eJournals Vox Romanica 61/1

Vox Romanica
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2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2002
611 Kristol De Stefani

Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes

121
2002
Simonetta  Bianchini
vox6110181
Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 1. I nomi propri di persona che compaiono nei romanzi di Chrétien de Troyes hanno spesso suscitato l’interesse degli studiosi, ma chi finora se ne è occupato ha investigato l’origine e li ha utilizzati come prove per dimostrare l’ascendenza, spesso celtica, dei personaggi cristianiani, senza estendere di norma l’indagine al loro valore simbolico 1 . 1.1. Per l’uomo medievale, come ben noto, l’interpretatio nominis fa parte della cultura di tutti i giorni: fin dall’antichità nei nomi, soprattutto nei nomi propri, era nascosto un significato profondo (nomen omen), una ratio che aiutava a scoprire le caratteristiche dell’individuo, e la cultura biblica, dove ogni nome proprio, di persona o di luogo, è dotato di una sua specifica interpretatio, aveva fatto diventare norma quella che era una tendenza già molto accentuata 2 . Un esempio particolarmente evidente di questa prassi ci è offerto dal Perceval di Chrétien de Troyes: all’inizio di questo romanzo, infatti, nel ristretto ma fondamentale ‘catalogo’ di norme comportamentali che la veve dame impartisce al figlio prima che questi si rechi alla corte di re Artù, spicca quella riguardante il nome dell’interlocutore (v. 557-62): Biaus filz, ancor vos vuel dire el: Ja an chemin ne an ostel N’aiiez longuemant conpeignon Que vos ne demandez son non; Le non sachiez a la parsome; Car par le non conoist l’an l’ome 3 1 Fa eccezione Bertolucci 1960, in uno studio incentrato, però, più sull’impostazione retorica di due romanzi cristianiani che sul vero e proprio problema dell’interpretatio nominis. 2 Il fascino non troppo discreto dell’onomanzia sembra persistere ancora ai giorni nostri, almeno a giudicare da uno studio condotto nell’Università di Austin, nel Texas, «sulle qualità attribuibili ai portatori di questo o quel nome» (RIOn, II/ 1 (1996: 207); si veda anche Lawson 1984. 3 Ed. Hilka 1932. La lezione «par le sornon connoist on l’ome», accolta a testo da Roach 1959 sulla scorta del solo ms. T (= Paris, Bibl. Nat. f. fr. 12576) e accettata da Huchet 1978: 10, è fuorviante e incongruente rispetto ai versi precedenti, dove si fa ripetutamente riferimento al «nome» e non al «soprannome»; la lezione tradita da T potrebbe configurarsi come un tentativo di sanare l’evidente ipometria del verso (-1), mentre per tutto il resto della tradizione si potrebbe ipotizzare un caso di aplografia iniziale (errore comune a tutta la tradizione e in grado, quindi, di dimostrare l’archetipo comune); Hilka 1932: 627 si limita a segnalare la presenza dell’espressione proverbiale in una delle continuazioni del romanzo cristianiano. Per di più quando Perceval applica i precetti materni egli chiede il non, non il soprannome, a Gornemant de Gorhaut (che però risponde con il sornon: «Li vavasors, ce porrez dire, / qui vostre esperon vos caucha»; v. 1686-87). Proprio perché «par le non conoist l’an l’ome» l’interpretatio nominis è utilizzata in modo massiccio nella narrativa medievale, spesso introdotta da formule esplicative del tipo por ce, la reison est, e simili 4 . In ambito retorico è un tropo molto diffuso, raccomandato dalle varie artes, sia classiche sia medievali; Matteo di Vendôme, per rimanere in epoca vicina a quella di Chrétien, ne tratta all’inizio della descriptio personae considerandola implicitamente una delle sue parti principali (Ars I, 76): Siquidem hic aliter accipienda sunt nomina ista «argumentum» sive «locus a nomine vel a natura» quam in logica facultate. Hic enim nichil aliud est «argumentum», sive «locus a nomine vel a natura», nisi per interpretationem nominis et per naturales proprietates de persona aliquid probare vel improbare, personam propriare vel impropriare 5 . e (Ars I, 78): Argumentum sive locus a nomine est quando per interpretationem nominis de persona aliquid boni vel mali persuadetur 6 . 1.2. Accanto all’interpretatio nominis troviamo spesso un altro tropo, la pronominatio, cioè un nome-simbolo, di norma espresso in forma perifrastica. Nella pseudo-ciceroniana Rhetorica ad Herennium (IV, 42) viene così definita: pronominatio est quae sicuti cognomine quodam extraneo demonstrat id quod suo nomine non potest appellari 7 . La definizione di questa forma di translatio, chiamata anche antonomasia e propria dell’ornatus gravis o difficilis, è presente anche in Quintiliano (Institutio Oratoria, VIII, 6, 29) 8 , mentre in epoca più recente è trattata sia da Matteo di Vendôme (Ars I, 60-61) sia, in seguito, da Goffredo di Vinsalvo (Poetria nova v. 928-40) 9 . Lausberg addita una distinzione tra antonomasia e pronominatio: la prima indicherebbe la sostituzione del nome proprio della persona con un altro nome proprio, mentre la pronominatio vera e propria sarebbe costituita o da un appellativo 182 Simonetta Bianchini Il sornon, identificabile con la pronominatio, è effettivamente portatore di ulteriori informazioni sull’individuo, come attestato anche dalla filosofia moderna, in primis Bertran Russel. Su questo problema, anche al di fuori del romanzo cristianiano, vedi più avanti nel testo. 4 Un esempio di formula introduttiva anche nel Cligès, v. 2705-06: «Fenyce ot la pucele a non, / Ne ne fu mie sanz reison». Si utilizza, ove non indicato altrimenti, la recente edizione Gregory/ Luttrell 1993. 5 Ed. Munari 1988/ III: 95-96 (i corsivi, qui e in seguito, sono miei). 6 Ivi. 7 Ed. Achard 1989: 182. 8 Ed. Radermacher 1971/ II: 120. Quintiliano considera questo tropo come proprio della poesia, anche se utilizzato talvolta dagli oratori (Inst. VIII, 6, 30): «oratoribus etiam si rarus eius rei, nonnulli tamen usus est». 9 Cf. Gallo 1971: 229, dove però il riferimento a Quintiliano è da intendersi al §29 dell’Inst. VIII: 6 e non al 57, dedicato all’allegoria, e Gallo 1971: 231. o da una forma perifrastica 10 . Questa distinzione, però, non sembrerebbe ancora operante, almeno fino all’epoca qui trattata; i due maggiori retori del sec. XII non ci offrono il nome di questa translatio ma solo la sua definizione, che la farebbe ricadere in quella che Lausberg chiama antonomasia. Matteo, infatti, afferma che «hec enim propria nomina appellativorum sunt vicaria» (Ars I, 61), e Goffredo, pur con altre parole, continua a rimandare all’uso di nomi propri (Poetria, v. 923-24: «Si proprium fuerit, vel ad hoc transfertur ut ipso / Laudes vel laedas tanquam cognomine») e solo nel Documentum offre il nome, pronominatio 11 , proprio l’opposto di quanto teorizzato da Lausberg. Le poche applicazioni romanze, almeno all’interno della narrativa, che potrebbero ricadere nell’antonomasia sono però molto dubbie (ad es. Cligès, v. 5240: «ja n’en seroiz Tristanz clamez»). Comunque sia di questa distinzione, della quale non terremo conto continuando ad utilizzare il termine pronominatio, una prima deduzione importante che si può ricavare dall’affermazione di Quintiliano è che questa viene recepita, fin dall’epoca classica, sia dalla retorica poetica sia, pur se con minore frequenza, da quella civile 12 . La pronominatio, chiamata frequentemente, soprattutto nei testi oitanici, sornon, si può presentare sia come semplice nome, proprio o comune, sia in forma perifrastica, e Chrétien sembra prediligerla fin dal primo dei suoi grandi romanzi, l’Erec et Enide. Qui, infatti, sono numerose le perifrasi pronominali del tipo «li Biaus Coarz» (v. 1676), «li Lez Hardiz» (v. 1677), «li Orguelleus de la Lande» (v. 2121); l’esempio più significativo è però costituito dalla pronominatio indicante la protagonista prima delle sue nozze con Erec. Enide è sempre presentata, infatti, con la perifrasi «pucele au chainse blanc» (v. 1071, 1339, 1613), con trasparente allusione alla sua purezza. Il chainse blanc, con cui Enide incontra per la prima volta Erec presentandoglisi più bella «qu’Isolz la blonde» (v. 424), sarà abbandonato solo al momento delle nozze, nel momento, cioè, in cui sarà reso noto il suo droit non, il nome ricevuto al fonte battesimale, e il passaggio dal sornon al non, che segna l’analogo passaggio dalla prima alla seconda parte del romanzo, viene 183 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 10 Lausberg 1969: 116-18. 11 Documentum, II: 3, 6: «Per unam rem designamus similem dupliciter: uno modo, in substantivo et proprio, per unam rem designamus similem, ut, in hoc nomine ‹Tullius›, per ‹Tullium› designamus similem, id est eloquentem . . .: et iste color appellatur pronominatio» (Faral 1924: 285). 12 Per i rapporti tra artes poeticae e artes dictandi in epoca classica e medievale, almeno fino all’epoca carolina, e a dimostrazione di una tradizione non ancora distinta dei due tipi di ars, non sarà fuori luogo ricordare che l’Ars poetica di Orazio era stata glossata anche con la Rethorica ad Herennium proprio in quell’epoca e forse dallo stesso Alcuino. Il ms. Vindobonensis 223 riporta infatti gli scholia con la seguente intitolazione: «Collectura in libros poetriae Horatii disputatio Karoli et Albini» (ed. Zechmeister 1877: I). Zechmeister suppone che sia quest’opera sia quella che nello stesso codice segue, cioè la «disputatio de dialectica et de virtutibus sapientissimi regis Karoli et Albini magistri sui», siano da attribuire o ad Alcuino stesso o almeno alla sua scuola. La trattatistica poetica del sec. XII continua a utilizzare anche esempi non poetici e alla fine del secolo compare il trattato prosastico di Goffredo di Vinsalvo, il Documentum de modo et arte dictandi et versificandi, che apparentemente non distingue tra le due finalità della retorica, civile o poetica. evidenziato dall’insistita ripetizione di quest’ultimo lemma, ben quattro volte nel giro di soli sette versi (v. 1973-79): Quant Erec sa fame reçut par son droit non 13 nomer l’estut, qu’altremant n’est fame esposee, se par son droit non n’est nomee. Ancor ne savoit l’an son non, mes ore primes le set l’on: Enyde ot non au baptestire 14 La simbologia della camicia bianca è, come ben noto, un intenzionale richiamo, preparato già dai v. 424-25 («Por voir vos di qu’Isolz la blonde / n’ot les crins tant sors ne luisanz»), alla storia tristaniana, a quella «camisa . . . / cum Yseus det a l’amador, / que mais non era portada» ricordata da Raimbaut d’Aurenga in Non chant per auzel ni per flor 15 e sulla quale Chrétien ritornerà nel Cligès 16 . In questo romanzo, infatti, la camicia bianca, cucita da Soredamors e che la regina offre ad Alixandre per la veglia prima di essere armato cavaliere, non fa che adombrare il momento successivo, quello nel quale la regina offrirà all’ormai neo-cavaliere la stessa Soredamors in moglie 17 . Bertolucci nota, a questo proposito: Il rilievo più importante da fare a proposito della descrizione di Enide è l’ostinata mancanza dell’attributum a nomine . . . Questo è l’esempio più vistoso nel romanzo di quell’espediente stilistico tutto speciale che è la retardatio nominis, al quale Chrétien conferisce anche altrove un particolare rilievo 18 184 Simonetta Bianchini 13 Per il droit non si veda anche la presentazione di Soredamor, Cligès v. 975 («car qui par mon droit non m’apele»). Che per droit non debba intendersi il nome ricevuto al momento del battesimo sembrerebbe dimostrato anche da un esempio nel Gliglois, v. 6-7: «Quant il fu de fons baptisiéz / Par droit non Glygloiz le nommerent» (ed. Livingston 1932). Nei testi oitanici si può trovare anche la formula propre non, perfettamente equivalente a quella qui esaminata; bastino due soli esempi, uno dal Roman de Brut di Wace: «Silvius fu si propre nuns / E Postumus fu sis surnuns» (v. 79-80; due soli manoscritti riportano la variante premier/ s al posto di propre) e l’altro dal GMonm (v. 337-40): «Sen propri nom avoit quascuns, / E ciz surnoms lor eirt communs: / Quascuns des rois Silvi se nomme, / Deci que Romulus fist Rome» (si cita daT-L,AWVII, s.propre). Schwake 1979: 313 interpreta l’espressione droit non come un semplice «Eigenname (d. h. der eigentliche, von Rechts wegen zukommende)», senza individuare l’opposizione con il sornon. Talvolta manca l’indicazione esplicita e immediata del droit non, come all’atto della presentazione del protagonista nel Biaus Desconneus (v. 3231-33): «Li rois Artus mal te nomma: / Bel Desconneu t’apiela / Guinglains as non en batestire» (corsivo mio); che quello ricevuto al momento del battesimo sia effettivamente il droit non sarà esplicitato solo a v. 5201: «Par droit non l’apielent Guinglain»; cf. Pioletti 1992 al quale si rimanda, passim, anche per le numerose note sull’onomastica del romanzo. 14 Ed. Roques 1966. 15 BdT 389, 32, v. 34-36 (ed. Pattison 1952). 16 Laurie 1991: 49-51; Laurie suggerisce, tra le righe, l’assenza di qualsiasi intermediario tra l’episodio tristaniano e quello presente nel Cligès (ibidem, p. 51). 17 Non a caso i due episodi (Cligès, v. 1547-1602 e v. 2238-60) contengono gli stessi elementi narrativi, risultando pressoché paralleli. 18 Bertolucci 1960: 19. La retardatio nominis è spesso collegata, in Chrétien, alla «scoperta» del proprio nome, e un notissimo esempio di questa tecnica è quello riguardante il nome di Perceval nel romanzo omonimo 19 (v. 3573-76): Et cil qui son non ne savoit Devine et dist que il avoit Perchevax li Galois a non, Ne ne set s’il dist voir ou non Pur nella fondatezza delle osservazioni di Bertolucci credo che nel caso dell’Erec si possa intravvedere una sovrapposizione di significati, uno metaforico e riconducente al personaggio di Isotta e l’altro rispecchiante l’abitudine di «ribattezzare» le donne prima del matrimonio, soprattutto nel caso di matrimoni misti, così come registrato da Du Cange: Solenne etiam fuit Graecis Byzantinis et praesertim ipsis Augustis, cum ex Latinorum gente uxores sibi adsciscerent, earum nomina mutare. . . . iterati baptismi, in quo nomina dari vel mutari consueverant, speciem quodammodo in Latinis uxoribus adumbrarent 20 Per quanto attiene al significato preciso di sorenon 21 , esso è sicuramente da identificare, almeno in prima istanza, con la pronominatio, postulata nei trattati di retorica (= senhal) e in questo caso è regolarmente accompagnata, in quanto pronominatio, dal verbo apeler 22 . Sembrerebbe però di poter estendere il significato di sornon fino ad inglobare la designazione toponomastica, almeno a giudicare da alcune occorrenze del termine in testi letterari. Nel Roman de Flamenca, v. 1705-06 (corsivo mio): Vilelme si fes apellar e·l sobrenom fon de Nivers 23 nonché nella canzone A vos cui tenc per domn’e per seignor, di Guiraut de Salinhac, v. 41-42: Pros Comtessa, sobrenom avetz ver, car gen burlatz 185 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 19 Per l’apparente anonimia che pervade tutto il romanzo si rimanda a Donà 1998 e, prima e più in generale, a Pellegrini 1977. 20 C. Du Cange, Glossarium Mediae et Infimae Latinitatis, vol. 5, Graz 1954 [rist. anast. dell’ed. 1883-87]: 603, s. nomen. Corsivo mio. 21 Seguendo un’indicazione di Bédier, datata ma non per questo superata, Jean Renart nasconderebbe il proprio sornon nell’Escoufle e nel Guillaume de Dole (Renart); cf. Limentani 1994: 114. Da come si esprime Belletti 1986: 10-11 sembrerebbe di poter evincere la seguente distinzione tra non e sornon: il primo sarebbe il nome proprio (Jean), il secondo il cognome, e non il soprannome, dell’autore (Renart). 22 Per la discussione sul verbo reggente si rimanda più avanti nel testo (§4.1.1). 23 Non si capisce per quale motivo Hubert 1962: 113 snaturi completamente il significato di questi versi traducendoli: «William he was baptized at birth, Surnamed de Nevers»; decisamente più aderente al testo la traduzione di L. Cocito (Il romanzo di Flamenca, Milano 1988: 56): «Si faceva chiamare Guglielmo di Nevers». con esplicito riferimento al titolo nobiliare della contessa Azalais di Burlatz, moglie di Ruggero II di Béziers 24 . Esempi di tal genere, almeno in ambito letterario, sono abbastanza numerosi, anche senza voler fare un’indagine a tappeto sulla loro frequenza. Nei romanzi successivi Chrétien darà sempre più spazio alla pronominatio, fino ad arrivare al diluvio di perifrasi pronominali del Perceval. 2. La presenza di alcuni casi di interpretationes nominis nel Cligès è già nota a chi si è occupato, anche superficialmente, di questo romanzo: riguardano le due protagoniste femminili, Soredamors e Fenice, due casi nei quali l’interpretatio è esplicita, e Alixandre, un caso di interpretatio non esplicitata ma già riconosciuta a suo tempo da Bertolucci. Sarà quindi il caso di cominciare da queste tre occorrenze. 2.1. L’interpretazione del nome di Soredamors viene fornita, attraverso le parole della stessa protagonista, nei v. 962-87: Por neant n’ai ge pas cest non Que Soredamors sui clamee. Amer doi, si doi estre amee 25 , Si le vuel par mon non prover Se la reison i puis trover 26 . Aucune chose senefie Ce que la premiere partie En mon non est de color d’or, Car li meillor sont li plus sor. Por ce tieng mon non a meillor Qu’il comence par la color 27 A cui li miaudres ors s’acorde. Et la fins Amors me recorde, Car qui par mon droit non m’apele 186 Simonetta Bianchini 24 Ed. Strempel 1916: 64; cf. da ultimo Canettieri 1995: 100. 25 Questa dichiarazione programmatica su base cristiana sembra preparare sia la regola 26 del De Amore di Andrea Cappellano («Amor nil posset amori denegare») sia, forse di conseguenza, Dante, If, V, v. 103 («Amor, ch’a nullo amato amar perdona»). In Chrétien è ravvisabile, per di più, una netta contrapposizione alla situazione di Narciso narrata da Ovidio (Met. III, 405: «sic amet ipse licet, sic non potiatur amato») e ripresa in epoca vicina a quella di Chrétien nel volgarizzamento ovidiano Narcisse. Echi sono forse ravvisabili anche in Lanquan li jorn son lonc en mai, di Jaufré Rudel (v. 48-49: «qu’enaissi·m fadet mos pairis / qu’ieu ames e non fos amatz») collegata a motivi del canzoniere di Guglielmo IX d’Aquitania (sia Farai un vers de dreit nien sia Pos vezem de novel florir). Proprio l’accenno alla «fatagione» operata dal pairis (il padrino di battesimo) potrebbe però destare qualche sospetto e spostare l’origine del motivo in ambiente classico. Per i rapporti tra i due poeti provenzali si rimanda a Bologna/ Fassò 1991, con discussione anche delle ipotesi precedenti; per quelli tra il Cligès e il mito narcisiano a Bianchini 1996: 86- 124. 26 Nell’edizione Micha 1968 è accolta la lezione «Qu’amors doi an mon non trover», della sola redazione di Guiot, base anche della recente edizione Gregory/ Luttrell 1993. 27 In modo analogo al v. 966, nell’edizione Micha 1968 è accolta a testo la lezione «Qu’an mon non a de la color», riportata dalla sola redazione di Guiot (in questo caso Gregory e Luttrel si discostano dalla lezione tradita da Guiot). Toz jorz Amors me renovele. Et l’une mitiez l’autre dore De doreüre clere et sore, Qu’autretant dit Soredamors Come sororee d’Amors. Doreüre d’or n’est si fine Come ceste qui m’anlumine. Molt m’a donc Amors enoree, Quant il de lui m’a sororee, Et je metrai an ce ma cure Que de lui soie doreüre, Ne ja mes ne m’an clamerai. Nel monologo di Soredamors il termine non (‘nome’) viene ripetuto per ben 5 volte nel giro di 14 versi 28 , cui saranno da aggiungere anche i verba dicendi (clamer, apeler, dire): una volta il solo non, in rima, poi tre volte mon non ed infine mon droit non (v. 975); proprio quest’ultima occorrenza ci dà la sicurezza di essere in presenza di un nome proprio con interpretatio e non di una pronominatio. Chrétien, pur esplicitando quest’interpretatio, vi insiste ulteriormente nei v. 979-80 con una rima apparentemente ricca (Soredamors : d’Amors) che viene però a precisarsi come derivativa proprio in base alla spiegazione precedente; l’importanza di questa rima, e il suo stretto collegamento con l’interpretatio del nome dell’eroina, è dimostrata dalla sua precedente occorrenza in un altro momento-chiave del romanzo, quando la fanciulla, e il suo nome, vengono citati per la prima volta (v. 445-46): I amena Soredamors, Qui desdaigneuse estoit d’amors Significativamente tutte le altre volte in cui questo nome compare, per esigenze narrative ma senza ulteriori significati, non è più in rima ma spostato all’interno del verso, nella maggior parte dei casi addirittura all’inizio, spesso sintatticamente legato al verso precedente dall’enjambement 29 . 187 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 28 Il brano è giocato anche sull’ambiguità semantica del termine amors, una in cui indica il sentimento, ed è regolarmente femminile (cf. v. 974: «la fins Amors»; corsivo mio), l’altra in cui indica la personificazione, il dio d’amore, e in quanto tale è maschile (cf. v. 984 e 986); questa distinzione, ben evidente nell’alternanza di genere di articoli e pronomi e tipograficamente marcata dall’alternarsi dell’iniziale minuscola e maiuscola del lemma nell’edizione Micha (il quale, inoltre, non interviene sulla lezione «la fine amors» tradita da Guiot per il v. 974, v. 966 dell’ed. Micha 1968), viene invece in parte annullata dalla qui onnipresente iniziale maiuscola dell’edizione Gregory/ Luttrell 1993 nella quale non si giustifica la scelta operata al v. 974; dall’indice dei nomi (p. 321) si evince, per il v. 974, un’interpretazione come «dieu d’Amour», che non giustifica l’articolo femminile, conservato nell’edizione; ancora più confusa la supposta spiegazione che rimanda (p. 256) a «la diffusion de la notion de fine amors». 29 V. 1158-59, 1564-65, 2096-97, 2256-57; per la presenza, e l’importanza, dell’enjambement si rimanda al successivo §6.1. Questa interpretatio viene accostata da Helen Laurie 30 a quella analoga offerta da Abelardo per il nome di Eloisa: Nam et tuae Dominus non immemor salutis, immo plurimum tui memor, qui etiam sancto quodam nominis praesagio te praecipue suam fore designavit, cum te videlicet Heloissam id est divinam ex proprio nomine suo quod est Heloim insignivit 31 . Ambedue risultano così legate, anche nel nome, al proprio dio (il Dio cristiano, Dio d’amore, per Eloisa; la deificazione di Amore per Soredamor), e l’accostamento renderebbe ragione a Laurie che vede nei romanzi di Chrétien un forte influsso dell’epistolario abelardiano 32 .A questo si può aggiungere che il riferimento al droit non di Soredamor (v. 975) richiama l’uguale definizione del nome di Enide; in quest’ultimo caso Enide era chiamata con il «vero» nome perché era quello ricevuto al fonte battesimale: ciò, se da una parte esclude che in ambedue i casi ci si possa trovare in presenza di una pronominatio, dall’altro fa sorgere il dubbio, anche se nulla di più, che dietro la formula del Cligès si possa celare il velato accenno ad una sorta di «battesimo» di Soredamor ad opera dello stesso dio d’amore 33 . L’argomento sul quale viene ad essere giocata quest’interpretatio, la «doratura d’amore», un caso quasi eccessivo di amplificatio per reduplicationem, fa sorgere il sospetto che Chrétien abbia voluto qui tributare un ultimo omaggio ad un trovatore morto da poco, a Raimbaut d’Aurenga e al suo senhal Linhaura 34 . 2.2. Fenice è collegata all’uccello mitico, tanto che Fourrier era arrivato addirittura a parlare di «quasi anonimato» di quest’eroina 35 ; è lo stesso Chrétien che ne fornisce l’interpretatio nominis nel momento in cui la presenta (v. 2705-11): 188 Simonetta Bianchini 30 Laurie 1991: 49. 31 Lettera IV, ed. Muckle 1953: 90 (corsivo mio). 32 Laurie 1986: 139; la studiosa è ultimamente ritornata sull’argomento con ulteriori acquisizioni (Laurie 1991a). 33 Cf. Bianchini 1996: 117 N107. Un riferimento al nome ricevuto durante il battesimo e ricollegabile al colore dell’oro è riscontrabile nella Vida de Santa Oria di Berceo, strofa 9: «Bien es que vos digamos luego en la entrada / Qual nombre li pusieron quando fue baptizada: / Come era preciosa mas que piedra preciada, / Nombre habia de oro, Oria era llamada» (cf. Cherchi 1973: 207). D’Acunti 1996: 137 fa notare che già nel sec. VI dell’era cristiana «i cognomina cristiani, anteposti a quelli secolari, non rimandano a nessun membro della famiglia, ma sono nomi di battesimo». 34 Giocato anch’esso su «lignaggio d’oro» da una parte e Inhaure, personaggio dell’omonimo lai perduto dall’altra. Vedi anche Mölk 1986: 65. Si rimanda, per citare solo i contributi più importanti e non sempre concordi sull’argomento, a Roncaglia 1958, Zaganelli 1982, Meneghetti 1984a: 139-46, Rossi 1987 e Di Girolamo 1989: 120-41, con ampia presentazione e discussione della bibliografia precedente. 35 Fourrier 1950: 76: «quasi anonyme la fille du couple impérial, l’héroïne, puisque son nom de Fenice n’a qu’un valeur symbolique». Secondo Chocheyras anche il nome di Isotta, cui Fenice si contrappone esplicitamente nel seguito del romanzo, avrebbe origine da un nome comune (irlandese), una sorta di sornon che significherebbe «la magicienne», la maga, con esplicito riferimento, in tal caso, alla principale caratteristica di Isotta nelle numerose versioni della storia (Chocheyras 1988). Fenyce ot la pucele a non, Ne ne fu mie sanz reison, Car si con fenix li oisiax Est sor toz les autres plus biax, N’estre n’an puet que uns ansanble, Ausi Fenyce, ce me sanble, N’ot de biaute nule paroille. Finora chi si è occupato dell’interpretazione di questo nome 36 si è limitato a mettere in risalto il tema della rinascita dalla morte (falsa morte! ), mentre sarà da puntualizzare che Chrétien insiste anche sull’unicità dell’uccello mitico. Quest’ultimo elemento, che di norma non ha goduto di grande fortuna letteraria 37 anche se era ben presente nelle Metamorfosi ovidiane 38 , acquista un ruolo di primo piano nel romanzo cristianiano configurandosi come anticipazione della volontà di Fenice di essere unica, cuore e corpo, di un solo uomo 39 , e non divisa, e quindi «raddoppiata», tra marito e amante, con quella divisione che nella storia tristaniana viene simboleggiata dalla «duplicazione» di Isotta, la Bionda e quella dalle Bianche Mani 40 . 189 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 36 Questo nome è stato utilizzato anche da un trovatore come senhal della donna amata: Raimond Bistors d’Arles, in Aissi col fortz castel, ben establitz (BdT 416,1) v. 58-60, si rivolge all’amata chiamandola Bels Fenics: «Ai! Bels Fenics! merces e cortesia / Me vaill’ab vos, qu’eu no·m mor’ aman / E camz’ el nom de TANTS TRIST en TRISTAN», ed. Raynouard 1938/ 1: 499 e ed. Riviere 1986, da cui si cita; si veda, però, anche l’integrazione di Branciforti 1990: 207-08. È però da notare che in tutta la canzone ci sono numerosi riferimenti alla bellezza dell’amata (e anche un’espressione che risente molto dell’insegnamento cristianiano, nel momento in cui il poeta avverte «si ab vos ai de joi carestia», v. 41), ma nessuno alla rinascita dalla morte; d’altra parte è da tenere in debita considerazione che il componimento termina proprio con la diffusa interpretatio del nome di Tristano. 37 In ambito oitanico mi risulta solo un’altra attestazione dell’unicità della fenice, nella canzone Per maintes fois aurai estei requise, anonima ma attribuita dal canzoniere C (= Bern, Burgerbibliothek, 389) alla duchessa di Lorena, figlia di Tibaut de Champagne (v. 18-19): «Or seux Fenix, laisse, soule et eschive, / dont il n’est c’uns, si com on le devise». Per un approfondimento sulla fortuna letteraria di questo mito, soprattutto in ambito italiano, si rimanda a Bianchini 1997. 38 Testo che Chrétien conosce bene per sua esplicita affermazione: i due miti citati nel prologo del Cligès, quello di Pelope e quello di Philomena, rimandano al sesto libro delle Met., dove sono successivi l’uno all’altro. Il mito della fenice è trattato nel quindicesimo (Met., XV, v. 391- 4077), e se ne potrebbe quasi inferire che la conoscenza dell’intero testo ovidiano fosse limitata alla lettura. 39 Intenzione che viene espressa con una formula («ja mes cors n’iert voir garçoniers, / n’il ni avra deus parçoniers», v. 3121-22) molto vicina a quella presente nell’Eneas («o lui n’i avra parçonier», v. 8304). Per la datazione relativa si rimanda a Punzi 1988. 40 Cf. Brault 1996 e 1997. Si può aggiungere che i due personaggi del romanzo di Thomas additano anche la doppia scelta che si offre a Tristano, l’adesione alle convenzioni feudali (Isotta dalle Bianche Mani) o alla fin’amors (Isotta la Bionda), una scelta che si risolve a favore dell’amore. Una situazione simile, ma con soluzione «aperta», si ritrova ne Le Bel Inconnu: qui il protagonista Guinglain è diviso tra Blonde Esmeree (che rappresenta le convenzioni feudali) e la Pucele as Blances Mains (che rappresenta la fin’amors); si aggiunga a ciò che la madre di Guinglain si chiama Blancemal, una costellazione di nomi che sembra ripetere, anche nei particolari, quella tristaniana (cf. Pioletti 1992: 17-26). Una situazione in qualche modo parallela, ma non Forse per influsso cristianiano, forse per indipendente derivazione da un’uguale tradizione, nel De nugis curialium di Walter Map troviamo l’assimilazione della donna alla fenice, inserita per di più in un discorso sull’amore che utilizza l’annominatio ormai topica (IV, iii, 292): «Optima femina, que rarior est fenice, amari non potest sine amaritudine metus et sollicitudinis et frequentis infortunii» 41 ; le righe seguenti sembrerebbero additare per sommi capi la storia dei due amanti cristianiani, eventualità non tanto peregrina ove si pensi che Walter Map quasi sicuramente conosceva la produzione di Chrétien: Male vero, quarum tam copiosa sunt examina ut nullus locus sit expers malignitatis earum, cum amantur amare puniunt et afflictioni uacant usque ad divisionem corporis et spiritus Nello svolgimento della storia si vedrà che tutte le caratteristiche della fenice si ritrovano puntualmente applicate alla protagonista del romanzo, sia, come si è detto, la sua unicità sia la rinascita; lo sviluppo ulteriore del romanzo, infatti, attua l’identificazione ideale di Fenice con l’uccello mitico, fino ad adombrare il motivo del rogo della fenice nell’episodio dei tre medici salernitani 42 che gettano la protagonista nel fuoco 43 . 2.3. Il nome del padre del protagonista viene presentato sinteticamente all’inizio del romanzo insieme a quello degli altri componenti della famiglia reale, in una sorta di cronaca genealogica (v. 57-60): Li premiers ot non Alixandres, Alis fu apelez li mandres, Alixandres ot non li pere Et Tantalis ot non la mere. Come si diceva all’inizio, già Valeria Bertolucci aveva notato che il nome di Alixandre è collegato a quello di Alessandro Magno, esempio di largesce che percorre l’intero medioevo, latino e volgare: 190 Simonetta Bianchini legata al tema amoroso, si presenterà, in un altro momento storico, nel Lancelot in prosa, con la «duplicazione» del personaggio maschile Galaad/ Galehaut, cui è da aggiungere il nome di battesimo di Lancelot, uguale a quello del figlio Galaad, con una situazione onomastica a tre personaggi anche questa parallela a quella tristaniana, quando si ricordi che anche la madre di Isotta la Bionda si chiama Isotta; per l’onomastica tristaniana cf. Brault 1997 e per quella presente nel Lancelot in prosa cf. Meneghetti 1984, che però non fa alcun riferimento alla storia tristaniana. La situazione onomastica qui esemplificata, e alla quale si può aggiungere anche il caso di Alixandre nel Cligès (per cui vedi oltre nel testo), rispecchia in parte una realtà dinastica narrativamente caricata di ulteriori significazioni. 41 Latella 1990: 418 e 420. 42 Tre medici, come tre sono i giorni che servono alla fenice per rinascere dalle sue ceneri; potrebbe però esservi un incrocio con i tre giorni intercorsi tra la morte di Cristo e la sua resurrezione, come in tutte le moralizzazioni cristiane del mito. 43 V. 5312 («Car je me voldrai feire morte»), 6002-03 («Qui au charbon et a la flame / Li fesoient sosfrir martire») e 6016-18 («Au feu la trueve tote nue / . . . / Arriere an la biere l’a mise»). È probabile però che il nome di questo personaggio (poiché conosciamo ormai la predilezione dimostrata dal poeta nell’operare sull’argumentum a nomine, sia interpretandolo, come in questo romanzo, sia sospendendolo come nel primo) abbia un significato particolare, sia cioè un nome-epiteto, tale da caratterizzare colui che lo porta 44 . In effetti Alixandre si dimostra non solo alter-ego di Alessandro Magno ma, ancora più importante, figura di Enrico di Champagne del quale ripete non solo la caratteristica principale la largesce 45 (e si ricordi che Enrico era chiamato Largus, il Liberale), ma anche alcuni momenti essenziali della sua biografia.Alixandre,infatti, vuol farsi armare cavaliere da Artù, nella piena coscienza che tale nomina avrà maggior valore; in effetti la figura di Artù serve ormai come punto di riferimento delle virtù cavalleresche (si veda il successivo §3.1), ma non si deve scordare che Enrico il Liberale nel 1147 era stato armato cavaliere da Manuele Comneno, imperatore di Bisanzio 46 , e la lettera di raccomandazione che lo accompagnava, firmata da Bernardo di Chiaravalle, contiene un’osservazione che sembra quasi all’origine dell’affermazione del giovane eroe greco: Bernardo di Chiaravalle, infatti, scrive a Manuele di avergli indirizzato il giovane Enrico «ut memor sit omnibus diebus vitae suae, a quo militaris disciplinae dignitatem susceperit» 47 , ripetendo quasi quelle che saranno, nel Cligès, le parole di Alixandre 48 . Poco oltre nel romanzo il ragazzo, arrivato alla corte di Artù 49 , rende noto al sovrano il proprio nome (v. 369-72): - «Et comant as non, biax amis? » - «Alixandres me fu nons mis La ou ge reçui sel et cresme Et crestïanté et baptesme.» L’insistita puntualizzazione sul battesimo come garante del nome proprio richiama l’analogo riferimento presente nel primo grande romanzo cristianiano, l’Erec, 191 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 44 Bertolucci 1960: 21; la studiosa fa quindi seguire il parallelo con Alessandro Magno. 45 Il padre dell’eroe, nel momento in cui il giovane chiede ed ottiene di farsi armare cavaliere da re Artù, si dilunga proprio sul valore della largesce, «dame et reïne / qui totes vertuz anlumine» (v. 193-94), invitando il figlio a comportarsi sempre secondo i suoi dettami (v. 192-217). 46 Bezzola 1984: 371, Fourrier 1950: 78 e PL, 182, coll. 672-73. 47 Epistola CDLXVIII. «Ejusdem ad Manuelem Comnenum Constantinopolitanum Imperatorem, in persona Domini Clarae-Vallensis. Ut filium comitis Theobaldi faciat novum militem», in PL, 182, col. 673A-B. 48 Chrétien aveva concepito questo romanzo, il suo capolavoro, come un omaggio al conte così come Virgilio aveva scritto l’Eneide per esaltare Ottaviano. Solo in questo modo si possono spiegare sia i frequenti richiami virgiliani nel Cligès sia, soprattutto, la collocazione di questi richiami, parallela a quella dell’Eneide (cf. Bianchini 1998, da integrare con Bianchini 2002). 49 Il brano in questione è tradito anche da un frammento, copiato da mano sicuramente italiana del sec. XIII, contenuto nel ms. 2756 della Biblioteca Riccardiana di Firenze (per cui cf. Paris 1879), circostanza che prova la fortuna di questo romanzo anche un secolo dopo la sua composizione, quando (e dove) già circolavano le grandi compilazioni in prosa; per l’importanza che questo frammento può assumere come prova della circolazione «italiana» del Cligès cristianiano si rimanda a Bianchini 1996a: 46-47 e N131. nel momento del matrimonio tra i due protagonisti 50 , e ci offre, di conseguenza, la sicurezza che Alixandre è il droit non del giovane. Siamo quindi in presenza di una nominatio con interpretatio non esplicita. 3. Due dei personaggi principali del romanzo non hanno interpretatio: si tratta di Artù e di Ginevra. 3.1. Artù non ha interpretatio nominis in quanto assurge a puro simbolo della corte ideale. Chrétien non è il cantore di questo re e delle sue gesta, è il poeta delle situazioni limite, ambientate in una corte ideale nella quale trovano spazio tutte le qualità necessarie ad un cavaliere perfetto e identificata, secondo la moda del momento, con la corte arturiana. Prima Alixandre (v. 144-53) e poi Cligès (v. 4231-36) saranno armati cavalieri solo da questo re: Car einçois que chevaliers soie Voldrai servir le roi Artu. . . . Nus ne m’an porroit enorter, Par proiere ne par losange, Que je n’aille an la terre estrange Veoir le roi et ses barons De cui si granz est li renons De corteisie et de proësce An Bretaigne, se je sui preuz, Me porrai tochier a la queuz Et a l’essai fin et verai Ou ma proësce esproverai, Qu’an Bretaigne sont li prodome Qu’ennors et proësce renome Siamo in presenza di una stessa esigenza, espressa per di più in modo molto simile e nella quale, soprattutto, risalta il renon dei nobili bretoni 51 più che quello di Artù, figura già passata in secondo piano. Artù, il re «qui les chevaliers fait» 52 , sta progressivamente cedendo il campo ad altri personaggi, soprattutto ai suoi baroni, e non a caso nell’Yvain sarà Ginevra a dare l’avvio, anche se indirettamente, all’aventure, e nel Lancelot sarà sempre lei la co-protagonista, relegando il re in un ruolo secondario e passivo. Assistiamo, cioè, a quel progressivo svilimento della 192 Simonetta Bianchini 50 V. 1973-79, già citati in precedenza. 51 Anche le rime avvalorano quest’interpretazione; abbiamo infatti barons : renons da una parte e prodome : renome dall’altra, una fama che illumina la corte più che il sovrano. Proprio a questo sarà da ricondurre l’esortazione che Alixandre rivolge al figlio Cligès perché provi il suo valore «a la cort le roi Artu» contro Bretons e François, ma soprattutto contro lo zio Gauvain (v. 2597-99: «ja peor n’aies / Que a ton oncle ne t’essaies, / Mon seignor Gauvain»); Artù sembrerebbe avere il solo merito di radunare intorno a sé il fior fiore della cavalleria del tempo, e la sua corte diventa, già nei romanzi cristianiani, la cornice narrativa nella quale si inquadrano le aventures dei veri protagonisti. 52 Perceval, v. 333. figura di Artù di cui parla Köhler 53 e che procede in modo parallelo, anche se non per gli identici motivi, a quello subito da Carlo Magno e descritto prima da Bezzola 54 e poi da Krauss 55 . 3.2. La regina Ginevra non viene mai chiamata con il suo nome ma solo con l’appellativo distintivo della sua funzione 56 , ossia con una pronominatio, la reïne; il suo compito, infatti, è quello di educare le damigelle e di farle sposare a nobili cavalieri 57 , occuparsi, cioè, del versante «femminile» della corte. L’importanza sociale del ruolo della regina, o più semplicemente della signora della casa, trova spesso riscontro nelle opere medievali, sia nella narrativa romanzesca sia in quella epica 58 , e un esempio esplicito si trova nella redazione di Béroul della storia tristaniana 59 . Qui, nel rimpianto di Isotta per gli effetti del filtro, gioca un ruolo fondamentale non tanto l’adulterio, e quindi la colpa nei confronti di Marco, quanto l’inosservanza dei propri compiti istituzionali, quindi la colpa verso la corte (v. 2211-16): Les damoiseles des anors, Les filles as frans vavasors Deüse ensenble o moi tenir En mes chanbres, por moi servir, Et les deüse marïer Et as seignors por bien doner Il venir meno ai propri doveri comporta non tanto la perdita del titolo, quanto il mancato riconoscimento ufficiale dello stesso, il suo «nome» (Béroul, v. 2205-07): Je suis röine; mais le non En ai perdu 60 par la poison Que nos bëumes en la mer. Nel caso del Cligès si può anche arrivare ad ipotizzare un altro motivo dietro la sostituzione della nominatio con una pronominatio. Soprattutto la prima parte di questo romanzo cristianiano risente fortemente l’influsso del Roman de Brut di Wace 61 , un romanzo che arriva a descrivere il disfacimento del regno arturiano per 193 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 53 Köhler 1985: 3-51, cui saranno però da aggiungere almeno altri due studi fondamentali sull’argomento, Nelson Sargent-Baur 1984 e Maddox 1991. 54 Bezzola 1949. 55 Krauss 1980: 181-82 e 211-15. 56 Questo porre l’accento sulla funzione, più che sulla persona, potrebbe anche voler evidenziare che l’istituzione è salva, contrapponendosi così alla figura di Ginevra quale tratteggiata nel Brut di Wace, dove si assiste al crollo del regno arturiano; cf. oltre nel testo e successiva N64. 57 Per il ruolo di Ginevra nel Cligès cf. Imbs 1970. 58 Per i motivi folcloristici che si tende a riconoscervi vedi Dumézil 1958. 59 Ed. Muret/ Defourques 1979. 60 Opposto il caso di Alis, nel Cligès, in quanto il personaggio conserva solo il titolo, ma non la funzione che è invece appannaggio, per diritto ereditario, di Alixandre (v. 2570-71): «Alys n’i a fors que le non / Que empereres est clamez». 61 Si rimanda a Maddox 1991: 8s., con bibliografia relativa (p. 141 e 143), e qui nel testo al successivo §4.2. colpa, tra gli altri, del tradimento di Ginevra 62 : in quest’ottica la puntualizzazione sulla funzione, più che sulla persona, potrebbe voler evidenziare che l’istituzione è ancora salda 63 . D’altra parte quale sia il ruolo specifico della regina, limitato al versante femminile, e quindi «interno», della corte mentre sul versante «esterno» ha una funzione di rappresentanza, sembrerebbe chiarito dallo stesso Artù che, sempre nel Cligès, ribadisce le sue prerogative anche nei confronti della sovrana nel momento in cui reclama i traditori vinti da Alixandre che costei, senza averne diritto, ha trattenuto presso di sé (v. 1357-62): Mes li rois ne s’an geue pas; A la reïne eneslepas Mande que a lui parler veigne Nes ses traïtors ne reteigne, Car a randre li covandra Ou oltre son gré les tandra 64 4. All’interno di questo importante romanzo sia la presenza sia l’assenza di interpretatio rivestono, a quanto risulta finora, un significato ben preciso. Proprio in base a ciò sarà il caso di investigare più a fondo anche il nome di altri personaggi che abbiano un ruolo ben definito nel romanzo: si scoprirà che, per la maggior parte di loro, il nome è in effetti indicativo di questa loro funzione. 4.1. Alis, nel quale finora si vuole adombrato il personaggio storico Manuele Comneno, confuso con Alessio 65 , altro non è che un dimidiatus Alixandre: ciò 194 Simonetta Bianchini 62 Quando nel Brut si anticipa il tradimento di Mordred la condanna esplicita riguarda solo questo personaggio anche se si aggiunge che «Il aveit la reïne amee, / Mais ço esteit chose celee» e che «Feme sun uncle par putage / Amat Modret si fist huntage» (v. 11179-80 e 11185-86); anche in seguito il peso del tradimento sembra addossato solo a Mordret, facendo risultare Ginevra quasi una vittima (cf. v. 13025-30, 13033, 13041-42). Solo alla fine (v. 13201-22) si avrà la condanna di Ginevra, ma più che altro per il suo adulterio e non per il tradimento. 63 Cf. Maddox 1991: 10, che arriva alle stesse conclusioni anche senza aver notato l’importanza della pronominatio come ulteriore conferma del suo assunto; nel Cligès il regno di Artù, in quanto emblema del potere sovrano, monarchico, è ancora forte (o quanto meno è degno di essere difeso), contrapponendosi al crollo del regno, nel Brut, dovuto alla sorcuidance di Mordred e all’amore illecito di Ginevra, regina traditrice della sua funzione. Per l’importanza della funzione di Ginevra, più che del personaggio, nel Cligès cf. Noble 1972: 528-30; per l’evoluzione della figura di Ginevra, essenzialmente in ambito insulare, si rimanda a Tolhurst 1998. 64 Nei successivi v. 1420-26 la regina riconoscerà implicitamente il diritto del re assogettandosi ai suoi voleri. 65 Questa confusione è davvero strana in un ambiente, come quello champenois, che aveva avuto rapporti stretti proprio con Manuele Comneno. Nel personaggio Alis, che per colpa di un filtro non riesce a possedere la propria moglie, si fondono due diverse situazioni vissute da Tristano: il filtro d’amore, che nel romanzo di Chrétien impedisce invece l’accoppiamento, e il matrimonio in bianco tra Tristano e Isotta dalle Bianche Mani per volontà di Tristano, mentre nel Cligès è inconsapevolmente subito da Alis. Da parte sua il nome Alis, con un’ipotesi alquanto azzardata, potrebbe richiamare quello di sant’Alessio, riportato nella forma Alis in uno dei codici relatori (ringrazio Andrea Fassò per la segnalazione); anche questo personaggio rinuncia (ma volontariamente, come Tristano) a consumare il matrimonio già celebrato. La storisulta evidente dal monologo di Soredamor, nel momento in cui la fanciulla si interroga sul modo di rivolgersi all’amato (v. 1404-07): Mes por coi m’est ses nons si forz Car je li vuel sorenon 66 metre? Ce m’est avis, trop i a letre 67 , S’aresteroie tost enmi. Fino alla recente edizione del Cligès i v. 1406-08 del monologo di Soredamor erano stati interpretati in modo diverso da coloro che finora se ne erano occupati. Favati traduceva infatti: «A parer mio, vi sono troppe lettere: mi si interromperebbe subito dentro» 68 , quasi che enmi significasse ‘in me’, interpretazione grammaticalmente impossibile perché eventualmente dal lat. in me avremmo avuto l’esito en moi, mentre per enmi 69 bisogna postulare una base in medium. Il suo significato letterale è invece ‘a metà’, ‘in mezzo’, come giustamente registrato da Gregory e Luttrell 70 , per cui la frase risulta: «Questo mi sembra, ci sono troppe lettere, si fermerebbe 71 subito a metà»; Soredamor, in ultima analisi, giustifica il suo desiderio di usare il sornon amis con la considerazione che Alixandre è un nome troppo lungo e lei lo pronuncerebbe solo a metà, fermandosi ad Alis. Non a caso Alis ha la metà degli anni di Alixandre e più di una volta Chrétien puntualizza questa differenza 72 . A convalidare quest’ipotesi basta leggere tra le righe i v. 57-60 della presentazione (corsivi miei): 195 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes ria del santo pellegrino, che rinuncia alle gioie del matrimonio, sembra sottendere una buona parte della produzione gallo-romanza dell’epoca; cf. Bologna/ Fassò 1991 (ma qui Fassò): 101- 03. 66 Il sorenon cui si riferisce Soredamors sarebbe l’appellativo amis (v. 1387-88: «Apelerai le par son non? / Ou par ami? ») o, meglio ancora, Mes dolz amis (v. 1411-12: «Voldroie avoir de mon sanc mis / Qu’il eüst non ‘Mes dolz amis’»). 67 Per l’‘allungamento’ del nome si veda il Couronnement de Louis (v. 1160-64): Guillaume allunga il suo nome (v. 1160: «bien sai mes nons en sera alongiez») ribattezzandosi (v. 1161: «Li cuens meïsmes s’est iluec baptisiez») con l’aggiunta della pronominatio, identificabile con il sorenon: «conte Guillelme al Cort Nes le guerrier» (v. 1164); la circostanza è additata da Fassò 1995: 57. Da notare che in questa occasione viene usato il verbo apeler (v. 1163: «trestuit m’apelent»), mentre quando sarà usato il solo nome, senza sorenon, si tornerà alla forma avoir non (si veda ad esempio il v. 2467: «Guillelme a nom, par le mien escïent»); per l’uso del verbum dicendi vedi più oltre nel testo. 68 La traduzione del Cligès è a cura di Guido Favati in Pellegrini 1962: 141. 69 D’altra parte il significato di enmi viene confermato dalla rima enmi 1407: ami 1408, ripetuta più oltre ami 2257: enmi 2258. 70 Cf. Gregory/ Luttrell 1993: 346, glossario s.v. enmi (= ‘au milieu’). Nessun accenno, in quest’edizione, alle interpretazioni precedenti. 71 Ma la lezione di B (= Paris, Bibl. Nat., f. fr. 1450), «naresteroie», potrebbe far pensare a corruzione di un originario «m’aresteroie», ‘mi fermerei’. Questa la traduzione che si trova nell’ed. Walter 1994: 207 che però stampa, come Gregory/ Luttrell 1993, «s’aresteroie tost en mi». 72 Fin dal prologo del romanzo (v. 52-56) dove si dice che Alis è nato quando Alixandre era in età di essere armato cavaliere. Li premiers ot non Alixandres, Alis fu apelez li mandres, Alixandres ot non li pere Et Tantalis ot non la mere. I due figli e i due genitori sono presentati in due couplets, uno dedicato ai figli e l’altro ai genitori, con una struttura parallelistica ben evidente; se il secondo couplet è legato dalla rima -ere, che unisce padre e madre, il primo couplet, a chiasmo, può dirci molto su Alis. Infatti Alixandres, in rima al v. 57, viene richiamato dalla forma fratta del nome al verso successivo («Alis fu apelez li mandres»): qui Alis ad inizio di verso e la rima -andres in fine di verso ci offrono come risultato il nome del figlio maggiore, Alisandres, utilizzando una tecnica scompositiva già ben sperimentata in testi mediolatini e romanzi 73 . Ne risulta che i quattro versi di presentazione della famiglia imperiale sono un tour de force interpretativo tutto giocato sul nome Alis. Oltre a quello, già detto, sul nome dei due fratelli, anche il nome dei genitori, nominati qui per la prima ed unica volta, si offre come presentazione e quasi ancestrale predestinazione dei due figli. Il padre si chiama, infatti, Alixandre, comprendendo in sé i due nomi citati, e la madre Tantalis 74 . Una forma semplificata di questo procedimento è quella, ad esempio, che si trova nella Chanson de Guillelme, dove la sposa di Guillelme è Guiborc, un segno onomasiologico della stretta unione familiare 75 che nella cop- 196 Simonetta Bianchini 73 Per l’area romanza mi permetto di rimandare all’analisi da me compiuta in altra sede del v. 7 del sonetto Gioi amorosa, amor, grazi’e mercede di Guittone d’Arezzo («c’omo no è già sì fermo in sua fede»), facente non solo esplicito riferimento a Giacomo da Lentini, come è noto, ma citandone crittograficamente il nome (cf. Bianchini 1995: 48-50). 74 Sarebbe a questo punto interessante capire a cosa voleva riferirsi Chrétien dando alla madre di Alixandre un nome che ne fa quasi una Tante-Alis: insistenza sulla plenitudo del nome (‘piena’ di Alis), quindi l’aggettivo tante ( tanta) che, pur presente in antico francese, non vi è molto frequente, oppure che quest’ultimo non fosse figlio naturale della donna, con tante amita (ma attestato, almeno sembra, solo dal sec. XIII), additando quindi un rapporto di tipo avunculare con Alis, non infrequente nei testi medievali (re Marco e Tristano, re Artù e Gauvain - e quindi anche Artù e Soredamors, sorella di Gauvain, Carlo Magno e Rolando, ecc.; vedi anche la successiva nota 78)? Il sospetto potrebbe essere rafforzato dai versi successivi, nei quali la rima lega proprio il nome del figlio minore a quello della madre (v. 61-62: «De l’empereriz Tantalis, / De l’enpereor et d’Alis»), nonché, in altro contesto, dalla presentazione di S. Gregorio (v. 49-56) nel volgarizzamento omonimo (Vie de saint Grégoire) del 1160 circa: in quest’ultimo testo sembra quasi di poter riconoscere la forma, anche se non i nomi, della presentazione di Alixandre, con un’ante esplicitata (cf. Burgio 1996: 148-49). C’è però da aggiungere che, nel Cligès, i precedenti v. 50-51 ricondurrebbero verso la prima interpretazione («Empereriz i ot molt noble / don l’emperere ot .ii. enfanz»). Un accenno a questi giochi onomasiologici sia nell’ed. Méla/ Collet 1994: 12 (Alis sarebbe forma abbreviata di Alixandre e «entre un peu trop en consonance avec le nom de sa mère, l’impératrice Tantalis») sia in quella di Walter 1994: 1139 dove però si mettono in evidenza solo: (a) l’iniziale Al, comune al nome dei due fratelli; (b) il nome di Tantalis che include quello di Alis e (c) l’uguaglianza del nome del padre e del figlio maggiore. Secondo Walter, però, «Tantalis suggère en outre le nom antique de Tantale, victime d’un supplice célèbre, lié à l’histoire de Pélops» citata, quest’ultima, nel prologo del romanzo. 75 Fassò 1995: 19. pia epica, priva di figli che possano continuare, letteralmente, il nome, si allarga ulteriormente: a Guillelme d’Orange si contrappone Guiborc, da pagana Orable, dandosi l’equazione Orable (regina) d’Orange come pagana (legata, anche nel nome, al territorio) e, da cristiana, Guiborc (moglie) di Guillelme (legata, anche nel nome, al vincolo matrimoniale), ampliando al massimo le possibilità (e il significato? ) di quei giochi allitteranti che fin dall’antichità legavano i nomi di una coppia famosa 76 . Come ultima tessera si può forse aggiungere anche il nome del giovane nipote di Guillelme, Gui, quasi un dimidiatus Guillelme 77 . 4.1.1. Continuando l’analisi dei v. 57-60 del Cligès, troviamo per Alis la formula fu apelez, resa più evidente dalla sua inserzione in una serie parallela di versi ad identica struttura: nome proprio + ot non + grado di parentela 78 . Una differenziazione di tal fatta tra le due formule, pur se in una lingua diversa, sembra essere già antica e comunque ben attestata nella Vulgata gerolimiana; per ben tre volte troviamo nel Genesi delle formule analoghe a quelle del Cligès (corsivi miei): qui primus egressus est rufus erat et totus in morem pellis hispidus / vocatumque est nomen eius Esau / protinus alter egrediens plantam fratris tenebat manu / et idcirco appellavit eum Iacob (Gen 25, 25) habebat vero filias duas nomen maioris Lia minor appellabatur Rahel (Gen 29, 16) vocavitque nomen primogeniti Manasse dicens / oblivisci me fecit Deus omnium laborum meorum et domum patris mei / / nomen quoque secundi appellavit Ephraim dicens / crescere me fecit Deus in terra paupertatis meae (Gen 41, 51-52) 197 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 76 Si pensi a Romolo e Remo, ad Amis e Amile, a Gerin e Gerier, gli inseparabili amici della Chanson de Roland, ecc. Ancora più interessante che nelle varie redazioni in volgare della storia di Alessandro Magno si incontrino i nomi di «Alexandre Aegos», figlio dell’eroe e di Roxane, quello di «Alior», il figlio avuto da Candace e che vendicherà la morte del padre, nonché «Alixés», il nome destinato al figlio postumo di Alessandro, nell’eventualità che fosse femmina. 77 Fassò 1995: 32: «è un piccolo Guillaume anche nel nome e nell’appetito». Il parallelo con il Cligès è ancora più stretto nel momento in cui si tenga presente che secondo il diritto feudale il nipote uterino è legittimo erede in mancanza di figli, e Gui è in rapporto avunculare con Guillelme, figlio della sorella e di Beuve Cornebut. Per completare i giochi onomasiologici allitteranti all’interno della famiglia epica si potrà aggiungere anche il nome dell’altro nipote della coppia, Guischard; nel nome del nipote di Guiborc mi sembra infatti di poter riconoscere non solo la parentela, ma anche il segno della vigliaccheria del giovane: Gui-schard, quasi un Gui-eschars, un ‘misero Guglielmo’. 78 La stessa struttura è riscontrabile anche nel precedente romanzo di Chrétien de Troyes, l’Erec et Enide, nel momento in cui vengono presentati i genitori della protagonista (v. 6832-34): «qui ot a non Tarsenesyde; / por voir ot non ensi sa mere, / et Licoranz ot non ses pere». Proprio quanto detto sulla formula avoir non porterebbe a rifiutare l’ipotesi di Harris 1957, peraltro accattivante, che dietro Licoranz vedeva l’esito di una cattiva lettura di una forma li9˜ ´ uials, recuperata da una variante del ms. A di Förster (= Paris, Bibl. Nat., f. fr. 794, la redazione di Guiot), e la leggeva «li con vials» (‘il vecchio conte’), accostando quindi il romanzo al Gereint. L’ipotesi di Harris non può essere accettata per due motivi: da una parte ci si aspetterebbe la forma nominativale cuen/ -s, non essendo accettabile (almeno nella tradizione cristianiana) quella accusativale per il soggetto; dall’altra, confermata ulteriormente dalla prima, il nome, introdotto dalla formula ot non, si qualificherebbe proprio per ciò come nome proprio e non come pronominatio (e si veda il v. 6833, appena citato e riferito alla madre di Enide, dove la precisazione por voir ot non ensi sembrerebbe parallela ad una del tipo son propre non fu). Il nome del figlio secondogenito è quindi introdotto dal verbo appellare / appellari, lo stesso usato per la presentazione di Alis 79 , secondogenito dell’imperatore di Costantinopoli, e nell’ultima citazione la scelta è resa particolarmente evidente dalla struttura rigorosamente parallelistica dei versetti biblici. Alixandre, quindi, ha di diritto il suo nome (son droit non), e importante, data l’implicita interpretatio, mentre Alis è semplicemente «chiamato» in tal modo. La differenziazione cui si assiste potrebbe esser dovuta a motivi di carattere sociale e, nella fattispecie, dinastici: solo il primo figlio, come erede della famiglia e del suo retaggio, ha avuto la sua nomina «ufficiale», la sua consacrazione, comprensiva dell’impositio nominis, mentre il secondogenito è rimasto fermo al nome ricevuto alla nascita, quindi non ufficializzato da una cerimonia 80 . In una situazione di tal genere il suo nome si comporta alla stessa stregua di una pronominatio, di un sornon, con il quale si è «appellati» ma che non è il droit non 81 . Anche in questo caso sembrerebbe di poter risalire alla Vulgata dove l’interpretatio legata ad un cambiamento del nome della persona sembrerebbe introdotta (di preferenza, se non sempre) dal verbo appellare / appellari: nec ultra vocabitur nomen tuum Abram sed appellaberis Abraham (Gen 17, 5) non vocaberis ultra Iacob sed Israhel erit nomen tuum et appellavit eum Israhel (Gen 35, 10) mentre il nome originario, quello ricevuto al momento della circoncisione, e quindi di una cerimonia ufficiale, è introdotto di preferenza dal verbo vocare / vocari, o, con minor frequenza, dalla perifrasi nomen habere, come risulta, oltre che dagli esempi precedenti, da altre due occorrenze molto note: venerunt circumcidere puerum et vocabant eum nomine patris eius Zacchariam (Luca 1, 59) et postquam consummati sunt dies octo ut circumcideretur vocatum est nomen eius Iesus quod vocatum est ab angelo priusquam in utero conciperetur (Luca 2, 21) La continuità nel tempo di un simile uso del verbo appellare/ -i, fino alla lingua volgare, sembrerebbe avvalorata, oltre che dagli esempi fin qui esaminati, anche da un brano tratto dalla Histoire de Saint Louis di Jean de Joinville; quest’ultimo, descri- 198 Simonetta Bianchini 79 Ma si veda anche la presentazione di Sone de Nansay, nel romanzo omonimo, e quella di Enrico, il fratello maggiore, con formula perfettamente parallela (ed. Goldschmidt 1899): «Henris ot a non li ainsnés» (v. 71) e «Li mainnés ot Sonez a non» (v. 79); la diversità tra i due è affidata ai versi successivi, l’uno, Enrico, tanto povrement . . . enfigurés che tutti si meravigliano che possa esser nato dai suoi bellissimi genitori (v. 72-78), l’altro, Sone, pieno di ogni qualità, fisica e morale e di cui si dice anche che «des chiens savoit et des oysiaus, / escremissieres iert mout byaus» (v. 91-92), aggiungendo che «Quatre diviers mestres avoit, / d’aprendre tous les anuioit» (v. 95-96), descrizione a metà tra quella di Cligès (v. 2769-71) e quella di Alessandro Magno. Per un probabile influsso del Cligès di Chrétien su questo romanzo cf. Adams 1977: 159-60. 80 La situazione richiamerebbe,in tal caso,quanto descritto da Frazer 1965: II/ 382 per i bramini: «Il bambino bramino riceve due nomi, uno per l’uso comune, l’altro segreto, conosciuto soltanto dal padre e dalla madre. Questo secondo nome non si usa che nei riti, come nel matrimonio». 81 Cf. anche, nei Lais di Maria di Francia, Fresne v. 228-30: «Pur ceo qu’el freisne fu trovee, / Le Freisne li mistrent a nun. / E le Freisne l’apelet hum» (ed. Rychner 1971: 51). vendo il parto della regina Margherita, dice: «La royne acoucha d’un fil qui ot non Jehan; et l’appelloit l’on Tristant, pour la grant dolour là où il fu nez» 82 , con chiaro riferimento alla storia tristaniana 83 .Il nome Tristano viene «interpretato» in tal modo 84 sia nelle redazioni in prosa del romanzo sia in un trovatore tardo, Raimon Bistorz che, rivolgendosi ad una donna celata sotto il senhal di Bel Fenics (v. 49), avverte di non portarlo a cambiare «el nom de tans trist en Tristan» (Aissi co·l fortz castel, ben establitz, v. 51; BdT 416,1) 85 . Altra attestazione, questa volta italiana, della formula appellari / estre apelez / essere chiamato in Dante (Vita Nuova XXIV 3): «E lo nome di questa donna era Giovanna, salvo che per la sua bieltade, secondo che altri crede, imposto l’era nome Primavera; e così era chiamata». Per il versante italiano il significato «tecnico» di ‘essere chiamato’ è già registrato nel GDI (III, 45): «Dare il nome, imporre il nome a una persona o a un oggetto; soprannominare»; seguono alcuni esempi, tra i quali particolarmente significativo quello di Vita Nuova II, 1: «a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice» (corsivo mio), per cui si rimanda al commento di De Robertis: per Dante conta non l’identificazione, ma il significato di quel nome, e la sua deducibilità dagli effetti di lei. . . . Il principio etimologico è quello condensato nella sentenza «nomina sunt consequentia rerum» citata da Dante in XIII, 4 e applicata in XXIV, 3-5. Cino del resto, nella consolatoria per la morte di Beatrice, Avegna ched el m’aggia, 8, chiosava: «beata gioia, com chiamava il nome» 86 . 199 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 82 Historiens et chroniqueurs du Moyen Age: Robert de Clari, Villehardouin, Joinville, Froissart, Commynes, Textes nouveaux comentés par E. Pognon, ed. Pauphilet, Paris 1991. 83 Ma anche le sacre scritture abbondano di simili interpretazioni legate al momento del parto; si vedano due esempi di ampia circolazione al tempo, quello di Rachele che chiamò il figlio Benone, cioè ‘figlio del dolore’ (Genesis 35, 18: «egrediente autem anima prae dolore et inminente iam morte vocavit nomen filii sui Benoni id est filius doloris mei pater vero appellavit eum Beniamin id est filius dexterae»). Quest’esempio, come quello della moglie di Fineo che chiamò il figlio Iacabod, cioè ‘figlio della mestizia’ (Ecclesiastico 7,19: in realtà ‘senza gloria’, alludendo alla perdita dell’Arca), vengono utilizzati nel suo De contemptu mundi (I, vi, 2) da Lotario di Segni, il futuro papa Innocenzo III, ad additare l’eccezionalità dei dolori del parto (cf. D’Antiga 1994: 40 e 188); peccato che D’Antiga non abbia messo in rilievo la differenza fra i due episodi, il primo legato al dolore fisico e l’altro a quello spirituale, puntualmente segnalati dai due lemmi «filius doloris» e «filius meroris» (e peccato, anche, che le citazioni bibliche del testo, «non sempre corrispondenti alle citazioni di Lotario», siano state riprese dall’«edizione della Bibbia poliglotta» [p. 26] invece che dalla Vulgata o dalla Vetus Itala). 84 È proprio quest’interpretazione, che era moneta corrente per tutti i conoscitori della storia, che ha permesso di ipotizzare, dietro il «cor tristan» di una lirica di Cercamon, un precoce richiamo all’eroe di Cornovaglia. Per uno studio più recente sul nome di Tristano si rimanda a Chocheyras 1993, incentrato essenzialmente sulla radice etimologica delle due forme del nome, Tristan / Tristram, da ricondurre alla coppia triste / tristre (dove la seconda forma sarebbe la più antica) indicante il luogo di appostamento dei cacciatori e che, di conseguenza, non riesce a giustificare l’equazione romanzesca Tristram = trist hum. Per un breve cenno alla fortuna di questa etimologia, fino a Leopardi, si rimanda a Sasso 1990: 113-14 e N5. 85 Per quest’allitterazione sul nome proprio cf. Branciforti 1990: 208-09. Cf. anche precedente N80. 86 Ed. De Robertis 1980: 29-30. La formula dantesca, analoga alla precedente, sempre dalla Vita Nuova, porta in direzione di una pronominatio più che di una semplice interpretatio come Sembrerebbe di poter concludere che la formula estre apelez / essere chiamato introducono non più il droit non, il nome (completo di significato proprio, cioè di interpretatio) ricevuto al fonte battesimale, quanto piuttosto, almeno nella maggioranza dei casi, il senhal, l’appellativo usato dagli altri (altrimenti detto la pronominatio). Una prova a conforto di quest’ipotesi si può reperire in un romanzo quasi contemporaneo al Cligès, l’Eracle di Gautier d’Arras 87 ; nel presentare questo personaggio, nato miracolosamente grazie all’intervento divino, Gautier dice (v. 225-28): si l’apielerent Diudonné por ce qu’issi l’ot Dius donné; puis fu nonmés el baptestire Eracles, ensi l’oï dire. È proprio l’individuazione di un uso differenziato dei verba dicendi che accompagnano il nome proprio o la pronominatio 88 a riproporre, su altre basi, il suggerimento che il nome Maboagrins, presente nell’Erec et Enide (v. 6082: «Maboagrins sui apelez») 89 , non sia in realtà il vero nome del cavaliere prigioniero nel giardino incantato della Joie de la cort quanto piuttosto una pronominatio 90 , suggerimento indirettamente confermato dal precedente v. 6020 («li rois Evrains, cui niés je sui») che farebbe propendere per un appellativo originario Map Evrain 91 . 200 Simonetta Bianchini vorrebbe De Robertis. D’altra parte a questa conclusione sembrerebbe condurre anche il commento di Boccaccio (ed. Ricci 1965: 377): «il cui nome era Bice, come che egli sempre dal suo primitivo, cioè Beatrice, la nominasse» (corsivi miei). 87 Ed. Raynaud de Lage 1976. Per la datazione (tra il 1176 e il 1184) si rimanda all’introduzione, p. X-XI. 88 Un esempio, senza voler entrare nel merito dell’attribuzione del romanzo, anche nel Guillaume d’Angleterre, v. 30: «on l’apele le roi Guillelme»; in questo caso la forma estre apelez è determinata non dal non essere Guillelme il vero nome del re, ma dal fatto che il nome è preceduto dal titolo onorifico, le roi, che funge da prenomen: la formula si riferisce quindi all’unità inscindibile di nomen e prenomen. In seguito, infatti, al v. 1052 troviamo: «qui ot a non Gleolais»; viene qui usata l’altra formula, avoir (a) non, perché Gleolais è il solo (e vero) nome del personaggio e non è accompagnato dal titolo. Altre attestazioni in tal senso sono numerose; per esemplificare ne bastino due, tratte dall’Erec et Enide di Chrétien: «Mes dites moi, nel me celez, / par quel non estes apelez? » (v. 1054-55; l’interesse è rivolto all’identificazione, non al vero nome del vincitore); «recreant vos apelent tuit» (v. 2551). 89 In modo quasi analogo a quello più noto del Perceval (per cui si rimanda al precedente §1.2), il personaggio aveva scoperto il proprio nome solo al momento di essere armato cavaliere, considerato una sorta di secondo battesimo (v. 6087-88): «car onques tant con vaslez fui, / mon non ne dis ne ne conui». Per la discussione su altri casi di eroi che conoscono tardi il proprio nome si rimanda a Pioletti 1992: 18. 90 Come, d’altra parte, la presenza del verbo apeler in un caso analogo nell’Escoufle potrebbe essere imputabile all’incertezza sulla realtà del nome (v. 1762-63: «Li parin l’ont fait apeler, / Je cuit, Guilliaume en droit bautesme»); per quest’ultima possibilità si rimanda a Dragonetti 1987: 74. 91 Secondo Loomis 1949 questo personaggio dovrebbe invece la prima parte del nome al ricordo di Apollo Maponos, presente nelle iscrizioni romane di ambiente britannico (p. 165) e la seconda parte a Irain, fratello di Mabon, anche in base alla considerazione che «such compounds 4.1.2. Questa differenziazione doveva essere abbastanza diffusa anche al di fuori degli ambienti letterari 92 . Ritroviamo infatti diverse espressioni dalle quali sembrerebbe di poter evincere un diverso significato dei due verbi, dicere e vocare, il primo usato ad indicare il nome latino, quindi quello usato al fonte battesimale, e il secondo per indicare la forma volgare, quella comunemente usata nei rapporti privati, almeno a giudicare da uno schema genealogico trascritto sul dorso di una pergamena lucchese del 990 93 . Abbiamo infatti «Guido episcopus dedit . . . Fralino filio [quondam] Cuneradi qui Cunitho vocabatur»; «de Cunitho qui dictus est Cuneradus»; «Guinildo qui Guinitho vocabatur» 94 . Vocari indicherebbe, quindi, un cambiamento di nome, sia la forma volgare contro quella latina sia il nome religioso contro quello laico sia quello dinastico contro quello di nascita, e l’impressione verrebbe avvalorata da una carta del 1173 proveniente dal Chartularium dell’Abbazia di Clairfont: «Guiricia, quae postea Agnes in Confirmatione vocata est» 95 , mentre dici sarebbe riservato al nome ricevuto al fonte battesimale (ibidem, dal Liber de fundatione Monasterii Gozecencis, anno 1088): «Haec proprio nomine dicta fuit Hilaria; sed quia lingua Theutonica non facile promit Latina vocabula, nomen mutavit Uda», confermato dalla formula proprio nomine, identica al propre nun o droit non incontrato in precedenza 96 . 201 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes are not unknown to the romancers» (p. 178); Loomis rifiuta quindi l’opinione di Bruce 1928: 109 N16 secondo il quale la seconda parte del nome deriverebbe da Evrain, un’opinione, quest’ultima, già accolta a testo da Flutre 1962: 126 che accetta comunque, per la prima parte del nome, la derivazione da ‘Mabon’: «Mabonagrain, géant, neveu d’Evrain, Erec (= Mabon + Evrain)». Di avviso contrario, e giustamente, Bezzola 1968: 220 che arriva a non considerarlo neanche un nome: «Il n’a pas de nom parce qu’il n’a pas de mission dans la vie. Il s’appelle Mabonagrain ce qui n’est qu’un déguisement celtique de ‘fils d’Evrain’». Il tipo di composizione nominale, e di conseguenza la sua interpretatio, sono affini a quelle di Druidain, personaggio della Vengeance Raguidel (v. 4392-96): «Ça vien, di nos, quel non tu as! - / Drüidain, li fius Drulias. / Et por ço ai non Drüydain / Que je doi estre drus Idain, / Ele ma drue et je ses drus.» (corsivo mio). 92 L’uso moderno, che distingue tra l’aver nome e l’essere chiamato, non è che una continuazione di quanto fin qui esaminato. Quest’analisi serve essenzialmente ad individuare i casi di pronominatio, non sempre così perspicui. 93 Contenuta nell’Archivio Guinigi e datata 21 giugno 990, è stata mostrata e commentata paleograficamente da Armando Petrucci nel corso del seminario «Recto / verso», tenuto il 3 aprile 1995 all’Università «La Sapienza» di Roma. Un esempio analogo, ma più esplicito, nell’autobiografia di Guido Faba: «Hic nempe Guido ab ipsis cunabulis nominatus, qui ab effectu rei hoc prenomen Faba annis puerilibus acquisivit»; cf. Kantorowicz 1941-43: 278. 94 C’è una quarta formula, «Gerardus qui Morecto dicebatur», che sembrerebbe contravvenire lo schema fin qui individuato; in questo caso Morecto può però essere interpretabile come un sornon (miei tutti i corsivi, qui e nel testo). Ma c’è un caso molto noto che porterebbe a confermare dici come sinonimo di vocari, e quindi sempre come verbi introducenti una pronominatio; nella Prefatio (47) alla sua Expositio seu Comentum super ‹Comedia› Dantis Allegherii Filippo Villani così introduce il nome di Dante: «Huic in fontibus sacris Durante nomen fuit, sed de more florentine facetie sincopato nomine dictus est Dante» (ed. Bellomo 1989: 41). 95 Si cita da C. Du Cange, Glossarium . . . latinitatis V: 603 (corsivo mio). 96 Da quanto finora detto si potrebbe evincere, al di là di altri dati, che Lot, il nome del padre di Galvano, è il propre non del personaggio, almeno dal gioco onomasiologico condotto sulle rime dei v. 59-64 del Lai de l’ombre di Jean Renart (cil ot : Loth : dison : non : ot) e studiato da Picchio Sembra di poter distinguere due diversi momenti dell’imposizione del nome, quello del battesimo e quello, successivo, del definitivo accoglimento nella società, quindi del matrimonio per le donne (per cui si rimanda all’episodio dell’Erec discusso in precedenza) e della nomina a cavaliere per l’uomo; l’espressione utilizzata da Maboagrin per indicare il momento in cui è venuto a conoscenza del proprio nome (a conoscenza, appunto, perché in realtà era già provvisto di quel nome), è molto simile alla formula utilizzata per dire il nome di Enide: il primo «conosce» e dice il proprio nome al momento di essere armato cavaliere (prima era solo «il nipote del re Evrain») così come per la seconda il nome sarà conosciuto da tutti (anche da lei? ) solo al momento del matrimonio. La situazione si presenta quindi identica a quella annotata da Frazier, con l’ovvia trasposizione in una civiltà dove importanza fondamentale riveste il ruolo dell’individuo nella società; una situazione reale 97 che nella narrativa verrebbe in tal modo solo ripetuta, non inventata. Se questa sembra essere una situazione abbastanza generalizzata anche nella produzione romanzesca di Chrétien de Troyes, il Cligès sembra distaccarsi ancora una volta dalla «norma» che regola gli altri romanzi: le conclusioni che si possono fin qui trarre sono che in questo romanzo non si trova alcun accenno alla realtà, potremmo dire burocratica, delle norme sociali e la scelta del nome risponde ad esigenze che sono solo narrative: il nome non cambia né viene ritardato, ma in compenso è sempre portatore di un significato, sia proprio, quando siamo in presenza di una nominatio, sia attribuito, nel caso di pronominationes. 4.2. Angrès è il nome del conte traditore, colui al quale Artù aveva affidato il suo regno e che, in sua assenza, cerca di impadronirsene. L’aggettivo angres significa, etimologicamente ( ingressum), ‘violento’, ‘impetuoso’, ‘feroce’, ‘crudele’. Come fa giustamente notare Maddox 98 la figura di Angres, il conte traditore, ripete quella di Mordred nel Roman de Brut di Wace e anche il momento narrativo è lo stesso nei due romanzi 99 . Artù sta per partire per mare e A Modret, un de ses nevuz, Chevalier merveillus e pruz, Livra en guarde Artur sun regne E a Ganhumare, sa feme. 202 Simonetta Bianchini Simonelli 1975: 37. Si avverte, comunque, che quanto finora ho esposto è da interpretare solo come punto di partenza per uno studio più approfondito, e soprattutto condotto su un numero molto più esteso di testi, sia letterari sia documentari. 97 Basti pensare, per quanto riguarda l’aspetto «maschile» della questione, i frequenti nomi dinastici, ossia il cambiamento, al momento di ricoprire la carica, del nome di battesimo con quello tipico della dinastia di cui si fa parte, sia per nascita sia per diritti altrimenti acquisiti. 98 Maddox 1991: 10. 99 Nel Brut, però, Ginevra condivide in parte la colpa di Mordred, mentre nel Cligès la funzione della regina viene messa in evidenza, e al sicuro da ogni possibile sospetto, anche dal suo rimanere al fianco del re (cf. anche precedente §3.2). Il rovesciamento di posizioni tra i due romanzi viene additato dallo stesso Chrétien che nel prologo del Cligès (v. 16-17: «ala de Grece an Engleterre, / qui lors estoit Bretaigne dite») utilizza una formula inversa a quella utilizzata da Wace pochi versi prima (v. 11155-56: «de Bretaine, sa propre terre, / que l’um or claimed Engleterre»). Modret esteit de grant noblei Mais n’esteit pas de bone fei (Brut, v. 11173-78) A cui il porra comander Eingleterre tant qu’il reveingne, Qui la gart an pes et mainteingne. Par le consoil de toz ansanble Fu comandee, ce me sanble, Au conte Angrés de Guinesores, Car il ne cuidoient ancores Qu’il eüst baron plus de foi An tote la terre le roi (Cligès, v. 426-34) Come aggettivo si trova molto spesso in dittologia (sinonimica? ) con felon, fin dalla Chanson de Roland (v. 3251: «en la bataille sunt felun e engres») e anche il conte è definito felon (v. 1067-68: «felon / qui pires est de Guenelon» e v. 1920: «se fel et traïtres ne fust»). Una caratterizzazione che ben si attaglia alla figura del conte Angrès si trova nelle Fables di Maria di Francia (49, v. 25-29): Tut altresi est de malvais, Des tresfeluns et des engrés: Quant uns prozdum les met avant . . . Tuz jurs li funt hunte et ennui Siamo quindi in presenza di un nome parlante, un altro caso di interpretatio non esplicita. 4.3. Thessala, la nutrice di Fenice, è il prototipo della maga (v. 2982-90): Sa mestre avoit non Thessala, Qui l’avoit norrie d’anfance, Si savoit molt de nigromance. Por ce fu Thessala clamee Qu’ele fu de Thessalle nee, Ou sont feites les deablies, Anseigniees et establies. Les fames qui del païs sont Et charmes et charaies font. Il suo nome deriva dalla Tessaglia, considerata patria di maghe e fattucchiere, forse sulla scia di Medea quale viene tratteggiata nel Roman de Troie (v. 1221-22: «Astronomie e nigromance / Sot tote par cuer dès enfance», ripresi nei successivi v. 1419-20: «Mais jo sai tant de nigromance, / Que j’ai aprise dès m’enfance» 100 ), alla 203 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 100 La fortuna di questo couplet, forse direttamente dal Roman de Troie (ma anche il Cligès era ben conosciuto), sembrerebbe dimostrata dal Roman de Renart VI, v. 1123-24: «Renars sot letres de s’enfance, / Molt ot oï de nigromance». È però da precisare che questa coppia di rimanti è legata, già da quest’epoca, all’immissione di elementi magici nella narrazione, per cui cf. Noble quale Thessala viene accostata sia esplicitamente (sa di incantamenti «plus c’onques Medea n’an sot», v. 3011), sia con numerosi richiami intertestuali. In Thessala, però, si riprende solo l’aspetto magico della tessala Medea, mentre nel Roman de Troie viene caratterizzato anche l’altro aspetto delle genti di Tessaglia, il loro essere selvaggi e indomiti: non a caso Medea è una desdegneuse d’amor 101 . Maurice Wilmotte 102 , in un più generale tentativo di accostare il Cligès alla storia di Apollonio di Tiro, addita anche la possibilità di un’uguale interpretatio nominis nelle due opere: Thessala, così nominata dalla natia Tessaglia, potrebbe essere in ciò accostata a Tharsia, la figlia di Apollonio che prende il nome dalla natia Tarso. Nel caso di Thessala (come in quello di Tharsia nell’Apollonio di Tiro) l’interpretatio nominis, come primo attributum personae nella descrizione (secondo l’Ars di Matteo di Vendôme, I, 78), viene ad ampliarsi per sovrapposizione con il secondo attributo, quello a natura (I, 79), più precisamente il sottogruppo dell’attributum a natione vel a patria, meglio ancora il secondo sottogruppo (I, 82): distat autem inter patriam et nationem, quia natio secundum genus suae linguae consideratur, patria vero secundum locum originalem 4.4. Il modo in cui viene introdotto il nome del servo di Cligès, Jehan, fa pensare che anch’esso possa, o debba, avere un’interpretazione. La presentazione del personaggio, e del suo nome, è strettamente collegata ad una situazione di sudditanza (v. 5363: «Jehanz a non et s’est mes sers») ribadita, quasi con gli stessi termini, nel dialogo tra i due (v. 5472: «Tu es mes sers, je sui tes sire»), e lo stretto parallelismo instauratosi tra le due precisazioni si ripete nell’insistenza sulle conseguenze della fedeltà di Jehan. Ai v. 5374-75 («Et se je i puis foi trover, / Lui et ses oirs toz franchirai») fanno infatti eco, con una minima amplificatio, i v. 5476-79: Mes s’an toi fïer me pooie D’un mien afeire a coi je pans, A toz jorz mes seroies frans Et li oir qui de toi seront una promessa che si attualizzerà nei successivi v. 5621-22, quando il sers Jehan diventerà amis, suggellando anche nell’appellativo la sua liberazione («Jehan amis, / Vos et trestoz voz oirs franchis») 103 . 204 Simonetta Bianchini 1992: 249-50; sarà anche da aggiungere che la nigromance risulterebbe essere praticata soprattutto dalle donne nonostante la presenza, in origine, del mago Virgilio. 101 Cf. ed. Pasero 1973: 10 N10. 102 Wilmotte s.d. 103 I due momenti sono evidenziati anche dal parallelismo tra il v. 5375 e il successivo v. 5622. Senza voler avanzare in questa sede delle ipotesi che avrebbero bisogno di ben più solidi appigli, vorrei limitarmi a far notare come la precisazione del v. 5472 del Cligès, appena citata, sia identica a quella rivolta da Dio (Figura) ad Adamo nell’omonimo Jeu: «Tu es mon serf e jo ton sire», subito dopo il peccato del progenitore (r. 765; ed. Noomen 1971: 45). Mentre però nel romanzo Jehan vedrà estendere il premio per la sua fedeltà anche agli eredi, come si è appena visto, nel Jeu Adamo, serf di Dio, tradirà la fiducia accordatagli e trascinerà nella punizione se stesso e la L’interpretazione più probabile porterebbe a S. Giovanni (Battista? ), interpretato da S. Girolamo come «Dominus gratia eius» 104 , come pure, con minimo ampliamento, da S. Pier Damiani «Ioannes, qui interpretatur in quo est gratia Dei, et veterem et novam legem repraesentat». Fasani 105 , in base al parallelismo instaurabile tra i v. 150 e 154 della canzone dantesca Doglia mi reca ne lo core ardire 106 bella, saggia e cortese la chiaman tutti, e neun se n’accorge, quando suo nome porge, Bianca, Giovanna, Contessa chiamando arriva all’interpretatio Giovanna = saggia, forse riconoscibile, pur all’interno di un’aggettivazione topica, anche in un’attestazione oitanica: El non Jehanne la contesse, qu’est de Flandres dame et mestresse, la vaillant dame et la senee 107 In quest’ottica Jehan dovrebbe il suo nome all’esperienza in tutte le arti, alla sua bravura eccezionale (sa far tutto meglio di chiunque), come Chrétien puntualizza per bocca di Cligès (v. 5364-68): N’est nus mestiers, tant soit divers, Se Jehanz i voloit entandre, Que a lui se poïst nus prandre, Car anvers lui sont tuit novice Com anfés qui est a norrice. Permangono, però, molti dubbi, soprattutto perché la saggezza dovrebbe essere sempre quella divina, non identificabile con una qualsiasi abilità terrena (e men che mai manuale). La chiave di lettura dovrebbe risiedere proprio nell’insistenza sulla fedeltà del servo nei confronti del padrone, tale da arrivare al riscatto finale, una fedeltà che viene ribadita anche nel discorso che Jehan fa all’imperatore Alis, verso la fine del romanzo; i versi in questione si trovano in tutte le redazioni manoscritte tranne quella di Guiot, presa a base sia dell’edizione di Micha sia di quella Gregory e Luttrell. Rispetto a Micha, che riporta i versi solo nell’apparato delle «notes critiques et variantes» 108 , Gregory e Luttrell integrano il testo di Guiot (v. 6533-36): 205 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes sua progenie (r. 826-29; ed. cit. p. 47): «En tel hahan, en tel damage / as mis toi e tun lignage. / Toit ceals qui de toi istront / li ton pecché ploreront». 104 In questa direzione si muove Boccaccio, nel Filocolo (IV, 1, 13), nell’offrire l’interpretazione del proprio nome: «’l suo nome sarà pieno di grazia»; cf. anche ed. Quaglio 1967/ I: 844 N24, e Pioletti 1992a: 72. 105 Fasani 1993: 19-20 e N4. 106 Ed. Barbi/ Pernicone 1969: 623 (corsivi miei). 107 Manessier, v. 42643-45. Si cita da van Coolput 1977/ I: 336 (corsivi miei). 108 Ed. Micha 1968: 15. I versi in questione sono presenti anche nell’ed. Förster 1884: 270 e in quella, pur al seguito di Guiot, di Walter 1994: 331. . . . Voire, aprés lui, Ne je meïsmes miens ne sui Ne je n’ai chose qui soit moie Se tant non com il la m’otroie. Alla figura di S. Giovanni Battista, «venuto sulla terra per annunciare il Messia», ovvero la verità incarnata, sembrerebbe ricondurre anche l’insistita puntualizzazione sulla credibilità di Jehan, un’osservazione che rimarrebbe altrimenti senza una motivazione soddisfacente all’interno del romanzo (v. 6688-92): Avoec les messages qui vindrent Fu Jehanz, qui bien fist a croire, Car de chose qui ne fust voire Et que il de fi ne seüst Tesmoinz ne messages ne fust. La festa di S. Giovanni Battista segna una data importante nella narrativa oitanica: è una festa che si celebra all’inizio dell’estate, il 24 giugno, e costituisce un termine ricorrente nella narrativa oitanica. Oltre agli esempi offerti dall’Yvain di Chrétien 109 , un’altra attestazione tra le più famose è quella del Tristan di Béroul: è la data in cui scadono i tre anni d’effetto del filtro, e in cui Tristano e Isotta, esuli nel bosco, si rendono conto di ciò a cui hanno dovuto rinunciare per causa sua (v. 2147-49): L’endemain de la saint Jehan Aconpli furent li troi an Que cil vin fu determinez. Sarà comunque interessante aggiungere un’interpretatio che si trova nel Trésor di Brunetto Latini 110 : Nom est une propre et une certaine voix qui est mise a chascune chose, quant elle est appelee. Les ungs sont noms, les autres surnoms, et de l’un et de l’autre peut le parleur former son argument. Raison comment: Je di que cest homme cy doit estre bien fier, car il a nom Lyon, ainsi que dit l’Escripture que l’angle dist de saint Jehan Baptyste: «Il avra nom Jehan, pource que il sauvera le peuple» 111 . In quest’ottica rientrerebbe sia l’offerta di Cligès di liberare il servo in caso di aiuto sia la salvezza che Jehan offre ai due amanti, prima la costruzione della tomba 206 Simonetta Bianchini 109 In questo romanzo segna sia la data in cui Artù andrà a vedere la magica fonte sotto il pino (v. 669), sia quella in cui il protagonista dovrà tornare dalla moglie Laudine, pena la perdita del suo amore (v. 2576 e 2752). 110 Ed. Carmody 1948: 270; questo brano, dedicato all’argumentum a nomine, sembrerebbe un’interpolazione, ma ciò è ininfluente ai fini del nostro discorso; cf. Vielliard 1990. 111 Per cui cf. il vangelo di Luca, I, 60-79, soprattutto 71: «salutem ex inimicis nostris et de manu omnium qui oderunt nos». Da osservazioni sparse, che hanno ancora bisogno di essere organizzate, sembrerebbe di poter evincere una predilezione di Chrétien per questo vangelo. e quindi il dono della torre 112 , rifugio dei due giovani, nonché, alla fine del romanzo, la difesa ad oltranza davanti ad Alis: o servo suo veramente Giovanni! 4.5. Il nome del protagonista, Cligès 113 , è il più oscuro quanto a riferimenti che ne possano spiegare il significato e la funzione all’interno del romanzo; viene citato per la prima volta al v. 2364: L’anfant apelerent Cligés Finora non si è riusciti a capirne l’origine: non ci sono riusciti i vari editori 114 né Becker 115 . In epoca più recente Henry e Renée Kahane 116 hanno proposto un’origine «orientale» del nome, portando a sostegno della loro tesi alcuni dati storici: hanno seguito, in ciò, il metodo di Fourrier anche se spesso in aperto contrasto con quest’ultimo. I Kahane propongono infatti, come fonte storica, il nome del sultano di Iconio Kilidj Arslan II (1156-92): la forma bizantina del nome Kilidj, ossia k λ τ -, per di più suffissata alla bizantina, diventerebbe * Kλ τ ης o * Kλιτ ς con un non chiaro spostamento d’accento 117 (p. 115). Ci sono però troppi elementi che contrasterebbero questa teoria e che i due studiosi non riescono a spiegare in modo soddisfacente: Kilidj (che ruppe i trattati di pace con Bisanzio nel 1175: nel 1176 Manuele attaccò i turchi e fu sconfitto) è un re pagano e con questo appellativo, rex paganus o soldanus, era conosciuto nelle cronache occidentali; non era legato da vincoli di parentela con Manuele 118 ; in più non si capirebbe perché si 207 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 112 Per Stiennon 1969 il rapporto di sudditanza tra Cligès e Jehan rispecchierebbe la realtà del tempo, pur riconoscendo nel servo un tipo particolare, maistre e agiato, nonché colto. Tratteggiando con eleganza e non senza credibilità gli indubbi influssi dell’arte bizantina sull’occidente Stiennon 1969: 702 arriva alla conclusione che anche il nome di questo maistre non è completamente arbitrario, suggerendo come fonte il nome dell’architetto «Jean de Byzance, que Bréhier considère comme un des principaux artistes connus de l’art byzanti, et qui a travaillé vers 558, en collaboration avec Isidore le Jeune de Milet, à la reconstruction de la coupole de Sainte- Sophie à Constantinople». 113 Sarà incidentalmente da notare che, su sei volte che il nome compare in rima, in ben quattro casi (v. 2363-64, 3525-26, 4189-90 e 5573-74) è accompagnato da pres, apres, il che ci rassicura sulla pronuncia aperta della vocale tonica, di norma non segnalata nelle edizioni. Per tradizione di origine francese, accettata anche nell’ed. Gregory/ Luttrell 1993, questo nome è riportato con l’accento acuto (come pure le forme prés, aprés), altrimenti ne è privo; solo negli ultimi anni, anche in ambiente francese, si tende a trascriverlo con l’accento etimologico. 114 Affascinante ma improbabile la proposta di Méla (ed. Méla/ Collet 1994: 11) che in una variante (in verità minoritaria) Cligers pensa di riconoscere l’anagramma di clergie. 115 Becker 1942, in base ad una forma Cligès, inclusa in un elenco di «filosofi» nella Bible di Guiot de Provins e considerata errore di lettura di una supposta grafia di o ge ne s, indicante il filosofo Diogene (Laertio), pensa ad un’improbabile generalizzazione dell’errore, per di più retrospettivo. La proposta è interessante anche se inaccettabile. Hofer 1954: 109 N1 riporta, senza commenti, l’ipotesi di Becker pur avvertendo che «Der Name Cligés ist bis heute noch nicht erklärt». 116 Kahane 1961. La tesi dei Kahane trova l’accordo sia di G. Reichenkron sia di E.V. Ivanka. 117 Anche Sims-Williams 1999: 217 considera inattendibile (e non attestata) la base linguistica proposta dai Kahane. 118 Secondo Kahane 1961: 116 «poétiquement, leur antagonisme politique se transforme en antagonisme amoureux». sarebbe conservato questo nome, in fondo secondario per l’occidente, mentre il nome dell’imperatore di Bisanzio, Manuele, ben più importante per l’occidente e più conosciuto anche alla corte champenoise, si sarebbe trasformato in Alessio. A favore della tesi di Kahane ci sarebbe la notizia secondo la quale sarebbero state avviate trattative matrimoniali tra la figlia del Barbarossa e il figlio di Kilidj (o Kilidj stesso) nel 1173, trattative poi fallite per la morte della donna pochi mesi dopo (p. 117), progetti matrimoniali paralleli a quelli tra Federico Barbarossa e Manuele Comneno esaminati da Fourrier e anch’essi falliti. Anche le ultime osservazioni per appoggiare il proprio assunto non sono in realtà probanti: la descrizione del gineceo alla fine del romanzo (p. 118) rientra in un motivo letterario abbastanza diffuso in occidente 119 , e la notizia, riportata da Guglielmo di Tiro 120 , secondo la quale Manuele Comneno, dopo la sconfitta turca, arrivò ad uno stato di frustrazione tale da accompagnarlo fino alla morte, anche se è molto simile ai motivi della morte di Alis, rientra in descrizioni che le cognizioni mediche del tempo rendono quasi topiche. Ci sono per di più considerazioni d’ordine cronologico che portano a scartare quest’accostamento, perché Manuele muore nel 1180, troppo tardi perché Chrétien potesse prenderlo a modello 121 . Nell’ultimo decennio la tesi dei Kahane è stata contestata, anche se non completamente rifiutata, da Sims-Williams che propone a sua volta, su basi prettamente storico-linguistiche e con maggiore credibilità, l’eponimo Glywys, una fonte celtica che avrebbe dato origine sia a Cligès sia a Glygis, eroe di un lai bretone ora perduto ma di cui rimarrebbero tracce nel racconto medio inglese di Sir Cleges 122 . L’accostamento dei due nomi, Cligès e Cleges, era già stato proposto sia da Jessi Weston 123 sia, più recentemente, da Mary Elisabeth Housum 124 , anche se 208 Simonetta Bianchini 119 Un accenno già in Guglielmo IX d’Aquitania. 120 Historia rerum in partibus transmarinis gestarum, XXI, 12 (Historia rerum in partibus transmarinis gestarum a tempore successorum Mahumeth usque ad annum Domini MCLXXXIV, edita a venerabili Guillelmo Tyrensi Archiepiscopo, in PL, CCI, col. 209-892, qui col. 826). 121 Kahane 1961: 119. I due studiosi utilizzano quest’ultima notizia per precisare ancor meglio, sulla scia di Fourrier 1950, la data del Cligès: la sconfitta di Miriocefalo data al settembre del 1176, quindi il romanzo sarebbe degli ultimi mesi di quell’anno. Le tesi storiche di Fourrier, confutate a p. 120 (l’inversione dei ruoli: figlia / figlio del Barbarossa, ecc.) per dimostrare la realtà storica attraverso Kilidj, continuano a non reggere perché anche questo progetto fallisce, e prima del 1176 (precisamente nel 1173); d’altra parte i Kahane devono parlare di «tipizzazione» di un carattere storico nel romanzo (p. 121) per poter spiegare tutti i punti oscuri che ancora permangono. L’ipotesi dei Kahane verrebbe posta in dubbio anche da un brano del romanzo cristianiano nel quale l’iperbole sembrerebbe ricondurre, pur nella topicità di simili citazioni, più ad ambiente arabo-iberico che medio-orientale: «S’or fust Cligés dus d’Aumarie / Ou de Marroc ou de Tudele, / Nel prisast il une cenele» (v. 6310-12). 122 Sims-Williams 1992; in questa sede è stato pubblicato solo il riassunto della comunicazione, mentre l’intero saggio è stato pubblicato in seguito, con lo stesso titolo. Sims-Williams 1999: 217 rifiuta la tesi Kahane anche perché «The simple name Kηλ τ representing Kilic does not appear in Greek sources until the turn of the twelfth to the thirteenth century, and it is far from the posited form * Kλι(τ) ης ». 123 Weston 1902. 124 Housum 1988. ambedue le studiose avevano messo in luce la mancanza di qualsiasi rapporto narrativo tra i due personaggi; a questo si aggiunga che secondo il MED (Medieval English Dictionary), addotto dalle ultime editrici del poemetto, il termine clege avrebbe il significato di ‘horsefly’ «which may be a joking comment on Cleges’ horselessness later in the poem» 125 . L’unico motivo narrativo che accomunerebbe le due storie e che non mi risulta ancora messo in luce, sarebbe quello della grande generosità, ammirabile e nei limiti del giusto nel Cligès, eccessiva fino a configurarsi come difetto nel poemetto inglese dove si racconta di un cavaliere impoveritosi per la sua prodigalità 126 . Se finora ci si è occupati essenzialmente dell’origine del nome, è proprio la formula usata per presentare questo personaggio, apelerent, che fa pensare non ad un vero e proprio nome quanto ad una pronominatio, a meno di non voler ipotizzare una scelta del nome non ancora «ratificata» dal battesimo 127 . Nell’impossibilità di raggiungere certezze aggiungo per completezza un’ultima ipotesi. Sempre per muoversi in un ambiente linguistico greco, come d’altronde la forma del nome, oltre che l’ambientazione del romanzo, farebbe supporre, si può pensare ad una derivazione dal participio aoristo passivo del verbo k λ ω (radice klit), quindi k ληγεισ (dove la η era già iotacizzata nella pronuncia bizantina) che vuol dire ‘il famoso’, ‘il nominato’, ‘l’inclito’. A favore di questa base linguistica si può addurre la documentazione della forma latinizzata (ma solo di ambito inglese) clitunculus, attestata verso il 1118 con il significato di ‘principe, erede legittimo al trono’ 128 ; in questo caso la radice verbale renderebbe conto della prima parte del nome del protagonista, mentre il significato ben si attaglierebbe a Cligès, «legittimo erede al trono» di Costantinopoli, così come viene più volte ribadito nel corso del romanzo. La radice clitsembrerebbe d’altronde già in grado di generare nomi propri, almeno a giudicare dall’onomastica medievale, in special modo quella legata alla storia di Alessandro Magno: troviamo qui più di un personaggio il cui nome è Clitus o Cliton 129 , il che dimostra la vitalità della forma latina an- 209 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 125 Ed. Laskaya/ Salisbury 1995: N al v. 7 (ora consultabile anche nel sito Internet www.lib. rochester.edu / camelot/ teams/ cleges.htm). 126 La prodigalità costituisce uno dei pericoli insiti nella generosità, come risulta anche dalle parole che Walter Map aveva già attribuito ad Enrico il Liberale: «comes Campanie, Henricus filius Teobaldi, omnium largissimus, ita ut multis prodigus videretur, omni enim petenti tribuebat; et inter colloquendum laudabat Reginaldum de Muzun, nepotem suum, in omnibus excepto quod supra modum largus erat. Ego vero sciens ipsum comitem tam largum ut prodigus videretur, subridens quesivi si sciret ipse terminos largitatis. Respondit: ‹Ubi deficit quod dari potest, ibi terminus est; non enim est largitatis turpiter querere quod dari possit›» (Walter Map, De nugis curialibus,V, v: De primo Henrico rege Anglorum et Lodovico rege Francorum, Latella 1990: 604). 127 Sul cambiamento del nome al momento del battesimo si veda, oltre a quanto detto finora, Lachet 1986: 121; per l’importanza del (nome al) fonte battesimale e del padrino / madrina di battesimo cf. Guerreau 1982: 67. 128 Cf. Latham 1965: 92: «clit/ o (? ) 938, c 1000, c 1100, a 1142, -on 10 c. 12 c., -unculus c. 1118, prince, atheling»; da notare che questo significato coinciderebbe con quello riportato da Sims- Williams 1999: 220: Glywys, secondo Williams e Thomas, «derive . . . from Welsh glyw ‘lord’». 129 Cf. Grosman 1997: 136-37. che in ambiente già romanzo. D’altra parte proprio questa radice potrebbe essere ipotizzabile come base anche del nome Glygis proposto da Sims-Williams. Se si tiene per buona quest’ipotesi allora la situazione narrata nel Cligès ripete quella di Tristano, nipote e, di diritto, erede di re Marco, e il nome dei due eroi porterebbe in due direzioni opposte: uno, quello di Tristano, dovuto al dolore che ne aveva segnato la nascita, verso un’uguale dolorosa continuazione e fine, e l’altro, quello di Cligès, additerebbe la soluzione positiva di una storia simile a quella di Tristano, mettendo in evidenza l’aspetto sociale del personaggio, la conquista del trono, suo per diritto dinastico, e della donna, sua per diritto d’amore 130 . Come si vede ci si continua a muovere nel campo delle ipotesi che, in quanto tali, e per di più plurime, non aiutano certo a far avanzare la ricerca. Si può fare solo una congettura. Questa seconda parte del romanzo cristianiano si pone, per esplicita volontà dell’autore, come un anti-Tristano e proprio per questo motivo la protagonista femminile si chiama Fenice (cf. §2.2): per analogia anche il nome del protagonista maschile dovrebbe rispecchiare la stessa opposizione a Tristano, ma un’opposizione giocata sul nome (Tristano = trist hum) oppure sulle sue qualità o caratteristiche? Certo è che se si potesse arrivare all’interpretatio nominis di questo personaggio si avrebbe la chiave di lettura di tutto il romanzo e l’idea che Chrétien aveva dell’amore cortese. 5. In questo romanzo Chrétien sembra utilizzare tutti i possibili giochi onomasiologici sul nome proprio. Il fatto che ci siano solo due interpretationes esplicitate 131 sarà forse da attribuire alla funzione dei due personaggi all’interno della narrazione, una funzione perfettamente interpretata dai due «nomi parlanti». In un romanzo costruito retoricamente su più livelli interpretativi, e per ciò stesso indirizzato a differenti tipi di pubblico, l’interpretatio esplicita entra a far parte della littera dell’opera, ed è quindi diretta ad un pubblico meno culturalmente preparato e quindi bisognoso di spiegazioni per poterla comprendere, anche se ciò non è sinonimo di pubblico ignorante; le interpretationes non esplicite riguardano invece il senso riposto, in questo caso figurale, dell’opera, rivolto quindi ad un circolo di fruitori culturalmente più avvertiti e in grado di «glossare» l’opera, probabilmente proprio quel circolo poetico del quale avevano fatto parte, oltre a Chrétien lirico, poeti come Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga, Giraut de Bornelh, Peire d’Alvernha e così via 132 . 210 Simonetta Bianchini 130 Anche in questo caso, se la mia ipotesi è attendibile, si avrebbe una contrapposizione alla storia di Enea che aveva conquistato il territorio attraverso la conquista della donna. 131 Quelle delle eroine delle due parti del romanzo, Soredamors e Fenice: da ricondurre, forse, al supposto mecenatismo al femminile della corte di Champagne? Cf. al proposito Lejeune 1954 e Lejeune 1958. 132 Per una bibliografia essenziale sull’argomento si rimanda a quella citata nella precedente N34. Ulteriori approfondimenti sui rapporti tra questo romanzo e i trovatori che hanno «dialogato» con Chrétien in S. Bianchini, Chrétien de Troyes, Cligès, di prossima pubblicazione nella collana Biblioteca medievale. Nell’ambito della produzione narrativa cristianiana l’interpretatio nominis, lungi dall’essere una presenza costante, sembra tracciare una parabola: pressoché assente, come già si è accennato, nel primo dei grandi romanzi, l’Erec et Enide 133 , è invece particolarmente accentuata nel Cligès, mentre nei romanzi successivi la sua presenza si fa sempre più rara. Nell’Yvain troviamo due paragoni, quello tra Lunete e la luna (v. 2411-16; corsivo mio): Et de celi refaz la lune dom il ne puet estre que une, de gran foi et de grant aïe. Et ne poroec, je nel di mie seulemant par son grant renon, mes por ce que Lunete ot non e l’altro tra Gauvain e il sole (v. 2402-07; corsivo mio): Cil qui des chevaliers fu sire et qui sor toz fu reclamez doit bien estre solauz clamez. Por mon seignor Gauvain le di, que de lui est tot autresi chevalerie anluminee, come solauz la matinee Di questi solo il primo può essere catalogato come una vera e propria interpretatio nominis («de celi refaz la lune . . . por ce que Lunete ot non»), mentre il secondo, pur se parallelo al primo, è inquadrabile in una proposta di pronominatio («doit bien estre solauz clamez»). Negli ultimi due romanzi, il Lancelot e il Perceval, l’interpretatio è sparita, il nome viene spesso sostituito da un epiteto, ossia da una pronominatio 134 , in forma perifrastica (il ‘Cavaliere dalle armi vermiglie’, l’‘Orgoglioso della Landa’, la ‘Laida Pucelle’, ecc.), così come si era visto nell’Erec. 6. Perché questa variazione tra le opere dello stesso autore? Tutto il Cligès sembra presentarsi come opera anomala all’interno della produzione cristianiana, un romanzo «dalla natura chiaramente retorica» che spinge Grigsby a chiedersi se «il diluvio di annunci del Cligès è sintomatico di un insuccesso estetico» 135 ; il sospetto di Grisby sembrerebbe richiamare la presa di posizione di Gaston Paris che, all’inizio del secolo, aveva concluso l’analisi di questo romanzo definendolo spre- 211 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 133 Secondo Delbouille 1957: 202-03 Guivret, il nome del re nano amico del protagonista (vero nome e non pronominatio; cf. Erec, v. 3848: «j’ai non Guivrez li Petiz»), deriva dal diminutivo di guivre francico wipera lat. vipera. Si tratterebbe dell’unico caso nel romanzo di interpretatio nominis non esplicitata, ma confesso di non essere riuscita a trovare, vista la connotazione negativa dell’eventuale interpretatio, un qualsiasi significato che si attagli al personaggio, né è stato proposto da Delbouille che si limita ad affermare: «se présente en a. f. avec les sens de ‘serpent’ et de ‘dragon’, aussi bien que de ‘javelot’ et de ‘flèche’» (Delbouille 1957: 203). 134 Anche il nome di Perceval rientrerebbe nella categoria delle pronominationes (= Perce Val) o epitheton, come lo definisce Donà 1998. 135 Grigsby 1988: 242. giativamente «un arrangement assez malhabile» 136 . Da parte mia credo che questi giudizi debbano essere in gran parte ribaltati: è infatti lecito parlare di insuccesso estetico o non sarà invece il caso di indagare in direzione di una «moda» letteraria, come dimostrerebbe l’Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, pubblicata proprio in anni vicini alla composizione del Cligès 137 ? Sarà da premettere che è difficile riuscire a risalire con certezza ad un trattato di retorica preciso: le varie figure (o colores), come pure le varie teorizzazioni, sono normalmente sempre le stesse, le variazioni sono minime e di norma si esplicitano in presenze o assenze di alcuni argomenti, o nel maggiore o minore spazio loro accordato, piuttosto che nel modo di trattarli. Nonostante ciò credo che valga la pena di controllare se l’ipotesi di dipendenza da un ben preciso manuale di retorica poetica, quale, ad esempio, l’Ars di Matteo di Vendôme possa essere validamente sostenuta. Una delle novità di questo trattato è quella di aver tanto insistito sul modo di iniziare un’opera, primo fra tutti con lo zeugma (Ars I, 4-12): 4. Est autem unus modus quando zeumatico utimur principio. Zeuma est quando diverse clausule verbo semel posito includuntur. 5. Zeuma siquidem tripliciter variatur: fit autem zeuma a superiori, ab inferiori, a medio. 6. A superiori, quando verbum in priori clausula positum ad sequentes clausulas sigillatim iteratur . . . 11. Zeuma ab inferiori est quando verbum in ultima clausula positum ad precedentes replicatur . . . 12. Zeuma a medio est quando verbum in medio positum ad precedentes et ad sequentes clausulas utrobique replicatur 138 Sarà da aggiungere che la definizione, di per sé, non è una novità di Matteo: la lunga tradizione che arriva fino al retore mediolatino passa anche per Quintiliano, conservando pressoché intatta la sua struttura (Institutio oratoria, ix, iii, 62-63): Tertia, quae dicitur epezeugménon, in qua unum ad verbum plures sententiae referuntur, quarum unaquaque desideraret illud, si sola poneretur. Id accidit aut praeposito verbo, ad quod reliqua respiciant . . . aut illato, quo plura cluduntur . . . Medium quoque potest esse, quod est prioribus et sequentibus sufficiat 139 puntualmente recepita da Isidoro (Etym., I, xxxvi, 3): Zeugma est clausula, quum plures sensus uno verbo clauduntur, quae fit tribus modis. Nam aut in primo, aut in postremo, aut in medio id verbum ponitur, quod sententias iungit 140 fonte diretta di Matteo per questa figura 141 . La novità di Matteo risiede essenzialmente nella predilezione accordata a questa figura, evidente anche dal modo in cui la introduce (Ars 1, 3): 212 Simonetta Bianchini 136 Paris 1912/ I: 307. 137 Cf. Faral 1924: 14. 138 Ed. Munari 1988/ III: 45-47. 139 Ed. Munari 1988/ II: 186. 140 Ed. Lindsay 1987: I. 141 Cf. ed. Munari 1988/ III: 28. In exercitio discipline versificatorie materia duobus modis inchoatur et elegantius potest inchoari. Sunt autem alii modi quattuor, quos quasi repudiatos lippis et tonsoribus relinquimus. Istos autem duos ad electionem auditoris proponimus 142 In poche parole, anche se esistono altri modi per iniziare un’opera questi sono diventati così banali che uno stile elegante può utilizzare solo lo zeugma o, eventualmente, il suo contrario, l’ipozeusi. Nel corso del trattato Matteo ritorna altre volte sullo zeugma, dimostrando anche in ciò l’importanza accordatagli: Amplius, ne traditio doctrinalis a docente dissonare videatur, in prefatis descriptionibus fere ubique aut zeuma aut ypozeusis potest assignari, et etiam alii colores sive scemata, de quibus in sequentibus evidentius dicetur (Ars I, 117) In correctione siquidem versuum clausulatim et distincte secundum zeuma vel secundum ypozeusim erit procedendum (Ars IV, 34) Si aggiunga a questo che tra i colores (o figurae o scemata) retorici che si ritrovano nel trattato di Matteo quello più evidenziato perché dà praticamente inizio, a parte lo zeugma e l’ypozeusis di cui aveva trattato all’inizio del primo libro, al capitolo sul modus dicendi 143 , è l’anafora (Ars III, 5: «Anaphora est per principia duorum versuum immediate positorum iterata positio»), figura che viene ulteriormente consigliata quando si arriva a parlare delle qualitates o modi dicendi, delle quali Matteo accetta 17 figurae (pur nominandone solo 14) 144 , «quae versificandi 213 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes 142 Ed. Munari 1988/ III: 45. Se l’accenno ai lippis et tonsoribus è ripresa da Orazio (Sat. I, 7, 3) e divenuta ormai proverbiale (si veda l’analoga espressione moderna «cani e porci»), pure richiama certi prologhi oitanici nei quali si puntualizza l’eccellenza stilistica della propria opera contro la banalizzazione operata dai conteurs, e per ciò stesso essa viene indirizzata solo ad un pubblico ristretto: si vedano, ad esempio, sia il Roman de Thèbes, v. 13-20, sia l’Alexandre di Alexandre de Paris, IV, v. 1685-87. 143 Che inizia proprio con l’analisi di un verso con applicato lo zeugma: «tu dominus, tu vir, tu mihi frater eras . . . Sunt enim tria scemata, scilicet zeuma ab inferiori, quia tres clausule sub hoc verbo eras in ultima clausula posito includuntur» (Ars III, 1). 144 In effetti le figurae nominate da Matteo sarebbero, nell’ordine, lo zeugma, l’ypozeusi (il contrario dello zeugma), l’anaphora, l’epynalensis (ripetizione di una stessa parola all’inizio e alla fine del verso), l’anadiplosis (ripetizione di una stessa parola dalla fine di un verso all’inizio del verso seguente; l’anadiplosi in forma interrogativa viene considerata la migliore; cf. Cligès, v. 510- 11: «sa volentez me fait doloir. / Doloir? », ma anche v. 514-15, ecc.), l’epyzeusis (ripetizione di una stessa parola nel verso, per accentuarne l’effetto), la paranomasia (ripetizione delle lettere iniziali o di quelle finali di due o più parole nel verso; identificabile con l’adnominatio condannata da Quintiliano e presente, come paronomasia, anche in Isidoro, Etym. I, xxxvi, 12 [cf. Picchio Simonelli 1978: 64-65]. Nel Cligès ha ampio spazio, arrivando a costituirsi anche come legame in rima di più couplets successivi), il paranomeon (ripetizione della stessa lettera o sillaba iniziale di tre - e non più di tre - parole successive: forse identificabile nel v. 45 del Cligès: «Crestïens comance son conte»), lo scesisonomaton (elenco di parole di significato simile; cf. Isidoro I, xxxvi, 13; un caso particolare è costituito dalle endiadi sinonimiche che abbondano nel Cligès), l’omoetholeuton (assonanza finale, consonantica o vocalica, di parole successive: cf. Cligès, v. 25: «qui tesmoingne l’estoire a voire»), il polipteton (fondato sulla presenza di terminazioni casuali diverse; non è possibile nel volgare), il polissinteton (accentuata presenza della copula; cf. prologo del Cligès v. 1-7) e il suo contrario, il dialiton o asinteton. exercitio possunt elegantius accomodari», ripetendone, ampliata, la definizione (Ars IV, 5): «Anaphora est per principia duorum versuum immediate positorum iterata positio, ut apud Juvenalem de Pontia: Tune duos una saevissima vipera coena? / Tune duos? » 145 . Tornando al Cligès si può osservare che Chrétien inizia il romanzo proprio applicando, nell’ordine, i tre tipi di zeugma 146 (v. 1-7): Cil qui fist D’Erec et d’Enide (a superiori) Et Les comandemanz d’Ovide Et L’ars d’amors an romans mist (ab inferiori) Et Le mors de l’espaule fist, (a medio) Del roi Marc et d’Ysalt la blonde Et De la hupe et de l’aronde Et Del rossignol la muance 147 e per di più viene applicata proprio l’anafora, quell’anafora che Freeman voleva invece mediata dalla storia di Alixandre en Orient 148 . Sarà interessante aggiungere che Matteo tende ad usare esempi familiares 149 , ossia tratti da propri scritti 150 , tecnica sintomatica di un’alta coscienza di sé e che trova riscontro proprio nel prologo dell’epistolario. Nella Raccolta epistolare di questo retore compaiono infatti tutte le opere che Matteo aveva pubblicato anteriormente al 1175 151 , anno nel quale si era trasferito a Parigi lasciando Orléans, dove aveva scritto l’Ars versificatoria: siamo in presenza di un vero e proprio catalogo delle proprie opere tal quale troviamo nel prologo del Cligès 152 . 214 Simonetta Bianchini 145 Faral 1924: 168. 146 Per quanto riguarda la sequenza dei tre tipi di zeugma indicati in Ars I, 5, l’ordine seguito varia nei diversi manoscritti relatori; per la discussione sull’argomento si rimanda all’apparato critico dell’ed. Munari 1988/ III: 45 che ristabilisce l’esatta sequenza, uguale a quella seguita, come si è visto, da Quintiliano, Donato, Isidoro, in base a quella che si trova nella successiva spiegazione (Ars I, 6, 11 e 12). 147 Dalle iniziali maiuscole adottate nell’edizione Gregory/ Luttrell 1993 (loro i corsivi) si evincerebbe che la metamorfosi dell’upupa e della rondine costituisce un mito differente da quello dell’usignolo (v. 6-7), mentre in realtà rientrano nel racconto della metamorfosi di Philomena; i due versi, per di più, sono legati da un accentuato enjambement, presente anche nei v. 2-3. 148 Freeman 1979: 37-38. 149 Di norma prende esempi da autori classici e quindi ne aggiunge altri propri; nel caso dello zeugma offre il primo esempio (a superiori) da Ovidio (Metamorfosi I 19), e tutti gli altri da propri scritti, spesso introdotti dalla formula «ut familiare inducamus exemplum». 150 Per quest’abitudine di Matteo, strettamente collegata alla sua autocoscienza artistica e utilizzata dagli editori per proporre paternità e datazioni relative, si rimanda all’ed. Munari 1988: II/ 24-25. 151 Per le poche e incomplete notizie biografiche su Matteo, ricavabili pressoché in toto dalla sua Raccolta epistolare, si rimanda all’ed. Munari 1988: II/ 23-24, che non porta novità rilevanti rispetto a quanto già detto da Faral 1924: 1-3. La proposta di datazione dell’Ars è in Faral 1924: 1-14, soprattutto p. 14: «est vraisemblablement issu d’un enseignement donné par Matthieu dans les écoles d’Orléans et a été achevé quelques années avant 1175». 152 Nel prologo delle Epistule di Matteo si trova un’enumerazione delle proprie opere, in distici elegiaci (v. 15-32), dove ogni singola opera è introdotta da nec (v. 19, 21, 25, 27, 29; ma non, in un minimo accenno di variatio, ai v. 17 e 23), retto da hausit di v. 15 («Venas quippe meas non 6.1. Quanto detto finora mostra affinità notevoli fra le due opere, quella romanza e quella mediolatina. Anche quanto si è osservato sul diverso trattamento della pronominatio, figura molto utilizzata nell’Erec ma tendente a scomparire nel Cligès a tutto vantaggio dell’interpretatio nominis, sembrerebbe trovare conferma nell’exemplum familiare 153 che illustra questa figura (Ars I, 78): Caesar ab effectu nomen tenet: omnia cedens Nominis exponit significata manus 154 In quest’interpretatio si può evidenziare la formula introduttiva del nome, nomen tenet, che fa pendant con l’analoga formula romanza avoir non. Sarà anche da aggiungere che per tutta l’Ars versificatoria, fin dal prologo, traspare la predilezione per la pronominatio, applicata da Matteo ad Arnolfo d’Orléans che viene sempre chiamato, dal colore rosso dei capelli (e per ciò stesso con una connotazione negativa), Rufus o Rufinus 155 , un artificio, e un esempio, che probabilmente aveva avuto ben più ampio spazio nel corso di lezioni tenuto da Matteo ad Orléans. Tutto quanto fin qui detto deporrebbe a favore di uno stretto rapporto di dipendenza tra il romanzo di Chrétien e l’Ars di Matteo, facendo pensare che Chrétien possa aver utilizzato proprio questo trattato di poetica per portare a compimento quello che, nelle intenzioni, doveva essere il suo capolavoro. A ben vedere, però, c’è un elemento, uno solo ma importante, che basta a mettere in discussione l’importanza di tutti i riscontri fin qui analizzati. Nel suo trattato Matteo mostra una notevole predilezione per l’enjambement, non estraneo alla poesia mediolatina ma fino ad allora usato con estrema parsimonia 156 . Egli è un maestro nell’uso del distico elegiaco, unico metro, d’altronde, da lui utilizzato 157 , e si contrappone in questo al suo grande contemporaneo, Gualtiero di Châtillon, fruitore esclusivamente di esametri 158 . Nell’ambito di questa 215 Interpretatio nominis e pronominatio nel Cligès di Chrétien de Troyes hausit Milo nec Afra»); si noti che anche qui Matteo si nomina al v. 2: «alumnus / Vindocinensis opus officiale parat» (e cf. Cligès v. 45: «Chrestiens comance son conte»), da collegare forse, pur nella «banalità» della formula (sulla sphragis nel medioevo vedi Klopsch 1967), all’explicit dell’Ars versificatoria (v. 34): «Explicit emeritum Vindocinensis opus» (analogo all’explicit del Cligès, v. 6762: «Ci fenist l’uevre Crestïen»). 153 L’esempio è tratto dalla precedente descrizione di Cesare (Ars I, 51, v. 31-32). 154 L’interpretatio del nome di Cesare deriva da Isidoro, Etym. IX, iii, 12 (cf. ed. Munari 1988/ III: 69). 155 Cf. Faral 1924: 2 N3. Si veda, per l’esplicitazione di questa pronominatio, Ars IV, 47: «quicquid dictum est de Rufo et Rufino, de Arnulfo de sancto Evurcio spiritualiter intelligatur» (ed. cit., III: 215). 156 Vedi Picchio Simonelli 1978: 85-87, soprattutto 85: se dopo l’epoca classica «gli esempi [di enjambement nella poesia latina] si fanno più rari non è perché la tecnica del lenimento allitterativo o assonanzato decada dall’uso, ma perché c’è una diffusa tendenza a conchiudere l’unità logico-sintattica nel sempre più complesso ritmo del verso». 157 Cf. Schmidt 1988: 133-34. Si veda, per Matteo, il Tobias, v. 2109-10, dove sarà da notare anche l’enjambement: «Vobis exametrum desit Galteridos: uti / Pentametris elegis Vindocinensis amat» (ed. cit., II: 249). 158 Si veda, per Matteo, il Tobias, v. 2109-10, dove sarà da notare anche l’enjambement: «Vobis exametrum desit Galteridos: uti / Pentametris elegis Vindocinensis amat» (ed. Munari 1988/ II: 249). scelta metrica assume un rilievo notevole l’enjambement, considerato da Matteo un artificio destinato a legare indissolubilmente fra loro i due versi del distico; il modo quasi perentorio con cui viene introdotta questa tecnica compositiva la addita come «tendenza quasi insopprimibile» del retore, includendola fra «i segni inconfondibili dello stile di Matteo e allievi» 159 . Viene così codificata nell’Ars versificatoria (IV, 34): In correctione siquidem versuum clausulatim et distincte secundum zeuma vel secundum ypozeusim erit procedendum: versum siquidem cum sententia numquam volo vel raro terminari, nisi ibi sit generalis sententia; immo sententia exametri usque ad pentametrum protendatur vel clausule pentametri ab exametro incipiant. Quippe exameter et pentameter sociale et indivisum habent officium: pentameter enim exametro vel eius exponendo sententiam vel concludendo debet pedissecari vel ancillari; dignum enim est ut, qui officium communicant, clausulis comitentur 160 Le osservazioni e i precetti che Matteo offre per il distico elegiaco sono, più che regole metriche in senso stretto, indicazioni (ma inderogabili: «numquam volo»! ) per l’exsecutio materiae e proprio per questo motivo possono essere applicabili anche a lingue diverse dal latino. Se si passa a considerare la narrativa oitanica, si vede che è organizzata metricamente in coppie di versi monorimi, il couplet di octosyllabes, in origine, come aveva fatto notare Paul Meyer, strettamente uniti dal senso: l’arrêt du sens a toujours lieu, dans les plus anciens de ces poèmes, après le deuxième vers d’un couplet 161 L’enjambement, quindi, è pratica abbastanza diffusa nella narrativa oitanica, mentre era inexistant, ou peu s’en faut, dans le décasyllabe et l’alexandrin de l’épopée, mais de plus en plus fréquent à partir de 1150 environ, dans l’octosyllabe des contes et des romans 162 In poche parole, quest’artificio si trova nel momento in cui l’assetto metrico ne consente un uso artisticamente rilevato (e rilevabile), quando, cioè, ci si trova ad organizzare coppie di versi e non quando la divisione metrica è affidata a lasse o strofe di lunghezza variabile. Già Frappier aveva notato la padronanza dell’enjambement nel primo dei grandi romanzi cristianiani, l’Erec et Enide 163 , e aveva così concluso: Dès l’époque où il composa son premier chef-d’oeuvre, Chrétien de Troyes avait compris que l’ejambement se prêtait comme la distribution des coupes dans l’octosyllabes à des fins artistiques 164 216 Simonetta Bianchini 159 Ed. Munari 1988/ II: 41-42. 160 Ed. Munari 1988/ III: 210; corsivo mio. 161 Meyer 1894: 7. 162 Frappier 1964: 41. 163 Frappier 1964. 164 Frappier 1964: 49. A questo proposito è da notare che Chrétien, in qualche caso nell’Erec ma con sempre maggiore frequenza nei romanzi successivi, utilizza l’enjambement per finalità diametralmente opposte a quelle teorizzate e praticate da Matteo. Quest’artificio metrico-retorico, dapprima utilizzato solo per unire, insieme alla rima, la coppia di versi, è arrivato a tali livelli di perfezione che nell’Erec et Enide Chrétien comincia a infrangere una norma non ancora scritta, spezzando la stretta unione dei due versi del couplet in momenti significativi della narrazione (introduzione di un discorso diretto, cambiamento di interlocutore in un dialogo 165 , ecc.); per di più Chrétien si serve proprio dell’enjambement tra versi di couplets differenti per evidenziare il suo operato, come testimonia il prologo del Cligès per altri versi, come visto, aderente alle norme del trattato di Matteo. A questo punto si può soltanto ipotizzare che Matteo di Vendôme abbia accolto nel suo trattato le norme che le nuove opere volgari avevano elaborato e che già avevano dato ottime prove di sé. Questo ribaltamento di posizioni in ambito poetico deve far riflettere, se non altro perché porta alla luce un problema di reciproci rapporti fra le codificazioni retoriche, intese come raccolta di norme da seguire e vitia da evitare, e le contemporanee opere in volgare che stanno man mano acquistando una propria dignità letteraria riconosciuta anche dalla cultura cosiddetta «ufficiale»: i due mondi culturali, finora paralleli ma non intersecantisi, sembrano ormai intrecciarsi in un nodo che d’ora in poi sarà sempre più arduo districare. Roma Simonetta Bianchini Bibliografia Achard, G. (ed.) 1989: De ratione dicendi ad C. Herennium (Rhétorique à Herennius), Paris Adams, A. 1977: «The Shape of Arthurian Verse Romance (to 1300)», in: N. J. Lacy/ D. Kelly/ K. Busby (ed.), The Legacy of Chrétien de Troyes, vol. 1, Amsterdam: 141-65. Barbi, M./ Pernicone, V. 1969: (ed.) Dante Alighieri, Rime della maturità e dell’esilio, Firenze Becker, P. 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