Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniArrigo Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, i. Introduzione, Bologna (Il Mulino) 2000, xxxviii-618 p. (Collezione di testi e di studi – Linguistica e critica letteraria)
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V. Formentin
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lo , che, come spiegato nella legenda di p. 115, è «impiegato per segnalare i luoghi in cui un segmento unito nel testimone è stato spezzato». Che l’autore del Falconetto non possa essere accolto in Parnaso con tanta leggerezza si è già detto, e si desume anche dall’analisi stilistica, condotta con grande attenzione da Canova. A parte il fatto che la trama del poema è tutt’altro che esente da salti logici e palesi incongruenze, è necessario sottolineare il ripetitivo spiegamento di espressioni identiche o quasi a breve distanza, l’inquietante abbondanza di avverbi in clausola che facilita di non poco la ricerca di rime e assonanze, l’abuso dello stile formulare: «determinate parole vengono allogate in espressioni pressoché fisse, le quali spesso formano emistichi ricorrenti» (33). Attraverso l’analisi linguistica del Falconetto (p. 90-111), infine, si giunge a constatare che questo testo è uno dei tanti esempi «d’interferenza tra volgari settentrionali e modelli toscani in quell’età che precede la rapida e vittoriosa offensiva dei canoni bembeschi» (87). Rispetto alle opere coeve, però, il Falconetto mostra un maggiore attaccamento al passato, corroborato da una scarsa propensione all’«adeguamento a linee evolutive già ampiamente affermate» (88). Quanto all’aspetto grafico, la stampa milanese non si discosta dall’uso delle stampe popolari contemporanee. La trascrizione è giustamente conservativa, visti l’unicità del testimone e le «tenebre che avvolgono i pregressi della stampa del 1483» (111); gli interventi sono soprattutto volti a rendere più familiare al lettore moderno, almeno sotto l’aspetto grafico, un testo per il resto non facilmente digeribile. L’edizione è accompagnata da un fitto commento, nel quale trovano spazio i loci paralleli, le spiegazioni puntuali di parole o espressioni poco chiare, i rilievi di tipo linguistico. Chiudono il volume l’Indice lessicale e l’Indice dei nomi. P. Gresti H Arrigo Castellani, Grammatica storica della lingua italiana, i. Introduzione, Bologna (Il Mulino) 2000, xxxviii-618 p. (Collezione di testi e di studi - Linguistica e critica letteraria) A compimento di un lavoro iniziato più di quindici anni fa, questo primo volume della attesissima Grammatica storica della lingua italiana di Arrigo Castellani, il massimo esperto d’italiano antico nei suoi fondamenti fiorentini e toscani, è costituito da un’Introduzione in cui, in sei capitoli dedicati a «Latino volgare e latino classico» (1-27), «L’elemento germanico» (29-94), «L’influsso galloromanzo» (95-134), «Mode settentrionali e parole d’oltremare» (135-252), «Le varietà toscane nel Medioevo» (253-457), «Cenni sulla formazione della lingua poetica» (459-536), si illustrano le varie componenti, linguistiche e dunque culturali, che nel periodo più antico si sono innestate sul tronco fiorentino per formare l’idioma nazionale 1 ; il volume è completato dagli indici, curati da Pär Larson, delle forme (539- 85), dei fenomeni e dei temi, cioè degli argomenti (587-600), e dei nomi (601-18). Come appunto conviene a una trattazione preliminare, il discorso è storico in senso largo e teso a ricomporre nei suoi risultati l’azione delle grandi forze operanti nella formazione e nello sviluppo della lingua italiana; va dunque rilevato, rispetto ai rigorosi limiti grammaticali entro cui di solito si contiene la materia nei peraltro meritevolissimi strumenti analoghi d’uso corrente (basti citare la Grammatica di Rohlfs) 2 , il più ampio respiro di questa Introduzione, nella quale è spesso trascesa l’argomentazione strettamente tecnico-linguistica che 295 Besprechungen - Comptes rendus 1 I primi cinque capitoli erano già apparsi negli SLI 10(1984): 3-28, 11(1985): 1-26 e 151-81, 13(1987): 3-39, 14(1988): 145-90, 15(1989): 3-63, 16(1990): 155-222, 18(1992): 72-118, 23(1997): 3-46 e 219-54. Tutti vengono ripubblicati con ritocchi e aggiunte (cf. vii-viii). 2 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 vol., Torino 1966-69. certo dominerà nei tre prossimi volumi dedicati alla Fonologia, alla Morfologia e alla Sintassi: in molte sue pagine il libro appare più un saggio di storia della lingua che una grammatica storica, e non a caso una delle opere più presenti, per quantità e qualità delle citazioni, è la Storia della lingua italiana di Migliorini. Connesso a tale impostazione è il prevalente carattere lessicologico dei primi quattro capitoli, da tempo noti agli studiosi, che non hanno finito di apprezzarli: in essi, nel solco di una solidissima tradizione di studi che annovera nomi gloriosi della linguistica romanza come, tra gli altri, Paul Aebischer, Giacomo Devoto, Ernst Gamillscheg, Bruno Migliorini, Walther von Wartburg, sono descritti i successivi strati che, depositatisi sul fondo costituito dal lessico toscano ereditato dal latino volgare, hanno contribuito a formare la somma del vocabolario italiano: dopo aver messo in evidenza l’importanza del modello, attivo in tutte le epoche della nostra lingua, offerto dal latino scritto nella sua varia fenomenologia classica e medievale, C. passa in rassegna la schiera dei germanismi, distinti per cronologia e settore lessicale, dalle parole germaniche penetrate nel latino volgare della tarda età imperiale ai prestiti derivati dai Goti, dai Longobardi, dai Franchi; illustra l’influsso del provenzale e più ancora del francese antico sulla lingua delle origini, indagato con riguardo alle aree semantiche dove l’addensamento è maggiore (feudalesimo, caccia, guerra, abbigliamento, commercio, ecc.) e alle influenze esercitate dal linguaggio letterario (lirico, epico e narrativo), ma dimostrato anche con argomenti «d’ordine qualitativo e strutturale» (101), come la mutuazione di suffissi tuttora produttivi (-aggio e -iere, -iero, -iera) e di parole d’uso quotidiano e domestico (mangiare, svegliare, coniglio, ecc.); definisce il fenomeno precocissimo della cosiddetta «sonorizzazione imitativa» (la formula è in un saggio di C. del 1960) 3 , cioè di quella «moda» (136) che, fin dal secolo V, spinse ampi settori della popolazione toscana e umbro-marchigiana ad imitare la pronuncia, ritenuta prestigiosa, dell’Italia settentrionale, che sonorizza in posizione intervocalica le consonanti -c-, -p-, -te -s-: ipotesi certo più economica rispetto alla teoria dei singoli prestiti lessicali dal Nord, che C. riduce a una decina di parole (amista(de), badile, corazza e coretto, donzello -a, panziera e panzerone, rèdina, rugiada, sozzo, tregenda); presenta, infine, la colorata folla delle «parole d’oltremare», bizantinismi e arabismi, anch’essi raggruppati per ambito semantico e studiati nei loro vari adattamenti fonetici, indicandone sempre il probabile centro d’irradiazione e ricostruendone con rigore, sulla base delle attestazioni disponibili, la storia italiana. Argomenti, si diceva, sui quali è stato scritto moltissimo dal fior fiore dei romanisti: eppure il discorso di C. non è mai semplice riassunto del già detto, e basterà qui, vincendo l’imbarazzo della scelta, rinviare il lettore alle persuasive pagine in cui si propone l’origine cimbrica, e dunque antichissima (I secolo a.C.), del germanismo vanga (33-34), o si dimostra la trafila amalfitano-pisana seguita dall’arabismo materassa -o (239-41). Più in generale, si devono segnalare le rilevanti novità, di documentazione e d’interpretazione, contenute nelle numerose «appendici» dedicate a lumeggiare il percorso italo-romanzo di singoli lemmi: cf. ad es. quelle relative a bucato e bucata (49-51), parlare (103-4) - dove il giudizio a favore dell’origine francese del verbo è corroborato, tra l’altro, dall’osservazione puntuale che negli antichi testi italiani manca qualsiasi traccia di alternanza radicale tra forme rizotoniche e forme rizoatone, come invece accade nel francese antico, che oppone il parole(t) a vos parlez -, amista(de) e amistanza (128-30), prezzemolo e famiglia (209-11), scarpa (211-13: con Joan Corominas, C. ne sostiene l’origine dal greco α πατ νη ‘calzare d’un sol pezzo di cuoio’ [attestato in Esichio, per il classico α ατ νη ], attraverso *(s)carpattina, scarpettina, il che darebbe conto della 296 Besprechungen - Comptes rendus 3 A. Castellani, «Il nesso si 7 in italiano», SLI 1(1960): 49-70, rist. in Id., Saggi di linguistica e filologia italiana e romanza (1946-1976), 3 vol., Roma 1980, vol. 1: 222-44. Per una rassegna critica delle varie opinioni sulla sonorizzazione toscana anteriori all’intervento di C. v. H. Weinrich, Phonologische Studien zur romanischen Sprachgeschichte, Münster 1958: 121s. precedenza documentaria, in Toscana, di scarpetta su scarpa, forma questa da considerarsi ricostruita sulla rianalisi di -etta come suffisso diminutivo). Per quanto riguarda gli ultimi due capitoli, il primo motivo d’interesse è la loro qualità d’inediti, e ciò vale anche per il cap. V, pur anticipato qualche anno fa, dato che in esso, rispetto alla redazione in rivista, sono sostanzialmente nuovi, oltre al par. 2 (254-80), che offre un’efficace sintesi delle varietà dialettali italiane non toscane e del còrso, i parr. 32-54 (365-457), che contengono una trattazione approfondita degli antichi volgari della Toscana orientale (aretino, borghese [cioè il dialetto di Borgo Sansepolcro], con il gemello anghiarese, cortonese). Considerato che questa Introduzione mira a presentare gli elementi costitutivi dell’italiano e che l’indagine di C. si spinge ben oltre l’individuazione dei tratti toscani non originariamente fiorentini penetrati nella lingua nazionale, qualcuno potrebbe forse trovare sproporzionato lo spazio concesso al pisano, al lucchese, al senese, ecc.: in realtà dobbiamo solo essere grati allo studioso che ha colto l’occasione per darci un quadro organico di tutte le antiche varietà toscane, mirabile per la completezza e l’esattezza dei dati derivanti da una documentazione sterminata e tutta di prima mano, una descrizione poi che tornerà certo utilissima, messa a confronto col fiorentino, nei prossimi volumi. Quanto al cap. VI, ne risulta chiara l’importanza decisiva se solo si pensa che vi si dànno nuove edizioni, corredate da sostanziosi commenti, del Ritmo lucchese (466-70) e dei cosiddetti Versi d’amore (524-36), etichetta con cui si designano i due componimenti poetici italiani più antichi che si conoscano, scoperti da Giovanni Muzzioli nel 1938 sul verso di una pergamena ravennate del XII secolo, a lungo studiati poi da Augusto Campana, ma rimasti inediti fino al saggio di Alfredo Stussi del 1999 4 . Stimolato da questa e da altre recenti trouvailles, nelle pagine finali C. affronta di petto alcuni nodi fondamentali della poesia italiana delle origini: gli istituti metrici della rima merovingia (é : ì, ó : ù) e della rima italiana (é : è, ó : ò), e gli «usi rimici» (507) del dittongo ridotto (pui ‘puoi’ o ‘poi’ : lui) e dell’apertura di u in o davanti a nasale (lome : come) 5 ; la questione degli inizi della scuola lirica siciliana, con il rilancio degli argomenti del Cesareo e del Santangelo, per i quali in Sicilia si sarebbe cominciato a comporre versi volgari già verso la fine del Cento; la lingua dei poeti siciliani e dei loro seguaci continentali, con un’importante ricapitolazione del fenomeno del «toscaneggiamento»; la natura della rima siciliana presso i toscani, a proposito della quale si discutono le contrapposte ipotesi di Contini, che riteneva legittime le rime imperfette, documentate negli originali del Canzoniere di Petrarca e del Teseida di Boccaccio, del tipo avere : servire e voi : altrui, e di Parodi e Barbi (con cui C. si allinea), i quali proponevano di regolarizzarle foneticamente in senso siciliano (avire : servire, vui : altrui), secondo l’uso seguito ad es. nell’autografo dei Documenti d’Amore di Francesco da Barberino. Questo, in estrema sintesi, il contenuto del libro, del quale si vorrebbe sottolineare una caratteristica peculiare che si ritrova in tutta la produzione di C.: il connubio di ricerca linguistica e filologia, intesa questa non solo come impareggiabile dimestichezza con i testi antichi, ma più generalmente come disposizione, mentale e pratica, alla verifica del dato. Di qui, prima di tutto, l’esigenza di ancorare le enunciazioni grammaticali a spogli larghissimi, completi di esempi e controesempi (v. in partic. il cap. V): procedimento il cui valore dovrebbe riuscire evidente di per sé, dato che la verità scientifica, in linguistica come nelle altre discipline, è assicurata solo dalla costanza del rapporto affermato, ma che oggi, anche in una prospettiva didattica, giova rilevare di fronte alla tendenza, che va sempre più 297 Besprechungen - Comptes rendus 4 A. Stussi, «Versi d’amore in volgare tra la fine del secolo XII e l’inizio del XIII», CN 59(1999): 1-69. 5 Da segnalare anche la distesa confutazione (509-16) della teoria proposta da G. Sanga, La rima trivocalica. La rima nell’antica poesia italiana e la lingua della Scuola poetica siciliana, Venezia 1992. diffondendosi, a trarre dai testi antichi pochi esempi favorevoli al proprio assunto, per subito piegarli a indebite generalizzazioni. E ancora, la preoccupazione continua di accertare la realtà documentaria del fatto linguistico: tutte le forme citate da C. sono riscontrate, quando possibile, direttamente sulle fonti manoscritte o a stampa, trascritte con fedeltà assoluta secondo criteri che da lui si denominano, datate con precisione ad diem. «Non ho potuto controllare l’esempio sull’originale» (190 N136): in questo laconico rammarico sembra concentrata l’essenza di un metodo magistrale. Da tale atteggiamento consegue l’alto numero di correzioni apportate ad errori di fatto che si erano pericolosamente insinuati nella tradizione degli studi. Qualche esempio: alla luce della documentazione presentata da C. (84 N154, 345 N183), dovremo far forza alla nostra memoria e leggere, in Par. xvi 101- 2, «e avea Galigaio | dorata in casa sua già l’elza e ’l pome» 6 e, in Inf. xxvi 28 (con effetto ben più traumatico), «come la mosca cede a la zenzara»; o si veda la lunga nota relativa alla prima attestazione di tarsìa (244 N249): la parola non può essere attribuita al Novellino duecentesco, come afferma concorde tutta la tradizione lessicografica italiana sulla scorta di un rimando, male interpretato, del Tommaseo-Bellini e della quarta Crusca, perché il sibillino rinvio «Nov. ant. 103.2» dato da questi vocabolari si riferisce, come ha appurato C., alla Novella del Grasso legnaiuolo (prima metà del Quattrocento), cioè appunto alla terza delle quattro novelle aggiunte in appendice alle cento del Novellino autentico nell’edizione giuntina del 1572, che è la fonte dichiarata, ma mai prima controllata, della Crusca 7 . Di fronte all’immensa mole di fatti ordinatamente disposti e alla straordinaria ricchezza dell’interpretazione linguistica sorretta da una competenza molteplice e profonda, il lettore resta continuamente ammirato: e con l’animo compreso di questa ammirazione presento le riflessioni seguenti, forse non prive d’interesse generale, suggerite da singoli punti del libro di C. In due luoghi dell’Introduzione (136-37 e 295) C. attribuisce a un’influenza settentrionale il tipico processo di deaffricazione per il quale in lucchese e in pisano / ts/ è passata a / s/ e / dz/ a / z/ (cfr. forsa, pesso ‘pezzo’, orço = òr[z]o, meçço e meço = mè[zz]o e mè[z]o, ecc.) 8 . Come ricorda C., questi passaggi sono precoci, risalendo «per lo meno alla prima metà del secolo XII, dato che se ne trovano attestazioni sicure fin dal 1175 [. . .]; ma è probabile che il fenomeno sia più antico, anche molto più antico» (295). Mi chiedo allora se non convenga spiegarlo piuttosto come il risultato di un’evoluzione autoctona, dato che in larga parte dell’Italia settentrionale ancora nel XIV secolo - a quanto sembra - il passaggio delle affricate dentali sorda e sonora alle sibilanti corrispondenti non si era completato. La prudenza è imposta dalla mancanza, non solo per l’intera regione padana ma anche per aree linguistiche più ristrette, di spogli ‘castellaniani’, tali da determinare la cronologia assoluta del fenomeno nel Nord, e dalla consapevolezza dei dubbi legati all’interpretazione delle grafie: ma valgano, per es., le conclusioni di Stussi sul veneziano antico, di Mussafia e Salvioni sul milanese di Bonvesin secondo il ms. Berlinese, della Corti sul bolognese del XIII-XIV secolo, di Parodi e Nicolas sul genovese delle poesie dell’Anonimo tramandate dal codice Molfino 9 ; si 298 Besprechungen - Comptes rendus 6 E v. ora A. Castellani, «Sull’origine della forma elsa», SLI 27(2001): 76-77. 7 La rettifica, già presente nella redazione in rivista (1989), non ha raggiunto Il nuovo Etimologico. DELI-Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di M. Cortelazzo e P. Zolli, seconda ediz. in vol. unico a cura di M. Cortelazzo e M.A. Cortelazzo, Bologna 1999. 8 Così anche Rohlfs, Grammatica storica cit.: §289. 9 Cf. A. Stussi (ed.), Testi veneziani del Duecento e dei primi del Trecento, Pisa 1965: liii-liv; A. Mussafia, «Darstellung der altmailändischen Mundart nach Bonvesin’s Schriften», Sitzungsberichte der phil.-hist. Classe der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, 59(1868): 5-40 (17-18); C. Salvioni, Fonetica del dialetto moderno della città di Milano, Torino 1884: 161ss; M. Corti (ed.), Vita di San Petronio, Bologna 1962: xliv; Anonimo Genovese, Rime e ritmi latini, ed. J. Nicolas, Bologna 1994: cxxxvis., dove si richiama il giudizio espresso da Dante sulla z dei genovesi nel De aggiunga che notevoli residui dell’antico esito in affricata dentale di varie basi latine sono indicate da Rohlfs, Grammatica storica cit.: §§152, 156, 275, 277, 290, 291, per alcuni moderni dialetti lombardi (prov. di Como, Canton Ticino), del Piemonte settentrionale e sud-orientale, della Liguria (regione montana), della Lunigiana (Fosdinovo), per le colonie gallo-italiche della Sicilia e per la colonia genovese di Bonifacio 10 ; cf. poi la presenza dell’affricata in settentrionalismi documentati in Toscana già nel Duecento (140s.), come corazza, panziera, sozzo, e nei suffissi, influenzati dalla fonetica padana, -ozzo, -uzzo. Credo che, se a Pisa nel 1230-1231 si scriveva e si pronunciava dinansi, prestansa, mentre a Milano, a Bologna e a Genova ancora nel Trecento si scriveva e si pronunciava denanze, denançi, usanza, ecc., si possa prendere in considerazione la possibilità che il passaggio di / ts/ a / s/ e di / dz/ a / z/ nella Toscana occidentale sia stato indipendente dall’analogo fenomeno settentrionale. Ancora a proposito degli influssi settentrionali sugli antichi volgari toscani, C. rileva che, nel caso della sibilante intervocalica, la variante sonora «è penetrata [. . .] profondamente nel tessuto linguistico toscano, e compare in buona parte dei nomi di luogo», mentre «le occlusive sorde son rimaste in maggioranza, e costituiscono la norma nei toponimi che non hanno addentellati lessicali» (136). Il motivo di questa incidenza diversamente importante potrebbe essere strutturale, nel senso che - ammessa in ampi strati della popolazione toscana la volontà di riprodurre la pronuncia padana sonorizzata delle consonanti intervocaliche - la mancanza nel sistema fonematico locale di / z/ poté favorire la diffusione della variante sonora, che non rischiava di neutralizzare opposizioni garantite dal tratto di sonorità, come invece nel caso delle occlusive; tale variante si dev’essere poi fonologizzata assai per tempo, come ben dice C., diventando la correlata sonora di / s/ (cf. coppie unidivergenti come chie[s]e perf. di chiedere chie[z]e plur. di chiesa). Il fenomeno si potrebbe così in qualche modo confrontare con la moderna fortuna centro-meridionale della s sonora, suono estraneo all’inventario fonematico autoctono, ma sempre più diffuso nei rispettivi italiani regionali per imitazione della pronuncia toscana e settentrionale, al punto che occorre rilevare caratteristiche sovrestensioni, come il non toscano ca[z]a o il non toscano né settentrionale tocca[z]ana 11 . Illustrando i casi di rima merovingia nella poesia delle origini, C. cita l’avverbio ióso ‘giù’ del Ritmo cassinese (v. 44), ove ricorre in rima con forme in -usu. Trattandosi di un testo appartenente all’area in cui si distinguono -o e -u del latino volgare, C. riconduce lo ióso cassinese a lat. «de rsus, non de rsum» (470), con implicito rinvio all’ipotesi formulata da Helmut Lüdtke, altrove esplicitamente richiamata (260 N18, 318), secondo la quale la caduta di -m finale avrebbe comportato un allungamento e una chiusura della vocale precedente: di qui i differenti esiti delle desinenze -um -u, -ud -o, -us -o(s) 12 . L’etimo proposto è dunque ineccepibile. Vorrei soltanto richiamare l’attenzione sul fatto che la rianalisi morfologica alla quale è stata sottoposta nell’Italia mediana l’originaria opposizione 299 Besprechungen - Comptes rendus vulgari eloquentia, I xiii 5, e si rinvia al saggio di E.G. Parodi, Dante e il dialetto genovese, ora in Id., Lingua e letteratura. Studi di Teoria linguistica e di Storia dell’italiano antico, 2 vol. con numeraz. continuata, Venezia 1957: 285-300; e v. l’annotazione di P.V. Mengaldo al passo del De vulgari in Dante Alighieri, Opere minori, tomo ii, Milano/ Napoli 1979: 112. 10 Cf. G. Bottiglioni, «L’antico genovese e le isole linguistiche sardo-corse», ID 4(1938): 1-60 e 130-49 (131-32): l’insediamento genovese di Bonifacio risale alla fine del secolo XII. Altri dati importanti sulla conservazione delle affricate dentali nel Settentrione si ricavano da C. Battisti, Testi dialettali italiani in trascrizione fonetica, i. Italia settentrionale, Halle a. Saale 1914. 11 Ma in antico, quando evidentemente la pronuncia sonorizzata settentrionale non aveva il prestigio oggi riconosciutole, [z] del Nord veniva variamente adattata al sistema fonematico locale: cfr. ant. napoletano (sec. XV) doce venez. do[z]e. 12 Cf. H. Lüdtke, «Die lateinischen Endungen -um/ -im/ -unt und ihre romanischen Ergebnisse», in: Omagiu lui Alexandru Rosetti la 70 de ani, Bucarest 1965: 487-99. fonetica illum > lu illud > lo, donde la formazione di una classe di sostantivi neutri (non numerabili) contrapposta a una classe di sostantivi maschili (numerabili), assai per tempo deve aver comportato l’estensione della desinenza -o, nonostante -um etimologico, non solo ai femminili della IV declinazione (la mano, la fico, ecc.), ma anche ad una vasta gamma di invariabili (avverbi, forme pronominali e simili), in cui per giunta - se la vocale tonica è metafonizzabile - la metafonesi può risultare disattivata 13 : limitando l’esemplificazione a testi in cui -u e -o sono distinti con buona regolarità, cf. seco secum, quanto quantum, così come mano manum, nel Ritmo su sant’Alessio (vv. 27, 215, 221); meco mecum, ecco (prob. ècco) eccum nella Lamentatio (vv. 34, 51) e quanto nei Proverbia (v. 240) del codice celestiniano; cento (prob. cènto) centum negli Annali di Spoleto di Parruccio Zambolini (del primo Quattrocento) 14 ; e forse si potrebbe spiegare così anche il problematico lóro mediano, già attestato nella Carta picena del 1193, se da illorum e non piuttosto, secondo la bella ipotesi di Michele Loporcaro, da *illoro 15 . Nel presentare le forme pis., lucch., sen. e tosc. or. soro, suoro, suore ‘sorella’ e ‘monaca’, coi plurali variamente distribuiti soro, suoro, suore e sorore (313 e 416), C. si schiera con Rohlfs (Grammatica storica cit.: §§344, 354, 367), che riconduce l’ant. toscano suoro e il centro-meridionale soro, soru, suoru a un latino volgare *sorus della IV declinazione, foggiato su socrus e nurus. Mi chiedo se, in alternativa, non si possa pensare (con Meyer-Lübke, Merlo, ecc.) a continuazioni dirette del nom. soror soro, suoro, successivamente - in età romanza - aggregate (ma non ovunque) a tipi flessivi d’uso più frequente, come quelli appunto dei sostantivi femminili derivati dalla IV (la suoro, le suoro rifatto sul modello la mano, le mano), dalla III (pis. la suore, le suore rifatto sul modello la parte, le parte) o dalla I (it. la suora, le suore). A favore di tale ipotesi, esplicitamente respinta da Rohlfs, mi sembra militino le seguenti ragioni: 1. la mancanza di metafonesi in varietà metafonizzanti, come l’ant. aretino, il napoletano, ecc., fatto che - qualora non vi si voglia vedere una determinazione morfologica - sembra accennare a -o(r); 2. la sopravvivenza dello schema imparisillabo, endemico in Italia dal Veneto alla Toscana alla Sicilia, sing. soro, plur. sorore (o serore), che non può che rinviare a soror/ sorores e da cui è lecito, inoltre, estrapolare la vitalità protoromanza di un sistema flessivo (almeno) a due casi valido in genere per i sostantivi personali 16 . Riguardo a tale argomento, su cui da qualche tempo è tornata a concentrarsi l’attenzione dei romanisti, aggiungo un’osservazione nata in margine ad altra opera capitale di C. Ognuno sa, grazie alla fondamentale Trattazione linguistica dei Nuovi testi fiorentini del Dugento, che nel fiorentino dei secoli XIII-XIV la regola che prevede il passaggio di e atona a i (dicembre, medico) patisce alcune eccezioni lessicali, dato che «la e protonica originaria si mantiene a lungo nelle seguenti parole: megliore, nepote, pregione, segnore, serocchia» 17 . 300 Besprechungen - Comptes rendus 13 Per riscontri dialettali moderni (mediano méko, nósko, jóso) v. Rohlfs, Grammatica storica cit.: §7. 14 Cf. risp. Poeti del Duecento, ed. G. Contini, 2 vol., Milano/ Napoli 1960 (il Ritmo nel vol. 1: 15- 28); F. A. Ugolini, Testi volgari abruzzesi del Duecento, Torino 1959 (testi del cod. celestiniano); B. Migliorini-G. Folena, Testi non toscani del Quattrocento, Modena 1953: 25-27 (lacerto degli Annali di Parruccio Zambolini). 15 Si veda, in questo volume, M. Loporcaro, «Il pronome loro nell’Italia centro-meridionale e la storia della flessione pronominale romanza». 16 Si veda A. Zamboni, Alle origini dell’italiano. Dinamiche e tipologie della transizione dal latino, Roma 2000: 106ss. In ant. veneziano, accanto a sor soror e a serore sorores, è documentato anche il sing. seror sororem (cf. Testi veneziani del Duecento cit.: lxiii N81); una situazione analoga si ritrova in ant. romanesco: cf. G. Ernst, Die Toskanisierung des römischen Dialekts im 15. und 16. Jahrhundert, Tübingen 1970: 121. 17 A. Castellani (ed.), Nuovi testi fiorentini del Dugento, 2 vol. con numeraz. continuata, Firenze 1952: 118. Perché? Almeno per i primi quattro casi, costituiti tipicamente da forme accusativali di imparisillabi latini, si può pensare a un tratto fonetico residuale rivelatore di un’antica solidarietà paradigmatica della forma obliqua rizoatona con una forma nominativale rizotonica: in altre parole, se ne può arguire che in epoca predocumentaria vigesse a Firenze un sistema flessivo bicasuale del tipo meglio melior / megliore meliorem (cf. del resto ancora oggi peggiore), *niepo nepos / nepote nepotem, *pregio prehe(n)sio / pregione prehe(n)sionem 18 , *segno senior (cf. ser in posizione proclitica) / segnore seniorem, tutti casi in cui la e protonica delle forme accusativali sarebbe dunque così motivata come quella di vedere dato vede ovvero di tenere dato tiene; quanto a serocchia, se la e non fosse sufficientemente spiegata dalla sua natura secondaria (come per es. nell’it. sperone, che deriva da una voce d’origine germanica entrata nel latino d’età imperiale come *sporo, -onis [51-52]), si potrebbe pensare a un’originaria correlazione, certo trasparente alla coscienza dei parlanti, con un obliquo serore parimenti dissimilato. Tra gli elementi caratteristici della morfologia dell’ant. senese C. menziona «la presenza in alcuni testi dell’articolo integrale ello» (358). Tutti gli esempi citati in nota, tranne uno (ela decta lana), si trovano in posizione prevocalica (tipo ell’anno; v. anche Rohlfs, Grammatica storica cit.: §416). Orbene, anch’io ritengo che sussistano sicure tracce di una durevole persistenza della forma plenaria dell’articolo determinativo in area italo-romanza, ma credo che sia opportuno distinguere i vari contesti fonosintattici possibili. Luciano Agostiniani, infatti, in un saggio dedicato alla morfologia dell’articolo prevocalico nelle varietà toscane moderne 19 , ha mostrato che, ove è in uso il tipo ill’aglio, ell’erba, l’attacco vocalico risulta determinato dal contesto, essendo tendenzialmente categorico in posizione iniziale assoluta (ill’aglio), facoltativo all’interno di frase dopo finale vocalica (piantare ll’aglio o piantare ill’aglio); inoltre, in uno stesso luogo può variare il timbro della vocale iniziale: [i], [e], [@], ecc. Questa serie di fatti induce a ritenere che tale vocale, nella fase moderna descritta da Agostiniani, sia da analizzare come una prostesi davanti a / ll/ etimologica conservatasi in posizione prevocalica. Viene quindi il dubbio che ugual giudizio si debba dare delle antiche forme del tipo ell’anno, ill’anno (si noti: ell’anno a Siena dove especchio, ill’anno altrove dove ispecchio). Proporrei, dunque, in ordine alla questione della sopravvivenza dell’articolo integrale in territorio italo-romanzo, di attribuire un diverso valore probatorio ai vari contesti di ricorrenza delle forme con attacco vocalico, secondo il seguente schema scalare (dal meno al più): 1. esempi prevocalici con vocale dell’articolo interpretabile al limite come prostetica (ad es. ant. senese ell’anno, per tutto ell’anno); 2. esempi prevocalici con vocale dell’articolo non interpretabile come prostetica (ad es. pavano [Ruzante] igi altri ‘gli altri’); 3. esempi preconsonantici (ad es. ille secrita nell’iscrizione della catacomba romana di Commodilla, ant. senese ela decta lana, ant. veronese respond’igi filosofi), tanto più significativi se accompagnati da un’alternanza metafonetica tra forme maschili e femminili (ad es. ant. salentino illu quale contrapposto a ella femina). Un’ultima osservazione. Nelle pagine dedicate ai dialetti toscani orientali, C., sul fondamento di ricchissimi spogli, ci dà una preziosa descrizione del raddoppiamento fonosintattico nell’ant. aretino (408-11): l’indagine è tanto più interessante in quanto si tratta di una regione in cui oggi il fenomeno è quasi interamente scomparso, essendo limitato al rafforzamento provocato dal numerale tre (aretino tre [kk]èni ‘tre cani’). Di fronte agli esempi di raddoppiamento dopo che reperiti in scriventi del Trecento, C. conclude: «si dovrà quindi ammettere che in determinati casi il raddoppiamento sintattico avesse fatto breccia nell’a- 301 Besprechungen - Comptes rendus 18 Si noti che l’ant. fior. (e l’ant. it.) pregione vale ‘prigioniero’ oltre che ‘carcere’ (come l’ant. fr. prison e l’ant. prov. preizon): è quindi un sostantivo personale. 19 L. Agostiniani, «Sull’articolo determinativo prevocalico e le preposizioni articolate nelle varietà toscane», AGI 65(1980): 74-100. retino della seconda metà del XIV secolo, senza però riuscire a imporsi e diffondersi» (410). C. pensa quindi al risultato (modesto) di un influsso proveniente da aree rafforzanti, come quella fiorentina: e le date relativamente tarde delle attestazioni non ostano a tale interpretazione. A questo proposito, però, si ricordi anche la diversa proposta ricostruttiva avanzata di recente da Loporcaro che, valorizzando la presenza nell’area di alcuni casi fossili di raddoppiamento provocato da a e che (normalmente non raddoppianti) fissati entro locuzioni idiomatiche, tende a interpretare gli esempi medievali come reliquie di una fase antica in cui il raddoppiamento fonosintattico lessicalmente ristretto avrebbe interessato anche la Toscana orientale e l’Umbria settentrionale 20 . In conclusione, il volume di C., della cui inesauribile ricchezza e varietà le riflessioni precedenti non sono che debili postille, è un esempio luminoso di cosa significhi fare storia della lingua, un modello di metodo e di moralità scientifica per chiunque, in qualunque prospettiva, si occupi di italiano antico. Non resta quindi che ripetere la nostra gratitudine a chi ha scritto quest’opera che onora la filologia e la linguistica italiane. V. Formentin H Wolfgang Schweickard, Deonomasticon Italicum, Dizionario storico dei derivati da nomi geografici e da nomi di persona; Volume 1: Derivati da nomi geografici. Fascicolo 5°: Ciociaria - Damasco. Tübingen (Niemeyer) 2001 Al pari dei precedenti fascicoli, anche quest’ultimo si legge d’un fiato, come il bel capitolo di un romanzo a puntate. È una sensazione ben nota ai lessicografi - e condivisa con quanti amano i dizionari storici - quella di poter padroneggiare geografia e diacronie, attraverso la lettura delle voci di un lessico. E più ancora nel caso del DI, giacché ogni fascicolo, per sua stessa natura, si lascia godere come un libro di avventure di terra e di mare, diffuse nel tempo e nello spazio, attraverso percorsi di oggettiva interculturalità, quella delle cose, cioè, dei prodotti, delle merci, delle scoperte, ma anche delle astrazioni colte e dei recuperi mitologici e dotti. Un solo caso significativo: se si vorrà, per esempio, avere la pazienza di collazionare l’intera serie dei sintagmi esposti sotto l’articolo Cipro, si leggeranno, accanto alla storia delle fortune e della decadenza dell’isola, fondamentale ponte tra le sponde d’Oriente e l’Europa fino alla conquista turca del 1571, anche le molteplici rotte dei prodotti commerciati e la differenziazione merceologica e cronologica delle propensioni dei differenti mercati: apprendiamo così che, per mani veneziane, solo il Trecento dei mercanti toscani traffica bocorare, bucherami, boccaccini, filati, lana, seta di Cipro, ma anche che i medesimi mercanti condividevano con altri importatori il traffico di merci quali il vino, lo zucchero, lo zibibbo, l’indaco, e soprattutto la polvere di Cipri, quella ‘cipria’ oggi dimenticata, ma che fu alla base della cosmesi non solo femminile fino agli anni Cinquanta. Dopo la conquista turca, Cipro scompare come mercato, ci dicono le attestazioni del DI, e l’isola occorre solo come denominatore sporadico di tecnicismi quali gatto di Cipro ‘varietà del gatto domestico’ (1892, Garollo), pietra di Cipro ‘minerale fibroso’ (1848, EncPop), trementina di Cipro, ecc. Non soltanto: possiamo congetturare, infatti, come alcuni di questi sintagmi ci riconducano a stratificazioni più remote e d’altri antichi mercati, come è per la cera cipria, ma anche, l’olio e il rame di Cipro, ed altri ancora, che riappaiono solo nei volgarizzamenti pliniani e dioscoridei. 302 Besprechungen - Comptes rendus 20 Cf. M. Loporcaro, L’origine del raddoppiamento fonosintattico. Saggio di fonologia diacronica romanza, Basel/ Tübingen 1997: 90ss.
