eJournals Vox Romanica 60/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2001
601 Kristol De Stefani

Roland Bauer, Sprachsoziologische Studien zur Mehrsprachigkeit im Aostatal. Mit besonderer Berücksichtigung der externen Sprachgeschichte,Tübingen (Niemeyer) 1999, xviii + 518 p. (Beih.ZRPh. 296)

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2001
G.  Berruto
vox6010295
Eine Orientierung über die folgende Zielsetzung des Liechtensteiner Namenbuches sowohl im vorliegenden Ortsnamenteil wie auch im Hinblick auf das geplante Personennamenbuch als Gegenstück zum Rätischen Namenbuch, vol. 3 ist sehr lesenswert für jeden, der an Familiennamen interessiert ist. Auch wenn jedem Leser klar ist, daß großflächige, kantonsweite oder doch mehrere Bezirke deckende einschlägige Unternehmen nicht mit der Akribie und Vollständigkeit der Liechtensteiner «kapillaren» Studie ausgeführt werden können, weil ganz einfach die Mittel dafür nicht aufzubringen sind, so kann doch die wichtige Leitlinie und der wissenschaftliche Ertrag solcher bahnbrechender Arbeiten nicht genug betont werden. Darüber hinaus wird erst die grenzüberschreitende Erfassung der Namen zwischen Bodensee, Comersee und Nonsberg fundierte und genauere Einsichten in ältere Sprach- und Lebensverhältnisse erlauben (cf. vol. 6: 89). Hundert Seiten Werkgeschichte sind für Namenkundler und Projektleiter interessanter als für allgemeiner interessierte Leser. Sie lassen aber die einzelnen Arbeitsetappen, Planung und Fortgang der Arbeiten zwischen Feldforschung, Archivarbeit, Kontrolle und Organisation der vielen Materialien sowie Bearbeitung und Deutung erkennen, woran ein gutes Dutzend von großteils jungen Philologen im Laufe von 18 Jahren mitgearbeitet hat, ganz abgesehen von den langen Listen der Gewährsleute (vol. 6: 136ss.; in Vaduz waren es sogar 19). Mehr als 200 Seiten Register (vol. 6: 441ss.) verbinden die beiden Teile und erlauben verschiedene Zugänge zu den einzelnen Namen, die je nach Fragestellung wichtig werden. Nicht gefunden habe ich eine Auflösung der Verweise Tschugmell 1931, 1941 und Ospelt 1939 (cf. vol. 5: 386 s. Öhri) unter den breiten Literaturangaben (vol. 6: 381-405), sie beziehen sich aber auf Personennamen, deren Behandlung ja noch aussteht. Es ist nicht möglich, hier all das auszubreiten, was man an Neuem, bisher Unbekanntem, an Wissenswertem und an speziellem Sachwissen in den sechs Bänden findet. Es ist ein Vergnügen, im Materialteil zu lesen oder im Lexikonteil zu blättern und auf den Karten einzelne Etyma zu verfolgen. Sicher wird hinfort das Liechtensteiner Namenbuch bei einschlägiger Arbeit in Reichweite zu halten sein, für Germanisten wie für Romanisten. Dem Leiter des Unternehmens wie auch den Mitarbeitern ist die Namenkunde und die Liechtensteiner Landeskunde im besonderen für dieses mustergültige Opus sehr zu Dank verpflichtet. G. A. Plangg ★ Roland Bauer, Sprachsoziologische Studien zur Mehrsprachigkeit im Aostatal. Mit besonderer Berücksichtigung der externen Sprachgeschichte, Tübingen (Niemeyer) 1999, xviii + 518 p. (Beih.ZRPh. 296) La situazione (socio)linguistica della Valle d’Aosta appare assai complessa e per molti aspetti peculiare nel panorama romanzo, ma nonostante il suo estremo interesse è stata stranamente sinora poco studiata sul campo. Regione autonoma bilingue dello stato italiano, com’è noto la comunità valdostana costituisce l’unica minoranza francofona in Italia legislativamente riconosciuta, con italiano e francese entrambe lingue ufficiali. La configurazione sociolinguistica della Valle d’Aosta sembrerebbe dare luogo a prima vista a un caso di diglossia bifida, con i patois locali francoprovenzali varietà low e l’italiano e il francese varietà high; o anche di interessante doppia diglossia, con il francoprovenzale e il dialetto piemontese (pure presente nel panorama linguistico locale) low e con le rispettive lingue tetto francese e italiano high, e con una enclave minoritaria di secondo grado, l’area germanofona walser dell’alta Valle del Lys. In realtà, la situazione di gran lunga prevalente nella (parte autoctona della) comunità linguistica valdostana è quella di una diglossia (o 295 Besprechungen - Comptes rendus comunque di un rapporto diglottico, forse ad essere più precisi di dilalia, seguendo una distinzione terminologica introdotta da chi scrive: cf. da ultimo G. Berruto, Fondamenti di sociolinguistica, Roma/ Bari 1995: 242-50) italiano/ francoprovenzale, essendo la posizione del francese da un lato e del piemontese dall’altro - l’uno nei domini «alti», l’altro nei domini «bassi» - assai marginale. D. Albiero, in una tesi di laurea non pubblicata (L’uso scritto del francese in Valle d’Aosta in contesti istituzionali, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino 1999), sostiene addirittura (p. 96) non senza qualche argomento che in realtà in Valle d’Aosta vi è se mai una sorta di diglossia tra francese e italiano, col francese lingua «cristallizzata in funzioni specifiche e in situazioni particolari», in genere relegate all’uso scritto o parlato formale, e pertanto lingua «alta», e l’italiano che funziona come lingua «bassa», «come codice meno marcato in grado di adattarsi ad una più vasta gamma di situazioni comunicative senza vincoli di argomento», scritte e parlate. Nella monografia qui recensita l’autore discute la questione dell’eventuale diglossia valdostana alle p. 333-35, correttamente in termini di rapporto italiano/ francoprovenzale, ma limitandosi a una prospettiva à la Fishman, senza far cenno a problemi di questa natura e senza sviluppare l’argomento (e pertanto risulta ivi piuttosto gratuito l’elenco brevemente commentato di «exemplarische Literaturhinweise» sul tema diglossia che l’autore ci fornisce). Come si è detto, non esistevano comunque sinora ricerche di ampia portata e appoggiate su consistenti materiali empirici sulla situazione valdostana, che rappresenta un unicum in Italia. Sono ora usciti due ampi lavori, entrambi non a caso di studiosi germanofoni, che vengono a colmare (almeno in parte, per le ragioni che vedremo) la sentita lacuna. Uno è lo studio varietistico di F. Jablonka, Frankophonie als Mythos. Variationslinguistische Untersuchungen zum Französischen und Italienischen im Aosta-Tal, Wilhelmsfeld 1997, basato su materiali raccolti ad Aosta e a Saint-Vincent; l’altro è appunto il mastodontico volume di R. Bauer, frutto della rielaborazione di una dissertazione salisburghese, che qui recensiamo. Il lavoro di Bauer si compone di due parti: la prima (5-232) è dedicata a una minuziosa illustrazione delle vicende storiche della Valle d’Aosta dalla fine del Neolitico ai giorni nostri, ovviamente con particolare riferimento alle questioni linguistiche e alla «externe Sprachgeschichte», e la seconda (233-359) è invece relativa all’indagine sul campo circa il comportamento e gli atteggiamenti linguistici dei valdostani condotta dall’autore fra il 1985 e il 1988, i cui risultati sono stati sottoposti a un paziente e aggiornato trattamento statistico. Portano il volume a più di 500 pagine una bibliografia che consta di circa un migliaio di titoli (361-406), dettagliati indici di nomi, cose e luoghi geografici (407-29), e appendici con una vera cascata di grafici, tabelle e questionari (431-518). Non mancano, in apertura, liste delle abbreviazioni, delle illustrazioni e delle tabelle (ix-xvi), un Vorwort (xvii-xviii) e una Einleitung (1-4). Il resoconto di storia della Valle d’Aosta sub specie linguarum fornitoci da Bauer è estremamente, a volte quasi esageratamente, dettagliato e dovizioso di informazioni, e dedica ampio spazio alle discussioni e polemiche sulla lingua in Valle d’Aosta, che hanno via via accompagnato il processo che ha portato a depauperare la comunità valdostana di una parte consistente del proprio retaggio linguistico, attuando nel corso della prima metà del ventesimo secolo una vera e propria sostituzione di lingua, con l’imposizione dell’italiano a scapito del francese: dal caso Vegezzi-Ruscalla (il deputato sedicente etnolinguista strenuo avversario della francofonia negli anni attorno all’Unità d’Italia) alla repressione linguistica durante il Fascismo alla lotta per lo statuto autonomo dopo la liberazione all’odierno dibattito sulle sorti del francese e del francoprovenzale e sulla necessità di una loro tutela e promozione (e anche sulle correlate tendenze di annessionismo alla Francia, aventi per sfondo delle vicende politiche locali). Per i tempi più vicini a noi, l’approccio storiografico dell’autore tende a diventare cronachistico, e lascia largo posto alle citazioni delle opinioni degli intellettuali valdostani le cui voci più significativamente sono intervenute sulle ques- 296 Besprechungen - Comptes rendus tioni etnicoe sociolinguistiche (quali A. Bétemps e T. Omezzoli), talché non sempre è agevole a prima lettura rendersi conto in sintesi dell’effettivo stato delle cose circa questa o quella questione. Anche se la trattazione in buona parte concerne fatti noti, e Bauer non pare aver condotto ricerche personali di prima mano su materiali nuovi e originali, i giudizi che qua e là punteggiano l’esposizione - per parte sua, in genere molto ben documentata e affidabile - appaiono convincenti e condivisibili, e rispondono bene all’esigenza che percorre sotterraneamente tutto il lavoro: quella di dar conto in maniera oggettiva dello stato effettivo delle cose, sine ira et studio nei confronti di alcuna delle parti contrapposte su questioni di cultura e di lingua a volte assai delicate (anche se, vien da dire opportunamente, con una commendevole simpatia implicita di fondo per la causa del francoprovenzale). Una parte molto ben riuscita di questa metà storica del lavoro è in ogni caso quella (220- 32) in cui Bauer tratteggia con maestria i rapporti fra le lingue e le varietà di lingua esistenti in Valle in cinque tagli temporali distinti, a intervalli di una cinquantina d’anni: attorno al 1860, al 1900, al 1945, al 1990 e, in chiave di futurologia sociolinguistica, attorno al 2050. L’autore utilizza l’impostazione e le categorie di sociologia del linguaggio introdotte da H. Kloss in quella che Zˇ . Muljacˇ ic´ ha chiamato Ausbaukomparatistik: il concetto chiave è qui quello di Überdachung copertura , di una lingua-tetto rispetto ai dialetti da questa, appunto, coperti (cf. ora sulla questione G. Berruto, «Dialetti, tetti, coperture. Alcune annotazioni in margine a una metafora sociolinguistica», in corso di stampa nella Gedenkschrift Heinrich Schmid). Un piccolo problema di natura teorica è dato a questo proposito dal fatto che Bauer accoglie l’innovazione goebliana non del tutto ortodossa di porre che una lingua (nella versione scritta) sia il tetto . . . di sé stessa (nella versione parlata). Troviamo infatti nei begli schemi di p. 433-37 che per es. l’italiano scritto standard fa da tetto all’italiano parlato, che il francese scritto valdostano fa da tetto al francese parlato valdostano, ecc.: il che, oltre a non essere certamente congruente con l’originaria distinzione klossiana, pone dei problemi circa la stessa applicabilità della nozione, assimilando la differenza fra Dachsprache e überdachte Mundart alla generale differenziazione fra varietà formale normativa scritta e registro informale parlato di una lingua. Per il resto, i rapporti iconicamente rappresentati da Bauer tra i vari codici linguistici nella Valle d’Aosta in diverse fasi diacroniche appaiono ben centrati e del tutto sottoscrivibili, almeno per quel che riguarda la situazione dall’Unità d’Italia ai giorni nostri. Forse può invece apparire esagerata la posizione assegnata all’inglese nello schema futurologico relativo al 2050. Nel suo esercizio di sociolinguistica prognostica Bauer prevede che fra cinquant’anni l’inglese scritto e parlato possa avere una presenza molto consistente nel repertorio linguistico valdostano: la «casetta» che lo rappresenta è ben più grande di quelle che rappresentano il francoprovenzale e il francese, e l’inglese sembrerebbe porsi come un serio concorrente per lo stesso italiano. Non sapremmo opporre dati concreti alla proiezione di Bauer - peraltro frutto anch’essa di mera speculazione -; ma pur tenendo conto della progressiva inarrestabile avanzata dell’inglese come lingua della nuova società della comunicazione e della tecnologia e come lingua franca internazionale noi saremmo assai meno propensi ad assegnarvi un ruolo così rilevante all’interno della comunità locale (si badi che gli schemi in questione dovrebbero rappresentare la situazione media di tutta la comunità parlante, e non di una élite socioculturale). Ma forse l’autore intende in realta riferirsi più semplicemente alla presenza di materiali inglesi nella lingua comune, come pare per altro di poter dedurre dall’affermazione: «Vermutlich wird das anglo-amerikanische Element, das etwa innerhalb der Jugendsprache bereits heute massiv vertreten ist, innerhalb der nächsten Jahrzehnte auch im allgemeinen valdostanischen Grapholekt deutlicher hörbar werden» (231; a parte il bisticcio consistente nel fatto che l’elemento inglese sia «hörbar» nel «Grapholekt . . . »). La parte empirica del lavoro si basa su 106 inchieste con questionario condotte in 24 località, per 23 dei 74 comuni della Valle - compreso il capoluogo Aosta, che da solo conta quasi 297 Besprechungen - Comptes rendus un terzo degli abitanti della Regione; Bauer definisce tuttavia la situazione di Aosta molto particolare, non assimilabile al resto della Valle, e si avvale di due sole interviste fatte nella periferia orientale della città (254; a dire il vero, da quanto detto a p. 239s. ci si aspetterebbe che Aosta per la sua eccezionalità non compaia fra i punti d’inchiesta). Il numero delle interviste per ogni singola località varia (se abbiamo seguito bene i dettagli: ci sono tabelle dei punti d’inchiesta per numero di abitanti, altezza sul mare, distanza da Aosta, ma manca quella che sarebbe stata più utile di tutte, una tabella riassuntiva con l’elenco delle inchieste per località) da otto a una: anche se la scala di riferimento è, naturalmente, l’intera Valle, il che fa passare in secondo piano la rilevanza contrastiva dei singoli punti d’inchiesta, visto che nel lavoro si insiste parecchio sull’articolazione interna delle diverse località sede d’indagine (Meßpunkte), per le quali si elabora anche un apposito indice di vitalità del patois, ci sarebbe forse da domandarsi quanto siano significativamente rappresentativi i punti con sole tre inchieste (e quindi tre informatori) o meno. Volendo, sempre nella stessa chiave - e considerato che l’autore dedica particolare cura alla selezione dei punti d’inchiesta, almeno quanto alla loro rappresentatività demografica -, vien anche da chiedersi perché le inchieste si siano nettamente addensate in due zone particolari (Media Valle a Ovest di Aosta: cinque comuni limitrofi - sei se comprendiamo anche Aosta; Bassa Valle fra Chambave e Verrès: altri cinque punti d’inchiesta), trascurando invece del tutto aree potenzialmente molto significative, come la Val d’Ayas (dove il patois è estremamente vitale, come’è mostrato in una recente tesi di laurea torinese: Federica Rollandin, Patois in Tv e patois nella vita quotidiana. Una indagine sull’uso del francoprovenzale ad Ayas alle soglie del Duemila, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino 1999), la bassa Valle del Lys e la Valle di Champorcher. Problematica è pure la scelta di Breuil-Cervinia, località «artificiale» e totalmente turistica, che andava meglio esclusa dall’indagine per le stesse ragioni per cui è stata esclusa Courmayeur. Al campione di 106 informatori valdostani autoctoni, distribuito equamente per classi d’età ma squilibrato verso l’alto per quel che riguarda l’istruzione (ben il 55% degli intervistati ha una formazione media superiore o universitaria), è stato sottoposto un dettagliato questionario bilingue italiano-francese di quasi 120 domande diviso in tre sezioni, riportato alle p. 473-83. Alcune delle entrate del questionario non sono prive di ingenuità, il che si riverbera inevitabilmente qua e là nell’interpretazione dei risultati delle autovalutazioni di parlanti: circa il commento per es. riguardo alle capacità di leggere in patois e dialetto (291s.), vien da chiedersi infatti a quanti valdostani sia mai capitato effettivamente di leggere un giornale in piemontese, come previsto dalla domanda 1451 (482; l’autore è del resto consapevole del problema, 349). Il quadro generale che fuoriesce dall’indagine di Bauer conferma pienamente la percezione diffusa che in Valle d’Aosta il francese sia ampiamente conosciuto ma assai poco usato, e che la stragrande maggioranza degli usi vitali e socialmente rilevanti nel repertorio si distribuisca fra italiano, lingua scritta e parlata formale, e francoprovenzale, lingua parlata colloquiale fra nativi. Bauer sottolinea giustamente la molto maggior vitalità del patois in Valle d’Aosta che non nelle limitrofe zone francoprovenzali d’oltre confine, Savoia e Svizzera (è curioso, en passant, a questo proposito che nella Übersichtskarte zum Aostatal di p. 432 la Valle d’Aosta risulti confinare a Nord-Ovest con la Francia, a Nord con la Svizzera, e a Sud con . . . l’Italia: fino a secessione avvenuta, vien da dire scherzando, la Val d’Aosta fa comunque parte dell’Italia! ); ma sembra ignorare che parlate locali francoprovenzali sono ben presenti anche in Piemonte, nelle valli alpine della provincia di Torino contigue alla Val d’Aosta (Valli Soana e dell’Orco, Valli di Lanzo, bassa Val di Susa sino a Gravere, Val Sangone), mentre un cenno di confronto con la situazione di queste zone, in cui il francoprovenzale è fortemente in regresso, sarebbe stato doveroso, e ancor più significativo, data la storia linguistica esterna recente comune (e si badi che vengono invece citate, sia pur cursoriamente a p. 359, le isole francoprovenzali di Puglia, Celle e Faeto). 298 Besprechungen - Comptes rendus A causa della diversa tecnica di formulazione delle domande del questionario, i dati di Bauer sono difficilmente confrontabili con quelli di un’inchiesta condotta in Val d’Aosta nel 1995-96 a cura del Departament de Cultura della Catalogna con 300 informatori, nel quadro di un’indagine sul multilinguismo in Europa: mentre in Bauer le domande sono quasi tutte del genere «classico» (si chiede cioè all’informatore di valutare il proprio comportamento), nell’inchiesta catalana - a mio sapere, non pubblicata - si chiede per lo più all’informatore di descrivere il comportamento altrui. A quanto è dato di capire, comunque, i rilevamenti di Bauer paiono un po’ più favorevoli al francese, molto probabilmente per effetto del fatto che nel campione degli informatori, come sopra si è detto, sono sovrarrappresentati i ceti colti (e lo stesso Bauer afferma peraltro che c’è una chiara tendenza generale in proposito: «je höher die Schulbildung, desto eher die Bereitschaft [zumindest einem Fremden gegenüber] Französisch zu sprechen», 289). I dati statistici delle due indagini concordano comunque bene nell’attestare la notevole vitalità del francoprovenzale, in particolare (come risulta dalla disaggregazione relativa dei dati opportunamente fatta da Bauer) nella Media e Alta Valle, che domina in famiglia (l’82% degli intervistati da Bauer dichiara di parlarlo anche con i figli) ed è molto usato come lingua colloquiale anche sul lavoro; mentre l’italiano domina incontrastato appena si va sul formale e sull’ufficiale. L’unico ambito in cui il francese risulta avere, almeno dalle autovalutazioni degli intervistati, un potenziale d’impiego non marginale è quello del turismo e dei contatti con stranieri, ove funziona volentieri da lingua franca: il 63,7% dice di usare il francese per parlare con turisti non francesi e non italiani e come lingua preferita per dare informazioni a stranieri (contro il 25,5% italiano e il 10,8% inglese). Globalmente, viene vieppiù confermato il carattere del francese come lingua di cultura potenzialmente a disposizione della comunità parlante, ma di fatto usata quasi solamente per deliberata volontà politica o culturale, e quindi di impiego molto ideologizzato. In altri termini, come osservato recentemente a conclusione di una attenta disamina dell’utilizzazione e della presenza del francese nella stampa valdostana fra gli anni Settanta e gli anni Novanta (Nathalie Grange, La presenza del francese nei giornali e nei periodici valdostani: un’indagine preliminare, tesi di laurea non pubblicata, Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Torino 1999), la funzione del francese in Valle d’Aosta non corrisponde affatto al suo status: lo status è alto, ma le funzioni effettive sono assai più limitate, e l’uso scritto del francese non sembra giungere ad occupare più che la casella 4 (trattazione di temi di cultura locale a livello di scuola media superiore) nel noto Raster di nove caselle con cui secondo H. Kloss si può misurare il grado di Ausbau di una lingua. Per di più, al di là delle nude cifre statistiche, la repressione del francese durante i primi decenni del Novecento e i grandi mutamenti della società postindustriale hanno fatto sì che le giovani generazioni non abbiano spesso più coscienza del valore di forte identità culturale che la francofonia ha avuto nel passato nella comunità valdostana, come dice molto bene un valdostano in una lettera a un giornale parzialmente riportata da Bauer (358): « . . . les plus jeunes n’ont pas la conscience de notre particularisme historique. Ils ne savent même pas que le français est notre langue maternelle . . . » (e si noti qui il valore prettamente emotivo, e ovviamente non scientifico, con cui è impiegato il termine di langue maternelle). Limitandoci a osservazioni globali e sommarie, facciamo a vero dire torto alla ricchezza del lavoro di Bauer, che con un sagace utilizzo di incroci statistici di variabili permette di trarre indicazioni su una quantità di fatti inerenti la distribuzione delle lingue nella società valdostana; d’altra parte se ci soffermassimo come pur meriterebbero sui dettagli usciremmo dall’ambito di una modesta recensione quale la presente. Basti allora aggiungere che l’insieme dei risultati mostra anche come, contrariamente a assunti parziali avanzati da precedenti indagini, le valdostane siano ceteris paribus chiaramente più propense all’italiano che non i valdostani. Nel complesso, il lavoro di Bauer - che stranamente termina del 299 Besprechungen - Comptes rendus tutto ex abrupto con considerazioni varie sui termini per automobile in patois, senza gratificare il lettore di alcuna nota conclusiva che riprenda e tiri le fila del discorso, qua e là forse un po’ troppo analiticamente frammentate - rappresenta un’applicazione valida e statisticamente aggiornata della tradizionale inchiesta di sociologia delle lingue mediante questionario, arricchita da un’accurata documentazione storica. G. Berruto ★ Jacques Merceron, Le Message et sa fiction. La communication par messager dans la littérature française des xii e et xiii e siècles, Berkeley/ Los Angeles/ London (University of California Press) 1998, 399 p. (University of California Publications in Modern Philology 128) La communication est un terme à la mode, et ce qu’il y a de sympathique chez Jacques Merceron (J.M.) c’est qu’il ne s’en cache pas. Invoquant conjointement, dans son Introduction, des arguments historiques (1: «le renouveau [au xii e siècle] de la circulation des biens, des hommes et des idées») et actuels (3: «l’essor de la cybernétique et des systèmes d’information»), il n’a pas de mal à nous faire admettre la pertinence d’une étude consacrée à un thème finalement assez négligé de la littérature médiévale, et sur lequel, la thèse de J.- Cl. Vallecalle sur les messagers épiques (1992) étant encore inédite, Le Message et sa fiction se trouve être la première synthèse d’envergure. Le Message et sa fiction est un livre d’une clarté exemplaire, un peu scolaire diront peutêtre certains, mais on ne peut se lancer dans une telle étude thématique sans évoquer les meilleurs jours de l’ancienne histoire littéraire et J.M. sait fort subtilement et fort à-propos dépasser ce que son étude pourrait avoir par moments de mécanique, par des références aux plus modernes recherches sur la topique littéraire médiévale et par une attention toujours en éveil à la spécificité des œuvres (et elles sont nombreuses! ) qu’il convoque. Par le classicisme de son architecture, son travail se rattache davantage à une certaine tradition érudite française, voire allemande, qu’aux approches américaines, auxquelles on aurait pu s’attendre, étant donné la collection dans laquelle le livre est publié. Le premier chapitre est, très logiquement, consacré aux «dénominations du messager» et s’ouvre sur la bonne surprise d’une fine enquête onomasiologique qui dénote chez J.M. un scrupule philologique qui se fait hélas de plus en plus rare chez les littéraires. Un deuxième chapitre sur les messagers historiques pourrait nous faire craindre que J.M. ne plaque l’histoire sur la littérature, d’autant plus que le chapitre viii introduit pareillement la troisième partie par une analyse (fort bien documentée au demeurant) des relations de l’oral et de l’écrit entre les ix e et xiii e siècles; mais J.M. se garde bien des amalgames, et des dérapages comme le passage où il prétend que Le Moniage Guillaume «atteste» le fait qu’il était exceptionnel au xii e siècle de voir des aristocrates sachant lire (149) sont heureusement rares. Au contraire, non seulement J.M. subordonne généralement l’illusoire fonction mimétique des textes à leur fonctionnement topique, mais, par de nombreuses notations de fréquence des motifs, il décline les différents degrés de conformité des textes envisagés par rapport à des schémas structurels plus ou moins contraignants, ce qui lui permet, en plus d’une place, de faire des remarques très fines sur certaines oeuvres particulières: on ne sera pas étonné de voir souvent soulignée l’originalité de Chrétien de Troyes et, surtout, de Béroul, à propos duquel on peut citer cette remarque qui suit une analyse détaillée de la scène du message de Tristan à Marc: «en définitive, tous ces détails décalés concourent à faire de cette scène tendue une sorte de ‹contre-texte› par rapport à la classique scène de message» (180). On a ici en germe le principe d’une analyse passionnante du texte de Béroul. 300 Besprechungen - Comptes rendus