Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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2005
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Kristol De StefaniD’Arco Silvio Avalle, La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del medioevo romanzo, Tavarnuzze-Firenze (Edizioni del Galluzzo) 2002, xix + 755 p. (Archivio Romanzo 1)
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2005
Michela Russo
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müsste mit Haushalt, Herd übersetzt werden. Daneben haben sich in die Übersetzungen auch grammatikalische Fehler eingeschlichen. «Eine von Repräsentanten aller Stände der Gesellschaft zusammengesetzten Allgemeine Versammlung» (28) oder «die Kommunisten könnten sich das Verdienst des Sturzes der Antonescu-Diktatur rühmen» (146) (Hervorhebungen sind von mir) sind leider keine Einzelbeispiele. Solche Fehler erstaunen angesichts folgender Feststellung von Petrea Lindenbauer am Ende des Buches, «Den großen Vorteil unserer rumänisch-deutschsprachigen Arbeitsgemeinschaft haben wir vor allem in der Übersetzung der rumänischen Primärtexte ins Deutsche nützen können» (270); man hätte zumindest die deutschen Texte noch einmal von einer Muttersprachlerin oder einem Muttersprachler gut durchlesen lassen müssen. Diese Bemerkungen sollen jedoch das Verdienst des Buchs als eines zwischen zwei Kulturen vermittelnden Werkes nicht schmälern. Dem deutschsprachigen Leser, der des Rumänischen unkundig ist, bietet sich hier die Möglichkeit, Quellentexte zur neueren Geschichte Rumäniens in Übersetzung zu lesen. Die Erläuterungen und die Analysen dieser Texte vermitteln zudem einen guten Überblick über die Geschichte des modernen rumänischen Nationalstaates. Andreas Schor ★ D’Arco Silvio Avalle, La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del medioevo romanzo, Tavarnuzze-Firenze (Edizioni del Galluzzo) 2002, xix + 755 p. (Archivio Romanzo 1) Questo volume inaugura la nuova collana dell’Archivio Romanzo a cura di Lino Leonardi e nasce per celebrare gli ottant’anni dell’autore, purtroppo scomparso da poco (Avalle ne ha discusso però assieme allo stesso Leonardi le fasi iniziali). Il libro diventa così un omaggio in absentia (IX) e una testimonianza del percorso intellettuale dell’autore, personaggio di primaria importanza per il panorama della cultura italiana del Novecento. Gli articoli che compongono il libro appaiono nella forma in cui furono pubblicati con i riferimenti bibliografici originari posti alla fine. La raccolta riunisce due serie omogenee di studi che costituiscono i temi centrali di Avalle maestro e filologo. La prima serie è sulla metodologia ecdotica dei testi romanzi, e siamo quindi nell’ambito della critica testuale: nel saggio con cui si apre il volume L’immagine della trasmissione manoscritta nella critica testuale (3-14) vengono richiamati i concetti abitualmente utilizzati nella fenomenologia della trasmissione manoscritta e che sono stati gravati da servitù di vario genere, le quali hanno ostacolato il nascere di una scienza autonoma (si veda ad esempio il lento processo di emancipazione dell’ecdotica dalle scienze naturali che comporta la crisi dell’ecdotica classica). Un’ecdotica di tal genere non avrebbe mai potuto dare una risposta adeguata al problema della recensio ovvero a quello della contaminazione. Viene così sottolineata l’importanza di un’indagine volta a mettere in luce il valore dei termini usati nella critica testuale. L’apertura su fenomeni non abbastanza considerati in passato è certamente dovuta all’influsso di alcune teorie linguistiche come quelle del Meillet, di una scienza quindi ormai lontana dal naturalismo schleicheriano. Basti pensare allo «sviluppo per convergenza» che rimanda non solo alle teorie del Meillet, ma ai linguisti «ascolani» (ad es. il Bartoli) e agli strutturalisti (Troubetzkoy, Jakobson). Accanto al «formarsi per convergenza di una vulgata», nel senso di uno sviluppo identico per imitazione, non va però dimenticata, sottolinea Avalle, l’importanza delle convergenze poligenetiche, secondo le quali ciò che conta è la predisposizione di alcune strutture a modificarsi in maniera identica anche in ambienti e in epoche diverse. A una di- 239 Besprechungen - Comptes rendus versa poligenesi, precisa l’autore, bisogna far riferimento invece quando si discute di alcune categorie di errori legate a particolari trappole per il copista come l’omissio ex homoeoteleuto e varie specie di trivializzazione (ad es. la lectio facilior). Nel saggio intitolato Fenomelogia ecdotica del medioevo romanzo (125-53) sono messe a raffronto due tipologie testuali: quella delle opere del medioevo romanzo relativa ai manoscritti dei primi secoli, che si presentano in una veste molto diversa e aleatoria, e quella dei manoscritti latini contemporanei o precedenti. Questi ultimi presentano un carattere supposto regolare e normalizzato, almeno nella maggior parte dei codici latini. Già Vàrvaro 1970 («Critica dei testi classica e romanza. Problemi comuni e esperienze diverse», in: Rendiconti dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti di Napoli 45 [1970]: 73-117) aveva con fermezza sottolineato il carattere parzialmente autonomo della filologia applicata ai testi romanzi rispetto a quello della filologia classica, almeno quanto ai riflessi delle rispettive metodologie. L’autore si inserisce in questo filone e ribadisce che il lavoro dell’editore deve necessariamente variare a seconda della natura della tradizione manoscritta presa in esame. Data l’antichità della tradizione latina, è ovvio che i copisti dei testi scritti in lingua volgare abbiano preso a modello le pratiche scrittorie antecedenti. Da qui si è supposto che i testi scritti in volgare costituiscano un sottoprodotto della tradizione latina, ma è indubbio, secondo l’autore, che la tecnica scrittoria applicata alle opere in lingua volgare sia parzialmente svincolata dal controllo della scuola. Le conclusioni sono già prefigurate da Dante nel De vulgari eloquentia, e in particolare nell’antitesi stabilita tra l’incorruttibilità della lingua grammaticale, il latino, e la variabilità degli idiomi romanzi. In Dante manca il concetto di dipendenza, da non confondersi con quello di derivazione, quale si è creduto di poter ricavare dalla strumentazione utilizzata nelle letterature in lingua volgare. Secondo Avalle, la tradizione romanza non dipende, non deriva da quella latina; si tratta di due esperienze completamente diverse soprattutto quanto al tipo di consumo cui l’opera è destinata. E in effetti, la spiegazione della maggiore vivezza della tradizione manoscritta romanza va cercata molto probabilmente nel genere a cui appartengono i testi: ad alto indice di varianza i testi destinati ad un tipo di consumo popolare (liriche, canzoni, racconti, componimenti burleschi), esposti «agli inconvenienti dell’improvvisazione e della concorrenza» (135). Nella poesia stilnovistica, invece, agganciata ancora a modelli scolastici, la tradizione riveste caratteristiche simili a quelle delle tradizioni latine. L’articolo dal titolo La filologia romanza e i codici (205-11) affronta il tema di quello che Avalle chiama la nuova filologia romanza. Lavorare sui manoscritti costituisce il compito primario di un filologo che si rispetti. Vengono in questa sede affrontati i problemi dell’analisi del manoscritto, tanto monoquanto pluri-testimoniale. Durante quest’analisi lo studioso si trova di fronte alla varietà interna dei singoli manoscritti e ad altrettanta varietà dei caratteri esterni dovuta al numero dei testimoni e al tipo di relazioni interconnesse tra di essi. Da tali problemi dipendono le scelte editoriali e metodologie di lavoro non di rado divergenti. Se è la strutturazione interna a determinare le scelte editoriali, è la varietà esterna dei manoscritti a metterne in crisi alcune certezze operazionali, soprattutto da quando il concetto statico di originale d’autore è stato via via sostituito da quello dinamico di testo in fieri. Nel quadro di possibili varianti d’autore si affaccia la tendenza a problematizzare la restitutio (constitutio) textus nel tentativo di un recupero interpretativo della varia lectio delle singole tradizioni manoscritte (207). Alla crisi dell’originale d’autore ricostruito si è andata affacciando un’alternativa nell’interesse per la verità dei singoli codici. Da qui la novità del moltiplicarsi delle iniziative volte, sul piano rigorosamente filologico, a stimolare il ruolo dell’edizione critica dei singoli codici. L’iniziativa è nuova, in quanto si tratta di trasferire il concetto di originale da una realtà aleatoria, come quella di un originale perduto o ricostruito, al codice stesso indipendentemente dagli autori e dalle opere di cui esso si 240 Besprechungen - Comptes rendus compone. Queste nuove linee di sviluppo della filologia romanza implicano una maggiore collaborazione con la codicologia e la lessicografia applicata ai testi medievali. La seconda serie di saggi del libro riguarda la linguistica e la letteratura francese delle origini, nella quale viene prospettata la mobilità della tradizione linguistica «prefanciana» (IX), vale a dire prima del XII secolo, sottolineando il ruolo dell’area «pittavina». Un quadro generale è fornito dal saggio La lingua e la letteratura francese dei primi secoli (223-48). Sebbene si tratti di un periodo di ben tre secoli (IX-X-XI), le opere si riducono a ben poco, due testi in prosa e cinque in versi (234): I Giuramenti di Strasburgo (249-98) (842), La Sequenza di Santa Eulalia (299-329) (881 ca.), il Sermone di Valenciennes (331-68) (prima metà sec. X), la Passion (449-549) e la Vie de Saint Léger (369-447) (entrambi di difficile datazione, ma non posteriori alla fine del X secolo), Vie de Saint Alexis (557-661) (fine sec. XIinizio sec. XII), Sponsus, o Dramma delle Vergini prudenti e delle Vergini stolte (613-77) (fine sec. XI). Queste opere possono dividersi in tre gruppi in base a tre diversi centri culturali e all’ordine cronologico: 1) l’Aquitania del Nord o Poitou, ossia la zona chiamata dai linguisti del Sud-Ovest; a questa regione appartengono I Giuramenti di Strasburgo, la Passion e Sponsus, e forse in questa regione viene trascritto la Vie de Saint Léger; 2) La Piccardia e la Vallonia, corrispondenti alla zona del Nord-Est; in quest’area sono stati composti La Sequenza di Santa Eulalia, il Sermone di Valenciennes, la Vie de Saint Léger; 3) La Normandia, vale a dire il Nord, costituitasi in epoca relativamente tarda, verso l’XI secolo; in questa regione è stata composta la Vie de Saint Alexis (si pensa a Rouen, zona settentrionale della Normandia, limitrofa della regione piccarda). Come dimostra l’Autore, l’Aquitania del Nord, ovvero la cultura del Sud-Ovest, ha sempre dimostrato un ruolo attivo, lottando contro l’espansione politico-culturale dei Franchi, in seguito della dinastia angioino-plantageneta e infine degli Inglesi. Questa indipendenza della cultura pittavina esprime la consapevolezza di appartenere a una civiltà diversa, inclinata più verso il Midi della Francia che non verso il Nord. Tali opere appartenenti ai secoli IX-XI appaiono scritte in tre koinai letterarie distinte e sempre adattate al genere letterario di destinazione. Questi tre diversi tipi di koiné letteraria, a base ampiamente interregionale, hanno però in comune l’alto grado di convenzionalità e artificiosità dell’organizzazione grammaticale a loro trasmessa «dalle lingue intermedie tra latino e volgare dell’epoca merovingica, inventate per i bisogni della comunicazione tra individui appartenenti a diverso livello culturale» (247), dove gli aspetti locali del dialetto sono attenuati da elementi derivati dal latino e dai dialetti limitrofi. Tali koinai appaiono meno rigide delle lingue letterarie moderne, sicché applicare le norme della geografia linguistica ai testi antichi appare problematico; non appare plausibile, secondo l’Autore, pretendere dalle lingue letterarie una piena coerenza sul piano geografico-linguistico. Ciò che conta è invece la localizzazione culturale, anche più interessante dal punto di vista storico-letterario. Rifiutare assonanze del tipo (si veda Passion p. 519 v. 179-80) fied: il, secondo un’influenza della vecchia scuola, soltanto perché la fidel lat. volg. *fede lat. fides non può dittongare, significa imporre le norme delle moderne grammatiche storiche al copista (che in questi casi equivale all’autore) per il quale la grafia -ie- (invece della grafia attesa -ei-) aveva probabilmente un reale contenuto fonetico, indipendentemente da qualsiasi considerazione di fedeltà al parlato (248). Spetta all’editore moderno distinguere quello che è deviazione accidentale o errore da ciò che può essere graficamente giustificato dalla tradizione locale. In questa seconda sezione, l’analisi testuale appare sempre accompagnata dalla formula avalliana della «doppia verità»: «quella che oserei definire la ‘doppia verità’ dei documenti del passato» (166), con una riflessione metodologica tipicamente avalliana che contrappone filologicamente la verità dell’autore e quella del copista, in altri termini lingua naturale e letteraria. 241 Besprechungen - Comptes rendus A chiusura del libro compare un bilancio sulle condizioni della nuova filologia, sempre riflesso della ricerca di una forma di equilibrio tra la tradizione ecdotica e linguistica, solida e continua, e il recupero dell’impostazione originaria e «folclorica» applicata alle letterature medievali. Michela Russo ★ Rossella Bessi, Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e Quattrocento, Firenze (Olschki) 2004, 376 p. (Biblioteca di «Lettere Italiane» - Studi e testi 61) Il volume rende omaggio alla memoria di Rossella Bessi, studiosa fiorentina prematuramente scomparsa, di cui raccoglie diciassette contributi, già apparsi precedentemente in atti di convegni e riviste e dedicati a vari aspetti della letteratura volgare italiana fra Tre e Quattrocento. Si tratti di brevi note o di ampi saggi in cui si affrontano delicati problemi di attribuzione o d’interpretazione, in quasi ogni pagina di questo libro si ritrovano le qualità essenziali della compianta studiosa: solidità di metodo e grande chiarezza argomentativa; virtù, queste, supportate sempre da un’erudizione massiccia e però mai fine a sé stessa. Un’erudizione che - come ricorda Mario Martelli nella bella premessa che traccia con commozione il profilo scientifico e umano della Bessi - sapeva dominare in modo altrettanto sicuro i classici antichi e la letteratura volgare, Esiodo e Virgilio come il Pulci e il Magnifico. Queste qualità avevano fatto di Rossella Bessi un’autorità di riferimento nel campo degli studi quattrocenteschi ed in particolare in quello che era, se pur non il solo, uno dei suoi territori d’elezione, ovvero la cultura fiorentina d’età laurenziana (si ricorderanno a questo proposito le importanti edizioni critiche, da Lei curate, della Nencia da Barberino e dell’Ambra). Il volume, che raccoglie note e saggi che coprono quasi un ventennio (1978-97) si apre con uno studio dedicato alla Novella di Bonaccorso di Lapo di Giovanni (3-21) la redazione della quale, la B., sulla base di elementi interni al racconto, per la prima volta puntualmente riscontrati con altre fonti contemporanee e soprattutto in virtù di un nuovo censimento dei manoscritti che ne tramandano il testo (cf. 6-8), riesce a retrodatare dai primi del Quattrocento (come voleva ancora il Di Francia) agli anni Settanta del Trecento. Pure a un’importante puntualizzazione cronologia approda il secondo dei saggi (Sul commento di Francesco Filelfo ai «Rerum vulgarium fragmenta»: 23-61) nel quale la stesura del commento al canzoniere di Petrarca, commissionato (ed anzi quasi imposto) al Filelfo da Filippo Maria Visconti e che solitamente si considerava interrotto a causa della morte di quest’ultimo (1447), viene circoscritta, anche qui dopo l’esame dei riferimenti a fatti e persone presenti nelle glosse al Petrarca, agli anni 1443-44. Il modello boccacciano nella spicciolata toscana tra fine Trecento e tardo Quattrocento (63-78) prende invece in esame un corpus di dieci novelle spicciolate (comprese cronologicamente tra quella, già ricordata, di Buonaccorso di Lapo di Giovanni e il Giacoppo del Magnifico, assegnata agli anni Ottanta del Quattrocento) che la B., fa, per così dire, «reagire» con alcuni esempi tratti dal Decameron, mettendo in evidenza come, per citare le sue parole, «non uno di questi testi ometta di pagare un tributo al grande archetipo: alcuni sul piano strutturale; altri sul piano tematico; tutti, nessuno escluso, su quello lessicale» (66). Ma il modello boccacciano non lascia una traccia solo sulla novella quattrocentesca, come dimostra il poemetto anonimo (pubblicato parzialmente e commentato in questo volume alle p. 293-302) che descrive le feste fiorentine del 1459 ed entro la cui trama descrittiva la B. acclara i numerosi debiti contratti, per esempio, con la Comedia delle ninfe fiorentine. Il saggio Politica e poesia nel Quattrocento fiorentino: Antonio Araldo e papa Eugenio IV (79-101) consiste nell’edizione di alcuni testi letterari (già editi dal Flamini) attinenti all’abbandono, voluto da Eugenio IV, di Firenze 242 Besprechungen - Comptes rendus