eJournals Vox Romanica 64/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2005
641 Kristol De Stefani

Vincenzo Orioles, Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela, Roma (Il Calamo) 2003, 178 p.

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2005
Tullio  Telmon
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bio linguistico fra diversi interlocutori, determinando, oltre che variazioni di tipo diafasico, anche scelte e contrattazioni di codici e eventualmente loro alternanze, secondo i loro rispettivi «pesi» all’interno del repertorio individuale e comunitario. Segue una molto appropriata sezione di Materiali, che riporta tabelle per la determinazione di un RS (capitolo 4) e questionario e biografie degli informatori ghanesi presentato al capitolo 5. L’attenzione metodologica che percorre tutto il volume è rispecchiata anche, appunto, nel fornire al lettore gli strumenti mediante i quali alcune delle considerazioni presentate nei suoi capitoli sono state tratte. Il volume è di indubbio interesse e assai benvenuto nel panorama linguistico italiano: ossia, degli studi che si riferiscano a situazioni linguistiche della Penisola e/ o analizzati da ricercatori formati dalle nostre Università. Sarebbe bello che potesse circolare all’estero, e in particolare in ambito anglofono, chiuso, come si ebbe spesso occasione di notare 11 , a ogni influenza esterna. Forse i capitoli avrebbero potuto essere un po’ più distesi. Le informazioni che si vogliono fornire sono spesso molte, per saggi così concisi, e si intravvede, appunto, in più di un caso, lo sforzo di distillazione, per così dire, da opere più vaste. Questo anche se si riflette su quale posa essere il fine del volume, ossia a quale lettore implicito prototipico si rivolge: allo studioso, certamente, ma spesso, si ha l’impressione, anche (e talora soprattutto) allo studente, magari di una laurea specialistica in Linguistica o in Antropologia. E in tal caso, una trattazione meno densa avrebbe talora facilitato il compito di riflessione e apprendimento. Gabriele Iannàccaro ★ Vincenzo Orioles, Le minoranze linguistiche. Profili sociolinguistici e quadro dei documenti di tutela, Roma (Il Calamo) 2003, 178 p. Come viene illustrato dalla «Nota» (59-60: è strana la collocazione: dovrebbe trovarsi all’inizio del libro, e si direbbe che si trovi confinata lì, dopo la fine della prima parte «Interventi», per un mero errore di impaginazione), il libro è diviso in tre parti: la prima è occupata da tre saggi di carattere teorico e introduttivo; la seconda da una serie di 15 schede che, accuratamente ripartite in appositi ‹campi› (Tipologia linguistica; Diffusione in Italia; Considerazioni generali; Consistenza numerica; Status; Utilizzo pubblico; Educazione; Media), forniscono le principali notizie e i dati comparativi utili per una prima informazione sulle minoranze prese in esame; la terza da una ampia e praticamente esaustiva raccolta di strumenti legislativi, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) fino all’Ordine del Giorno d’iniziativa del deputato Antonello Mereu approvato dalla Camera dei Deputati il 17 ottobre 2003. Si tratta, in certo qual modo, di un instant book. La sua pubblicazione capita infatti al tempo giusto per fare un po’ di chiarezza in una materia che, come spesso avviene in coincidenza con atti legislativi che vorrebbero regolarla, rischia sempre più di aggrovigliarsi nei nodi dell’inconciliabilità tra realtà effettuale, proiezioni ideologiche e burocrazia istituzionale. L’atto legislativo al quale alludo è la Legge 15 Dicembre 1999, n. 482 Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche: una legge che, a distanza di 52 anni, dà una parziale attuazione all’art. 6 della Costituzione della Repubblica Italiana («La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche»). Che l’attuazione sia soltanto parziale lo dice il titolo stesso della Legge, là dove parla di «minoranze linguistiche storiche», con 282 Besprechungen - Comptes rendus 11 A partire dalla famosa introduzione di Alberto Varvaro all’edizione italiana del volume di Hudson (R. Hudson, Sociolinguistics, Cambridge 1980, ed. italiana: Bologna 1980). una limitazione - assente nella Costituzione e priva peraltro di prove dimostrative - a quelle minoranze che, sembra potersi arguire, si dimostrino storicamente radicate nel tessuto sociale della Repubblica stessa. Ma se la Repubblica ha poco più di mezzo secolo, e se lo stesso Stato italiano ne ha meno di uno e mezzo, si fa presto a dimostrare, per una quantità di minoranze non comprese nell’inventario citato all’articolo 2 della Legge stessa, la loro ‘storicità’, vale a dire la loro presenza prerepubblicana o addirittura preunitaria nel tessuto sociale dei territori che costituiscono attualmente lo Stato italiano. Pur prescindendo da questa preliminare considerazione, l’Autore non manca di illustrare, nei tre efficaci saggi che costituiscono la prima parte del volume, le ‘ombre’ che caratterizzano la genesi, la filosofia e l’impianto stesso della Legge. Le carenze e le negatività della Legge vengono da lui sintetizzate in cinque punti precisi: - nel fatto che le varietà oggetto di tutela sono circoscritte in un inventario chiuso; - nell’enfatizzazione del principio dell’autoidentificazione; - nell’appiattimento di tutte le condizioni minoritarie; - nella mancata considerazione delle interazioni plurilingui e pluriculturali; - nella sottostima del ruolo della ricerca e dei compiti dell’Università. Per quanto riguarda il terzo e il quarto di questi punti, è probabile che fosse difficilmente praticabile, all’interno di uno strumento legislativo di valenza generale, immettere il ricco ventaglio di distinzioni cui la ricerca sociolinguistica ha ormai abituato i suoi addetti ai lavori (biplurilinguismo, diglossia, dilalia, mistilinguismo, ecc.). Anche il quinto punto, pur condiviso da chi scrive queste note, può apparire come una petizione di principii, certamente saggia, ma un tantino ‘pro domo nostra’: come me, Orioles appartiene all’Università, e, come me, ritiene che il luogo elettivo della formazione sia l’Università, e che in assenza di una seria formazione del personale (insegnanti, mediatori, amministratori, popolazione interessata) ogni legge di questo genere rischia di rivelarsi sterile. I due primi punti si rivelano però, alla luce delle argomentazioni di Orioles e a quella delle prime informazioni sulle applicazioni della legge, i più cruciali, quelli che maggiormente consentono all’Autore di fornire un apporto critico al dibattito sulle minoranze e proposte concrete per il miglioramento della loro regolamentazione legislativa. Già la contraddittorietà tra la limitazione alle minoranze storiche - di cui si è detto sopra - e il mancato assolvimento alle condizioni della limitazione stessa mostra che l’elenco delle minoranze riportato all’articolo 2: . . . la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo. è assurdamente incompleto, privo com’è di qualsiasi appiglio storico sia per ciò che viene fatto rientrare nell’inventario sia per ciò che ne viene escluso. In più, come osserva giustamente Orioles, nella scelta di una soluzione statica e ‘fissista’, il legislatore ha volutamente scartato l’ipotesi di «limitarsi alla previsione di norme semplicemente generali in conformità alle quali qualunque gruppo linguistico, a certe condizioni, potesse venir riconosciuto come minoranza» (21); una soluzione che, in una materia naturaliter dinamica e mutevole come è quella che riguarda i fatti di lingua e di divenire linguistico, si sarebbe rivelata certamente più adeguata. Di fatto, dall’elenco dell’articolo 2 della Legge 482, vengono a mancare, come osserva l’Autore, le tre categorie di minoranze (questo credo che voglia intendere Orioles allorché parla di «tre tipi idiomatici [corsivo mio] tagliati fuori dall’apparato di tutela», 22) comunemente designate come: 283 Besprechungen - Comptes rendus a) le eteroglossie interne; b) le minoranze diffuse; c) le nuove minoranze. Per le prime, che derivano per lo più da antichi spostamenti di popolazioni, da colonizzazioni, da ripopolamenti, Orioles ricorda le comunità galloitaliche spostatesi in Sicilia e in Basilicata nel XII secolo e i liguri trasferitisi dall’isola tunisina di Tabarca a Carloforte e a Calasetta nel XVIII; sulla base delle conoscenze ormai consolidate, si potrebbero aggiungere, se non sono stati nel frattempo completamente riassorbiti dall’ambiente linguistico circostante, i dialettofoni emiliani emigrati o tracimati in territorio versiliese o in Garfagnana, quelli veneti in Maremma, nel Lazio o in Sardegna, quelli ferraresi e friulano-dalmati a Fertilia e a Maristella, pure in Sardegna. Quanto alle seconde, l’assenza più clamorosa è costituita dalle comunità zingare (rom e sinti) delle quali, ci informa ancora Orioles nel saggio «Verso uno status del tabarchino: problemi di definizione e di tutela delle eteroglossie interne» (41-52), la Società Italiana di Glottologia e la Società di Linguistica Italiana avevano invano sollecitato l’inserimento nella Legge in questione. La terza categoria, quella delle nuove minoranze, è quella costituita dalle lingue dell’immigrazione, specie dai paesi del Terzo mondo. Altro punto critico della legge, puntualmente rilevato da Orioles, è poi «l’enfatizzazione del principio di autoidentificazione» (23), sancito dall’art. 3. Le minoranze linguistiche italiane sono prive spesso di autocoscienza comunitaria ed affidate per lo più alle voci isolate di avanguardie generose quanto solitarie ed elitarie, spesso sognatrici e favoleggiatrici e talvolta anche, purtroppo, interessate a personali tornaconti. Chi ha esperienza di tali situazioni sa perfettamente che, delle varie modalità che il suddetto articolo 3 riconosce per la determinazione, da parte di un comune, del suo status di minoranza, quella della «richiesta di almeno il quindici per cento dei cittadini iscritti nelle liste elettorali e residenti nei comuni» interessati è assolutamente improponibile: per obbiettive difficoltà di organizzare un’eventuale raccolta di richieste, prima di tutto, ma anche perché difficilmente, in una di queste comunità, è possibile che il 15 % dei cittadini sappia di essere - o sappia che cosa sia - una minoranza linguistica. Non a caso, non mi risulta che, delle centinaia di comuni che hanno fatto richiesta di appartenenza ad una minoranza linguistica, qualcuno lo abbia fatto attraverso tale via. In tutti i casi che conosco, l’istanza è uscita dalla seconda delle modalità previste, quella della richiesta «di un terzo dei consiglieri comunali», tradottasi anzi, in definitiva, in una delibera del Consiglio comunale, per lo più adottata all’unanimità. Poiché è lecito dubitare che dietro a queste unanimità ci fosse una reale consapevolezza metalinguistica, se ne arguisce - e Orioles puntualmente ed elegantemente lo fa osservare - che in qualche caso il senso degli affari (la speranza cioè di poter trarre dalla 482 qualche utile per il proprio comune) abbia dato una mano al fiorire di un sentimento di identità fino a quel momento languente. Soltanto così si spiegano numerose furbesche adesioni, purtroppo sancite da acquiescenti (o ignoranti) consigli provinciali, da parte di comuni che non hanno assolutamente nulla a che fare con le minoranze alle quali asseriscono di appartenere. E qui entra in gioco il concetto di identità. Orioles lo affronta con un corretto atteggiamento relativistico, riportando e condividendo, nel saggio che reca il titolo «Tra centro e periferia: la tutela delle lingue minoritarie nella legislazione italiana» (29-39), una bellissima citazione da Norman Denison 1 , che parla esplicitamente di «identità composita». Mai come in questi ultimi tempi, difatti, il concetto di identità si è rivelato ambiguo, pericoloso e, al 284 Besprechungen - Comptes rendus 1 Cf. N. Denison, «Ana vier bortlan in Tsarars», in: D. Cozzi/ D. Isabella/ E. Navarra (ed.), Sauris/ Zahre, una comunità delle Alpi Carniche, Udine 1999: 29. limite, mistificante: gli antropologi hanno ormai incominciato ad evitarlo o addirittura a sottometterlo a critiche anche piuttosto severe 2 , con una significativa coincidenza di tempi con l’analoga critica a cui i sociologi stanno sottoponendo il concetto di «comunità» 3 ; chi scrive queste note aveva, a suo tempo, proposto di sostituirlo, nella descrizione del processo di autoriconoscimento da parte di popolazioni di minoranza, con il concetto di «ipseità» 4 , nel senso di individuazione della propria multiforme autenticità personale o comunitaria; ad una conclusione in parte analoga giunge anche Amin Maalouf, giornalista libanese che scrive in francese, che in un suo recente pamphlet 5 scrive tra l’altro: Ciascuno di noi dovrebbe essere incoraggiato ad assumere la propria diversità, a concepire la propria identità come la somma delle sue diverse appartenenze, invece di confonderla con una sola, eretta ad appartenenza suprema e a strumento di esclusione, talvolta a strumento di guerra (175). Ciò che contraddistingue questo momento della storia della riflessione e della percezione linguistica è sì, come nota giustamente Orioles fin dalla prima pagina di questo libro, la rivoluzione ecolinguistica costituita dalla nuova attenzione verso le lingue minori; ma è soprattutto, in Italia, il realizzarsi dei riflessi sociolinguistici di particolari circostanze storiche. In estrema sintesi, tali circostanze possono riassumersi: a) nell’apprendimento dell’italiano da parte di tutti i cittadini italiani; b) nella conseguente fine del ruolo discriminatorio dell’italofonia; c) nella parallela e complementare fine della considerazione emarginatoria della dialettofonia; d) nella conseguente fine del mito della dialettofonia come impedimento all’acquisizione dell’italiano come strumento di avanzamento sociale; e) nella rivalutazione del plurilinguismo. Alcune false rappresentazioni ideologiche sussistono però ancora, nonostante l’impegno dei linguisti a dimostrarne l’infondatezza. Una di queste è la convinzione dell’inutilità della presenza, nel formarsi dei nuovi repertori linguistici, delle lingue minori e/ o delle lingue locali 6 . Tale convinzione deriva a sua volta dalla considerazione della mens linguistica come di un contenitore di limitata capacità, che conviene riempire con ciò che è ritenuto utile; ciò vale a dire che, in una prospettiva di tal genere, è meglio, per l’opinione comune, evitare di ingombrare il contenitore di lingue di circolazione ristretta se si vuole avere spazio per quelle di maggiore importanza. Compito dell’ecologia del linguaggio, come osserva giustamente Orioles, sarà dunque quello di dimostrare la scorrettezza scientifica dell’assunto (la capacità di assorbimento linguistico non è un contenitore limitato), e al contempo mettere in rilievo le buone ragioni che, in termini di igiene mentale e di salvaguardia degli equilibri socio-psicologici, inducono a credere che l’apprendimento e l’uso delle lingue locali come lingue materne, non soltanto non impedisce l’apprendimento di altre lingue, ma può invece giocare un ruolo prezioso nella difesa della glottodiversità contro i processi degenerativi e omologanti della globalizzazione. 285 Besprechungen - Comptes rendus 2 Cf. ad es. F. Remotti, Contro l’identità, Bari-Roma 1996. 3 Cf. A. Bagnasco, Tracce di comunità, Bologna 1999. 4 Cf. T. Telmon, «Aspetti sociolinguistici delle minoranze linguistiche in Piemonte e Val d’Aosta», Quaderni della Regione Piemonte 1/ 97: 9-13. 5 Cf. A. Maalouf, L’identità, Milano 1999. Da notare il titolo assai più drastico dell’edizione francese originale: Les identités meurtrières (Parigi 1998). 6 Uso intenzionalmente questa espressione per evitare il termine dialetto. Sebbene questo sia, ai miei occhi, perfettamente sinonimo, voglio infatti evitare l’effetto «sminuente» che esso ha nell’opinione corrente, spesso anche tra i cosiddetti «addetti ai lavori». Per ritornare, in conclusione, alla Legge per la tutela delle minoranze linguistiche, il linguista sa bene che vanno bene le grandi petizioni di principi, che vanno bene le grandi campagne di informazione, vanno bene le agevolazioni per gli usi scolastici e mass-mediatici delle lingue minoritarie, vanno bene, in una parola, le leggi di tutela; ma è ingenua utopia credere che, in assenza della trasmissione diretta in sede famigliare, una qualsiasi lingua «minorizzata» possa sperare di risorgere. In una temperie culturale in cui si pensa di risolvere le politiche sociali e demografiche con il «bonus-figli», forse l’unico mezzo per salvare lingue locali e lingue minori dalla scomparsa è che i comuni che si sono autoidentificati come appartenenti ad una minoranza linguistica deliberino dei contributi da destinarsi a quelle famiglie che riescono a condurre dei figlioli dialettofoni almeno fino alle soglie della scuola elementare. Tullio Telmon ★ Sara Cigada/ Silvia Gilardoni/ Marinette Matthey (ed.), Comunicare in un ambiente professionale plurilingue/ Communicating in professional multilingual environments. Atti del Convegno VALS-ASLA, Lugano, 14-16. 9. 2000, Lugano (Università della Svizzera Italiana) 2001, 351 p. Il convegno dell’Associazione svizzera di linguistica applicata, svoltosi a Lugano dal 14 al 16 settembre 2000 presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università della Svizzera italiana, ha focalizzato l’attenzione su una tematica centrale negli studi sulla comunicazione, una tematica legata alla quotidianità di molti professionisti, che comunicano in lingue diverse, in più lingue, in diversi contesti. La tematica ha incontrato l’interesse di molti partecipanti afferenti a diverse discipline. Il convegno è stata una proficua occasione di incontro per studiosi di linguistica generale, di linguistica applicata, di professionisti in un ambiente, quello svizzero, plurilingue per definizione. La partecipazione di ricercatori e studiosi con focus diversi ha creato qualche problema di uniformità nella programmazione del volume, problema riconosciuto dalle curatrici, che lo hanno evidenziato nella prefazione: la mancanza di uniformazione si ritrova sia nella differenziazione presente per gli ambienti professionali considerati, sia per i tipi di corpora analizzati, ancora per i metodi di analisi applicati. Ciò ha portato ad una difficoltà di raggruppamento dei contributi a seconda dei contenuti: per questo motivo, la scelta delle curatrici è caduta sulla suddivisione in due blocchi, quello delle sessioni plenarie e quello delle sessioni parallele, a tema. Nonostante la pluralità di indirizzi e la differenziazione, che hanno reso particolarmente stimolante il convegno e arricchito il volume, alcune problematiche comuni possono essere ben individuate. Si tratta del resto di tematiche fondamentali nella comunicazione professionale plurilingue, come quella riguardante l’alternanza di codice, la scelta della lingua nell’interazione, l’uso dell’inglese come lingua franca, le minoranze linguistiche e le strategie traduttive. I 24 contributi, nell’ottica di una comunicazione plurilingue, sono redatti in diverse lingue (tedesco, italiano, francese e inglese) e preceduti da un abstract scritto in un’altra lingua. Nella prima sezione, l’attenzione è puntata sulla competenza internazionale plurilingue, sia dal punto di vista dell’ibridità (se ne parla in modo dettagliato nel contributo di Sarangi, Interactional hybridity in professional gatekeeping encounters 47), sia dal punto di vista della molteplicità nell’unità (ne discute Müller, Vielfalt in der Einheit: Code shifting in fran- 286 Besprechungen - Comptes rendus