Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniGuglielmo Gorni, Dante prima della Commedia, Firenze (Cadmo) 2001, 290 p. (Letteratura italiana antica 1).
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A. Roncaccia
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Guglielmo Gorni, Dante prima della Commedia, Firenze (Cadmo) 2001, 290 p. (Letteratura italiana antica 1). Il volume Dante prima della Commedia, raccogliendo saggi di filologia dantesca dedicati a testi anteriori al poema, rende conto di un percorso di indagine decennale corrispondente, grosso modo, agli anni Novanta. Costante, nel procedere dei saggi, è l’omaggio a Contini, evocato con regolarità. Non che manchino riferimenti e tributi di stima ad altri maestri (Barbi, De Robertis, Parodi), ma il dialogo privilegiato è con Contini. Questo non solo per il vaglio puntuale e per lo sviluppo fruttuoso di singole intuizioni interpretative, ipotesi ecdotiche o quasi-certezze attributive, quanto soprattutto per l’affermazione della forza discriminante della filologia, intesa come atto dell’intelligenza che tenta, per approssimazione, di confrontarsi col caos della tradizione, con nodi gordiani di fronte ai quali, contro un certo tipo di bédieriano «quieto vivere» (155), è preferita, eticamente si potrebbe dire, la sfida lachmaniana della collatio e della emendatio. Contini «diffidava - ricorda Gorni - di un bédierismo ridotto da deposito di angoscia a pigra moda» (155). Ferma restando l’acquisizione dell’evoluzione storica in senso probabilistico della scienza novecentesca, in questo caso filologica, Gorni non manca di avvertire come neppure il filologo sia «al riparo, se perde il senso della discrezione e rinnega, nei fatti, il rispetto storico del documento» (110), di fronte al quale si suppone sempre un atto di «responsabilità dell’editore» (150). Non è casuale, probabilmente, che Gorni usi in più occasioni la categoria di ascendenza guicciardiniana della «discrezione» (87, 176). Dalla storia del testo e delle sue forme documentate lo studioso è messo di fronte a qualcosa di profondamente e irreparabilmente irrazionale, per cui la filologia diviene «soprattutto un’operazione mentale di razionalizzazione dei dati e di ricerca probabilistica delle soluzioni, non pura diligenza e acquiescente rassegnazione ai nudi fatti» (150). Si tratta di valenze metodologiche da non sottovalutare per due ragioni. La prima è che il libro è ampiamente in grado di sostenere una funzione di introduzione e di «addestramento» alla filologia italiana, in agile competizione con i principali manuali di riferimento. La seconda è che si sente oggi il bisogno di riaffermare il significato e il valore scientifico della filologia. Se da un lato le polemiche puntuali costituiscono un momento fondamentale del riconoscimento di risultati apprezzabili, ad un altro livello, più generale, il volume sembra rispondere ad una sorta di attacco complessivo alla disciplina volto a ridimensionarne lo statuto. Si legge infatti nell’introduzione: «È un miracolo infine che un libro come questo, così massiccio e così materiale nella sua sostanza, esca di questi tempi. Altre sono le mode contemporanee e forse anche le attese» (10). Di tale clima rende conto, ad esempio, un recente saggio di Giovanni Cappello, il quale, certo provocatoriamente, si chiede addirittura se una disciplina come la filologia possa essere degna di fiducia 1 . A tale attacco - che è forse più la risultante di molteplici centri di irradiazione di concezioni «debolistiche» e/ o postmoderniste, che non il frutto di una consapevole strategia culturale - il volume di Gorni costituisce, quindi, una rigorosa risposta in continuità con il magistero continiano. Delle tre parti che compongono il libro, «Di qua dal dolce stile», «Vita nova» e «Prima della Commedia», sono le prime due che, in particolare, mostrano la capacità di affascinare e avvincere lettori che non siano propriamente dei dantisti. Nella prima sono riconsiderati, e a volte ridisegnati, a partire da apparentemente cirscoscritte questioni interpretative, i rapporti di Dante con i principali esponenti della lirica duecentesca, in particolare con Guittone e Cavalcanti. Nei confronti di quest’ultimo si scopre, da parte di Dante, una vera e propria volontà di liquidazione critica. L’«amico» e interlocutore principale della Vita nova, 287 Besprechungen - Comptes rendus 1 G. Cappello, «Attraverso la lunga fedeltà di Remo Fasani a Dante», in: Tra due mondi. Miscellanea di studi per R. Fasani, Locarno (Dadò - Pro Grigioni Italiano) 2000: 52. lodato certo per «altezza d’ingegno» in Inf. X, non riceve alcuna lode, a guardar bene, che riguardi la lingua e lo stile, cioè l’ars. Così, soprattutto in forza d’altre puntuali argomentazioni che sarebbe riduttivo riassumere, si deve riconoscere che nell’interpretazione di Purg. XI 97-98 («Così ha tolto l’uno all’altro Guido / la gloria della lingua») non è Cavalcanti a sopravanzare Guinizzelli, ma, secondo una lettura già ottocentesca e, probabilmente, del Poliziano, è Guinizzelli a vincere Guittone, inteso per gioco onomastico come accusativo di Guido, -onis. I numerosi guittonismi di Dante, già noti alla critica, vanno infatti riconsiderati, come mostra Gorni, non tanto per la quantità, quanto per la qualità della loro importanza strategica, strutturale. Lo screditamento di Guittone, espresso da Dante in più occasioni, va inteso allora come giudizio critico che afferma un cambiamento di gusto e di poetica, non come negazione del «pregio» (Purg. XXVI 125) evocato ormai a distanza di una generazione e sottoscritto a suo tempo dallo stesso Guinizzelli (cf. 30). Così come il Guido bolognese ha «snidato» dal vertice della «gloria della lingua» il Guido(-nem) aretino, così Dante si candida alla successione di Guinizzelli. Per quanto riguarda l’attendibilità del calembour linguistico dei due Guidi, Gorni non manca di illustrare come il gioco dei significanti fornisca una chiave di lettura diffusamente valida per Dante, confermata da casi espliciti come quello notissimo riferito alla patria di Francesco (Ascesi = Oriente), e ne adduce vari ulteriori esempi (35). La questione è più importante di quanto solitamente ammesso e, molto opportunamente, Gorni lamenta in proposito sordità e diffidenza da parte della «nostra critica letteraria» (36). Ora, per spiegare tale reazione difensiva della critica non è forse sufficiente parlare di diffidenza verso il significante (36), giacché il gioco linguistico - tenuto conto, del resto, di quanto sia sviante parlare di gioco - va al di là del solo significante, per operare di preferenza sul significato vero e proprio. La matrice dell’etimologismo isidoriano (35, 47), cui è da sempre di comune uso rinviare, potrebbe allo stesso tempo risultare troppo lontana dall’autore, passato inevitabilmente attraverso le più smaliziate riflessioni linguistiche dell’aristotelismo della seconda scolastica. Il problema è che abbiamo a che fare con atti, più ancora che di interpretazione etimologica, di consapevole risignificazione (Assisi che si può dire Ascesi e perciò Oriente), che investono coerentemente il nucleo significante-significato e sono in questo, effettivamente, lontani dalla nostra sensibilità di moderni. Ci troviamo, in tal senso, nell’ambito di quella che Belardi, a partire da osservazioni del Pagliaro, ha identificato come una riflessione specificamente dantesca sull’espressività della lingua poetica, dove «per effetto del rapporto ontologico il nome consegue una espressività che si aggiunge al significato proprio ‘razionale’; con l’applicarsi alla cosa il nome finisce per partecipare della natura di essa, con il suo corpo fonico, sensibilmente» 2 . Nel secondo saggio, il rapporto con Cavalcanti, già implicitamente concorrenziale per la volontà di Dante di succedere direttamente al Guinizzelli, assume i contorni di una rottura irrimediabile. Il sonetto cavalcantiano Guata, Manetto, quella scrignutuzza, già letto in senso parodico da Contini e da De Robertis, si trova corrispondere specificamente al dantesco Tanto gentile, con in aggiunta contraffazioni di stilemi tipici della Vita nova. L’ipotesi è tanto più suggestiva quanto ha conseguenze sull’interpretazione del «disdegno» di Guido (Inf. X 63), che sarebbe diretto contro la Beatrice angelicata di Dante e, se proseguiamo in tale linea interpretativa, darebbe all’evocazione oltramondana dell’amico, all’inverso della lettura tradizionale che vi vede un elogio, piuttosto il senso di una damnatio letteraria. Dante non perdonerebbe quindi a Cavalcanti lo scetticismo ironico espresso nei confronti della concezione idealizzante dela Vita nova, scetticismo di cui ci resta traccia esplicita, appunto, in Guata, Manetto. 288 Besprechungen - Comptes rendus 2 W. Belardi 1985: «Dante e la dottrina stoica dell’onomatopea» [1974], in: Id., Filosofia, grammatica e retorica nel pensiero antico, Roma: 265. Al famoso sonetto di celebrazione dell’amicizia con Cavalcanti, Guido, i’ vorrei, è dedicato il terzo saggio, che offre nuove argomentazioni alla dibattuta quaestio Lippo vs Lapo (Guido, i’ vorrei che tu e L(x)po ed io). Dietro l’alternativa, d’apparenza innocua e un po’ accademica, si gioca in realtà molto dell’interpretazione del Dante giovane. Il punto è che Lippo Pasci de’ Bardi, non essendo uno stilnovista, viene a disturbare una certa visione, tutta coerentemente stilnovistica, del primo Dante. Senza dire che l’affetto scolastico nei confronti di Lapo Gianni rischia di rivelarsi alquanto mal riposto. Il sonetto, esprimendo toni e motivi in realtà lontanissimi da quelli dello Stilnovo, non sancisce, come comunemente creduto, un progetto poetico, ma rende più semplicemente conto di un comune gusto cortese, galante, o, per dir così, goliardicamente scapigliato. Da notare, inoltre, è anche come la vocale palatale chiusa di Lippo, trasformando totalmente l’economia timbrica del verso (con effetti sul tono complessivo, trattandosi di incipit), sia un elemento di disturbo anche di tipo fonostilistico nei confronti della lettura «alta», legata a Lapo e alla più «elegante compresenza di cinque timbri vocalici in un solo verso» (59). Due punti di vista e due sensibilità di lettura che Gorni esemplifica, a inizio saggio, nelle figure di Maria Corti e di Giorgio Orelli. Optare per Lippo, in sostanza, significa fare giustizia di una sopravvalutazione di comodo del sonetto, incline a ridurre la complessità intellettuale ed esistenziale del Dante giovane, a sfumarne all’estremo le contraddizioni in funzione di un modello interpretativo centrato più sugli esiti e sulla fortuna dell’autore che non sull’effettivo percorso di elaborazione originaria. Della seconda parte, ancora per le importanti sollecitazioni di tipo critico, si può ricordare la questione del titolo del libello dantesco. Vita nuova, barbianamente, o Vita nova? E se Vita nova, si tratta di latino o di volgare? L’opzione non dittongata, ampiamente giustificata, ha come esito interpretativo, soprattutto se considerata come forma latina, quello del senso letterale di «vita giovanile», parte iniziale della vita umana. Il vantaggio di questa esegesi, che non nega il significato allegorico del rinnovamento spirituale, in senso paolino, procurato dall’amore per Beatrice, è quello di fornire una soluzione più economica a livello di senso letterale, secondo un’ipotesi già espressa nell’Ottocento. Quale palingenesi interiore, insomma, può veramente risultare credibile per il Dante novenne su cui l’operetta si apre? Il rinnovamento interiore (e poetico) c’è, ma è situato strutturalmente all’altezza del decimo paragrafo, in coincidenza della canzone-manifesto Donne ch’avete. Dell’interpretazione in senso esclusivamente palingenetico, o comunque allegorico-simbolista, Gorni decodifica la strumentalità di una scelta di gusto, la «radice prerafaelita, se non scritturale, agiografica e francescana», desiderosa di «sublimare ad ogni costo il dettato dantesco e di conferire alla Vita un’aura trascendente» (135). In tale ottica, lo studioso può affiancare alla pari, al tema del rinnovamento spirituale, la chiave interpretativa del tema dell’amicizia, più terreno e più rispondente all’espressione dei mutamenti propri della storia intellettuale dell’individuo. Tra i saggi della terza parte, si può ricordare almeno quello intitolato «Filologia e nazionalismo. Tre donne e tre dantisti». I tre dantisti sono Barbi, Cosmo e Zingarelli, riuniti dal confronto esegetico sulla canzone Tre donne. Trovano efficacemente spazio nel saggio alcuni elementi aneddotici, come l’analisi fisiognomica del ritratto vulgato dello Zingarelli, in cui ogni minimo dettaglio somatico dice il filologo (228), ma soprattutto è emblematica l’esigenza metodologica di fondo, costante in Gorni, di individuare non solo gli elementi decisivi nel processo di costituzione dei testi, oggettivamente considerati, ma anche le ragioni implicite (di scuola, di gusto, di ideologia) che hanno indotto i grandi filologi del passato a privilegiare certe soluzioni ecdotiche e non altre. In questo caso, materia del contendere fu (ed è) la «colpa» che Dante si attribuisce ai v. 88-90 della canzone. Restando evasivo in merito lo Zingarelli, la polemica, come è noto, oppose Cosmo e Barbi. Per quest’ultimo la «colpa» sarebbe solo metaforica, da ricollegare all’ammissione d’esser peccatore esprimibile da ogni uomo. Per Cosmo prevale il senso letterale, per cui la «colpa» rinvierebbe all’aver preso le armi, ad un certo momento, contro la patria. Nei due casi, più o meno 289 Besprechungen - Comptes rendus consapevolmente, c’è l’opposta presa di posizione nei confronti, per analogia, della ben più recente «marcia» mussoliniana. La attendibilità dell’ipotesi del Cosmo, che convince Gorni e che aveva già sedotto Contini, va comunque oltre il contesto ideologico. Essa risiede nella necessità procedurale, profondamente filologica, di verificare la parafrasabilità dei testi a livello letterale e, nel caso specifico, nella valorizzazione storica e individuale del dettato dantesco. È in tale valorizzazione che si trova, d’altra parte, il significato critico complessivo del percorso offerto dal volume, dove è filologicamente delineata e criticamente preferita, a scapito di ogni fissità agiografica o di modellizzazione troppo ossequiosa, la complessità del Dante «titolare di conflitti storici, di scandali letterari e di contraddizioni polemiche» (78). Ci si potrebbe allora chiedere, in prospettiva, se dietro gran parte delle reticenze filologiche espresse da altri nei confronti dell’attribuzione al giovane Dante del Fiore e del Detto d’amore, non ci siano soprattutto resistenze conservative poco inclini ad integrare quella che Gorni definisce «l’altra faccia della luna, . . . la conoscenza di un Dante giovane tutto nuovo» (78), o, in altri termini, «una concezione poco edificante o troppo terrena di Dante» (232). A. Roncaccia H Zygmunt G. Baran´ ski, «Chiosar con altro testo»: leggere Dante nel Trecento, Fiesole (Cadmo) 2001, 184 p. (I Saggi di «Letteratura italiana antica» 2). Il noto studioso americano Zygmunt G. Baran´ ski, raccoglie in quest’ultimo volume sei saggi, quattro dei quali, aggiornati e tradotti, erano usciti in inglese agli inizi degli anni novanta. L’ambizione della raccolta, scrive B. nella premessa, è di «offrire un minimo contributo» (11) alla futura composizione della storia del dantismo trecentesco. Il primo saggio, L’esegesi medievale della Commedia e il problema delle fonti (13-39), di indubbio valore metodologico, costituisce un apprezzabile punto di riferimento per gli studiosi della precitata storia. Il suo proposito principale è di indicare una serie di regole critiche atte a garantire un approccio adeguato alla specificità dei commenti trecenteschi alla Commedia. Secondo B. sarebbe particolarmente fuorviante studiare un’esegesi letteraria trecentesca senza prendere in considerazione la sua dimensione convenzionale e conservatrice. Difatti il genere comentum era definito nell’età di mezzo da una serie di convenzioni che regolavano a priori ogni forma di interpretazione espressa. Il dantista americano spiega quindi che i fini del commento medievale «non sono tanto di spiegare i lineamenti specifici di un testo, ma di dimostrare che questo adempie ai criteri di letterarietà canonicamente fissati . . . Lo scopo era di ridurre ogni testo a qualcosa di convenzionalmente riconoscibile ed utile» (17). L’autore adduce poi gli esempi di convenzionalismo che contrassegnano anche i vari commenti alla Commedia aggiungendo che «l’esegeta non sente la responsabilità di dover analizzare la voce dantesca in sé . . . ma avverte piuttosto l’obbligo di accomunarla ad una voce che si potrebbe definire “culturalmente neutra”, anche se, effettivamente, di terzina in terzina, il poeta si discosta in maniera impressionante proprio dalla cultura media dell’epoca» (19). Il fine dei commenti trecenteschi è dunque innanzi tutto quello di fornire un’analisi non problematica del poema dantesco, ovvero di «ricollocare la Commedia in un terreno mediano, ideologicamente e artisticamente sicuro e non controverso» (22). A sostegno di quanto espresso in precedenza, B. rileva come, di fronte a una delle - rarissime, si dovrebbe aggiungere - contraddizioni dantesche (a proposito della «malizia» di Inf. XI, 22-27 e 79-84), sia palese nei commentatori la volontà di occultare risolutamente le incongruenze che potrebbero compromettere la coerenza del poema; così, di 290 Besprechungen - Comptes rendus
