Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniGhino Ghinassi, Dal Belcalzer al Castiglione. Studi sull’antico volgare di Mantova e sul «Cortegiano», a cura e con una premessa di Paolo Bongrani, Firenze (Olschki) 2006, 316 p. (Biblioteca Mantovana 5)
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2008
Gabriele Bucchi
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cessus de mélange linguistique associant d’une manière non-systématique et donc à definir cas par cas des composantes de la langue française et de la langue italienne ainsi que de leurs sous-systèmes» 24 . Per quanto concerne l’ambito grafo-fonetico Wunderli sottolinea nella lingua del romanzo la sovrapposizione di varie tradizioni fonetiche e grafiche: antico francese, medio francese, toscano, lombardo, veneziano . . . Per la morfosintassi analizza il «fonctionnement des phénomènes d’interférence, de créativité familiarisante et de spéculation linguistique»; per il lessico evidenzia gruppi o famiglie di parole che nel glossario sono «dispersés par l’ordre alphabétique» (185). La terza parte del libro, assai ampia, è dedicata al lessico, che non si riduce a semplice glossario ma fornisce anche un breve commento lessicologico. Detto lessico, preceduto da una bibliografia specifica, concerne i termini considerati franco-italiani sia per la forma grafo-fonetica sia per il «point de vue lexicologique», e ivi si tengono presenti le lezioni francesi raramente attestate o non documentate nei principali testi di riferimento, come il FEW o il LEI. Circa una delle voci, strepon, che nella narrazione compare in due occasioni (W 184, 38- 40; 304, 40-42; 305, 1-6), ci chiediamo se non si rapporti alla parola italiana sterpone/ stirpone (da sterpo, derivato dal latino stirps), che ha il significato di ‘bastardo, figlio illegittimo’ e che è attestata dal XIV secolo in testi quali la Cronica di Matteo Villani o la Spagna 25 . Conchiudono il volume dedicato all’Aquilon un accurato «Index des noms», e un’ampia bibliografia, nella quale dominano i numerosi studi di Holtus e dello stesso Wunderli, dedicati alla lingua e alla letteratura franco-italiane. Lidia Bartolucci ★ Ghino Ghinassi, Dal Belcalzer al Castiglione. Studi sull’antico volgare di Mantova e sul «Cortegiano», a cura e con una premessa di Paolo Bongrani, Firenze (Olschki) 2006, 316 p. (Biblioteca Mantovana 5) Questo libro rende omaggio allo storico della lingua italiana Ghino Ghinassi (1931-2004), recentemente scomparso, raccogliendone alcuni importanti saggi apparsi lungo un quarantennio in atti di convegni e riviste. Il filo comune agli studi qui riproposti è rappresentato dalla cultura mantovana dal tardo Medioevo al Rinascimento, ripercorsa attraverso l’opera di due figure di diverso rilievo come quelle del notaio Vivaldo Belcalzer (fine sec. XII) e di Baldassar Castiglione. Al primo è dedicato l’ampio contributo sul volgarizzamento del De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico, conservato nell’esemplare di dedica al signore di Mantova Guido Bonacolsi nel ms. Additional 8785 della British Library (Nuovi studi sul volgare di Vivaldo Belcazer, 3-128). Scoperto da Vittorio Cian nel 1902 e parzialmente esaminato da Carlo Salvioni, il ms. londinese veniva per la prima volta analizzato integralmente nella sua veste linguistica dal Ghinassi che ne ribadiva il carattere di testimonianza eccezionale, anche se purtroppo isolata, dell’uso del volgare a Mantova tra Duee Trecento. Una profonda conoscenza dei dialetti emiliani e lombardi permetteva all’autore di superare in parte le pessimistiche conclusioni del Salvioni sulla possibilità di definire la «mantovanità» del volgare di Belcalzer, orientato secondo il G. «verso quella scripta vol- 277 Besprechungen - Comptes rendus 24 Holtus/ Wunderli, 2005: 91. 25 Cf. ad es. S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, vol. 20 Squi-tag; C. Battisti/ G. Alessio, Dizionario etimologico italiano, vol. 5, e http: / / gattoweb.ovi.cnr.it per il Corpus OVI dell’italiano antico. gare della Lombardia orientale, che nel secolo XIV appare già costituita su un piano medio o francamente umile di interessi didattici o edificanti» (52). Lo studio della lingua del volgarizzamento rivela infatti più di una affinità (se pur non esclusiva di altre affiliazioni) con i dialetti della zona bresciano-bergamasca, testimoniando dunque una situazione non dissimile rispetto a quella cui faceva riferimento Dante nel De vulgari eloquentia (I 15). Dal passo dantesco G. prendeva le mosse per un breve ma denso contributo ricapitolativo sulla situazione del volgare mantovano nel Medioevo (Il volgare mantovano nell’epoca di Dante, 129-35), aggiungendo ulteriori puntualizzazioni sui caratteri della lingua del Belcalzer (134-35). Alla Mantova tree quattrocentesca, passata nel 1328 sotto il dominio dei Gonzaga, è dedicato invece un altro excursus storico-linguistico (Il volgare mantovano tra il Medioevo e Rinascimento, 137-58): in quest’epoca il volgare «che con Belcalzer aveva fatto a Mantova una comparsa . . . pur sempre legata a un’iniziativa individuale e ad un certo contesto culturale di divulgazione scientifica, diventa . . . strumento dello stato» (144). È questo, fra Tree Quattrocento, un momento «cruciale della formazione delle koinè cancelleresche» (145), formazione che a Mantova sembra precedere quasi di cinquant’anni (i primi documenti pubblici redatti in volgare rimontano al 1369) l’uso della cancelleria viscontea, attestato a partire dal 1426. Con la fine del Quattrocento il volgare mantovano conosce, come gran parte delle koinè regionali, un «processo di italianizzazione» (153) le cui tracce si possono seguire nell’esame della corrispondenza dei rappresentanti diplomatici; un’italianizzazione che, come G. dimostrava esemplarmente (156-58), non va confusa con l’entusiasmo toscanizzante comune ad altre corti dell’Italia settentrionale, ma che la cultura mantovana, nonostante l’intensità delle relazioni e degli scambi, non sembra aver mai dimostrato. Si giunge così all’epoca del Castiglione, al quale il nome di G. rimarrà forse legato più d’ogni altro in ragione di alcune scoperte decisive sul piano storico-filologico. Se lo studioso non poté purtroppo dare alla luce l’edizione critica integrale del Cortegiano, allo scrittore mantovano G. rivolse la sua attenzione lungo più di quarant’anni, licenziando l’ultimo contributo nel 2002 (Un dubbio lessicale di Baldassarre Castiglione, qui alle p. 267-82). Già vent’anni prima, nel 1963, lo studioso faceva luce su un problema fondamentale nella storia del testo quale quello dell’ultima mano che corresse il trattato nel ms. Laurenziano Ashburnham 409, il codice destinato con tutta probabilità alla stampa aldina del 1528 (L’ultimo revisore del «Cortegiano», 161-206). Quest’ultimo revisore che «riduce sistematicamente il testo del Cortegiano a quell’aspetto grafico quasi integralmente ‹toscano› che conosciamo» (174) era già stato identificato dal Cian in Pietro Bembo (che aveva sì effettivamente partecipato alla «ripulitura» del testo, ma in fasi più antiche della sua elaborazione). Escludendo questa possibilità per ragioni paleografiche, il G. avanzava invece in via ipotetica il nome del veneziano Giovan Francesco Valerio, amico del Bembo e uomo di fiducia del Castiglione. La fondatezza di quest’ipotesi veniva confermata alcuni anni dopo su base documentaria grazie al rinvenimento di una lettera di Aloisia Castiglione, madre di Baldassarre, in cui il nome del Valerio veniva citato espressamente in rapporto alla stampa veneziana del Cortegiano. Oltre a quest’importante scoperta, a G. si deve anche uno studio decisivo nel far chiarezza sulla genesi del trattato e sulla sua cronologia interna (Fasi dell’elaborazione del «Cortegiano», 250-57). Attraverso un minuzioso esame di tutte le testimonianze manoscritte conosciute (gli abbozzi di casa Castiglioni, i tre manoscritti vaticani, infine il ms. laurenziano già citato), G. individuava tre momenti nella genesi dell’opera, soffermandosi particolarmente sulla complessa elaborazione dell’ultimo libro (il 4.) della redazione vulgata. In particolare, la concezione ascetica e neoplatonica dell’amore quale emerge da quest’ultima parte del trattato e la sua sostanziale indipendenza rispetto alla materia dei primi tre libri spingevano lo studioso a domandarsi «se [l’autore] non stesse per caso usufrendo di mate- 278 Besprechungen - Comptes rendus riale precostituito a tale fine» (231). A questo proposito lo studioso pubblicava per la prima volta (qui alle p. 250-57) un frammento autografo tratto dagli abbozzi di casa Castiglioni cui dava il titolo di Lettera in difesa delle donne indirizzata a uno degli interlocutori del Cortegiano, Niccolò Frisio. In questo scritto, che per il tono apologetico presenta notevoli affinità contenutistiche con quello che sarà l’ultimo libro del trattato, G. proponeva di vedere il nucleo originario di alcune pagine del Cortegiano, riconducibile nella forma «ai diversi trattatelli in lode e in difesa delle donne, che fiorivano . . . tra il Quattro e il Cinquecento in ambiente ferrarese e mantovano» (252). Nello stesso saggio G. puntalizzava anche, in gran parte ridimensionandola, l’entità della revisione linguistica d’autore secondo quelle norme bembesche che si erano affermate proprio negli anni dell’ultima sistemazione del trattato in vista della stampa (1525-28). Come ricordava lo studioso, al Castiglione, diversamente da Ariosto, «la codificazione ortografica e grammaticale interessava certo . . . ma non fino al punto di impegnarlo in scelte drammatiche», che non a caso verranno demandate ad altri in prossimità della stampa. Concludono il volume alcune recensioni di argomento castiglionesco apparse lungo quasi un ventennio (1959-78): pur in un respiro inevitabilmente più breve, anche queste pagine, al pari dei saggi più ampi, sono una bella testimonianza della lunga fedeltà prestata dal compianto studioso allo scrittore mantovano. Gabriele Bucchi ★ Alberto Roncaccia, Il metodo critico di Ludovico Castelvetro, Roma (Bulzoni) 2006, 452 p. (Europa delle Corti) Il volume si presenta come una ricognizione complessiva sull’attività critica di Ludovico Castelvetro, di cui l’autore tenta di delinare un «metodo» che presenti caratteri di organicità e di coerenza. Movendo dagli studi novecenteschi ormai classici sul letterato modenese (Raimondi, Baldacci, Bigi) e dalle numerose scoperte filologiche dell’ultimo ventennio (particolarmente quelle di Giuseppe Frasso e della sua scuola), R. cerca di enucleare le linee portanti della riflessione di Castelvetro sul problema della lingua (non solo letteraria) e sull’imitazione dei modelli volgari. Lo studio, suddiviso in tre parti, prende le mosse da un capitolo poco conosciuto del pensiero castelvetriano; non un’opera del modenese, ma un dialogo di cui egli è protagonista: i Ragionamenti sopra alcune osservationi della lingua volgare di Lazzaro Fenucci usciti nel 1551 (Orientamenti critici nella fase modenese, 33-114). Il testo, opera di un amico di Castelvetro e sodale dell’accademia che fu sciolta per sospetto d’eresia nel 1545, costituisce secondo R. «una fonte preziosa per individuare gli aspetti più propriamente letterari dell’attività del gruppo modenese» (37) la cui «altezza cronologica . . . può consentire di ‹fotografare› una fase dell’evoluzione del pensiero critico di Castelvetro» (62). Nell’accostarsi alla questione della lingua volgare il dialogo del Fenucci assume come riferimento normativo, non di rado obiettivo polemico già in questa prima fase del dibattito, le Prose della volgar lingua di Bembo che erano state riproposte in un’importante edizione curata dal Varchi solo due anni prima (1549). R. individua nei Ragionamenti di Fenucci, particolarmente laddove è il personaggio Castelvetro a parlare, la presenza di alcuni temi che torneranno, più ampiamente sviluppati, nelle opere originali degli anni dell’esilio: l’attenzione per le forme poetiche lunghe e metricamente elaborate (canzone e sestina), l’aperta ammirazione per il Bembo poeta, giudicato non inferiore allo stesso Petrarca (mentre più di una riserva è espressa sull’opera del grammatico), infine, sul piano formale, un «approccio argomentativo dilemmatico tipico della retorica critica del Modenese» (75). 279 Besprechungen - Comptes rendus