eJournals Vox Romanica 61/1

Vox Romanica
vox
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2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2002
611 Kristol De Stefani

Zygmunt G.Baran´ ski, «Chiosar con altro testo»: leggere Dante nel Trecento, Fiesole (Cadmo) 2001, 184 p. (I Saggi di «Letteratura italiana antica» 2).

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2002
M.  Spiga
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consapevolmente, c’è l’opposta presa di posizione nei confronti, per analogia, della ben più recente «marcia» mussoliniana. La attendibilità dell’ipotesi del Cosmo, che convince Gorni e che aveva già sedotto Contini, va comunque oltre il contesto ideologico. Essa risiede nella necessità procedurale, profondamente filologica, di verificare la parafrasabilità dei testi a livello letterale e, nel caso specifico, nella valorizzazione storica e individuale del dettato dantesco. È in tale valorizzazione che si trova, d’altra parte, il significato critico complessivo del percorso offerto dal volume, dove è filologicamente delineata e criticamente preferita, a scapito di ogni fissità agiografica o di modellizzazione troppo ossequiosa, la complessità del Dante «titolare di conflitti storici, di scandali letterari e di contraddizioni polemiche» (78). Ci si potrebbe allora chiedere, in prospettiva, se dietro gran parte delle reticenze filologiche espresse da altri nei confronti dell’attribuzione al giovane Dante del Fiore e del Detto d’amore, non ci siano soprattutto resistenze conservative poco inclini ad integrare quella che Gorni definisce «l’altra faccia della luna, . . . la conoscenza di un Dante giovane tutto nuovo» (78), o, in altri termini, «una concezione poco edificante o troppo terrena di Dante» (232). A. Roncaccia H Zygmunt G. Baran´ ski, «Chiosar con altro testo»: leggere Dante nel Trecento, Fiesole (Cadmo) 2001, 184 p. (I Saggi di «Letteratura italiana antica» 2). Il noto studioso americano Zygmunt G. Baran´ ski, raccoglie in quest’ultimo volume sei saggi, quattro dei quali, aggiornati e tradotti, erano usciti in inglese agli inizi degli anni novanta. L’ambizione della raccolta, scrive B. nella premessa, è di «offrire un minimo contributo» (11) alla futura composizione della storia del dantismo trecentesco. Il primo saggio, L’esegesi medievale della Commedia e il problema delle fonti (13-39), di indubbio valore metodologico, costituisce un apprezzabile punto di riferimento per gli studiosi della precitata storia. Il suo proposito principale è di indicare una serie di regole critiche atte a garantire un approccio adeguato alla specificità dei commenti trecenteschi alla Commedia. Secondo B. sarebbe particolarmente fuorviante studiare un’esegesi letteraria trecentesca senza prendere in considerazione la sua dimensione convenzionale e conservatrice. Difatti il genere comentum era definito nell’età di mezzo da una serie di convenzioni che regolavano a priori ogni forma di interpretazione espressa. Il dantista americano spiega quindi che i fini del commento medievale «non sono tanto di spiegare i lineamenti specifici di un testo, ma di dimostrare che questo adempie ai criteri di letterarietà canonicamente fissati . . . Lo scopo era di ridurre ogni testo a qualcosa di convenzionalmente riconoscibile ed utile» (17). L’autore adduce poi gli esempi di convenzionalismo che contrassegnano anche i vari commenti alla Commedia aggiungendo che «l’esegeta non sente la responsabilità di dover analizzare la voce dantesca in sé . . . ma avverte piuttosto l’obbligo di accomunarla ad una voce che si potrebbe definire “culturalmente neutra”, anche se, effettivamente, di terzina in terzina, il poeta si discosta in maniera impressionante proprio dalla cultura media dell’epoca» (19). Il fine dei commenti trecenteschi è dunque innanzi tutto quello di fornire un’analisi non problematica del poema dantesco, ovvero di «ricollocare la Commedia in un terreno mediano, ideologicamente e artisticamente sicuro e non controverso» (22). A sostegno di quanto espresso in precedenza, B. rileva come, di fronte a una delle - rarissime, si dovrebbe aggiungere - contraddizioni dantesche (a proposito della «malizia» di Inf. XI, 22-27 e 79-84), sia palese nei commentatori la volontà di occultare risolutamente le incongruenze che potrebbero compromettere la coerenza del poema; così, di 290 Besprechungen - Comptes rendus fronte alle due definizioni discordanti di «malizia», tutti gli esegeti trecenteschi s’ingegnano ad annullare il disaccordo fra le due valenze del termine. Nel secondo studio, Comedìa: Dante, l’epistola a Cangrande e la Commedia medievale (41-76), l’originalità della prospettiva di B., convinto oppositore della paternità dantesca della lettera, sta nell’interpretare l’epistola a Cangrande proprio come commentarium alla Commedia (41N). L’analisi è felicemente impostata sull’evoluzione, dal De vulgari eloquentia alla Divina Commedia, della concezione dantesca dei genera dicendi (e in modo particolare del genus della comedìa): a differenza del trattato che, secondo B., si dimostra alquanto conformista ed «appoggia fedelmente le gerarchiche distinzioni dei genera dicendi», il poema «mira al loro sgretolamento» (53). B. rileva quindi che mentre col termine comedìa l’intera tradizione esegetica indicava un genus letterario ben definito, una delle particolarità fondamentali della Commedia dantesca risiedeva appunto nella sua eterogeneità stilistica, e nel conseguente superamento delle convenzioni tradizionali che regolavano il genus comicus e gli altri genera. L’Epistola a Cangrande, al contrario, disconosce categoricamente le caratteristiche innovative del poema e tenta piuttosto di conformare lo sperimentalismo dantesco ai canoni esegetici più convenzionali. «Se la lettera fosse autentica, inoltre, prosegue B., ci troveremmo di fronte ad una situazione paradossale, poiché la convenzionale poesia lirica di Dante risulterebbe glossata da un commento - il De vulgari eloquentia - più innovativo di quello dedicato alla nuova comedìa» (59). Altro argomento addotto da B. a sfavore dell’autenticità della lettera è altresì il fatto che il suo autore - in perfetta corrispondenza con le tendenze «normalizzatrici» dei commentaria - voglia negare la dimensione divina del ‘poema sacro’: «in netto contrasto con quanto Dante rivendica nel poema stesso, si intende negare che Dio possa aver partecipato alla scrittura della Commedia e dunque che questa appartenga in modo diretto ai processi della salvezza umana» (73). Col terzo saggio, Benvenuto da Imola e la tradizione dantesca della Comedìa (77-97), B. non intende, come parecchi dantisti prima di lui, esaminare il contributo e la particolarità di Benvenuto in relazione alle interpretazioni contemporanee della Commedia, ma, conformemente all’ottica generale della raccolta, si propone di indicare le innovazioni del commento benvenutiano ‘in quanto commento’, ovvero nell’ambito del genere Comentum e delle sue convenzioni. Secondo B., Benvenuto fu il primo esegeta dantesco ad intuire che i criteri esegetici tradizionali erano poco appropriati per intendere e interpretare la Commedia; impossibile risultava ad esempio - e fu proprio questo il limite degli interpreti precedenti - comprendere il significato del titulus «Comedìa», avvalendosi convenzionalmente dei concetti canonici della critica letteraria contemporanea. Per adeguarsi all’unicità dello sperimentalismo dantesco, la soluzione scelta da Benvenuto fu quella di servirsi della terminologia tradizionale in modo del tutto originale ed innovativo. Nel prologo al suo commentarium, ad esempio, Benvenuto scrive a proposito del titulus scelto da Dante: «Dico quod autor potius voluit vocare librum Comoediam a stylo infimo et vulgari, quia de rei veritate est humilis respectu litteralis, quamvis in genere suo sit sublimis et excellens» (85-86). B. rileva che con quest’ultima definizione «ci imbattiamo in un’impossibilità letteraria - almeno in base ai principi dei genera dicendi - dato che, per Benvenuto, il poema dantesco sarebbe una commedia “alta”» (86); B. spiega però che «attraverso il contrasto che il commentatore stabilì tra ‹stylus infimus et vulgaris› e ‹genus . . . sublime et excellens›, Benvenuto volle separare la lingua della commedia dantesca dai suoi altri aspetti formali ed ideologici» (87-88). Ad appartenere al genere «basso» è quindi soltanto la lingua (il volgare) della Commedia, che quanto a forma - in senso retorico - e contenuto appartiene ad un nuovo genere «alto». Ma Benvenuto, oltre ad aver affermato l’esistenza di questo nuovo genere, modificò, secondo B., anche le regole formali del Comentum alla Commedia, specie nell’accessus - o prologo - al suo commentarium, nel quale, per proporzionarsi all’univer- 291 Besprechungen - Comptes rendus salismo dantesco sintetizzò «in maniera del tutto inusitata - vari processi esegetici che tradizionalmente erano tenuti ben separati, per evidenziare in questo modo la portata dell’opera dantesca» (95). Nel quarto contributo, Boccaccio, Benvenuto e il sogno della madre di Dante incinta (99- 116), B. pone a confronto il resoconto boccacciano (Trattatello in laude di Dante) e benvenutiano (prooemium al Comentum), con le rispettive interpretazioni, del sogno della madre di Dante incinta. L’esame minuzioso del dantista americano consente di evidenziare interessanti differenze, finora ignorate dalla critica, fra i due racconti. B. rileva innanzi tutto come l’esposizione di Benvenuto, pur basandosi sulla prolissa relazione del certaldese, si distingua - in conformità con le aspirazioni del suo autore - per la sua concisione. Sottolineando quindi che il resoconto di Benvenuto funge da introduzione al Commento alla Commedia, B. rileva come in questo contesto, l’imolese si serva della visione - in modo del tutto diverso da Boccaccio - per far risaltare la superiorità letteraria del poema dantesco dichiarando ad esempio «l’eccellenza retorica del poema: dove, nel Trattatello, ‹Il fonte chiarissimo› sta per l’‹ubertà della filosofica dottrina morale e naturale› egli preferisce guardare nel ‹Fons clarissimus eloquentiam ejus›» (112). Altro proposito dell’esegesi benvenutiana è, secondo B., il tentativo di misurarsi con l’auctoritas boccacciana nell’ambito particolare del commentarium. Difatti «il somnium costituisce uno dei pochi luoghi nel libellus in cui Boccaccio si presenta nelle vesti del commentator piuttosto che in quelle del biografo, dello storico, del moralista e del critico letterario; la visione offre quindi a Benvenuto una rara possibilità di sfidare il suo praeceptor in maniera diretta» (114). Nel quinto studio, «Li infrascripti libri» Guglielmo Maramauro, l’auctoritas e la «lettura» di Dante nel Trecento (117-152), B. si sofferma sulla figura singolare del «dantista» napoletano Guglielmo Maramauro. Benché le valutazioni di B. nei confronti di Maramauro siano spesso severissime ed in netta discordanza con le tesi espresse da Saverio Bellomo nella recente e pregevole edizione del commento maramauriano 1 , nondimeno il saggio risulta nell’insieme alquanto convincente. Il suo scopo è di denunciare le strane motivazioni che spinsero Maramauro a comporre fra il 1369 e il 1374 la sua Expositione sopra l’«Inferno» di Dante Alligieri. Indissociabilmente legata a questa composizione è, secondo B., la nomina per vie traverse del nobile napoletano - poco versato negli studi filosofici e teologici - a lettore dell’opera di San Tommaso presso lo studio di Napoli. Il suo commento non solo non avrebbe nessun fine «scientifico», ma sarebbe in verità un mero espediente di autopromozione intellettuale mirato a legittimare la sua nomina: «che si debba prendere l’Expositione come una sorta di “carta da visita” o “lettera di autopresentazione” è ovvio tanto dal modo ossessivo con cui Maramauro parla di sé quanto dagli accorgimenti retorici che egli adotta, il cui fine è di associarlo con la grandezza di Dante» (126). B. sottolinea quindi che Maramauro, oltre ad aver scritto un commentarium stracolmo di errori di ogni tipo, passa sotto silenzio le due fonti 2 su cui è pedissequamente impostato il suo commento; «ci troviamo di fronte ad un caso macroscopico di “plagio”, di abuso di “diritti d’autore”» (131) conclude il dantista americano. «Li infrascripti libri» (formula tratta dal prologo all’Expositione) infine, costituiscono un elenco di tutte le opere classiche, che Maramauro afferma di aver studiato per poter comporre la sua Expositione; non sorprende però che di questa erudizione non vi sia traccia nel commento, poiché il commentatore napoletano trascrisse quasi interamente la sua bibliografia da una terza fonte «segreta»: il commento a Valerio 292 Besprechungen - Comptes rendus 1 G. Maramauro, Expositione sopra l’«Inferno» di Dante Alligieri, in: Pier Giacomo Pisoni/ Saverio Bellomo (ed.), Padova 1998. 2 Il commento di Pietro Alighieri e il commentarium anonimo tramandato dal manoscritto Filippino della Biblioteca Oratoriana di Napoli (C.F. 2. 16). Massimo di Dionigi da Borgo San Sepolcro 3 . Va finalmente detto che secondo B., il quale nella fattispecie dissente radicalmente da S. Bellomo 4 , il commento non era affatto destinato ad un pubblico competente, e che «l’unico gruppo a cui la sua opera avrebbe detto ben poco sarebbero i “dantisti” di professione» (125). Col saggio conclusivo, Le costrizioni della forma: verso una definizione provvisoria dei Triumphi di Petrarca (153-173), B. lascia le problematiche del dantismo trecentesco per trattare di poetica petrarchesca e proporre alcune interessanti riflessioni sul pensiero metaletterario del Petrarca. Ad interessare B. sono soprattutto i Trionfi, opera nella quale «Petrarca raccoglie insieme le proprie affermazioni teoriche sulla letteratura» (157). Le visioni allegoriche dei Trionfi illustrano ad esempio la convinzione petrarchesca «che la specificità della letteratura si fondi sul suo involucro allegorico; e l’idea che sotto questo elegante ornamento, la poesia sia portatrice di verità la cui comprensione produce un effetto di elevazione morale e intellettuale» (158). I versi del poemetto incompiuto rappresentano inoltre una messa in pratica della concezione petrarchesca dell’imitatio. Ottimamente espresso nei Trionfi secondo B., risulta infine il sincretismo - fondamentale nel pensiero letterario dell’ultimo Petrarca - fra cultura classica e cristiana: «mentre l’aspetto apertamente ideologico e morale dei Trionfi è di marca cristiana, la forma del poema è fondamentalmente classica» (173). Nonostante le indubbie qualità critiche delle considerazioni espresse, la scelta di ripubblicare questo studio di poetica petrarchesca 5 nella presente raccolta sembra poco felice e poco corrispondente al dichiarato proposito di organicità enunciato nella premessa (11) a questo interessantissimo volume. M. Spiga H Andrea Canova (a cura di), Falconetto (1483). Testo critico e commento, Mantova (Gianluigi Arcari Editore) 2001, 253p. Non sappiamo molto sull’origine di questo poema epico sui generis, il cui unico esemplare arrivato fino a noi è la stampa milanese di Lehonard Pachel e Ulrich Scinzenzeler risalente al 1483, e conservata oggi alla British Library. Secondo Carlo Dionisotti, che ha il merito di avere attirato l’attenzione degli studiosi sul Falconetto, il testo che noi possediamo di quest’opera sarebbe una traduzione non particolarmente accurata di un originale franco-italiano; e non si può scartare a priori nemmeno l’ipotesi che esso «sia la rozza versificazione di una fonte in prosa» (56). Il fatto che al posto delle più normali ottave qui si trovino delle scalcagnate lasse, potrebbe testimoniare dell’antichità dell’opera, o della perifericità del luogo di allestimento. Comunque sia, «l’aspetto generale del Falconetto sembra rinviare a una data precedente il 1483, ma non sussistono indizi per una collocazione cronologica attendibile» (59). È assai probabile, secondo anche l’ipotesi di Dionisotti, che quella del 1483 sia la prima stampa del «poema», e che comunque non si possa andare troppo indietro nel tempo. Ma la storia del Falconetto è, come facilmente si immagina, ben più intricata di quanto si possa dar conto in queste righe. Si tenga almeno presente che esiste anche una versione in ottave, la cui più antica traccia è una stampa veneziana del 1500, i cui rapporti con quella in lasse del 1483 sono tutt’altro che chiari, ammesso che ce ne siano. Esiste poi anche un proseguimen- 293 Besprechungen - Comptes rendus 3 Sono riportati in appendice (151-153) gli elenchi di Dionigi e di Maramauro. 4 Introduzione a G. Maramauro, Expositione sopra l’«Inferno» di Dante Alligieri, in: Pier Giacomo Pisoni/ Saverio Bellomo (ed.), Padova 1998: 24 5 Il saggio intitolato in inglese The Constraints of Form: Towards a Provisional Definition of Petrarch’s «Triumphi», era stato pubblicato nel volume Petrarch’s «Triumphs»: Allegory and Spectacle, in: K. Eisenbichler/ A. A. Iannucci (ed.), Ottawa 1990: 63-83.