Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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2005
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Kristol De StefaniSilvia Dal Negro/Piera Molinelli (ed.), Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi, Roma (Carocci) 2002, 160 p. (Lingue e letterature 23)
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2005
Gabriele Iannàccaro
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un interessantissimo caso di bilinguismo caratterizzato da una situazione sociolinguistica peculiare: una «diglossia duplice» (169), ossia quella dell’ambiente familiare dei soggetti (italiano standard + un dialetto italiano meridionale) e quella del Paese in cui i soggetti risiedono (tedesco standard + tedesco svizzero). Le quattro varietà di cui gli informanti dispongono permettono a Raffaele De Rosa e Stephan Schmid di condurre un’attenta analisi del modo in cui i tratti di tensione e sonorità (diversamente distribuiti nei quattro sistemi fonologici) si correlano (interferendo l’uno con l’altro) nell’output. A questo proposito si veda l’accostamento del risultato dell’applicazione delle regole allofoniche presenti nelle varietà dell’italiano (centro-)meridionale che illustrano la divaricazione dei tratti di tensione e sonorità con quanto avviene nel tedesco svizzero, varietà che non sfrutta il contrasto di sonorità ma solo quello di tensione (166-68). L’utilizzo di dati empirici sia orali sia scritti consente, inoltre, un’accurata analisi dei fenomeni di geminazione e degeminazione, di sonorizzazione e desonorizzazione, e di affricazione e deaffricazione. Per concludere, il volume fornisce certamente vari e notevoli spunti agli specialisti dell’acquisizione delle lingue seconde, sia che si occupino di fonologia, sia che si concentrino sugli altri livelli dell’analisi linguistica (ricordiamo che uno degli obiettivi dell’EURO- SLA 9, di cui al primo paragrafo della presente recensione, è proprio l’allargamento dei risultati ottenuti nell’ambito della comprensione delle strategie acquisizionali utilizzate per l’apprendimento della pronuncia di una lingua seconda alla comprensione delle strategie acquisizionali tout court). Da non trascurare è inoltre il rilievo che gli articoli contenuti in questo testo assumono anche per chi si occupa dell’apprendimento delle lingue prime, settore costantemente tenuto in considerazione dagli autori dei contributi. Infine, i sempre chiari e precisi riferimenti teorici illustrati negli articoli rendono piacevole e stimolante la lettura di questo volume per chi si interessa di linguistica e vuole tenersi aggiornato sui più recenti sviluppi della ricerca del settore. Giorgio Bruzzolo ★ Silvia Dal Negro/ Piera Molinelli (ed.), Comunicare nella torre di Babele. Repertori plurilingui in Italia oggi, Roma (Carocci) 2002, 160 p. (Lingue e letterature 23) Varietà e molteplicità: di lingue, di situazioni sociolinguistiche, di approcci, di problemi, di soluzioni. Ecco, probabilmente, la cifra caratterizzante di questo volume curato da S. Dal Negro e P. Molinelli, costituito da una raccolta di saggi ruotanti intorno a problemi di plurilinguismo e di rapporti fra codici. Varietà e molteplicità che tuttavia non sono sinonimi di disordine, o mescolanza: una prima uniformità formale, se vogliamo, è data dal fatto che gli autori sono tutti, a vario titolo, legati all’Università di Bergamo, che molti appartengono ad una nuova generazione di ricercatori di sociolinguistica, e che tutti basano le proprie affermazioni su ricerche sul campo condotte di prima mano - poi, anche se non è mai affermato esplicitamente, un sano funzionalismo percorre la metodologia di tutti i saggi presentati. Una prima chiave di lettura del volume è proposta dalle curatrici proprio in apertura: i saggi vogliono «indagare alcuni aspetti dell’interazione tra individui che parlano lingue diverse che condividono solo in parte» (corsivo mio). Bene: è il «solo in parte», ritengo, il minimo comune multiplo delle situazioni di contatto fra lingue che qui vengono studiate, in una prospettiva comune che parte dall’analisi di singoli atti comunicativi per arrivare a (tentativi di) generalizzazione e comprensione di dinamiche a livello sociale. Racchiusi, per così dire, fra parti metodologiche o di riconsiderazione teorica redatte dalle curatrici, stanno infatti gli studi condotti dai giovani ricercatori bergamaschi, che, dall’immigrazione sudamericana a quella ghanese, dai repertori sovraccarichi delle valli alpine all’interazione sco- 276 Besprechungen - Comptes rendus lastica con bambini immigrati, ruotano intorno a diversi tipi di necessità di plurilinguismo a fini comunicativi. I codici di cui si parla in questo volume sono posseduti dai partecipanti agli eventi linguistici, appunto, solo in parte: imperfettamente a livello individuale, per alcuni, e non da tutti i partecipanti all’interazione, in altri contesti. (Si noterà qui subito che Silvia Dal Negro - ora a Vercelli ma laureata a Bergamo - ha un po’ uno statuto duplice: partecipa da un lato della cura e della sistematizzazione del volume, ma propone dall’altro sue ricerche personali sul campo). Il libro è diviso in quattro parti, una di introduzione, una dedicata all’analisi di repertori plurilingui, una di studio delle interazioni personali in contesto plurilingue e una di conclusione. I singoli capitoli sono in realtà saggi autonomi ma coordinati, affidati ciascuno ad un diverso ricercatore, e unificati da un percorso scientifico e da una bibliografia comune. Ed è proprio a Dal Negro che, dopo l’introduzione sui concetti chiave per lo studio dei repertori plurilingui, concisa ma chiara, viene affidato il primo saggio (in verità il terzo capitolo, nella numerazione del volume), «Repertori plurilingui in contesto minoritario», una sorta di ponte fra l’esigenza di sistematizzazione teorica e metodologica proprie dell’introduzione e della conclusione (di Piera Molinelli) e la volontà di presentare e discutere casi studio della parte centrale del volume. Qui sono presi in esame il confronto fra i repertori di due comunità walser delle Alpi occidentali, quella di Issime in Valle d’Aosta (valle del Lys) e quella di Rimella in Piemonte (Valsesia), comunità caratterizzate da alcuni parallelismi di fondo - riconducibili sostanzialmente al dato geo-sociolinguistico di non costituire località turistiche - ma distinte intanto dal numero di codici presenti nel repertorio comunitario (varietà alemannica [titschu], varietà romanza [valsesiano] e italiano a Rimella; töitschu, piemontese, in parte varietà francoprovenzale, italiano e francese a Issime), e soprattutto dalla considerazione di questi codici - in particolare della varietà romanza - che gode di status sociolinguistico e identificativo diverso nelle due località. Il capitolo, piuttosto interessante soprattutto dal punto di vista della riflessione sul concetto di repertorio 1 , sembra costituire anche una sorta di preambolo e di premessa macrosociolingusitica all’approccio microsociolinguistico del cap. 6: qui si indagano le situazioni plurilingui dal punto di vista sociale e comunitario (per quanto le considerazioni esposte scaturiscano in massima parte dall’analisi di interviste personali e di storie orali), riservando all’altra trattazione le istanze del plurilinguismo personale. Richiamiamo solo due punti, che paiono centrali nel capitolo e che sono fortemente connessi fra loro: il primo riguarda l’attenzione al nome della lingua, ossia alla denominazione che i parlanti attribuiscono alla propria varietà, e che Dal Negro propone - in accordo con la letteratura sull’argomento - di interpretare come funzione del grado di elaborazione percepito del codice 2 . Centrale, per la denominazione e dunque la collocazione nel repertorio, 277 Besprechungen - Comptes rendus 1 Argomento che è stato oggetto di riflessione ulteriore, anche recentemente, da parte di Dal Negro: cf. S. Dal Negro/ G. Iannàccaro, «‹Qui parliamo tutti uguale, ma diverso›. Repertori complessi e interventi sulle lingue», in: A. Valentini/ P. Molinelli/ P. Cuzzolin/ G. Bernini (ed.), Ecologia linguistica. Atti del XXXVI Congresso Internazionale di studi della Società di linguistica italiana (Bergamo, 26-28 settembre 2002), Roma 2003: 431-50. 2 Su Issime e su Rimella, al proposito, emergono dati di grande interesse dall’elaborazione di due inchieste parallele di tipo quantitativo condotte l’una in tutti i comuni della Valle d’Aosta e l’altra presso tutte le comunità dichiaratesi walser del Piemonte (inchiesta questa peraltro condotta dalla stessa Dal Negro, insieme a Vittorio Dell’Aquila e Gabriele Iannàccaro): il questionario proposto lascia al parlante la libertà di definire con un nome la varietà locale, e stanno emergendo correlazioni interessanti fra tipo di nome attribuito (dialetto, patois, parlata di qui o di converso walser, francoprovenzale) e posizione, reale e ideologica, della varietà all’interno del repertorio. I dati sono in corso di elaborazione: per la Valle d’Aosta si può vedere G. Iannàccaro/ V. Dell’Aquila, «Investigare la Valle d’Aosta: metodologia di raccolta e analisi dei dati», in: R. Caprini (ed.), Studi offerti a è la crescente consapevolezza, presso i parlanti, «del nuovo ruolo del walser come lingua scritta di cui è disponibile, fra l’altro, il dizionario e la grammatica, a dimostrazione del suo rango di lingua a tutti gli effetti» (37). E ciò è legato all’altro aspetto per cui segnalare il capitolo, la proposta (elaborata poi più compiutamente nel lavoro citato alla N1) di analizzare il repertorio delle comunità plurilingui mediante parametri binari da attribuire ad ogni codice, superando la distinzione fra varietà low e varietà high: se è vero cioè che «in entrambe le località . . . il dialetto tedesco occupa contemporaneamente la fascia più alta e quella più bassa dei rispettivi repertori linguistici» (37), ne deve scaturire un’analisi dei repertorio più complessa, che tenga in considerazione contemporaneamente una serie di variabili etiche ed emiche per la valutazione del posto di ogni varietà nella scala. La ricerca sui repertori plurilingui prosegue - in contesto molto diverso - con lo studio di Alessandro Vietti: «Analisi dei reticoli sociali e comportamento linguistico di parlanti plurilingui», caratterizzato, esso pure, da una forte attenzione metodologica e dalla volontà di sistematizzazione teorica della materia. Si tratta in sostanza di una riflessione sull’utilità dell’analisi per reticoli sociali (così come viene felicemente tradotto il sintagma inglese, accettato tuttavia anche dalla terminologia sociolinguistica di altre tradizioni linguistiche, di social network) in vista di uno studio dell’interazione plurilingue; e questa riflessione è condotta basandosi su dati raccolti tramite l’analisi del comportamento sociolinguistico di immigrati peruviani a Torino. Dopo una relativamente lunga discussione sul concetto di reticolo sociale [RS] e sulla liceità della sua applicazione alle scienze linguistiche, Vietti propone un’espansione del modello che tenga in considerazione altre dimensioni d’analisi dei RS, oltre a quelle classiche di molteplicità (multiplexity) e densità (density), dimensioni, quali «tipo di contenuto, direzionalità, indici di centralità [dell’ego], indici di intensità della relazione» (48), che permettano di formulare ipotesi più raffinate sull’effettivo funzionamento della lingua nel RS. In particolare a Vietti interessa sperimentare l’applicabilità del concetto di RS e dei suoi assunti operativi all’analisi di situazioni di plurilinguismo (per quanto dotate, ovviamente, di varietà diafasiche e diastratiche, le situazioni linguistiche «classiche» per gli studi condotti tramite RS non possono dirsi propriamente plurilingui), nonché l’integrazione del modello con il piano d’analisi microsociolinguistico 3 . In effetti un tentativo del genere è stato in parte condotto da Normand Labrie 4 , che, nello studio della comunità italofona di Montreal, propone tre tipologie di interrelazione fra RS e appartenenza etnica: Vietti discute a fondo questa proposta, sulla base di dati situazionali e conversazionali raccolti a Torino presso la comunità peruviana, le effettive posizioni dei parlanti da lui seguiti nel RS; uno spunto di particolare interesse consiste, a parere di chi scrive, nell’investigazione dei «pesi relativi», per così dire, fra norme di comportamento comunicativo messe in atto nei singoli eventi linguistici e posizione e caratteristiche del RS dei parlanti, laddove, come in un’intervista fra Vietti stesso e un’informatrice peruviana immersa in un RS in cui lo spagnolo è dominante, questi parametri di assegnazione delle varietà sembrano essere in contrasto. Un appunto: il saggio è forse un po’ troppo conciso per la mole di riflessioni teoriche e metodologiche che affronta (ma questa è in effetti un po’una costante di quasi tutti i capitoli di questo libro: ipotesi di studio, suggerimenti, più che trattazioni): si tratta evidentemente di una parte di un lavoro più lungo, che andrà considerato con grande attenzione quando sarà reso disponibile alla comunità scientifica. 278 Besprechungen - Comptes rendus Michele Contini, Alessandria 2003: 221-43 + tavole su CD-ROM. Anche le percentuali sui parlanti (33) possono essere riviste sulla base di queste inchieste. 3 Interessanti al riguardo sono le questioni poste (48). 4 Cf. N. Labrie, «Social Network and code-switching: A sociolinguistic investigation of Italians in Montreal», in: N. Dittmar/ P. Schlobinski (ed.), The Sociolinguistics of Urban Vernaculars. Case Studies and their Evaluation, Berlin-New York 1988: 217-34. Sull’analisi di conversazioni, con un forte interesse però anche per l’aspetto metalinguistico, si basa il successivo capitolo, di Federica Guerini «Plurilinguismo e immigrazione: la comunità ghanese in provincia di Bergamo», anch’esso tratto, assai verosimilmente, da uno studio di più ampie dimensioni, il che rende ragione di una, peraltro comprensibile, disimmetria fra lo spazio dedicato all’introduzione e quello riservato alla trattazione vera e propria. Il fuoco del saggio è l’analisi del repertorio, particolarmente complesso, degli immigrati ghanesi in provincia di Bergamo, territorio nel quale essi sono numerosi. La situazione è effettivamente interessante proprio perché già al loro arrivo in Italia queste persone sono portatrici di un alto tasso di plurilinguismo che comprende vernacoli locali in posizione basilettale, una (o più raramente due) lingue veicolari - nel caso degli intervistati il twi, talora il Ghanaian Pidgin English e, al livello alto della scala, il Ghanaian Standard English. Singoli immigrati sono poi in possesso di altre lingue come l’arabo, o altre lingue europee o africane. Ora, l’immigrazione in Italia fa sì che questo repertorio, si noti organizzato gerarchicamente e comprendente precise norme di comportamento comunicativo, si debba confrontare con le varietà locali di italiano e bergamasco, ma soprattutto con le diverse esigenze comunicative delle singole persone, all’esterno della comunità di appartenenza come al suo interno. Avviene così una ristrutturazione di tutto il repertorio, anche nelle sue varietà per così dire «native», che si organizza in quella che Guerini definisce, sulla scorta di Fasold, doppia diglossia sovrapposta: «all’interno del repertorio si possono individuare due relazioni di diglossia in parziale sovrapposizione: la prima vede inglese ed italiano opporsi quali varietà alte rispetto al twi, mentre nella seconda è il twi ad occupare la posizione alta della relazione rispetto ai diversi vernacoli locali, nonché al Ghanaian Pidgin English» (74). E in effetti vale la pena di notare in particolare, fra i numerosi spunti interessanti, la posizione del Ghanaian Pidgin English, probabilmente, nota Guerini, abbondantemente sottostimato nelle dichiarazioni esplicite dei parlanti sul loro proprio repertorio: la varietà, nel nuovo setting italiano (europeo, cioè, come è europea l’origine della lingua inglese), è particolarmente stigmatizzata, e di converso piuttosto diffusa. Allora la parlano gli altri: «gli informanti dapprima negano che in Ghana esista una varietà pidginizzata (we speak good English, we are not like the Nigerians! ) mentre subito dopo . . . ammettono di essere in grado non solo di comprende[rlo], ma anche di parlarlo» (73). Come accade per esempio nelle Asturie occidentali: a parlare gallego sono sempre, invariabilmente, quelli del paese più a ovest 5 . Un posto particolare nel repertorio lo occupa poi il dialetto bergamasco, sentito dai ghanesi come ovviamente esterno alla comunità, ma connotato in senso etnico, e portatore di un certo grado di covert prestige: sembra essere in procinto di entrare nel repertorio della comunità, in posizione addirittura superiore a quello di lingue quali il twi o i vernacoli territoriali - parrebbe una sorta di lingua del desiderio 6 . Il capitolo 6 apre la seconda parte, dedicata più specificamente all’analisi di fenomeni microsociolinguistici e interazionali. Anche questa parte è introdotta da un lavoro di Dal Negro, che costituisce, come si accennava, una sorta di applicazione pratica del suo primo saggio. Il capitolo è impostato su una presentazione comparativa di due atti linguistici grosso modo di conversazione colti a Issime e Rimella, la cui analisi conferma le afferma- 279 Besprechungen - Comptes rendus 5 Si può vedere R. Gonzales-Quevedo, «Llingua ya identidá», Cultures. Revista asturiana de cultura 3 (1993): 77-98. 6 Pare strano all’osservatore quasi locale, anche se asistematico, che già non ne faccia parte (ma in effetti, se si guarda alla biografie linguistiche degli informanti riportate nei Materiali a p. 148-49, tracce se ne trovano): il bergamasco è, tuttora, lingua di lavoro del mondo della carpenteria leggera e di molte attività artigianali della zona, e non sono pochi gli immigrati africani (non in effetti specificamente ghanesi) necessitati a impararlo. Sul concetto di Wunschsprache, in senso tuttavia un po’ diverso, cf. l’articolo citato alla N1. zioni sulla diversità dei repertori delle due comunità, pur nelle ovvie differenze di setting comunicativo fra i due testi. Nel frammento di Issime, una conversazione spontanea fra quattro interlocutori non tutti ugualmente competenti dei codici usati, le varietà che compaiono (dialetto walser, dialetto piemontese, dialetto francoprovenzale e - significativamente - pochissimo italiano, limitato a prestiti occasionali) si dispongono in uno spazio linguistico di sostanziale giustapposizione, in cui interi turni dialogici sono mantenuti nello stesso codice (che serve anche a distinguere linee conversazionali diverse) e la commistione fra le varietà si configura come più propriamente di code-switching. A Rimella, di contro, con mutate variabili luogo (la cui situazione del repertorio abbiamo già esaminato) e setting comunicativo (in questo caso intervista autobiografica semiguidata 7 ) la compresenza dei codici presenti (fondamentalmente dialetto walser e dialetto valsesiano) assume i tratti della vera e propria mescolanza. Dal Negro, correttamente, riporta i parametri della variazione alle diverse situazioni sociolinguistiche: «a Issime . . . la scelta dell’uno o dell’altro codice [appare] in larga misura di tipo locale, interna all’evento stesso, motivata dalla combinazione degli elementi che lo compongono . . . Per quanto riguarda Rimella, . . . l’impressione che emerge dall’analisi è quella di avere di fronte un unico codice, per quanto misto, e non un uso contemporaneo di più codici con diverse funzioni conversazionali». Oltre a ciò, però, e in maniera forse più interessante, la diversità del comportamento linguistico (ricordiamo, tuttavia, colto in setting conversazionali molto diversi) viene ricondotta alla differente percezione delle varietà romanze (piemontese, e in certa misura francoprovenzale a Issime e valsesiano a Rimella), che in particolare sono considerate entrambe we code nella località piemontese, dando luogo a enunciazioni in cui la componente germanica e quella romanza non sono funzionalmente distinte, essendo appunto entrambe endocomunitarie. Viene allora da chiedersi se questo comportamento diverso non sottenda anche una diversa vitalità percepita 8 dei codici che caratterizzano le comunità, i diversi dialetti walser; l’argomento non è direttamente affrontato, ma trova risposta nella discussione su due punti interessanti, quello sul layered code-switching, ossia l’uso alternato di due codici che sono a loro volta misti, e quello sull’ipotesi, attualmente dibattuta, per cui la commutazione di codice non è necessariamente indice di completa padronanza delle varietà che si commutano. Anzi, si conclude, «ci si può chiedere se esista un discorso titschu spontaneo privo di enunciati mistilingui . . . il dialetto walser a Rimella esiste ancora solo come componente di un codice misto»: e questo pone avvincenti questioni sul concetto di «lingua madre», accennate nel capitolo, ma sulle quali bisognerebbe tornare in sede di discussione approfondita. Il capitolo 7, «Interazione e plurilinguismo in classe», è scritto a quattro mani, quelle di Chiara Ghezzi e Roberta Grassi, e presenta situazioni di tipo decisamente diverso da quelle fin qui viste, ossia transazionali piuttosto che personali 9 (pur con diversi gradi di spontaneità, dalla conversazione di Issime alle interviste di Vietti). Il rapporto linguistico che si viene a creare fra insegnante e allievi in una classe ha, come mettono in evidenza le autrici, caratteristiche di forte complessità e artificiosità, peraltro ben studiate dalla lette- 280 Besprechungen - Comptes rendus 7 In effetti, fra i fattori di variabilità o comunque che influenzano l’andamento comunicativo va aggiunto il fatto che, a Rimella, «l’intenzione esplicita di rilevatore e intervistato appare . . . quella di parlare nel dialetto walser locale» (88). 8 Il riferimento non è recentissimo, ma ancora utile: R. Allard/ R. Landry, «Subjective ethnolinguistic vitality viewed as a belief system», Journal of Multilingual and Multicultural Development 7 (1986): 1-12. 9 Secondo il filone di analisi aperto da J. Gumperz, «Linguistic and social interaction in two communities», American Anthropologist 66 (1964): 37-53. ratura specifica. Ora, il pregio di questo capitolo sta nel mantenere fisso il punto focale dell’intero volume, ossia lo studio della diversa distribuzione dei codici in contesti plurilingui in cui alcune varietà siano condivise, come si è detto, solo in parte: e dunque di indagare in modo particolare le conseguenze sulla struttura della conversazione portate dalla presenza di studenti stranieri in classe, sotto l’angolatura dei diversi rapporti fra i codici. Due sono le situazioni fondamentalmente studiate: una, la lezione in classe o in piccoli gruppi (il cosiddetto «laboratorio»), che, nonostante differenze anche rilevanti di setting fra i due ambienti, prevede una maggiore mobilità dei ruoli, e una costituita dall’interrogazione, evento linguistico particolarmente strutturato e rispondente a ben precise norme interazionali. Colpisce innanzitutto la forte riduzione delle possibilità: lo scambio linguistico avviene quasi solo in italiano, facendo del plurilinguismo una «presenza di sfondo». Questo, verosimilmente, anche perché l’italiano costituisce una sorta di lingua franca; ma un ruolo importante è anche giocato dal tipo di lingua previsto dall’istituzione scolastica in quanto tale, tesa - tuttora - ad un’educazione di tipo formale e basato sostanzialmente sulla varietà scritta, l’unica considerata nel profondo degna di attenzione. E tuttavia, anche in contesti così strutturati, l’effettiva presenza di codici diversi portati dai partecipanti impone una, seppur latente, ristrutturazione dell’evento linguistico, che non si configura tanto come intrinsecamente plurilingue, ma risente a suo modo della maggiore complessità dei codici in gioco: «la presenza dei non nativi destabilizza l’ordine precostituito e la loro scarsa competenza linguistica ‹obbliga› l’insegnante a discostarsi dal modello interazionale tipico del contesto scolastico e ad avvicinarsi a modelli che permettano una maggiore negoziazione del significato» (120). In particolare due punti sembrano particolarmente notevoli: da un lato, proprio la ristrutturazione dei ruoli interazionali imposta da questo plurilinguismo latente comporta una sorta di curioso rovesciamento dei ruoli, ossia un «capovolgimento nell’uso dei registri, rispetto a quanto si sarebbe potuto immaginare, con gli studenti impegnati a mantenersi, seppure con fatica, su un registro alto, formale, ‹scolastico›, ancorato alla (micro)lingua scritta, di massimo prestigio in quest’ambito, e l’insegnante che invece spazia più frequentemente e più agevolmente dal registro formale ad uno piano, anzi a tratti colloquiale» (121). Accanto a questo, la costante rinegoziazione dei ruoli nell’interazione impone una ridefinizione dell’atto della «domanda» (con le sue implicazioni proprie al particolare contesto di cui parliamo) nell’ambito del rapporto verbale fra insegnante e allievo. Piera Molinelli si è incaricata dell’ultimo capitolo, conclusivo e a un tempo portatore di una breve proposta di sistematizzazione teorica degli argomenti su cui è stata richiamata l’attenzione del lettore. Il modello prevede due ordini di fattori che influenzano la comunicazione in contesto plurilingue: fattori esterni, ossia il sistema di valori che governa i rapporti fra i codici nella comunità linguistica di riferimento, e fattori interni all’evento comunicativo, a loro volta organizzati secondo il noto schema a sei elementi che dobbiamo a Jakobson (noterò solo uno spunto interessante, relativo al codice: il nome della lingua, rileva acutamente Molinelli, tende a essere espresso nella lingua stessa; e sarebbe bello, seguendo spunti che emergono proprio nel volume, riflettere sulle lingue che non hanno nome, o che hanno nome «dialetto», o che si chiamano esplicitamente «pidgin» e così via). Attenzione è anche dedicata ad un modello, che si vorrebbe etichettare come doppiamente cartesiano, dei ruoli interazionali nella conversazione, analizzati in termini di potere e solidarietà 10 , ma anche di distanza e rispetto, parametri questi che influenzano il tipo di scam- 281 Besprechungen - Comptes rendus 10 Secondo l’analisi di R. Brown/ A. Gilman, «The pronouns of power and solidarity», in: T. A. Sebeok (ed,) Style in Language, Cambridge 1960: 253-76. Il modello qui presentato è discusso in P. Molinelli, «‹Lei non sa chi sono io! ›: potere, solidarietà, rispetto e distanza nella comunicazione», Linguistica e Filologia 14 (2002): 283-302. bio linguistico fra diversi interlocutori, determinando, oltre che variazioni di tipo diafasico, anche scelte e contrattazioni di codici e eventualmente loro alternanze, secondo i loro rispettivi «pesi» all’interno del repertorio individuale e comunitario. Segue una molto appropriata sezione di Materiali, che riporta tabelle per la determinazione di un RS (capitolo 4) e questionario e biografie degli informatori ghanesi presentato al capitolo 5. L’attenzione metodologica che percorre tutto il volume è rispecchiata anche, appunto, nel fornire al lettore gli strumenti mediante i quali alcune delle considerazioni presentate nei suoi capitoli sono state tratte. Il volume è di indubbio interesse e assai benvenuto nel panorama linguistico italiano: ossia, degli studi che si riferiscano a situazioni linguistiche della Penisola e/ o analizzati da ricercatori formati dalle nostre Università. Sarebbe bello che potesse circolare all’estero, e in particolare in ambito anglofono, chiuso, come si ebbe spesso occasione di notare 11 , a ogni influenza esterna. Forse i capitoli avrebbero potuto essere un po’ più distesi. Le informazioni che si vogliono fornire sono spesso molte, per saggi così concisi, e si intravvede, appunto, in più di un caso, lo sforzo di distillazione, per così dire, da opere più vaste. Questo anche se si riflette su quale posa essere il fine del volume, ossia a quale lettore implicito prototipico si rivolge: allo studioso, certamente, ma spesso, si ha l’impressione, anche (e talora soprattutto) allo studente, magari di una laurea specialistica in Linguistica o in Antropologia. E in tal caso, una trattazione meno densa avrebbe talora facilitato il compito di riflessione e apprendimento. Gabriele Iannàccaro ★ Vincenzo Orioles, Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela, Roma (Il Calamo) 2003, 178 p. Come viene illustrato dalla «Nota» (59-60: è strana la collocazione: dovrebbe trovarsi all’inizio del libro, e si direbbe che si trovi confinata lì, dopo la fine della prima parte «Interventi», per un mero errore di impaginazione), il libro è diviso in tre parti: la prima è occupata da tre saggi di carattere teorico e introduttivo; la seconda da una serie di 15 schede che, accuratamente ripartite in appositi ‹campi› (Tipologia linguistica; Diffusione in Italia; Considerazioni generali; Consistenza numerica; Status; Utilizzo pubblico; Educazione; Media), forniscono le principali notizie e i dati comparativi utili per una prima informazione sulle minoranze prese in esame; la terza da una ampia e praticamente esaustiva raccolta di strumenti legislativi, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) fino all’Ordine del Giorno d’iniziativa del deputato Antonello Mereu approvato dalla Camera dei Deputati il 17 ottobre 2003. Si tratta, in certo qual modo, di un instant book. La sua pubblicazione capita infatti al tempo giusto per fare un po’ di chiarezza in una materia che, come spesso avviene in coincidenza con atti legislativi che vorrebbero regolarla, rischia sempre più di aggrovigliarsi nei nodi dell’inconciliabilità tra realtà effettuale, proiezioni ideologiche e burocrazia istituzionale. L’atto legislativo al quale alludo è la Legge 15 Dicembre 1999, n. 482 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche: una legge che, a distanza di 52 anni, dà una parziale attuazione all’art. 6 della Costituzione della Repubblica Italiana («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»). Che l’attuazione sia soltanto parziale lo dice il titolo stesso della Legge, là dove parla di «minoranze linguistiche storiche», con 282 Besprechungen - Comptes rendus 11 A partire dalla famosa introduzione di Alberto Varvaro all’edizione italiana del volume di Hudson (R. Hudson, Sociolinguistics, Cambridge 1980, ed. italiana: Bologna 1980).
