eJournals Vox Romanica 63/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2004
631 Kristol De Stefani

Marcello Aprile, Giovanni Brancati traduttore di Vegezio. Edizione e spoglio lessicale del ms.Vat. Ross. 531, presentazione di Max Pfister, Galatina (Congedo Editore) 2001, 562 p. (Pubblicazioni del Dipartimento di filologia, linguistica e letteratura dell’Università di Lecce 16)

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2004
V. Formentin
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Marcello Aprile, Giovanni Brancati traduttore di Vegezio. Edizione e spoglio lessicale del ms. Vat. Ross. 531, presentazione di Max Pfister, Galatina (Congedo Editore) 2001, 562 p. (Pubblicazioni del Dipartimento di filologia, linguistica e letteratura dell’Università di Lecce 16) Il volume contiene l’edizione, preceduta da un’ampia introduzione e seguita da un glossario integrale, di un volgarizzamento della Mulomedicina di Vegezio tramandato adespoto dal manoscritto Rossiano 531 della Biblioteca Apostolica Vaticana ma ormai, dopo le convincenti argomentazioni prodotte da vari studiosi, unanimemente attribuito all’umanista Giovanni Brancati, che in una sua epistola latina a re Ferrante d’Aragona afferma appunto di aver compiuto una «Vegetii interpretationem». Il Brancati, nato a Policastro intorno al 1440 e arrivato nella capitale del Regno poco dopo il 1465, riuscì ben presto ad introdursi a corte, verosimilmente grazie all’appoggio di Antonello de Petruciis, conte di Policastro e segretario di Ferrante; dal 30 novembre 1480 al 31 agosto 1481 è nominato nelle cedole della tesoreria aragonese come «librero mayor del senyor rey», cioè in qualità di direttore della Biblioteca reale; dopo questa data di lui non sappiamo più nulla. L’Introduzione (13-115) è articolata in quattro capitoli. Nel primo (Giovanni Brancati latino e volgare) A. ricorda brevemente la produzione latina dell’umanista conservata nel ms. 52 della Biblioteca Universitaria di Valenza, già illustrata, tra gli altri, da Benedetto Croce; viene poi ricapitolata la carriera del volgarizzatore al servizio di Ferrante, cominciata con la traduzione vegeziana collocabile intorno al 1476, proseguita col volgarizzamento della Naturalis Historia di Plinio compiuto tra il 1476 e il 1480 e conclusa con la versione della Vita e favole di Esopo databile tra la fine del 1480 e l’inizio del 1481, anch’essa adespota e attribuita al Brancati da S. Gentile 1 : alla luce appunto di un’attività traduttoria così protratta nel tempo, A. suggerisce plausibilmente d’interpretare come un semplice topos umanistico l’ostentato disprezzo nei confronti della pratica del tradurre in volgare i testi latini espresso dal Brancati in una celebre lettera a Ferrante sulla versione landiniana della Naturalis Historia (18); A. esamina di séguito le dedicatorie dei tre volgarizzamenti, mettendone in evidenza le congruenze di struttura e di contenuto (significative anche a fini attributivi), in particolare per quel che riguarda le espressioni riguardanti la metodologia della traduzione, riassumibili in un’esigenza di fedeltà assoluta al testo latino che trova conferma nella fisionomia dei volgarizzamenti brancatiani; lo studioso propone infine una caratterizzazione della lingua del Vegezio fondata sui tratti già prescelti da L. Petrucci per misurare il grado di toscanizzazione del napoletano d’età angioina (fenomenologia della dittongazione, apocope cosiddetta letteraria, esiti dei nessi bl, fl e pl, forme deboli dell’articolo e del clitico da illum) 2 , confermando nella sostanza il giudizio formulato dal Gentile, secondo il quale, nonostante la scelta programmaticamente antitoscana espressa dal Brancati nel proemio al volgarizzamento pliniano a favore di un «linguagio . . . nostro . . . non pur napo- 288 Besprechungen - Comptes rendus 1 Per il Plinio v. S. Gentile, «Il libro pliniano sugli animali acquatici (N. H., ix) nel volgarizzamento dell’umanista Giovanni Brancati. Inedito del secolo xv», estr. dagli Atti dell’Accademia Pontaniana, n. s. 10 (1961): i-xxii e 1-38; La Storia Naturale [libri I-XI] tradotta in napolitano misto da Giovanni Brancati. Inedito del sec. XV, ed. S. Gentile, 3 vol., Napoli 1974; M. Barbato, Il libro VIII del Plinio napoletano di Giovanni Brancati, Napoli 2001. Per l’Esopo v. Vita e favole di Esopo [dal cod. 758 della Bibl. Univ. di Valencia]. Volgarizzamento inedito del secolo XV, ed. S. Gentile, vol. I [unico uscito], Bari 1961 (rist.: Vita e favole di Esopo. Volgarizzamento del secolo XV, ed. S. Gentile, glossario di R. Franzese, Napoli 1988). L’attribuzione dell’Esopo al Brancati è proposta in Gentile, «Il libro pliniano» cit.: v. 2 L. Petrucci, «Il volgare a Napoli in età angioina», in: P. Trovato (ed.), Lingue e culture dell’Italia meridionale (1200-1600), Roma 1993: 27-72. litano ma misto» 3 , mirante cioè a una sorta di koinè di base meridionale che presente l’ideale cortigiano, la prassi linguistica dell’umanista si dimostra invece sensibilmente influenzata proprio dal modello toscano, che d’altronde a Napoli aveva già fatto breccia nel registro letterario e «civile» fin dal Trecento. Nel secondo capitolo (La Mulomedicina di Vegezio) 4 , sulla scorta degli studi di V. Ortoleva, specialista di Vegezio tra i più agguerriti e prossimo editore del trattato, viene presentata la nutrita tradizione manoscritta dell’opera latina, schematizzata nei suoi interni rapporti genealogici in uno stemma codicum (37) entro il quale il ms. Rossiano trova posto quale importante testimone indiretto della recensio epitomata, altrimenti nota attraverso sei codici, nessuno dei quali rappresenta tuttavia il testo latino seguito dal Brancati (41): in assenza della fonte diretta, A. ha scelto come punto di riferimento per valutare il comportamento del traduttore il ms. Parigino Lat. 7017, già appartenuto alla Biblioteca aragonese, descritto insieme al Rossiano e ad altri due testimoni della redazione compendiata in un’apposita Appendice (50-53). Nel terzo capitolo (Modalità di volgarizzamento) A. illustra esaurientemente le modalità della traduzione 5 , analizzando le strategie messe in atto dal Brancati nel travasare dal latino al volgare l’«enciclopedia» tecnico-scientifica del trattato vegeziano, peraltro attinta (è bene tenerlo sempre presente) per mezzo di un esemplare certo molto corrotto 6 : vengono quindi distinti gli errori imputabili alla fonte e riflessi in vario modo nel volgarizzamento dagli errori attribuibili al traduttore 7 , dovuti di volta in volta a semplice distrazione, a scarsa dimestichezza con il lessico tecnico della veterinaria oppure alla tendenza, coerente con la metodologia traduttoria professata dal Brancati, a rendere l’originale parola per parola, col rischio di perdere la visione testuale d’insieme; di contro, rari e del tipo più comune nei volgarizzamenti medievali e umanistici sono «gli interventi di innovazione e di amplificazione» (66) del traduttore, come le glosse esplicative inglobate nel testo o le attualizzazioni di alcuni fossili lessicali; sul piano stilistico, al modello sempre incombente del latino - visibile soprattutto nell’ordine delle parole, nella sintassi fortemente ipotattica, nel ricalco di costrutti come l’accusativo con l’infinito e il dativo di possesso, e attivo finanche nell’epistola dedicatoria a Ferrante, che da un ideale testo latino sembra tradotta - si accompagnano in maniera discreta alcuni fenomeni sintattici volgari ben evidenziati da A., come il ricorso al che polivalente, l’ellissi del che relativo e congiunzione, la dislocazione dell’oggetto diretto e indiretto con ripresa clitica, anche se occorre notare che tali tratti non riescono mai a dare agi- 289 Besprechungen - Comptes rendus 3 Formula che consuona con le meno famose parole della dedicatoria del volgarizzamento vegeziano: non - secundo alchuni fanno - ho curato fundarme in parole exquisite de altrui linguagio, ma contentarme del nostro medesmo, qual, non essendo tanto inepto, come da molti è postposto assai me soglio meravigliare 8r.6-10 (avverto qui una volta per tutte che nelle mie citazioni dal Vegezio non segnalo lo scioglimento dei compendi). 4 Rifonde M. Aprile, «Questioni relative alla fonte latina alla base del volgarizzamento della Mulomedicina di Vegezio condotto da Giovanni Brancati (cod. Vat. Ross. 531)», ZRPh 115 (1999): 209-33. 5 V. già M. Aprile, «Modalità di volgarizzamento nella versione della Mulomedicina di Vegezio condotta da Giovanni Brancati», MR 23 (1999): 95-120. 6 Se ne lamenta il Brancati alla fine della dedicatoria: . . . dove veduto tucto quello che da Vegetio fu scripto, benché sia stato corruptissimo lo exemplare et altro non se ne sia possuto havere 8v.16-18. 7 A questo proposito, dato che, come si è detto, il testo-base latino su cui è stata condotta la traduzione non è stato individuato, viene a volte il sospetto che un errore imputato da A. al Brancati potesse essere già nella sua fonte: prendendo ad esempio il passo citato a p. 60, si . . . non si evacuano di sangue da tucti li scontri [‘(vene che si trovano nelle) punte del petto’] nel tempo de l’herba, pervengono in cecytate 23v.28-24r.2, in corrispondenza del testo latino «corretto» nisi annis omnibus herbarum tempore depleantur, incidunt in cecitatem, non mi sembra che si possa escludere del tutto la presenza di una lezione armis in luogo di annis nel manoscritto della Mulomedicina utilizzato dal volgarizzatore; e così pure si può dire, mi pare, per i casi di omeoteleuto presentati a p. 63. lità a una delle prose più grevi della Napoli aragonese. Nel quarto capitolo (Appunti sul lessico e sulla formazione delle parole nella Mulomedicina) A. descrive l’«impasto lessicale» (92) del volgarizzamento brancatiano, composto di latinismi (tecnici, stilistici, inerziali), grecismi veicolati dalla tradizione latina, pochi iberismi di circolazione per lo più «aragonese», un interessante gruppo di termini volgari e specificamente meridionali (94); segue una ventina di pagine dedicate a uno studio del lessico del volgarizzamento nei suoi rapporti, di volta in volta ricettivi o innovativi, con il testo latino: la prospettiva adottata da A. per valutare il grado d’influenza del latino sulle scelte linguistiche del Brancati è la formazione delle parole, sicché quest’ultima parte dell’Introduzione si configura come un’analitica descrizione delle formazioni verbali, nominali e aggettivali del testo del Brancati, tesa a cogliere le «dinamiche innovazione-conservazione» (97) attraverso un sistematico confronto tra fonte e traduzione. L’edizione del volgarizzamento (117-219) è ispirata a criteri massimamente conservativi: A. limita al minimo indispensabile gli interventi sul testo, sempre giustificati in apparato, per lo più mediante il riscontro con il corrispondente passo latino; segnala con il carattere corsivo lo scioglimento di tutte le abbreviazioni e rispetta scrupolosamente la grafia del manoscritto, fino al punto di riprodurre l’uso di j non solo quando rappresenta l’unità finale di un numero romano, ma anche all’inizio o alla fine di una parola, dove ricorre per lo più a puro scopo distintivo (come ad es. in auxilij 9r.10, potionj 19r.18, jntestino 36r.26, jn lo 45r.5). Il testo della Mulomedicina è seguito da un Glossario completo (221-540), che M. Pfister nella presentazione definisce il «cavallo di battaglia» (10) del libro: basterebbero del resto le sue dimensioni, assolute e relative, per far capire che si tratta appunto, per usare una diversa metafora, del pezzo forte del lavoro di A., che non per nulla ha avuto la fortuna di raffinare la sua preparazione lessicologica durante una lunga esperienza nel laboratorio del LEI (7). L’impostazione della voce permette di acquisire molte informazioni che vanno oltre il mero dato lessicale e semantico: all’indicazione della categoria grammaticale seguono un formario integrale, particolarmente utile nel caso dei verbi (e direi anzi necessario, data l’assenza di un commento linguistico), l’elenco delle varie accezioni del lemma (con la registrazione, per i verbi, delle costruzioni attestate) e infine la serie dei riscontri con altri testi antichi affini per materia o per lingua e con i vocabolari dialettali moderni. Chiude il volume una ricca e aggiornata Bibliografia (541-60) che, riflettendo la complessità dell’oggetto studiato, raccoglie insieme saggi di linguistica e lessicologia latina, opere di filologia e storia della lingua italiana, lavori di dialettologia meridionale: si rileva peraltro, così nella biliografia finale come nella lista delle fonti d’interesse lessicologico fornita alle p. 222-26, l’assenza di un’opera che forse sarebbe potuta riuscire utile ad A., cioè la recente edizione curata da L. Aurigemma del volgarizzamento della Mascalcia di Lorenzo Rusio, trecentesco e d’area sabina 8 . Concludo queste note informative accennando alla non irreprensibile esecuzione tipografica del volume, dove sono frequenti le sciatterie e i veri e propri errori di stampa (sempre rovesciato l’apostrofo in sequenze come si ’l cavallo, numerose le dittografie del tipo «attraverso attraverso» 21, «nella nella» 26 N29, «molto molto» 30, «Aggiungiungiamo» 31 ecc.). Veniamo alle osservazioni critiche, che seguiranno l’ordine delle tre sezioni di cui si compone il libro (Introduzione, Testo del trattato, Glossario). Nell’essenziale profilo della lingua del Vegezio tracciato alle p. 26s., così A. descrive le condizioni del dittongamento di e ed o brevi latine: «Spicca intanto l’assenza di casi di dittongamento metafonetico . . . in sillaba impedita, uno dei tratti locali più forti e caratterizzanti. Non moltissime anche le occorrenze 290 Besprechungen - Comptes rendus 8 L. Aurigemma, La «Mascalcia» di Lorenzo Rusio nel volgarizzamento del codice Angelicano V. 3. 14, Alessandria 1998. del dittongamento in condizioni coincidenti napoletane e toscane (es. piedi [6] contro pedi [56], luoco [4], luochi [4], nuovo [14] contro loco [102], locho [1], lochi [47], lochy [1], novo [7]). Rari i dittonghi anche in condizioni esclusivamente toscane (drieto [3], insieme [20], insiemi [5], piede [8], contro deretro [12], dereto [2], inseme [28], insemi [24], pede [12]; nuova [3] contro nova [2]; solo esito senza dittongazione in breve, fele, manera, mele, petra, tene ecc.). Identiche le condizioni nella Naturalis Historia» (26) 9 . L’insieme dei dati offerti dal testo suggerisce però un giudizio leggermente diverso, non tanto per l’isolata presenza di un fuorsi 10r.22 ‘forse’ - che così tutto solo, più che indebolire, conferma l’impressione di una volontà di evitare il dittongo metafonetico in sillaba implicata - 10 , quanto per il numero piuttosto alto di esempi di dittongamento in sillaba libera, soprattutto «in condizioni esclusivamente toscane», e anzi colpisce in questa classe la frequenza con cui il dittongo si presenta nelle forme verbali, la quale non trova riscontro né nel Plinio né nell’Esopo 11 . Faccio seguire la serie completa (salvo errore) delle forme dittongate in sillaba libera, ricavate dal glossario e dai miei appunti di lettura, tralasciando gli esempi già citati da A.: in condizioni metafonetiche per la serie palatale abbiamo lieto [1] e lieti [1], syero (si-) [3], per la serie velare puoi verbo [1], spagnuolo [1], spagnuoli [2] 12 , suolo ‘parte centrale dell’unghia dei mammiferi’ [3] (contro solo [2]) 13 ; in condizioni non metafonetiche per la serie palatale ricorrono contiene [1] 14 (contro contene [6]), conviene [15] e convien [6] (contro convene [1]), mantiene [1], ritiene [1], per la serie velare duole [2], fuora [12], fuore [1] e fuori [1] (contro fora [38], fore [3] e for [2]), muora [1] (contro more [2], moreno [13], morano [1]), muovere [2], muove [5], muoveno [1], muovono [1], muova [5], muovano [1] (contro move [1], moveno [1]), perquote [1] (contro percote [2]), può [32] (contro pò [3]), remuovere [1], rimuove [2] (contro removere [1], remove [2]), smuovano [1], squopre [1], suole [24], suol [3] (contro sole [4], sol [1]), truova [8], truovano [1], truove [2], truoveno [1] (contro trova [1], trovano [1]), vuole [1] 15 (contro vole [1]). Se ammettiamo che tale comportamento rifletta le scelte dell’autore e non del copista, questa relativa disponibilità al dittongamento di tipo toscano può riuscire interessante non solo in se stessa, ma anche in relazione col diverso comportamento rilevabile nel Plinio e nell’Esopo, perché sembra di cogliere una dinamica evolutiva in senso antifiorentino - o, mutato segno, verso una consapevole scripta di fondo centro-meridionale - che trova conferma in altri settori della lingua del Brancati: vien fatto di pensare alla presenza massiccia nel Plinio e nell’Esopo di un costrutto ignoto al Vegezio come la 291 Besprechungen - Comptes rendus 9 Ho omesso i rinvii a carta e rigo del ms. che accompagnano le forme citate; per le condizioni del dittongamento nel volgarizzamento pliniano A. fa riferimento a Gentile 1961: xv, e a Barbato 2001: 99s. 10 Per il dittongo metafonetico nel nap. antico fuorse, fuorcze *forsis (o, secondo altri, *forsim) v. Loise De Rosa, Ricordi, ed. V. Formentin, Roma 1998: 111; si noti che il dittongo metafonetico «sfuggito» al Brancati (o al suo copista) ricorre, credo non casualmente, in una forma invariabile, non inserita cioè in un paradigma flessivo entro il quale la metafonesi possa assumere rilevanza morfologica. 11 Barbato 2001: 100-02. La situazione dell’Esopo sembra appunto affine a quella del Plinio: netta prevalenza in sillaba libera delle forme non dittongate su quelle dittongate, costituite per la maggior parte da indeclinabili (drieto, dirieto, indrieto, indirieto, insieme, insiemi); per i verbi, in condizioni di dittongamento toscano, ho raccolto solo fiere 96.4 ‘ferisce’, prieme 95.23, viene 15.22, oltre a conviene 13.31, 79.12, 97.7, 104.12, 115.1, 117.7, forma (se non m’inganno) assimilabile in qualche modo agli indeclinabili perché passibile di uso impersonale. 12 A Napoli peraltro ci si aspetterebbe -ulo (cf. G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 vol., Torino 1966-69: §126). 13 Cf. il Glossario, s. v. solo 3 (489). 14 L’esempio, che non compare nel formario fornito s. v. [contenere] (296), occorre a c. 96v.6. 15 L’esempio, non registrato nel glossario s. v. volere (531), occorre a c. 82v.20. flessione delle forme nominali del verbo (31), ovvero all’uso, sporadico nel Plinio e frequente nell’Esopo, della forma nominativale chi del pronome relativo (ad es. quel chi guardava la porta), di cui non c’è ancora traccia nel volgarizzamento più antico 16 . Trattando delle preposizioni articolate deboli e forti (29-30) A. non fa cenno alla distinzione tra forme maschili e forme (neo)neutre, la quale si è rivelata però pertinente per il napoletano antico e tale in particolar modo da spiegare nelle forme forti - le uniche autoctone nel Mezzogiorno - la distribuzione di l scempia (tendenzialmente con i sostantivi maschili, cioè numerabili) e di l doppia (tendenzialmente con i sostantivi (neo)neutri, cioè non numerabili): di fatto, i due soli esempi ivi registrati del tipo con l doppia (allo 97r.24 e nello 19v.16) appartengono appunto alla categoria (neo)neutra, accompagnandosi rispettivamente a un infinito sostantivato e a un nome di materia (allo permutare overo extrahere de cavalli, falle bene stare a mollo nello grasso) 17 . Nel leggere il seguente passo «un cenno per il costrutto art. + superlativo organico rilevabile in quantumque Africha sia solita darli velocissimi del sangue spagnuolo ad usu de sella 97v.15-17; si tratta di un chiarissimo calco latineggiante che trova altri riscontri in Brancati» (76) viene sùbito il sospetto di essere di fronte a uno dei frequenti refusi cui si faceva prima riferimento (darli velocissimi invece di dar li velocissimi ‘produrre i cavalli più veloci’), tanto più che in nota si cita dal volgarizzamento pliniano un esempio di articolo + superlativo organico col valore di superlativo relativo (la longhessema lor vita è de deci anni): ma nell’edizione del trattato troviamo ancora darli velocissimi (205), sicché si è costretti a registrare l’incongruenza. Quanto alla costituzione del testo, bisogna senz’altro lodare il giovane studioso per l’abilità con cui ha affrontato l’impegnativo compito di pubblicare il difficile volgarizzamento brancatiano. Anche in questa sezione, però, non mancano fastidiosi refusi, come habia mancata Apel|lagonio 9r.15 per h. m. a Pellagonio (cf. il Glossario, s. v. Pelagonio), Ad questo cavarai sangue primo dal | dal collo 16r.17-18, in cui non sappiamo se si tratti di una dittografia imputabile al tipografo ovvero di una reduplicazione del copista a capo di riga (comunque da espungere), Curerai|se 68r.22 per Curerasse (così è registrata l’occorrenza nel Glossario, s. v. curare); nella serie degli errori tipografici andrà forse inserito anche l’uso di tre puntini in luogo di tre asterischi per segnalare uno spazio bianco lasciato dall’amanuense in Si have febre in . . . 1v.13 18 . Altre volte non v’è accordo tra la forma presente a testo e quella riportata nel Glossario, forse perché questo riflette una precedente soluzione editoriale che non è stata successivamente aggiornata: sembra essere questo il caso di dedrieto (16r.13, 69r.27, 70r.6), che si cercherebbe invano nel Glossario, il quale s. v. deretro assegna le succitate occorrenze alla forma drieto, certo per una diversa segmentazione del continuum (de drieto). In altri casi mi pare che la lezione fissata da A. debba essere ritoccata. Vegezio, nel proemio all’opera, difende la dignità della mulomedicina: 292 Besprechungen - Comptes rendus 16 Per l’ultimo tratto v. V. Formentin, «Flessione bicasuale del pronome relativo in antichi testi italiani centro-meridionali», AGI 81 (1996): 133-76 (sull’Esopo: 149-51), e Barbato 2001: 191. 17 V. Formentin, Dei continuatori del latino ILLE in antico napoletano, SLI 20 (1994): 40-93 e 196- 233. 18 Per il criterio dei tre asterischi a rappresentare «gli spazi bianchi lasciati dal copista» v. la nota premessa al testo (117). Preciso che mantengo per quest’esempio la cartulazione editoriale, anche se francamente suscita qualche perplessità la numerazione adottata da A. per le prime sei carte del manoscritto, che hanno subito una dislocazione: «a causa di un errore, le cc. 1 e 2 sono state posposte alle 4 successive: la c. numerata con 1 è in realtà la quinta originaria, la n˚ 2 corrisponde alla sesta, mentre le attuali carte 3-6 corrispondono alle prime quattro carte» (50); in nota A. afferma che «nell’edizione del testo è ovviamente ripristinata la numerazione originaria», ma quella che va «ovviamente ripristinata» è la consecuzione originaria, non già la cartulazione, che dovrebbe rispecchiare l’attuale struttura del manoscritto. Per la vana persuasione nasce questo incommodo, che ciascuno eruditissimo si vergogni et creda esser vile la medicina de li animali. Primo, la scientia de nisuna cosa è vile, considerato in la conversatione de la vita humana altra cosa sia da fugire altra da seguire, non è perfecta cognitione eccepto l’uno et l’altro sia cognosciuto. Secundo, che extimarà essere reputata ad vergogna tal cognitione che toglia li damni, perché così como la infirmità de li animali ad coloro che la haveno monstrata porta guadagno, così la morte monstra portare damno. . . Finalmente ecc. (9v.29-10r.13) Constatato che per Secundo, che ecc. non è accettabile l’interpretazione proposta nel Glossario, s. v. secundo 2 («congiunz.: introduce frase modale con il v[erbo] all’ind. . . . Seguito da che 10r.6 [è l’occorrenza qui discussa], 47r.14 [= secundo che la età, la virtù overo lo morbo permicterà]»), del resto contraddetta dalla stessa punteggiatura adottata da A., bisognerà prima di tutto restituire a Secundo la sua funzione d’avverbio, ‘in secondo luogo’, evidente nella sequenza enumerativa Primo . . . Secundo . . . Finalmente. Ci si può chiedere ora quale sia il valore del che seguente, che certo non può essere congiunzione: si dovrà infatti interpretare come pronome interrogativo equivalente a ‘chi? ’, secondo un uso ben documentato nei testi napoletani e centro-meridionali antichi nonché nello stesso Brancati 19 . Leggerei dunque: Secundo, che extimarà essere reputata ad vergogna tal cognitione che toglia li damni? perché così como la infirmità ecc., con movenza analoga a quella che troviamo poco più innanzi in Ma chi pensa esser da vergognare et cognoscere la cura de li animali, actento [‘considerato che’] sia cosa gloriosa havere boni animali? 10r.19-21. Il testo latino conferma pienamente tale interpretazione: «Ex inani persuasione illud generatur incommodum, ut honestissimus quisque erubescendum ac vile credat iumentorum nosse medicinam. Primum nullius rei scientia vilis est. Nam cum in humanae vitae conversatione aliud fugiendum sit aliud vero sequendum, non est perfecta sapientia, nisi quae utrumque cognoverit. Deinde, quis existimet erubescendum talem peritiam quae damna submoveat? Nam sicut incolumitas iumentorum habet lucrum, ita eorum interitus afferre videtur incommodum . . . Postremo etc.» 20 . Vegezio, nei due passi seguenti, prescrive dapprima un rimedio contro l’ematuria e descrive poi le caratteristiche di una particolare razza di cavalli: Si lo animale piscerà o per lo fundamento gictarà sangue, lo curarai per questa ragione: togliese sangue da la vena superiore, pistese ancora la radice de lo afrodillo et con xviij u. de vino bianco dulce che pairà glutinosa se gecte per la bocca (71v.19-24) Nientedimeno, la mente è prudente et, quel che è meraviglia in tanto furore, ad cautissima bellecza lo collo è curvato ad modo de arco, in modo che pairà la barba stare posta supra lo pecto (98r.12-15) A. dunque, stampando in entrambi i luoghi pairà, interpreta la forma quale futuro di parere, come troviamo infatti ribadito nel Glossario (425), dove - a conforto, credo, di tale interpretazione, che presenta evidenti difficoltà fonetiche - viene addotto il pairranno che si legge al v. 190 del Regimen sanitatis pubblicato dal Mussafia 21 ; orbene, nel Regimen quel pairranno (che il Mussafia stampa páirranno) è però congiuntivo, come ben risulta dal com- 293 Besprechungen - Comptes rendus 19 Vari esempi in Formentin 1996: 168; per l’uso brancatiano si vedano questi riscontri tratti dall’Esopo: mo’ parerà manifestamente che [‘chi’] è benivola al signore 28.5, o fugitivo, che [‘chi’] è quella? 31.5, domandando quello che [‘chi’] fosse che facesse le nozze 32.7. 20 Qui e in seguito, nell’impossibilità di accedere al ms. Parigino Lat. 7017 o ad altri testimoni della recensio epitomata, uso P. Vegeti Renati Digestorum artis mulomedicinae libri, ed. E. Lommatzsch, Lipsia 1903; il brano cit. è a p. 14. 21 A. Mussafia, «Ein altneapolitanisches Regimen sanitatis», Sitzungsberichte der phil.-hist. Classe der kaiserlichen Akademie der Wissenschaften, 106 (1884): 507-626. mento linguistico e dal glossario del grande filologo dalmata (per -nncf. ivi stesso fáçanno ‘facciano’ al v. 238), sicché abbiamo un motivo in più per interpretare anche noi come congiuntiva la forma del ms. Rossiano, che naturalmente avrebbe allora accentazione piana (pàira pareat) e presenterebbe il ben noto esito metatetico del nesso -rj-, come nel nap. còiro corium (e cf. proprio paira nel Ritmo cassinese, v. 45 ed. Contini); nell’uno e nell’altro passo avremmo una consecutiva (la prima senza antecedente) col verbo al congiuntivo, come tante volte nel volgarizzamento per più o meno manifesto latinismo (ad es. tal cognitione che toglia li damni 10r.7, in modo che lo animale, sia quantosivoglia sano, in breve tempo . . . de subito se muora 10v.3-5 ecc.); identico giudizio andrà portato sull’unica occorrenza di paerà (altri tondeno in tal manera che paerà ad similitudine de un archo 42r.7), che stamperei piuttosto paera, forma da ritenersi equivalente a paira. Anche per questi tre passi la nostra interpretazione ha il conforto dei rispettivi luoghi latini: «ut glutinosa videatur», «incurvata in arcum cervix, ut mentum recumbere videatur in pectore», «alii ita tondent, ut arcum videantur imitari» 22 . Se tali proposte sembrassero convincenti, andrebbero eliminate dal Glossario le forme ricostruite d’infinito paere e paire, registrate s. v. parere (425). Quanto al Glossario, impostato lodevolmente per facilitare lo sfruttamento lessicografico del volgarizzamento, si può osservare che in base ai criteri di lemmatizzazione indicati (221) non risulta immediatamente chiaro perché, in presenza di alternanze formali e non semantiche, in alcuni casi si sia optato per due entrate (ad es. disagio e disaso ‘stenti, privazioni’, digito e dito ‘dito’, anche come unità di misura di superficie, esso e ipso, ogni e omne), in altri per una sola (ad es. disinterio e visenterio, intestino e stentino, pulpo e polypo, [rumfare] e [rumfiare] 23 , suspiro e suspirio). Rimanendo alle questioni d’ordine generale, a me sembra che l’uso degli apici, al di là di eventuali deroghe da giustificare caso per caso, andrebbe limitato ai secchi equivalenti semantici (ad es. cyamaruche ‘chiocciole, lumache’), mentre sarebbe preferibile non ricorrervi nel caso di definizioni generiche (ad es. apostema «‘denominazione generica di ascessi e suppurazioni’» [249], code marine «‘pianta o animale non identificato’» [286]) o di mere note esplicative (ad es. invictissimo «‘appellativo di Ferrante II [intendi I]’» [375] e perfino Pelagonio «‘ippiatra latino’» [430], Vegetio «‘Vegezio, autore della Mulomedicina’» [524]). È poi apprezzabile lo sforzo di A. nel voler determinare ogni minima sfumatura semantica di un lessema, ma in certi casi il lettore che abbia competenza nativa dell’italiano non può sottrarsi all’impressione di un «accanimento definitorio», come si esprime spiritosamente lo stesso A. ad altro proposito (92 N223): male «‘non bene’» (391), passo «‘movimento degli arti inferiori’» (428), piccolo «‘di dimensioni alquanto ridotte’» (437), solito «‘che non si differenzia da quello delle altre volte’» (489), (cavalli) veloci «‘che percorrono un notevole spazio in poco tempo’» (525). Dell’inadeguatezza, infine, di una griglia a due soli tratti di genere (maschile e femminile) per dar conto di un sistema tripartito come quello napoletano e campano (maschile, femminile e (neo)neutro) ho già detto altrove 24 : ribadisco qui che, in un testo come il nostro, interpretare senz’altro come maschili avenire nella locuzione per lo avenire (259) o il già citato grasso in falle bene stare a mollo nello grasso (353) comporta un falsante appiattimento sul modello toscano-italiano di una realtà linguistica più articolata e complessa. Qua e là compare qualche inesattezza che non pregiudica l’interpretazione del testo. Ne segnalo una che non può passare inosservata: sebbene a Venezia abbia probabilmente di- 294 Besprechungen - Comptes rendus 22 Ed. Lommatzsch 1903: 162, 251 e 88. 23 La seconda potrebbe essere la forma con ampliamento in -idiare (nap. ronfeja(re)). 24 V. Formentin, recensione a Barbato 2001, ZRPh. in corso di stampa. morato insieme con altri membri della sua famiglia, Jacopo della Lana, il commentatore della Commedia di Dante, era bolognese e non «venez[iano]» (234, s. v. acuità) 25 . Propongo qui di seguito una serie di appunti relativi ad alcune interpretazioni del testo e della sua lingua fornite nel Glossario. Comincio da alcune osservazioni d’ordine grammaticale: tentemo in al quale si deve dare tale curatione, che non t. curare da parte de fuora 18r.2-3 è congiuntivo - ancora in una consecutiva - con desinenza etimologica ( -emus) 26 , non già indicativo (510), e lo stesso si dica per tracte in de la quale infirmità conviene si t. diligentemente 73r.14, forma presentata come «ind. pres.» nel Glossario (514); alquanto, quando è «seguito o preceduto da de part[itivo]» (242), come per es. in a. de rosamarina 75r.1, è pronome e non avverbio (come altrectanto in de aspalto a. 21v.2, che è invece correttamente classificato); non capisco come il verbo andare in nui, che per oportunità simo andati lunghi et diversi camini ad cognoscere la generatione ecc. 97r.27 si possa interpretare come «tr[ansitivo] con l’oggetto interno» (245), dato l’ausiliare essere e l’accordo del participio col soggetto, che indicano una struttura regolarmente inaccusativa: il complemento rappresentato lessicalmente dal sintagma lunghi et diversi camini sarà semplicemente mensurale o locativo, come in chella montangnia che andò doe miglia (De Rosa) o nel fr. sire, allez vostre chemin 27 ; per i plurali del tipo li carni (s. v. carne femm. [273]) andrebbe almeno presa in considerazione la possibilità che si tratti di veri e propri maschili 28 ; il participio sequita ‘conseguita’ ricorrente in si per lo superchio dolore haverà ancora s. durecza 95r.13 è registrato come forma del verbo sequitare (481), mentre sembra spettare a sequire. Presento infine alcune proposte interpretative divergenti da quelle avanzate da A. nel Glossario. Nel passo iniziale della dedicatoria a Ferrante, un brano stilisticamente e linguisticamente tesissimo, grondante di latinismi lessicali e sintattici (come ha ben messo in rilievo A. nell’analisi compiuta nell’Introduzione [74]), il Brancati ricorda la sua primitiva avversione nei confronti dei volgarizzamenti: Spesse volte fra me stesso ho condemnati coloro, invictissimo Signore, li quali, essendo homini licterati 29 , sogliono pigliare fatica de interpretare la latina lingua et ridurla ad la materna et vulgare, presumendo non solamente hystorici dignissimi et poeti, ma ancora libri de ciascuna facultà con simile studio maculare, parendome maximamente cosa assai indigna de qualumque [‘chiunque’] d’essa latina lingua ben meritato che se affanna [‘che si dia da fare’, letter. indic.] che la cognitione de le cose alte . . . pervenga anche ad la notitia de li vili artisti ecc. (7r.1-12) L’avverbio ben nel sintagma ben meritato è interpretato ‘marcatamente, decisamente’ (262) e il verbo meritare, pur in tanto scialo di definizioni e gradazioni semantiche, non riceve tuttavia alcuna glossa esplicativa (400): a me sembra però che questo esempio ne abbia bisogno, se è vero che l’espressione del Brancati d’essa latina lingua ben meritato ricalca il latino 295 Besprechungen - Comptes rendus 25 La svista si spiega forse a partire dalla sigla «venez.» con cui, in forza della sua tradizione manoscritta, è citato il commento del Lana nei primi numeri del «Bollettino» dell’Opera del Vocabolario Italiano (e cf. Opera del Vocabolario Italiano, Bibliografia dei testi in volgare fino al 1375 preparati per lo spoglio lessicale, Firenze 1992: 208-9); ora però nella Bibliografia dell’OVI rivista da Pietro Beltrami e consultabile al sito www.csovi.fi.cnr.it l’indicazione è rettificata in «bologn.». 26 Cf. Barbato 2001: 210. 27 Inverosimile (cioè antieconomico) è interpretare simo come ausiliare di una struttura transitiva: i pochi esempi radunati e discussi da M. Cennamo, «La selezione degli ausiliari perfettivi in napoletano antico: fenomeno sintattico o sintattico-semantico? », AGI 87 (2002): 175-222 (212s.), sono da ritenersi a mio parere illusori. Probabilmente mensurale o locativo è anche il complemento che accompagna il verbo caminare nell’esempio del Plinio citato da A. (camina li longhi spatii), come si argomenta in Formentin, recensione cit. 28 Cf. Loise De Rosa 1998: 132 N335, 316 N922 e bibliogr. ivi citata. 29 Intenderei ‘che conoscono il latino’ piuttosto che ‘letterati, eruditi’ (Glossario [384]). bene meritus de aliqua re ‘(chiunque sia) benemerito di questa lingua latina’ e costituisce quindi un non ovvio latinismo, da aggiungere alla lista di (93). Un po’ più innanzi nella dedicatoria, il Brancati, dando fondo alla sua consumata abilità retorica, sfoggia un bell’esempio di preterizione: Et perché in questo loco me persuado non esser conveniente o laudabile altramente de alchuna parte de le tue infinite laude pertractare, tacendo, non sensa continuo studio et speranza, vivo per possere in altre carte iuxta le forcze del mio basso ingenio satisfare (8r.28-8v.5) Il latinismo iuxta non mi pare avere il valore assegnatogli nel Glossario di «avv[erbio] ‘parimenti, allo stesso modo’» (378): credo sia preposizione, nel senso di ‘secondo, conforme a’ (‘per poterti soddisfare conforme alle forze del mio basso ingegno’, ‘per quanto consentano le forze del mio basso ingegno’); eliminerei inoltre la virgola dopo speranza. Vegezio suggerisce una cura efficace per i cavalli sofferenti di scesa ‘flussione’ del collo (lat. «destillatio cervicis»): Curarailo per questa ragione: jmpierai li pertusi desupra de marrubio et de sale inseme pisti et calcheraili, ma desupto mollificarai ponendoce lo impiastro; et si ’l patesse la condition del loco, lo tagliarai [‘gli praticherai un’incisione’], accioché lo humore scorra de fora per la piagha (62r.10-16) A. afferma che patere/ patire in questa occorrenza (62r.14) significherebbe ‘far patire’ (428) e segnala di conseguenza quest’esempio come prima attestazione del verbo con tale valore causativo; leggendo il brano, però, viene naturale intendere più semplicemente ‘e se le condizioni del luogo lo consentissero’ (lat. «si loci condicio patietur») 30 , se cioè le particolari condizioni ambientali permettessero di procedere all’operazione chirurgica subito dopo descritta. E sembra che anche A. abbia inteso dapprima così, dato che la medesima occorrenza (62r.14), ubiqua ai casi, è citata anche per l’accezione ‘consentire, permettere’. Lo stesso verbo ricorre poi più innanzi, dove si prescrive una ricetta per la cura de li lumbi: coce in modo che squaglie u. vij de resina dura, ad la quale bullente spargi desupra farina de orgio tanto tempo che se inspessi ad similitudine de farinata, et dilactata [‘impastata’] per lungo spatio la micte supra li reni calda ne la piagha quanto se possa patire con la mano (69v.19-24) A. interpreta patire come ‘contenere (con il palmo di una mano)’ (429), ma mi sembra preferibile intendere ‘tanto calda quanto si possa sopportare con la mano’, appunto come dice Vegezio («calidum ita, ut manus pati possit») 31 . Per il termine matrice l’unico significato registrato nel Glossario è ‘utero, complesso dell’apparato genitale femminile’ (396); ma nelle tre occorrenze ivi citate per esteso (18r.6, 24r.11, 28r.22) mi sembra escluso che matrice possa indicare l’utero: Ma se deve primo cavare sangue da la matrice et quello, misticato con aceto forte, se deve menare per tucto el corpo (18r.6-8) Ad li ammorbati et a qualumque altro animale tucto lo corpo è causa de male, como in li febricitanti se deve togliere sangue da la matrice (24r.9-11) Ancora, po’ la detractione del sangue da la matrice overo dal palato, darai al febricitante questa potione (28r.21-23) È infatti inverosimile che si potesse cavar sangue dall’utero, senza contare che il contesto dei tre passi si riferisce con tutta evidenza al cavallo in genere, senza determinazione di sesso. Chi avesse ancora dei dubbi può vedere questi altri due esempi, dove si parla della matrice di cavalli castrati (scugliati) e stalloni: 296 Besprechungen - Comptes rendus 30 Ed. Lommatzsch 1903: 136. 31 Ed. Lommatzsch 1903: 157. Concordanose insieme li auctori che a li scugliati mai si debia togliere sangue da la matrice, excepto per superchia et extrema necessità, imperoché perderono grandissima parte del calore con li testicoli. [. . .] Ma li stalloni, quando son prohibiti dal montare, se dice spesse volte cecarse se non se sagnaranno da la matrice (98r.26-98v.5) Non è dubbio, insomma, che in tutte le ricorrenze succitate la matrice designi la vena giugulare, appunto come la matrix di Pelagonio e Vegezio 32 . V. Formentin ★ Sabine Heinemann/ Gerald Bernhard/ Dieter Kattenbusch (ed.), Roma et Romania. Festschrift für Gerhard Ernst zum 65. Geburtstag, Tübingen (Niemeyer) 2002, viii + 428 p. Le Festschriften risultano di solito dei volumi poco meno che disperanti per un recensore, per via ovviamente della programmata eterogeneità e occasionalità dei contributi che contengono; ma bisogna dire che hanno sempre due atouts che le rendono molto preziose. In genere, sono infatti dei sostanziosi volumi con bella rilegatura, con sovracoperta, con assetto tipografico ben curato, il che li rende assai gradevoli già come oggetti; ma quel che conta è che, proprio in virtù della loro eterogeneità, dalle Festschriften c’è sempre molto da imparare: qualche cosa di impreveduto, di importante, di originale, qualche scavo in settori trascurati o marginali, qualche suggerimento di nuova sistemazione teorico-metodologica si trova sempre, qualunque sia l’angolo disciplinare da cui muove il lettore. Questa miscellanea in onore del romanista di Regensburg Gerhard Ernst non sfugge alla regola, tutt’altro. Vi compaiono, assieme alla bibliografia del festeggiato (3-14), trenta contributi di linguisti, romanisti, storici della lingua, italianisti attivi in università tedesche e italiane, ma anche austriache (H. Goebl, M. Iliescu) e slovene (M. Skubic), disposti in ordine alfabetico. I temi spaziano dal romanesco antico, ai manuali di lingua francesi del Seicento, alla morfologia derivazionale, alla sintassi romena, alla terminologia del violino, alla storia della lingua italiana e francese, alla lessicologia, allo spagnolo del Nuovo Messico, alle lingue creole, a fatti fonetici in sincronia e diacronia, e via discorrendo; e dànno ben conto della gamma degli interessi del festeggiato. Qui ci limiteremo a segnalarne in maniera più dettagliata una scelta, del tutto obbediente alle idiosincrasie di chi scrive; si fa così certamente torto ai non menzionati, che perdoneranno la mancanza. G. Bernhard, «Uvulares [r]: Synchronisches und Diachronisches zu einem rätselhaften Laut» (15-22), prende simpaticamente lo spunto dalle difficoltà che secondo il suo istitutore Héroard (studiato com’è noto dal festeggiato) il piccolo Luigi XIII ebbe ad imparare la pronuncia alveolare della [r] per tracciare le linee della diffusione in Francia della realizzazione normale uvulare della vibrante. P. D’Achille, «Il romanesco nei manualetti scolastici degli anni Venti» (47-62), esamina il tipo di dialetto presentato nei manuali scolastici del terzo decennio del secolo scorso sulla scorta del metodo gentiliano «dal dialetto alla lingua», per ricavarne interessanti documentazioni di usi dialettali e della loro percezione presso gli autori dei manualetti, e per proporre anche un paio di retrodatazioni di romanismi in italiano: fiumarolo e tintarella (datati rispettivamente 1958 e 1942 dal GRADIT di T. De Mauro) sono già presenti, e commentati, nel manuale di N. Angelucci (1928-29). 297 Besprechungen - Comptes rendus 32 J. N. Adams, Pelagonius and Latin Veterinary Terminology in the Roman Empire, Leiden-New York-Köln 1995: 422-23; si veda inoltre lo stesso Glossario di A., s. v. matricale (396), dove si ricorda l’uso di matrix ‘vena giugulare’ in Teoderico da Cervia (XIII sec.), spiegato correttamente come un vegezismo.