eJournals Vox Romanica 64/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2005
641 Kristol De Stefani

Rossella Bessi, Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e Quattrocento, Firenze (Olschki) 2004, 376 p. (Biblioteca di «Lettere Italiane» – Studi e testi 61)

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2005
Gabriele  Bucchi
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A chiusura del libro compare un bilancio sulle condizioni della nuova filologia, sempre riflesso della ricerca di una forma di equilibrio tra la tradizione ecdotica e linguistica, solida e continua, e il recupero dell’impostazione originaria e «folclorica» applicata alle letterature medievali. Michela Russo ★ Rossella Bessi, Umanesimo volgare. Studi di letteratura fra Tre e Quattrocento, Firenze (Olschki) 2004, 376 p. (Biblioteca di «Lettere Italiane» - Studi e testi 61) Il volume rende omaggio alla memoria di Rossella Bessi, studiosa fiorentina prematuramente scomparsa, di cui raccoglie diciassette contributi, già apparsi precedentemente in atti di convegni e riviste e dedicati a vari aspetti della letteratura volgare italiana fra Tre e Quattrocento. Si tratti di brevi note o di ampi saggi in cui si affrontano delicati problemi di attribuzione o d’interpretazione, in quasi ogni pagina di questo libro si ritrovano le qualità essenziali della compianta studiosa: solidità di metodo e grande chiarezza argomentativa; virtù, queste, supportate sempre da un’erudizione massiccia e però mai fine a sé stessa. Un’erudizione che - come ricorda Mario Martelli nella bella premessa che traccia con commozione il profilo scientifico e umano della Bessi - sapeva dominare in modo altrettanto sicuro i classici antichi e la letteratura volgare, Esiodo e Virgilio come il Pulci e il Magnifico. Queste qualità avevano fatto di Rossella Bessi un’autorità di riferimento nel campo degli studi quattrocenteschi ed in particolare in quello che era, se pur non il solo, uno dei suoi territori d’elezione, ovvero la cultura fiorentina d’età laurenziana (si ricorderanno a questo proposito le importanti edizioni critiche, da Lei curate, della Nencia da Barberino e dell’Ambra). Il volume, che raccoglie note e saggi che coprono quasi un ventennio (1978-97) si apre con uno studio dedicato alla Novella di Bonaccorso di Lapo di Giovanni (3-21) la redazione della quale, la B., sulla base di elementi interni al racconto, per la prima volta puntualmente riscontrati con altre fonti contemporanee e soprattutto in virtù di un nuovo censimento dei manoscritti che ne tramandano il testo (cf. 6-8), riesce a retrodatare dai primi del Quattrocento (come voleva ancora il Di Francia) agli anni Settanta del Trecento. Pure a un’importante puntualizzazione cronologia approda il secondo dei saggi (Sul commento di Francesco Filelfo ai «Rerum vulgarium fragmenta»: 23-61) nel quale la stesura del commento al canzoniere di Petrarca, commissionato (ed anzi quasi imposto) al Filelfo da Filippo Maria Visconti e che solitamente si considerava interrotto a causa della morte di quest’ultimo (1447), viene circoscritta, anche qui dopo l’esame dei riferimenti a fatti e persone presenti nelle glosse al Petrarca, agli anni 1443-44. Il modello boccacciano nella spicciolata toscana tra fine Trecento e tardo Quattrocento (63-78) prende invece in esame un corpus di dieci novelle spicciolate (comprese cronologicamente tra quella, già ricordata, di Buonaccorso di Lapo di Giovanni e il Giacoppo del Magnifico, assegnata agli anni Ottanta del Quattrocento) che la B., fa, per così dire, «reagire» con alcuni esempi tratti dal Decameron, mettendo in evidenza come, per citare le sue parole, «non uno di questi testi ometta di pagare un tributo al grande archetipo: alcuni sul piano strutturale; altri sul piano tematico; tutti, nessuno escluso, su quello lessicale» (66). Ma il modello boccacciano non lascia una traccia solo sulla novella quattrocentesca, come dimostra il poemetto anonimo (pubblicato parzialmente e commentato in questo volume alle p. 293-302) che descrive le feste fiorentine del 1459 ed entro la cui trama descrittiva la B. acclara i numerosi debiti contratti, per esempio, con la Comedia delle ninfe fiorentine. Il saggio Politica e poesia nel Quattrocento fiorentino: Antonio Araldo e papa Eugenio IV (79-101) consiste nell’edizione di alcuni testi letterari (già editi dal Flamini) attinenti all’abbandono, voluto da Eugenio IV, di Firenze 242 Besprechungen - Comptes rendus quale sede conciliare nel marzo 1443. Si tratta di una coppia di sonetti caudati indirizzati da Antonio di Matteo di Meglio, Araldo della Repubblica Fiorentina, al pontefice, cui la B. (che ne ricostruice in modo circostanziato la storia) accompagna, essi pure in edizione critica e con abbondante commento, due coppie di sonetti di risposta dovuti rispettivamente a Francesco Guidi dei Conti di Battifolle, nobile fiorentino esule, e a un anonimo poeta contemporaneo. Testimonianza della vastissima conoscenza di testi antichi e moderni e della capacità di metterli a confronto in modo spesso convincente è il saggio dedicato a Santi, leoni e draghi nel «Morgante» di Luigi Pulci (103-46) in cui per l’interpretazione di alcuni episodi del capolavoro pulciano ove entrano in gioco elementi del meraviglioso o del divino, viene chiamata in causa non solo quella tradizione canterina d’argomento cavalleresco che fu certamente presente a Luigi, ma numerosi luoghi scritturali, nonché della letteratura patristica e agiografica. Sulla linea già tracciata da Paolo Orvieto nel suo Pulci medievale, la B. scorgeva in alcuni episodi del poema (soprattutto Morgante IV, 38-102) la presenza d’una «valenza ‹edificante› non estranea . . . alla tradizione cavalleresca e probabilmente assai gradita a Lucrezia Tornabuoni, sua pia committente» (132), giungendo così a interessanti considerazioni generali sul comico pulciano, la cui visione disincantata e dissacratoria non andrebbe tuttavia disgiunta da una qualche fede autenticamente positiva, sì da ipotizzare che «il chiaro valore simbolico di fabulae e personaggi costruiti ricorrendo alla tradizione agiografica [non] siano elementi messi in campo dal Pulci al solo fine di distruggerli con le armi del ridicolo» (136). Su un altro livello, la presenza di cultura classica e volgare nell’ambiente fiorentino quattrocentesco è esemplarmente illustrata nell’ampio saggio su L’area culturale della «Nencia da Barberino» (147-77) di cui la B., lasciando da parte la vexata quaestio attributiva e redazionale (qui documentata tuttavia con la dovizia bibliografica che anche altrove caratterizza ogni Suo lavoro), dimostra l’origine e la destinazione dotta, l’abile intreccio di elementi popolari e cólti. All’opera poetica del Poliziano, di cui (come sottolineava Vittore Branca nel breve ricordo che apre questo volume) la Bessi fu una delle più importanti interpreti, sono dedicati due ampi studi (Per un nuovo commento alle «Stanze» del Poliziano (215-46), e Le «Stanze» del Poliziano e la lirica del primo Quattrocento (247-68)) in cui, attraverso l’esame e il confronto di un amplissimo spettro di fonti, si analizza al miscroscopio il noto, ma forse mai così puntualmente indagato, procedimento «associativo alla base della tecnica ad intarsio del Poliziano» (219), arrivando inoltre a distinguere, nella selva dei poeti quattrocenteschi a lui contemporanei o cronologicamente vicini, alcune delle voci che più distintamente si odono nella musica delle Stanze (sopra ogni altra quella del pur non fiorentino Giusto de’ Conti). All’analisi strutturale del poemetto bipartito noto come Ambra o Descriptio hiemis di Lorenzo de’ Medici è dedicato un contributo (179-213) che tra l’altro fissa con maggior precisione il periodo di elaborazione dell’opera (o almeno della seconda parte di essa) tra il 1474 e il 1485. La vita e le relazioni culturali dell’età del Magnifico sono toccate pure da due brevi note di carattere storico e storico-bibliografico (Di due o tre? giostre che non si fecero (303-14), e Lorenzo, Alfonso duca di Calabria e Francesco di Niccolò Berlinghieri (315-21)) mentre nuovi dati sul primo soggiorno fiorentino del Savonarola sono forniti in Girolamo Savonarola petrarchista (337- 47), notevole anche per le considerazioni sul «travestimento» morale che il domenicano operava su alcuni memorabili versi del Canzoniere. Di un’attenzione speciale a fatti linguistici e alla storia della lingua del Quattrocento sono, infine, testimonianza i due saggi (137- 46 e 269-78) sui volgarizzamenti delle Storie fiorentine del Bruni e del De remediis del Petrarca compiuti il primo da Donato Acciaiuoli (1473), il secondo dal monaco camaldolese Giovanni da San Miniato (1426-27). Allo scambio inverso, dal volgare al latino, è invece riservato uno studio sulla celebre versione petrarchesca della novella di Griselda (alle pp. 279-92): traduzione che, come sottolineava la Bessi, finisce per essere una nuova, personalissima e rivelatrice reinterpretazione del personaggio boccacciano fatta dal Petrarca, 243 Besprechungen - Comptes rendus «una sorta di glossa, o per dir meglio, di controcanto esplicativo, prima, e più ancora, che come un esercizio di stile» (292). Ed è difficile, nel rileggere le parole della Griselda petrarchesca («Fac sentiam tibi placere quod moriar . . . »), non pensare con rimpianto al troppo breve cammino di questa studiosa. Chiude il volume un elenco delle pubblicazioni di Rossella Bessi (349-52). Gabriele Bucchi ★ Daniele Piccini, Un amico del Petrarca. Sennuccio del Bene e le sue rime, Roma-Padova (Antenore) 2004, ccxiv + 99 p. (Studi sul Petrarca 30) Il volume è così strutturato: Introduzione (xi-lxv) - a sua volta suddivisa in due capitoli: Nota biografica (xi-xlii) e Sennuccio poeta (xlii-lxv) -, Nota al testo (lxvii-cxcix), Sigle e abbreviazioni bibliografiche (cc-ccxiv), Rime (3-84), Indici (dei nomi e dei manoscritti citati, 87-99). Il profilo biografico, arricchito da nuovi ritrovamenti documentarî, presenta esaurientemente le coordinate spazio-temporali all’interno delle quali si è svolta la vicenda umana di Sennuccio del Bene, nato a Firenze tra il 1270 e il 1275 (ma probabilmente più vicino alla prima delle due date), esiliato nel 1313, rientrato in città forse nel 1327 e morto poco prima del 28 novembre 1349. Durante l’esilio, ad Avignone ebbe la possibilità di conoscere Francesco Petrarca, al quale restò legato da un rapporto di sincera amicizia; conobbe anche Giovanni Boccaccio, e dovette fare da tramite, in qualche occasione, tra i due grandi letterati del XIV secolo: anzi, una serie di riscontri testuali farebbe pensare a un Sennuccio attore non sempre necessariamente comprimario nel gioco dei rapporti tra Petrarca, Boccaccio e Dante. Nel capitolo Sennuccio poeta, Piccini mostra, con una ingente massa di confronti, quanto sia importante nella produzione del rimatore il ricordo di Dante: «l’influsso dantesco è nel complesso talmente ingente da parere incalcolabile: non c’è quasi componimento . . . in cui Sennuccio non guardi a qualcuno dei versanti toccati dal suo grande concittadino» (lii). Al contrario, ma non poteva che essere così per un poeta del secolo XIV, Sennuccio «guarda poco o nulla» a Petrarca (li). Dante - che forse, ma non ci sono prove, Sennuccio conobbe - si mostra fondamentale soprattutto nelle rime della maturità sennucciana, il cui eclettismo tematico e stilistico, ma anche linguistico, si muove «sulle orme dello sperimentalismo dantesco e [viene] soprattutto suggestionato dal forte rimescolamento delle categorie stilistiche operato nella Commedia» (xlvii). Questo lo porta verso un’originalità e un’autonomia che non sono caratteristiche tanto ovvie nella ricca produzione «minore» trecentesca. Gli esordî all’ombra dello Stil nuovo, invece, pur non privi della linfa proveniente dall’Alighieri, germogliano soprattutto grazie al padre Guinizzelli, a Cavalcanti, a Lapo Gianni, a Cino. D’altra parte il Sennuccio stilnovista, davvero riconoscibile, in fondo, solo nei tre sonetti L’alta bellezza tua è tanto nova, O salute d’ogni occhio che ti mira e No si potria compiutamente dire (che non a caso aprono, in quanto frutto assai probabilmente giovanile, l’edizione), replica «i motivi meno impegnativi connessi alla topica della donna apportatrice di ‹salute›» (xlv), lasciando da parte le più profonde indagini speculative di impronta, invece, prettamente dantesca. Addirittura verrebbe da pensare, come ipotizza Piccini, che il linguaggio stilnovista recuperato - e superato - da Petrarca possa essere confluito nel Canzoniere seguendo una linea che parte proprio da Senuccio, almeno parallela a quella classica, e già sondata, che ha la sua scaturigine in Cino. Insomma «Sennuccio si presenta a noi come . . . un rimatore che filtra e media gli influssi più rappresentativi della lirica d’arte del tempo», raggiungendo, in alcuni casi «risultati piuttosto interessanti sotto il profilo qualitativo» (lxv). 244 Besprechungen - Comptes rendus