγάλου Διὸς ἀρτιέπειαι / καί μοι σκῆπτρον ἔδον δάφνης ἐριθηλέος ὄζον / δρέψασαι, θηητόν· ἐνέπνευσαν δέ μ᾽ ἀοιδὴν / θέσπιν, ἵνα κλείοιμι τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα. / καί μ᾽ ἐκέλονθ᾽ ὑμνεῖν μακάρων γένος αἰὲν ἐόντων, / σφᾶς δ᾽ αὐτὰς πρῶτόν τε καὶ ὕστατον αἰὲν ἀείδειν. (Così dissero le figlie del grande Zeus, abili nel parlare, / e come scettro mi diedero un ramo d’alloro fiorito, / dopo averlo staccato, meraviglioso; e mi ispirarono il canto / divino, perché cantassi ciò che sarà e ciò che è, / e mi ordinarono di cantare le stirpi dei beati, sempre viventi; / ma esse per prime, e alla fine, sempre .) (G Arrighetti, Teogonia, op . cit ., vv . 29-34 .) 79 Dialoghi con Leucò, op . cit ., p .165 80 La nascita della tragedia, id ., in: Opere 1870/ 1882, op . cit ., pp . 182-3 2_IH_Italienisch_77.indd 48 12.06.17 11: 15
