Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2007
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Kristol De StefaniAdnan M. Gökçen, I volgari di Bonvesin da la Riva. Testi del ms. Berlinese, New York (Lang) 1996, lvii + 224 p. (Studies in Italian Culture Literature in History 18); Adnan M. Gökçen, I volgari di Bonvesin da la Riva. Testi dei mss. Trivulziano 93 (v. 113- fine), Ambrosiano T. 10 sup., N. 95 sup., Toledano Capitolare 10-28, New York (Lang) 2001, cv + 253 p. (Studies in Italian Culture Literature in History 32)
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2007
Paola Allegretti
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hängiges Sprachsystem auffasst und keinerlei Veranlassung sieht, zur Erklärung bestimmter Lautwandelphänomene auf das Spanische oder das Portugiesische zu rekurrieren. Bachmann zufolge ist es die synchrone Betrachtungsweise, die überhaupt erst die Möglichkeit eröffnet, «eine größere Unabhängigkeit der einzelnen Sprachgebilde zuzulassen. [Dies] wurde in Bezug auf die Kreolsprachen zu einer Emanzipierung von der derivativen Perspektive der Diachronie genutzt» (174). Die Sprachwerdung des Kreolischen ist ein hochinteressantes und klug konzipiertes Buch. Wie Verf. ihre Schnitte setzt - sowohl in räumlicher als auch in zeitlicher Hinsicht - ist kühn, aber sehr plausibel. Bei ihren Interpretationen geht sie im allgemeinen mit großer Umsicht und Sorgfalt vor. Nur ganz selten fällt ihr Urteil etwas grob aus, etwa wenn Verf. annimmt: «Es ist vermutlich kein Zufall, dass die von der europäischen Genealogie ausgehende historisch-vergleichende Methode für zunehmend selbstbewusste (US-)amerikanische Forscher an Interesse verlor» (174). Hier muss man bedenken, dass zu der betreffenden Zeit - es geht Verf. um die Zeit seit den 50er Jahren - die historisch-vergleichende Methode auch in Europa ihre führende Rolle verloren hatte. Ihren Entschluss, die sprachwissenschaftliche Forschung zu Kreolsprachen in Relation zum allgemeinen sprachwissenschaftlichen Diskurs zu stellen, setzt Verf. überzeugend um, bspw. wenn sie zeigt, dass sich die Neukonzeption des Sprachwandels im Gefolge der Etablierung der historisch-vergleichenden Sprachwissenschaft auch auf die Wahrnehmung der Kreolsprachen auswirkt oder wenn sie darlegt, inwiefern der Wechsel von der diachronen zur synchronen Betrachtungsweise die Wahrnehmung der Kreolsprachen beeinflusst. Insgesamt handelt es sich bei dem Werk von Bachmann somit zweifellos um eine sehr differenzierte, anregende und faszinierende Studie. Yvonne Stork ★ Adnan M. Gökçen, I volgari di Bonvesin da la Riva. Testi del ms. Berlinese, New York (Lang) 1996, lvii + 224 p. (Studies in Italian Culture Literature in History 18) Adnan M. Gökçen, I volgari di Bonvesin da la Riva. Testi dei mss. Trivulziano 93 (v. 113fine), Ambrosiano T. 10 sup., N. 95 sup., Toledano Capitolare 10-28, New York (Lang) 2001, cv + 253 p. (Studies in Italian Culture Literature in History 32) Il primo volume dell’edizione di Gökçen (= Gökçen 1996) si compone di una Premessa (ixlvii = Prem1), in otto paragrafi, seguita dall’edizione 1 dei tredici testi di Bonvesin da la Riva contenuti nel codice milanese, presumibilmente di fine Duecento, proveniente dalla libreria quattrocentesca di Santa Maria Incoronata, chiamato per antonomasia Berlinese (Berlin, Öffentliche Wissenschaftliche Bibliothek, Ital. qu. 26, ff. 1r°-80v°, siglato a). I tredici testi, indicati dagli editori nella seguente maniera alfabetica, hanno la rubrica che li accompagna nel manoscritto e sono: a [De Sathana cum Virgine] «Quiloga se lomenta lo Satanas traitor» (3-23, 480v.); b Vulgare de elymosinis «Çascun homo il so stao, s’el vol a Deo servir» (25-69, 1048v.); c De quindecim miraculis que debent apparere ante diem iudicii «Aprov(o) la fin del mondo, s’el è ki’n voia odire» (71-3, 52v.); d De die iudicii «Queste en paroll(e) ter- 260 Besprechungen - Comptes rendus 1 Per opportunità tipografica si traslittera qui, nella trascrizione dei versi, il puntino espuntivo sottoscritto con le parentesi tonde. Recensione di F. Marri (autore di un Glossario al milanese di Bonvesin, Bologna 1977) in Studi e problemi di critica testuale 66 (2003): 185-89, che parla di «un’edizione in linea con le moderne esigenze della new philology, e (premesso comunque che il margine di arbitrarietà resta alto) degna di essere posta d’ora in avanti a fondamento della vulgata bonvesiniana.». ribele ke portan grand valor» (75-92, 369v.); e-f De anima cum corpore «Quiloga incontra l’anima sì parla l(o) Crëator» (93-116, 388v. e 144v.); g Disputatio rose cum viola «Quilò se diffinissce la disputatïon» (117-27, 248v.); h Disputatio musce cum formica «Eo Bonvesin dra Riva no voi(o) fà k’eo no diga» (129-41, 276v.); i De peccatore cum Virgine «Ki vol odir cuintar d’una zentil novella» (143-49, 144v.); l Laudes de Virgine Maria «Eo Bonvesin dra Riva mo voi(o) fà melodia» (151-74, 528v.); m Rationes quare Virgo tenetur diligere peccatores «La Vergen glorïosa matre del Salvator» (175-80, 124v.); n De quinquaginta curialitatibus ad mensam «Fra Bonvesin dra Riva, ke sta im borg(o) Legnian» (181-90, 204v.); o Vulgare de passione Sancti Iob «A çascun hom del mondo Deo ha dao poëstae» (191-204, 324v.); p Vita beati Alexii (v. 1-112) «Eufimïan da Roma fo nobel cavale(r)» (205-10, 112v., p si interrompe infatti nel manoscritto a al v. 112). Segue in questo volume, dai tre fogli di guardia del codice T 46 sup. della Biblioteca Ambrosiana (= frammenti ambrosiani) 2 , u [De cruce] «Se tu haviss(i) de quelle tu no t(e) lementarissi» (211-18, 178v.). Chiudono il volume cinque tavole del codice Berlinese (220-24). Ecco poi, sommariamente, l’articolazione degli argomenti di Prem1, che non hanno sottotitoli: §1 l’edizione critica di Contini 1941 [= «edizione romana»] (ix-xiii), §2 il sistema grafico del Berlinese (xiii-xxviii), §3 l’edizione di Contini 1941, «operazione paleontologica» quando elimina nel testo le varianti caduche (xxviii-xxix), §4 «le insufficienze che gravemente infirmano la validità dell’intera edizione romana» (xxix-xxx), §5 i criteri di Contini 1941 (xxxi-liv), §6 le desinenze dell’imperfetto (lv), §7 dieresi e dialefe (lv), §8 costituzione grafica dell’edizione in cui «tutte le varianti di forma che l’edizione romana adduce nell’apparato sono state promosse a testo» (lvis.). Il secondo volume, apparso cinque anni dopo (= Gökçen 2001), contiene la Premessa (vii-xciv = Prem2) in 11 paragrafi; la Nota bibliografica (xciv-c); Avvertenze e Appendice con le serie rimatiche dei testi p 113-t (ci-cv); e poi la prosecuzione alfabetica dei componimenti, a partire dal séguito di p Vita beati Alexii (v. 113-524) del testimone d «Dominodé - dis(e) quello -, tu sii glorificao» (3-28, 411v.); q del testimone b [De falsis excusationibus] «Multi hom(i)ni in questa vita se dan scusatïon» (29-46, 276v.); r del testimone b [De vanitatibus] «Le vanitae del mondo, tut(o) zo ke l’hom ha voia» (47-55, 128v.); s [Libro delle tre scritture] diviso in tre parti: s1 del testimone b [De scriptura nigra] «In nom(e) de Iesù Criste e de sancta Maria» (57-113, 908v.), s2 dei testimoni b e g [De scriptura rubra] «De la scrigiura rossa quilò sì segue a dire» (115-52, 448v.), s3 del testimone b [De scriptura aurea] «Dra lettera doradha mo voio aregordar» (153-200, 752v.); t del testimone e [Disputatio mensium] «Moresta d’aventagio ki vor odì cantar» (201-47, 736v.). Chiudono il volume, con una tavola ciascuno, i testimoni d (251), b (252), g (253). Ecco i paragrafi principali di Prem2, che presentano un loro titoletto nell’Indice (vii): §1 Edizioni, manoscritti, grafia dei mss. (ixs.), §2 Criteri per assimilare i mss. recenziori al ms. Berlinese (xi-xxxiv), §3 Le formule -eo, -ei, -er (xxxivs.), §4 Il dittongo -ae (xxxvi), §5 -t-, -dinterni (xxxvii-xliii), §6 Altri criteri di trascrizione (xliv-lv), §7 Articolo e pronome (lv-lxvi), §8 Cenni grafici (lxvii-lxxv), §9 Le forme integre (lxxv-lxxxiii), §10 Le rime (lxxxiii), §11 Circa l’edizione romana (lxxxivxciv). I manoscritti sono indicati secondo la siglatura dell’edizione critica di Contini 1941 (Prem2: lxxxvi-xciv), e cioè a (Berlin, Öffentliche Wissenschaftliche Bibliothek, Ital. qu. 26) dell’inizio del xiv sec., che contiene a, b, c, d, e, f, g, h, i, l, m, n, o, p; b (Milano, Biblioteca Ambrosiana, T 10 sup.) del sec. xv, che contiene, nell’ordine, s3, q, s1, d, l, m, e, f, s2, o, r, i; g (Milano, Biblioteca Ambrosiana, N 95 sup.) del sec. xv, che contiene d, s2, n; d (Milano, Archivio Storico Civico, cod. Trivulziano 93) della seconda metà del xiv sec., che contiene 261 Besprechungen - Comptes rendus 2 Scoperto e edito da S. Isella Brusamolino, «Bonvesin da la Riva, De cruce. Testo frammentario e inedito», ASNSP (1979): 1929-31. p; e (Toledo, Biblioteca Capitular, cód. 10-28) il codice, forse del xiv sec., che contiene t. C’è poi un altro testo (v), le Expositiones Catonis, trasmesso da due testimoni z (Bergamo, Biblioteca Civica, S.iv.36) del xv sec., e il ms. 1029 del Museo Civico Correr, non preso in conto da Gökçen «troppo malconcio perché se ne possa tentare la ricostruzione» (Prem2: x). La presenza di una doppia siglatura, greca per i testimoni e latina per le opere, rivela già da sola la complessa e lunga serie storica di lavori su Bonvesin, e difatti ripercorrere la bibliografia dà l’impressione di trovarsi davanti ad una compiuta filologia bonvesiniana (in àmbito tedesco si parla infatti di Bonvesin-Philologie), identificabile con una filologia dell’antico milanese, che potrebbe anche chiudersi su se stessa, nel suo àmbito linguistico e tematico, se non fosse che tra i suoi cultori si annovera il giovanissimo Gianfranco Contini (1912-90), con interventi che datano dal 1935, e con delle ripercussioni teoretiche di portata ben più generale, di cui si discuterà più oltre. La serie greca era stata adibita fin dal 1868 ai testimoni manoscritti, quella delle maiuscole latine è stata continuata anche con le scoperte più recenti, come quella di Silvia Isella Brusamolino nel 1979. Di necessità, l’esame dell’edizione di Gökçen non potrà prescindere dalla storia delle edizioni (anche virtuali) di Bonvesin, una sorta di genealogia che era ben presente a Contini, dal quale si apprende che «agl’inizi del xx secolo Leandro Biadene intraprese a . . . dar fuori il corpus, criticamente costituito, di Bonvesin da la Riva, impresa già progettata dal Mussafia e dal Monaci, poi abbandonata. Se non opera speculativamente critica (per un simile lavoro i fondamenti essenziali furon posti da Carlo Salvioni), quella del Biadene sarebbe riuscita riproduzione fedelissima, e perciò preziosa, di tutti i manoscritti bonvesiniani.» (Contini, «Leandro Biadene», SM, n. s. xii 1939: 232-34: 233). Questo ricordo ci serve ad evocare i nomi di Mussafia, Monaci, Biadene, Salvioni e Contini, e per quello che riguarda Contini ricorda la lunga diacronia dell’interesse bonvesiniano di questo maestro. Anche in questa recensione non si potrà prescindere da un duplice problema: da una parte le caratteristiche dell’edizione di Gökçen, e dall’altra la storia del problema «edizione di Bonvesin» nel pensiero di Contini, perché a lui è dedicato il primo volume del 1996 e al suo magistero Gökçen 1996 fa esplicito riferimento («È stato il prof. Contini a propormi il compito di riscrivere l’intero corpus bonvesiniano secondo nuove convenzioni, e lui ancora a volermi, con generosa disponibilità, consigliare nel corso del lavoro.» Prem1: v). Un discorso di questo genere si impone anche perché nel lavoro di Gökçen il confronto con il maestro italiano, costante e implicito (ma forse non del tutto congruo), prescinde da qualsiasi accenno ai problemi teorici. Esemplare al riguardo l’avverbio debitamente del seguente passaggio: «I testi conservati da tali testimoni tardi e deteriori sono nell’edizione Contini debitamente trasportati nella veste grafica del Berlinese.» (Prem1: xii), che è l’unica formula, veramente implicita, dedicata a uno dei problemi teorici più intricati dell’arte dell’edizione critica. 1. L’edizione di Gökçen. Ovviamente unitario è il progetto dei due volumi: i testi di Bonvesin sono presentati secondo la loro comparsa nei manoscritti. Prima i testi nell’ordine di a, in secondo luogo la conclusione di p contenuta in d (il quale comunque contiene integralmente La vita beati Alexii) e poi i testi e l’ordine di b, già parzialmente adoperato da B. Biondelli, Poesie lombarde inedite del secolo XIII , Milano 1856, che, nella Rivista europea dell’ottobre-novembre 1847, fu autore del primo intervento sulle opere volgari di Bonvesin da la Riva. Le opere sono indicate dalla sigla alfabetica: per i testi contenuti nel Berlinese (Prem1: xi) a-p, come proposto da A. Mussafia, «Darstellung der altmailändischen Mundart nach Bonvesin’s Schriften», SBWien 59 (1868): 5-40 (ora in A. Mussafia, Scritti di filologia e linguistica, ed. A. Daniele/ L. Renzi, Padova 1988: 247-84). La seriazione alfabetica è stata continuata da L. Biadene, Il Libro delle Tre Scritture e i Volgari delle False Scuse e delle Vanità, Pisa 1902, (q, r, s, t, v) per i testi trasmessi dagli altri testimoni manoscritti (Prem2: ci). Nell’edizione che qui si recensisce tale sigla alfabetica precede la numerazione di tutti i versi, a quattro cifre, ridotte a tre nel secondo volume (a 0001 e poi p 113). Tale in- 262 Besprechungen - Comptes rendus dicazione è adottata in vista dell’ultimo volume del lavoro di Gökçen, ancora non edito, cioè la concordanza linguistica a tutto il corpus bonvesiniano in volgare. Di questo terzo volume si ha la più confidente attesa, perché si tratta dell’unico pezzo mancante all’edizione critica di G. Contini, Le opere volgari di Bonvesin da la Riva, Roma 1941 3 , che il presente lavoro esempla fedelmente negli apparati e nelle loro dichiarazioni, e quasi sempre nella sostanza del testo. Ricordiamo brevemente che Contini 1941 invece raggruppò i testi sotto tre grandi rubriche, di tipo tematico e tendenzialmente di genere: i. Contrasti (t, a, i, e, f, g, h 1941: 1-98), ii. Volgari espositivi e narrativi (s, q, r, c, d, l, m, b, o, p 1941: 99-312), iii. Volgari didattici (n, v 1941: 313-60). Tale distinzione categoriale presiede anche alle successive scelte antologiche: nei Poeti del Duecento con un esemplare da ciascun gruppo (e cioè: g Disputatio rosae cum viola, l Laudes de Virgine Maria, n De quinquaginta curialitatibus ad mensam: Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, vol. i: 667-712), e nella Letteratura italiana delle origini, con un solo brano dal testo didattico (n v. 193-256 G. Contini, Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970: 116-42). Si tenga presente, per il prosieguo della discussione, che in Contini 1960 e Contini 1970 tali testi annoverano comunque, tra i loro testimoni, il Berlinese. La scelta di Gökçen obbedisce invece a un principio linguistico, non ben argomentato perché la resa linguistica è data per passata in giudicato ovunque, tanto in Prem1 («Agli stessi criteri ivi proposti da Contini [= Contini 1960: xxiii] si rifà, estendendoli a tutti i testi del Berlinese, la presente riscrizione che perciò stesso vuole essere il proseguimento dell’ultimo lavoro continiano.» Prem1: xxx) che in Prem2 («I testi conservati solo da tali testimoni tardi (p 113-fine, q, r, s, t; si tralascia v Expositiones Catonis, troppo malconcio perché se ne possa tentare la ricostruzione) devono essere trasportati nel costume del Berlinese.» Prem2: x). È invece ripercorso esplicitamente il solco del lavoro di Contini. E questo è vero fin dal titolo I volgari di Bonvesin da la Riva: perché le opere volgari del titolo dell’edizione Contini 1941 si potrebbero «anzi chiamar senz’altro ‹volgari›, secondo l’uso del loro autore (d 393, titoli di b e o in a, di e in b), rispecchiato anche nell’epitafio (qvi composvit mvlta vvlgaria)» (Contini 1941: vii). Gökçen istituisce una gerarchia che privilegia la lingua, la grafia e la testimonianza del Berlinese «Il Berlinese, infatti, è manoscritto autorevolissimo, da rispettare come un autografo non ostanti gli errori, del resto pochissimi, che vi intercorrono, esente così come è da lacune.» (Prem2: vii). Ora, i passaggi concettuali sono un po’ rapidi ma la sostanza è che tutti i testi di Bonvesin, nella globalità dell’edizione di Gökçen sono riportati alla veste grafica «reale» del Berlinese, come se fossero stati tutti trascritti dal copista di tale codice. Ora, il dibattito sul Berlinese Ital. qu. 26 non è definitivamente chiarito e concluso. Anche chi, come Aldo Rossi 4 , scrive che «questo codice può solo essere una copia ‹a buono› dell’ormai anziano Maestro milanese», non fornisce però dimostrazioni a sostegno di tale affermazione. Nonostante l’autografia resti quindi una questione aperta, il codice è comunque collocato allo scorcio del xiii sec. Identica provenienza linguistico-geografica, cronologia congruente con la datazione di Bonvesin (ca. 1250-1314? ), e soprattutto il fatto di essere l’unico testimone per cinque testi, hanno fatto sì che il Berlinese sia stato definito «quasi autografo». Questa definizione ha generato, a tutti gli effetti, soluzioni oltremodo problematiche: sebbene essa si giustifica su un piano pratico, non ha determinato però un trattamento editoriale uniforme e univoco. Contini si è posto il problema di una resa editoriale 263 Besprechungen - Comptes rendus 3 Come testimonia il rimando ricorrente «ogni correzione si fonda su uno spoglio di tutt’i casi in cui compaiano i vocaboli in questione, trova dunque la sua giustificazione nel glossario bonvesiniano» (Contini: xxxi), «Anche qui sta a fondamento dell’operazione il glossario bonvesiniano» (Contini: xxxi), il glossario, non stampato nel volume, ha le caratteristiche di una concordanza. 4 A. Rossi, Da Dante a Leonardo. Un percorso di originali, Firenze 1999: vii. dei versi alessandrini, raggruppati in quartine per lo più monorime, che rispetti la loro natura prosodica secondo una visione del problema che risale a Carlo Salvioni: quindi interviene sull’aspetto grafico del Berlinese, introducendo tutta una casistica di apocopi, a motivo di misure sillabiche (con un certo contemperamento da 1941 a 1960, che si vedrà più sotto). Gökçen invece ridiscute il «rapporto intimo e al tempo stesso intricatissimo che intercorre nei testi del Berlinese tra la rappresentazione grafica, qui in particolare delle vocali d’uscita, e il fatto fonetico» (Prem1: xiii), arrivando a una diversa prassi editoriale. Il sistema grafico del Berlinese è «arcaico e abbastanza coerente» (Prem1: xiii). Il problema è quello delle grafie apocopate, proprio in relazione alle varie soluzioni editoriali impostate da Contini. Sulla base di un prospetto di trentatré forme viene fuori «che il Berlinese (fermo restando il principio che normalmente vi sono rappresentate le vocali finali, con minor frequenza limitatamente a quelle precedute da certe consonanti continue), preferisce, nel caso dei doppioni, le varianti piene in fine d’emistichio o di verso; posizioni, queste che, caratterizzate come sono ambedue da una forte pausa, si equivalgono. Che in tali posizioni le finali si conservassero foneticamente, non fossero, cioè, mere rappresentazioni grafiche, è abbondantemente provato dalla rima che, anche se assai povera in genere in Bonvesin, e spesso ad assonanza, con tanto maggior rigore rispetta essa (oltreché, ovviamente, la tonica) la postonica, per cui rima solo ed esclusivamente con sé stessa ognuna delle desinenze.» (Prem1: xix). Gökçen rileva poi come il Berlinese preferisca le forme graficamente complete anche per i proparossitoni (Prem1: xxi-xxvi). Dunque Gökçen ribadisce quello che già era evidente a Salvioni e Contini: il Berlinese scrive sistematicamente le vocali finali. Dal momento che sulla base del metro a Salvioni 5 sembrava dimostrabile che tali vocali, pur scritte, determinavano delle sillabe ipermetre, risultava altresì dimostrato che dovevano considerarsi come inesistenti foneticamente. La metrica, come lunghezza sillabica dei versi, rendeva attingibile il livello della fonetica, e cioè della pronuncia, ed era considerata più importante della regola scrittoria-grafica, quale quella che Gökçen rileva in queste pagine: la regola della scrittura piena delle vocali apocopate finali o nei proparossitoni, pur nella sua sistematicità, era considerata arcaizzante e fuorviante. La soluzione adottata da Contini 1941 è stata quella di eliminare tali vocali, mentre in Contini 1960 vengono trascritte con l’accorgimento medievale del puntino di espunzione. Gökçen ritiene importante fermarsi all’aspetto grafico del Berlinese, ma quando crede di operare una distinzione tra sé e Contini scrivendo che «il parametro adottato è quello dei testi connotati diacriticamente, non quello dei testi potati, praticato da Contini nell’edizione romana» (Prem1: xxxi), non considera che, nonostante il diverso impatto per il lettore (in Contini 1941 deve andare a vedere la scripta del Berlinese nell’apparato), si tratta solo di differenti accorgimenti editoriali, mentre l’interpretazione resta la stessa (in aritmetica si parla di proprietà invariantiva: se a due termini di una operazione si somma o si sottrae lo stesso valore, il risultato non cambia). Però la vera novità di Gökçen rispetto ai predecessori, cioè che le vocali scritte (in ipermetria) dal Berlinese abbiano sostanza fonetica («Che in tale posizioni le finali si conservassero foneticamente», Prem1: xix), risulta contraddittoria con la riproposta dell’espunzione sottoscritta. Deboli risultano le due obiezioni alla prassi editoriale di Contini 1941: la prima è che l’apocope introdotta nelle forme «fagio» ridotte a «fag» introduce un grafema «g non può rappresentare» il suono palatale «per cui Bonvesin usa il digramma gi», e la seconda è che 264 Besprechungen - Comptes rendus 5 Cf. Contini 1986: 151s. e A. Stussi, «Gianfranco Contini e la linguistica», Humanitas 56 (2001): 665-78 p. 673. Su Salvioni, cf. «Sui dati fonetici ricavabili dai metrici in Bonvesin è fondamentale quello che è il più bel saggio di Carlo Salvioni, Osservazioni sull’antico vocalismo milanese desunte dal metro e dalla rima del codice berlinese di Bonvesin da Riva (in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze 1911, p. 367-88)» (Contini 1941: lvi). «fag per fagio monosillabo (anche avanti a vocale) e fagio bisillabo che si ha altrove a fine di emistichio o di verso . . . vengono in tal modo a costituire due unità separate mentre in realtà altro non sono se non una sola unità variante» (Prem1: xxix). La prima questione è meglio impostata (nei termini celebri della palinodia) in una famosa monografia dallo stesso Contini: «Per un verso, infatti, benché la cosa sia soltanto grafica, quelle vocali partecipano di una generale cultura italiana; per altro verso si verificano situazioni di rappresentazione consonantica legate alla presenza del segno vocalico (così fag per fagio ricorda incompletamente la convenzione del digramma gi per c e ne introduce una nuova equivalente a un diacritico g o c).» (G. Contini, «Filologia», in Breviario di Ecdotica, 1986, ora in G. Contini, Frammenti di filologia romanza, ed. G. Breschi, Firenze 2007: 39). Comunque già nel 1935 era chiaro il problema e chiaramente spiegata la provenienza della soluzione editoriale: «La necessità generale della soppressione delle finali nel corpo del verso non significa affatto che Bonvesin quelle vocali non le scrivesse (e l’osservazione valga addirittura per tutte le innovazioni grafiche che si sarà costretti a introdurre) . . . Come in questi [testi lombardo-orientali], soppressa la finale, la palatale sonora sarà qui rappresentata con g (fag, tug, grang, ms. fagio, tugi, grange)» (G. Contini, «Saggio di un’edizione critica di Bonvesin da la Riva», in MIL 1935, ora in G. Contini, Frammenti: 338). Quando si forniscono chiare regole, resta salvo il principio di reversibilità del lavoro dell’editore, che è una garanzia scientifica accettabile. La differenza che passa tra dire che «non significa affatto che Bonvesin quelle vocali [le finali] non le scrivesse» (Contini 1935) e dire che «Bonvesin usa il digramma gi» (Gökçen 1996) è sottile ma non inesistente. Soprattutto, fino a che non si dia la dimostrazione dell’autografia del Berlinese, tale differenza rivela una diversa esigenza morale nella conoscenza storica. Si rilegga poi il seguente passo dalla Premessa ai testi dell’edizione romana: «Che un’edizione critica dovesse comunque segnare come tali le vocali (e in genere le lettere) caduche, stampandole per esempio in corsivo o sottoponendo un puntino d’espunzione, secondo note pratiche, è fuor di dubbio: sopprimerle addirittura è una semplice differenza materiale, volta però a rappresentare il significato ideale dell’operazione filologica (e praticamente la grafia ‹illustre›, che ha un’incontestabile portata storica, produce nel lettore l’immancabile illusione d’un linguaggio esso stesso molto più ‹illustre› che non sia); inoltre ciò corrisponde a uno spirito di sincerità grafica che ha begli esempî anche nell’antica Lombardia, e più rigorosamente ad oriente, a Bergamo e a Brescia» (Contini 1941: xxiii). Questo per dire come le cose fossero dichiarate esemplarmente già a tale data. Nel primo volume quindi si ha l’edizione del Berlinese, corredata di diacritici prosodici e con il testo corretto qualora vi siano omissioni di abbreviazioni o altro, come segnala un ridotto apparato in fondo pagina. Nel secondo volume, l’aspetto grafico del Berlinese è applicato anche agli altri testimoni e Gökçen parla proprio di «Criteri per assimilare i mss. recenziori al ms. Berlinese.» (Prem2: xi). La chiarezza dell’oneroso procedimento si recupera nei testi perché l’edizione del secondo volume propone una riscrittura di ogni testo come se fosse del Berlinese, ricostruito criticamente anche per le varianti sostanziali, cui è sottoscritta la trascrizione dei testimoni di ogni singolo verso. Mentre però questa caratteristica (che è propria delle edizioni critiche, in cui si può recuperare il testimone dall’apparato) è rispettata nel secondo volume, diverso è quello che avviene in Gökçen 1996. Ad esempio per il testo p, spezzato nei due volumi, e secondo la lacuna tutta casuale del testimone Berlinese a, manca la trascrizione della testimonianza completa del Trivulziano 93 (d), la cui prima parte viene così semplicemente omessa. E così accade anche per il testimoniale completo di d, e, f, i, l, m, n, o. Questa lacuna inficia così non solo la completezza della recensione, ma anche il surricordato principio di reversibilità. ll confronto raccolto nella Prem2: lxxxvi-xciv enumera un sessantina di divergenze rispetto all’edizione critica di Contini 1941: tale è quindi la misura dello scarto tra un’edizione critica e l’edizione di Gökçen. 265 Besprechungen - Comptes rendus In questa edizione non si fa poi uso della scrittura diacritica per alcuni monosillabi, e dì (diem) è sempre dato come di (la preposizione semplice è de),mentre dì è riservato per «dire». Si spera che tali equivoci ortografici non generino problemi per le concordanze lemmatiche. 2. Bonvesin in Contini. Gökçen ripropone, forse inconsapevolmente, il dibattito di un nodo dialettico, interno e durevole, della riflessione teorica di Contini: la veste formale di un’edizione critica. Che la ribalta sia offerta inconsapevolmente è evidente perché, come rileva Lucia Lazzerini, in generale «scopriamo che per la vulgata - ignara dello scabro e non-finito Bonvesin come, a maggior ragione, dei trattatelli astrologici provenzali o del trovatore di terza fila Bertran Carbonel - la grandezza del filologo romanzo è consegnata all’antologia dei Poeti del Duecento, alle edizioni delle Rime di Dante, del Canzoniere petrarchesco, del Fiore e del Detto d’Amore (con relativo dibattito attributivo)» (L. Lazzerini, «Appunti e riflessioni in margine all’ecdotica di Gianfranco Contini», Anticomoderno 3 (1997), 7-26: 8). Eppure sarebbe il caso di sottolineare che proprio nella Premessa ai testi dell’edizione del 1941 (Contini 1941: vii-lxxiii), lavoro non più ristampato, si trovano una serie di assiomi che passeranno tali quali nella famosa voce Filologia. E così troviamo la valorizzazione della variante formale: «Nessuno è convinto quanto noi dell’opportunità che, in massima, sia dato rilievo principale alle sole varianti di lezione, riserbando a un secondo piano, o trascurando se ne sia il caso, l’ingombro delle cosiddette varianti di forma; ma è evidente che, dove siano in gioco necessità linguistiche, specialmente su un terreno di non grande tradizione filologica, e dove per di più il problema della vera e propria correzione si faccia quantitativamente pressoché trascurabile, le cose cambiano.» (Contini 1941: xiis.). Oppure la dialettica tra edizione critica e testo antico, in quei termini non più ritoccati: «Se ce ne scostiamo, non è certo per il fatto che il Berlinese non è forse veramente prossimo all’originale, argomento che potrebbe al massimo invocarsi per qualche punto singolo: per noi è come se fosse autografo; ciò che appunto ci autorizza è la natura stessa dell’edizione critica, fosse pure quella d’un autografo, interpretazione e ipotesi scientifica (cioè fatto spirituale), non riproduzione materiale. Se nel testo dell’Ariosto si toglie l’h all’huomo e all’honore, ciò che pure, secondo una celebre sentenza dell’autore, equivarrebbe a sopprimerne umanità e onorabilità; se si distingue u da v in Dante, presso il quale pure solo l’indistinzione dichiara un famoso gruppo acrostico di terzine (vom, Purg. XII 25s.), non vediamo quale fondata obiezione potrebbe rivolgersi contro i nostri, certo più estesi, interventi» (Contini 1941: xxi) Le due esemplificazioni finiranno poi, quarant’anni dopo, sotto la rubrica Edizione interpretativa (16s.). Come si vede, il nodo è quello fondamentale della riflessione filologica continiana, ma c’è anche qualcosa di più, che riguarda il rapporto di Contini con la filologia della generazione precedente. Infatti Segre, in un intervento specifico su questo argomento, evidenzia proprio un passaggio della lunga conversazione tra Contini e Ludovica Ripa di Meana che si riferisce al nostro problema: «attualmente, farei delle riserve su certi risultati tecnici. Lui [scil. Santorre Debenedetti], per esempio, mi suggerì di adottare certe forme grafiche, paleontologiche, che in realtà non dovevano essere adottate, e io ho poi rovesciato la posizione.» (C. Segre, «Contini e la critica testuale», Filologia e critica. Su/ per Gianfranco Contini 15 (1990): 217-29 (217s.), la citazione è da Diligenza e voluttà Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1988: 158). Qui Contini si riferisce all’edizione di Bonvesin (1941), e adopera un aggettivo «paleontologico», la cui accezione negativa è ben presente anche a Gökçen 1996. L’aggettivo paleontologico è stigma polemico almeno a partire da Graziadio Isaia Ascoli 6 , eppure c’era stato un periodo in cui la paleontologia era 266 Besprechungen - Comptes rendus 6 G. I. Ascoli, Squarci d’una lettera concernente le ricostruzioni paleontologiche della parola, in: Studj critici, Torino-Roma-Firenze 1887: 1-30. invece considerata un modello di ricerca, come nella seguente affermazione di Adolphe Pictet, che de Saussure ricorda all’origine della sua vocazione di linguista: «Car les mots durent autant que les os; et, de même qu’une dent renferme implicitement une partie de l’histoire d’un animal, un mot isolé peut mettre sur la voie de toute la série d’idées qui s’y rattachent lors de sa formation.Aussi le nom de paléontologie linguistique conviendrait-il parfaitement à la science que nous avons en vue; car elle se propose pour but de faire revivre, en quelque sorte, les faits, les choses et les idées d’un monde enfoui dans les ténèbres du passé» (A. Pictet, Les origines indo-européennes, ou les Aryas primitifs. Essai de paléontologie linguistique, Paris 1859, 2 e éd., Sandoz et Fischbacher 1877: 14). Questa forte prospettiva antropologica, che mira alle idee, ai fatti e alle cose risulta sfocata per troppa forza nei confronti dei documenti meglio strutturati, come i manoscritti esistenti. Se il filologo vuole operare una ritraduzione dalla veste formale di un testimone dato ad altra patina formale, deve per lo meno dimostrare la plausibilità di questa operazione, postulando un cambiamento linguistico intercorso tra la lingua-scrittura dell’autore e quella del testimone (e in Contini si davano entrambe le argomentazioni). Il reversibile e il documentato sono due principi necessari. Certo non sembra plausibile operare in tale direzione, si potrebbe dire di riscrittura, sulla base di una semplice esigenza «ortografica». 3. Esame di un caso. Prendiamo un caso concreto, che ci consenta di misurare la distanza tra edizione critica, edizione interpretativa e problemi della restituzione formale. Uno dei principi «paleontologici» di Contini era il seguente: «In ultimo ci resta da avvertire che abbiamo sempre semplificato il nesso -liin i (come si vide di -li), per ragioni grafiche (bataia, doia ecc. accanto ad -alia, -olia), di rima (beselia con -eia O 81) e anche di metro (apilia probabilmente bisillabo N175)» (Contini 1941: xxi). Ecco quindi che ci ritroviamo con una forma verbale come la seguente, per Gökçen apiliare, per Contini 1941 apiare per Contini 1960 api(l)iare. n 0175 «Apilia l(o) nap(o) de soto e sporze. con una man», che si presentava come «Apía lo nap de soto e sporz con una man» (Contini 1941: 321), e poi nell’edizione ricciardiana «Api(l)ia lo nap(o) de soto e sporze. con una man» (Contini 1960: 711). Gökçen dà di questo verbo alcune occorrenze in sede di rima nella Vita beati Alexii p 0063 «E da illò per terra so edro el ha apiliao» dove il secondo testimone d ha «piato», ricostruzione che corrisponde, nell’edizione critica, precedentemente «E da illò per terra so edro el ha pïao» (Contini 1941: 292); p 0072 «E vestiment(e) de povero indosso el ha apiliao», dove d ha «i(n)dosso ela portado», l’edizione critica «E vestiment de povero indoss el ha pïao» (Contini 1941: 292); p 115 «[ke] no voi tu k’ e’ sia da(l)i me’ servi impiliao» dove d, testimone unico «No voy tu che sia dali me serui inpiato», l’edizione critica «Ke no voi tu k’eo sia dai me’ serv inpïao» (Contini 1941: 294). La forma ricorre anche in [De falsis excusationibus] q 250 «perzò ke la usura, ke malament(e) l’impilia,» con b «Perzo che la usura che malamente lo impilia» (in rima con dormilia sentilla despilia); [De vanitatibus] r 009 «Quant(o) plu lo peccaor a (l)i ben mond(o) s’apilia,» con b «Quanto piu lo peccatore a li beni del mondo se apilia» (in rima con despilia assutilia squilia). Il Berlinese da solo testimonia Vulgare de elymosinis b 0777 «La baira un vaxello apilia incontinente», Disputatio musce cum formica h 0274 «Apilia l(o) gran im boca». Paola Allegretti ★ 267 Besprechungen - Comptes rendus
