Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniValeria della Valle/Pietro Trifone (ed.), Studi linguistici per Luca Serianni, Roma (Salerno Editrice) 2007, lii + 665 p.
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Maria Antonietta Marogna
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sotto il nome Ratio ponderum, opera su cui Galileo avrebbe fatto ancora una volta annotazioni irritate. Egli scrisse ad un amico di voler aggiungere ad una probabile nuova ristampa del Saggiatore le sue postille alla Ratio ponderum, cosa che non si realizzò mai. Riguardo alle letture critiche del Saggiatore, gli Autori mettono in rilievo come esse si sono sviluppate da interpretazioni che puntavano sulla teoria cometaria, e con ciò il contenuto astronomico dell’opera come il suo punto più importante, ad una comprensione che dagli anni ottanta/ novanta in poi ha posto l’accento su come la questione cometaria abbia fornito a Galileo solamente l’occasione per scrivere, il punto di partenza per pubblicare le tesi che aveva approntato già prima (cf. Besomi/ Helbing 2002: 17). Il vero nucleo significativo del Saggiatore, secondo queste interpretazioni, sarebbe da cercare nel fatto che Galilei espone la sua filosofia naturale e confuta a quella degli avversari. I rimproveri recentemente ritrovati dagli studiosi che risuonavano da parte della chiesa, secondo i quali il Saggiatore elogiava la teoria di Copernico e che alcune parti confutavano la dottrina eucaristica, secondo Besomi e Helbing non possono essere visti come i motivi centrali della polemica. Gli Autori si schierano esplicitamente contro la teoria che il dibattito avesse toccato anche la questione del moto degli atomi. Sulla base delle tesi di Massimo Bucatini, secondo le quali il Discorso ed il Saggiatore furono essenzialmente opere copernicane, gli Autori rivelano, dunque, attraverso la loro edizione, il valore cruciale dell’apparizione della grande cometa del 1618 per il successivo dibattito tra ticonici e copernicani. Il gran pregio della presente edizione consiste in due caratteristiche: la prima è la sua facile accessibilità testuale, la seconda è la grande utilità sia delle annotazioni molto particolareggiate, che forniscono le fonti di riferimento (scritte e figurative) in modo ampio e generoso, sia dei rimandi tra i testi ed anche ad altre edizioni di riferimento. In particolare i rimandi reciproci tra il testo latino della Libra inserito nel Saggiatore, la traduzione italiana della Libra e le postille del Galilei rendono lo studioso in grado di ripercorrere minutamente l’elaborazione dell’opera di Galilei. Infine, è da rilevare che il volume in questione dovrebbe essere letto insieme a quello del 2002 per poter apprezzare del tutto questo lavoro critico. Tobias Daniels ★ Valeria della Valle/ Pietro Trifone (ed.), Studi linguistici per Luca Serianni, Roma (Salerno Editrice) 2007, lii + 665 p. . . . tutte quelle vive luci, vie più lucendo, cominciaron canti da mia memoria labili e caduci. Se fossimo invidiosi, avremmo molti motivi per invidiare Luca Serianni; a questi motivi, ben noti, si aggiunge ora il volume che gli allievi gli hanno dedicato come lussuoso regalo di compleanno: la traduzione in parole dell’affetto, oltre che della stima, che il loro maestro ha suscitato, e insieme della dottrina che ha così abbondantemente seminato, e in modo tanto fruttuoso. Fin qui. Perché, se tutto ciò è oggettivamente fissato in un momento, il momento è ancora ben lontano dalla conclusione dell’attività accademica del festeggiato (professore ordinario di Storia della lingua italiana all’Università di Roma «Sapienza»), e questo rende il dono particolarmente allegro: non canonico e non «definitivo». Gli interessi di studio di Luca Serianni, e dunque le sollecitazioni culturali che ha creato, sono raccolti nella sua Bibliografia 1972-2007, che occupa venti pagine (x-xxix), e nell’Elenco dei laureati dal 1982 al 2007 (xxx-xlii), che comprende duecentocinquanta titoli di 283 Besprechungen - Comptes rendus tesi (quadriennali o magistrali). È una lettura istruttiva: dell’ampiezza e della varietà dei temi - linguistici (di ogni aspetto della lingua antica e moderna; della lingua nella storia, appunto, in una concezione della disciplina di largo respiro), grammaticali, filologici, letterari (ma sempre con il dato tecnico come punto di partenza, e la solidità della tecnica come tessuto medesimo, del lavoro; e con in più una coltissima scrittura di grande raffinatezza ed esattezza, che riesce comunque a essere «piana», e in cui si coltiva felicemente l’ideale medievale della brevitas) - non si può dar conto qui. Ma per qualche verso ne daranno conto gli sviluppi che questi Studi linguistici, anche, rappresentano. (D’altra parte, il nome di Luca Serianni, che si alterna con il semplice - maiuscolo per l’antonomasia - «Maestro», è ovunque nel libro: promotore allora dello studio che ora gli si offre, autore dell’opera da cui si prende avvio, comunque punto di riferimento nel lavoro.) Il volume si apre con la bella Presentazione dei curatori (vii-ix) e, dopo la Tabula gratulatoria (xliii-li) e la Tavola delle abbreviazioni (lii), ospita quarantacinque saggi, ordinati per data di laurea dei partecipanti. La varietà di argomenti che risulta da questa successione libera, non per settori di studio, dunque, o per blocchi tematici, o per aggregazioni di ordine cronologico, è affascinante. È purtroppo impossibile illustrare anche brevemente ciascun contributo; ma, poiché nessun omaggio di questa «bella scola» merita, certo, il silenzio, ognuno sarà ricordato almeno con la citazione dell’autore e del titolo, e alcune parole del testo, nella scelta inevitabilmente scarna (che non sarà nemmeno equilibrata, perché viziata, almeno in parte, da automatismi: rifletterà perlopiù gli interessi, e dunque qualche meno peregrina competenza, di chi recensisce). Giuseppe Patota, «Per» (3-18), il per d’agente: funzione che aveva nella lingua antica - e che non ha conservato nella lingua moderna (a parte il relitto «per i tipi di»), come confermano testi e vocabolari contemporanei -, non tanto per influsso del francese par, precisa l’autore, quanto per uno dei valori di per latino passato in tutte le lingue romanze, compreso l’italiano 1 . A tutti noto il problematico per del Cantico di frate Sole di san Francesco, e familiare il per nella funzione d’agente nei testi antichi; meno chiaro è quando, e come, questo suo valore grammaticale cominci a declinare nell’uso, fino a perdersi. Patota interroga dunque l’archivio elettronico della LIZ per rintracciarne il percorso attraverso i testi in prosa e in versi di tutte le epoche: presente in ogni genere di «prosa due, tre e quattrocentesca», anche in poesia «il per agentivo ricorre sia nei testi rappresentativi della lirica d’arte siciliana, toscana e settentrionale . . . sia in testi poetici di registro più variegato . . . sia, infine, nella lingua poetica di consumo . . . e in quella rappresentativa della realtà linguistica fiorentina del Trecento (Commedia di Dante) 2 e del Quattrocento . . . » (7-8 N15), e così sarà, nell’insieme, anche per il Cinquecento e il Seicento, «i secoli dell’elaborazione, della definizione e dell’affermazione della norma» (loc. cit.). Poi (in prosa e, solo con qualche presenza in più, in poesia) diventa raro nel Settecento, e rarissimo nell’Ottocento; nel Novecento scompare. Patota analizza dunque le strutture morfosintattiche nelle quali il per che introduce un complemento d’agente o di causa efficiente - comunque sempre fortemente minoritario rispetto a da - ricorre più spesso: dopo l’iniziale presenza grosso modo indifferenziata, si registra dalla metà del Trecento la prevalente presenza in costrutti con si impersonale e passivo («E per molti si dice che . . . ») o con il participio passato usato ver- 284 Besprechungen - Comptes rendus 1 E si pensa ai manoscritti medievali che recano nel colophon l’indicazione del copista nella forma scriptum per me . . . 2 L’affermazione è certo legittima, ed efficace nella sua assolutezza; eppure, la complessità, anche linguistica, della Commedia fa comunque desiderare una definizione meno netta, più complessa, appunto. A ogni modo, sul problema della restituzione linguistica della Commedia si veda ora il fondamentale studio di L. Serianni, «Sul colorito linguistico della Commedia», Letteratura italiana antica 8/ 2 (2007): 141-50. balmente («Facezia sesta fatta per il Piovano . . . ») (10), che nei secoli successivi diventerà quasi esclusiva. Un excursus attraverso le teorizzazioni dei grammatici completa la trattazione, e nell’Appendice (16-18) sono elencati i Risultati degli spogli. Antonella Sattin, «Il diario romano di Cola Colleine (1521-1561): appunti e spigolature» (19-36): in realtà un’accurata descrizione testimoniale (l’originale non sopravvive) e linguistica (l’epoca è quella in cui avviene la toscanizzazione del romanesco) che anticipa l’edizione critica, con le notizie biografiche sul personaggio (nobile romano, possidente, che fu, anche, caporione di Trastevere). Uno di questi Recordi: «Ecco il racconto di un miracolo avvenuto il 21 febbraio 1561: ‹Adì 21 de febraro la Madonna che sta in casa de messer Agnolo de Capranica fece liberare uno homo che giva per Roma con una bardella sotto lo sedere, caminava con le mano, era stroppiato e lo sanò. E la sera nanzi uno la roba, e li casca un sasso in testa e lo ferì, e se voleva partire e non poteva anare fì che venne la corte e lo piglia, e li volzero dare la corda né mai lo posero alzare de terra e fu miracolo›» (25). Claudio Costa, «Intorno al linguaggio comico del Belli italiano» (37-50): «Mi viene da pensare . . . che sia nostra l’incapacità di trovare una sintesi o almeno uno stabile raccordo tra i quasi trentatremila versi romaneschi e gli oltre quarantacinquemila italiani del poeta di Roma. E poi lingua e dialetto nella Roma del Belli sono così prossimi e comunicanti . . . » (37). «Di questa lingua poetica media, lontana tanto dalle cruscherie quanto dalle romanticherie, . . . Belli è pienamente consapevole come scrive nell’epistola A Cesare Masini, pittore e poeta del 10 gennaio 1843 . . .: ‹ . . . Chiara ogni frase mia come una stella,/ non sol la intendi tu, ma insiem tua madre,/ e tua figlia e tua moglie e tua sorella./ Né mai per cruscherie perfide e ladre/ dovrò accusarmi nel perdon d’Assisi/ o in altri giubilei del Santo Padre./ Io non vo’ morti i miei lettor di tisi/ fra notomie sol buone pel concorso/ alla medaglia del dottor Lancisi . . . ›» (46). Massimo Bellina, «Sull’epistolario di Antonio Cesari, con una lettera inedita a Luigi Angeloni e alcune note sul purismo» (51-72). Del dotto articolo scegliamo alcune frasi dalle considerazioni finali, spostate sulla contemporaneità (fermandoci però prima di quelle effettivamente conclusive, amarissime, sulla situazione attuale della scuola secondaria in Italia): «Aveva ragione Arrigo Castellani: i forestierismi ‹provocano il diffondersi d’un senso d’incertezza› nella società civile, generano confusione . . . In fondo il purismo non ha bisogno di motivazioni ideologiche: una lingua chiara e corretta è un più pratico e solidale strumento di comunicazione. Potremmo desanctisianamente definire il Castellani ‹l’ultimo dei puristi›. ‹Un purista al nostro sole è una cosa curiosa, e, mi pensavo, anche ridicola un poco›, ammoniva con serietà il Boine. Ancora oggi, come già con Vincenzo Monti, il ridicolo è spesso l’arma preferita utilizzata contro i puristi . . . Ma oggi nessuno predica più (né sarebbe possibile) il rigetto indiscriminato dei forestierismi, né l’assunzione di modelli normativi antichi e letterari» (70-71). Riccardo Gualdo, «Sensibile, ragionevole, ironico» (73-86): «Quale che ne sia la complessiva portata quantitativa, l’influsso anglo-americano sulla nostra lingua si esercita certamente soprattutto nel settore del lessico, che è senz’altro il più curato dagli studi e attira per primo l’interesse del parlante comune, come risulta dalle ultime accurate ricerche sulla neologia. Tra i tanti aspetti della ricerca sull’interferenza lessicale tende però a essere oggetto di minore attenzione il fenomeno del calco» (73). Storia e (mutamento di) significato dei «tre aggettivi che . . . appartengono all’àmbito del lessico comune (ironico) e scientificogiuridico (sensibile, ragionevole), . . . calchi semantici piuttosto che prestiti camuffati» (74), dato che acquistano nel tempo una non radicalmente nuova sfumatura di senso. Massimo Palermo, «Il turgido et operoso stile: riflessioni sulla coesione testuale nel Decameron» (87-99): la definizione nel titolo proviene dall’Anticrusca (1612) di Paolo Beni 3 , 285 Besprechungen - Comptes rendus 3 Citata, come ricorda Palermo, da L. Serianni, «La prosa», in: L. Serianni/ P. Trifone (ed.), Storia della lingua italiana, vol. 1, Torino 1993: 451-577 (471), la censura suona: «[lo stile di Boccacopera della quale Palermo analizza, anche, alcune considerazioni, più e meno motivate, sulla fatica dello stile e della sintassi in Boccaccio. L’aspetto che qui gli interessa mettere in luce è quello dei coesivi, dei meccanismi di raccordo del testo, aspetto meno studiato della pur abbondantemente studiata prosa boccacciana. Dopo una breve rassegna di tre punti della più nota ipercoesione: «la coniunctio relativa, la predilezione per forme di ripresa forte dell’antecedente, l’uso insistito di pronomi personali, possessivi e dimostrativi» (89) - sia pronomi sia aggettivi -, l’analisi della meno indagata coesione debole: «La mia ipotesi è che l’indebolimento della coesione funzioni come moltiplicatore della complessità sintattica e stilistico-retorica, accrescendo il livello di cooperazione richiesto al lettore per una corretta interpretazione del testo» (91). Dunque i diversi elementi di ripresa che non «stringono» sufficientemente il testo, quali il pronome atono posto troppo distante dal sostantivo cui si riferisce, o il richiamo attraverso i pronomi di più nomi o sintagmi di uguale genere e numero, che entrano, così, in conflitto: richiamo guidato a volte dal maggiore peso semantico, a volte dalla più vicina collocazione testuale dei termini in gioco. Ancora, il mancato accordo grammaticale, o l’accordo a senso, del pronome con il suo antecedente; un’estensione, e una complicazione, di questo fenomeno è la ripresa fatta attraverso il pronome di un elemento non effettivamente presente nel testo, ma inferibile con un ragionamento da un altro termine: «un termine medio di riferimento», dunque, variamente sottinteso nei procedimenti di ellissi, «un derivato . . .; un termine semanticamente vicino . . .: ‹per lo fresco avendo mangiato, dopo alcuno ballo s’andarono a riposare, e da quello (il letto) appresso la nona levatisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello venuti a lei dintorno si posero a sedere› (ii Introd. 3)» 4 (95), «[o] unito da legami di ricorrenza parziale a un altro da poco menzionato» (96). Fino a una ancor maggiore complicazione in alcuni luoghi, con un intreccio di difficili procedimenti retorico-grammaticali, che, secondo lo studioso - che correda l’ipotesi di persuasivi esempi -, può non essere un portato del periodare latineggiante non perfettamente dominato ma essere invece funzionale (o almeno parallela) alla narratio: l’ambiguità dei riferimenti che si scioglie, per esempio, con lo scioglimento del racconto nell’agnizione finale. Angelo Pagliardini, «Il viaggio oltre confine nella poesia di Pascoli» (101-17): «A proposito dei testi che fanno diretto riferimento alle imprese coloniali, La sfogliatura è già stata citata da Contini come esempio di quello che lui definisce ‹color locale d’occasione› . . . Il color locale della terra africana viene evocato attraverso l’inserimento di forestierismi molto accentuati, come tief, fitaurari, barambara, o adattati, come sciamma. La tecnica stilistica è tale che tende a sussumere i forestierismi all’interno della tessitura fonica della pagina, un procedimento di appropriazione dell’estraneo all’interno dell’indigeno. Come nel caso, . . . in Italy, della rima febbraio : Ohio, le parole esotiche vengono inserite in posizione di rima, e fatte rimare con parole italiane (si ara : barambara, fiamma : sciamma e Gunaguna : luna)» (115-16). Inaccostabili, come si comprende già dai titoli - e proprio per questo viene il desiderio di accostarli -, sono due studi sulle parole della medicina. Marco Cassandro, «L’italiano della medicina: ipotesi per un sillabo d’italiano L2» (119-30), le tratta sotto l’aspetto tecnico, e in particolare nell’ottica della didattica per stranieri, diversamente organizzata per gli 286 Besprechungen - Comptes rendus cio] riesce insieme turgido, difficile et operoso: dove che a ragionamenti familiari et a novellare si conviene stil piacevole, facile e naturale». 4 Questo esempio permette una considerazione divertita sulla «polisemia» del testo, particolarmente favorita dalla complessità sintattica nel Decameron: l’esempio verrà infatti citato anche a proposito del successivo terzo punto, ma il termine medio immaginato sarà diverso (e questa seconda interpretazione appare forse preferibile, perché meno onerosa): « . . . s’andarono a riposare, e da quello (sott. riposo) appresso la nona levatisi . . . (ii Introd. 3)» (96). studenti di una facoltà di Medicina in Italia e per i professionisti. Con una precisazione a proposito di questo secondo tipo di pubblico: «Riprendiamo qui la distinzione in tecnicismi specifici e collaterali operata da Serianni, . . . Un treno di sintomi . . . (L. Serianni, Un treno di sintomi. I medici e le parole: percorsi linguistici nel passato e nel presente, Milano 2005)» (129 e N22); «a nostro parere, un vero professionista ha probabilmente bisogno di approfondire di più l’uso e la comprensione di termini come insorgenza e accusare, piuttosto che termini come dispnea o pericardite che probabilmente conosce o di cui riesce a comprendere il significato» (130). Francesco Feola, «Curare con le parole» (421-31), non tratta affatto le parole della medicina; ricerca invece nei testi di carattere religioso 5 e morale, e in quelli letterari, del Medioevo volgare la presenza della parola che si fa essa stessa medicina, «la diffusione . . . del topos della parola guaritrice» (424). «Anche nel volgarizzamento delle Pistole di Seneca ritroviamo l’analogia tra l’azione delle parole e quella dei farmaci: ‹La diceria, e ’l parlare, che si fa per medicinare, e guerire l’animo, dee entrare nel profondo dentro, perocché remedj, e le medicine non fanno alcun pro, s’elle non stanno nelle piaghe. (. . .) Neuna di queste cose si può fare in fretta. Qual medico guarisce la malattia andando? I’ ti dico, che parole, che son dette in fretta, non hanno in loro alcuna utilità›» (428-29). Laura Ricci, «Sul treno, luogo comune nella poesia del secondo Ottocento» (131-45): «Un esempio meno noto della lirica primo-novecentesca, che raccoglie, traendone una metafora complessa, le diverse impressioni elaborate nel secondo Ottocento . . . La locomotiva di Giovanni Alfredo Cesareo vanta una studiata orditura narrativa (centoquarantasei versi), e una sapiente alternanza di metri (dagli endecasillabi ai versi bisillabici), imitativi del diverso ritmo - ora accelerato, ora rallentato - delle rotaie. Spicca l’eterogeneità lessicale. Ci sono termini realistici (bagagli . . . sportelli . . . fanale . . . cantonieri . . . etc.); voci rare e iperletterarie (giulìo . . . fiammando . . . padule . . . sodaglie . . . a volgoli . . . sbalzana e tìtuba . . . a sfagli . . .); varianti poetiche (atra . . . core . . . palagi . . . plora . . . molce . . . rote . . .); echi d’autore (accidïosa fumica . . .).Tutti i passaggi del testo collaborano alla definizione di una coerente allegoria: l’attesa alla stazione e il fischio d’avvio, il diseguale cammino, la meta indefinita ma certa» (145). Hanno per oggetto il teatro di Goldoni due (diversamente) interessanti studi. Fabio Rossi, «Imitazione e deformazione di lingue e dialetti in Goldoni» (147-62): «La conclusione di questa breve panoramica sul plurilinguismo conferma la centralità del commediografo veneziano per lo storico della lingua: la stessa scelta di Goldoni di rappresentare soltanto alcuni tipi e tratti a scapito di altri può dirci qualcosa di non irrilevante sulla percezione del rapporto, ovviamente incerto, tra norma e variabilità nell’italiano settecentesco. Centralità che, dopo le esemplari osservazioni foleniane, non sembra essere stata ancora perfettamente messa a fuoco» (162). Alberto Puoti, «Analisi conversazionale del teatro goldoniano: le funzioni della dislocazione» (523-34): «Credo che sia molto utile valutare il contributo specifico della DS [dislocazione a sinistra] alla stilizzazione degli scambi comunicativi poiché, in una prospettiva diacronica, l’impiego di tali risorse linguistiche costituisce un segnale espressivo della modernità del teatro goldoniano. Goldoni, infatti, è tra i primi ad intuire che la sintassi è il vero ‹cavallo di battaglia› per lo scrittore di teatro» (523). Leonardo Rossi, «La lingua di un romanzo di Attilio Veraldi» (163-77): «In un territorio negli anni ’70 quasi inesplorato, Veraldi riesce a indicare con sicurezza una via per il 287 Besprechungen - Comptes rendus 5 Di passaggio, si può immaginare forse più sfumata una nota iniziale: «È appena il caso di ricordare che nel Medioevo l’influenza di Tertulliano, così come degli altri Padri della Chiesa, agisce per via indiretta» (421 N3), che - così formulata - semplifica un po’ la questione più complicata della tradizione, e della conoscenza da parte dei differenti tipi di pubblico, dei Padri nel Medioevo (o dei diversi Padri nei vari periodi del Medioevo). giallo all’italiana, in cui descrizione della modernità e descrizione della realtà territoriale [napoletana] (criminale, ma anche linguistica) convivono a formare un binomio narrativamente efficace, a volte artisticamente felice» (164). Un esempio dall’analisi linguistica di Naso di cane: «I dialoghi sono spesso costruiti con la tecnica della ripresa e della ritorsione contro l’avversario delle sue stesse parole . . . Una tecnica, questa, di ampio e antico pedigree letterario: si veda ad es. il ‹contrappunto› notato da Contini già per l’episodio di Sinone e di maestro Adamo . . . ‹Insomma, mettiti nei miei panni›. || ‹Ma perché mi devo mettere sempre in questi tuoi panni? › . . . » (167 e N12). Giancarlo Schirru, «Sull’influsso del contesto vocalico nel dileguo di consonante» (179- 91): «L’assorbimento che stiamo analizzando in questa sede sarebbe caratterizzato dal fatto che alcuni contesti vocalici rendono più difficile di altri la percezione dell’elemento consonantico da parte dell’ascoltatore: alla lenizione si aggiunge insomma una bassa salienza percettiva della differenza tra la consonante e la successiva vocale. Pertanto in questi contesti la consonante, anche quando viene realizzata (in modo più o meno debole), viene percepita con più difficoltà: come risultato tendono a diffondersi nella comunità parlante rappresentazioni lessicali di alcune forme prive dell’elemento consonantico considerato» (180). Paolo De Ventura, «Alla ricerca di una lingua meno imperfetta: le varianti di Ribrezzo di Capuana» (193-205). Nella sua analisi della prassi correttoria di Luigi Capuana - vista «nel passaggio dalla prima stampa [1885] alla riedizione nel volume Le appassionate, 1893 . . . della novella Ribrezzo» (196) - De Ventura riporta le parole significative dello stesso Capuana (Sull’arte) a proposito della fatica della lingua («questa diabolica lingua italiana che ci tiene, tutti, impacciati», nella recensione ai Malavoglia, cit. a p. 205); ne preleviamo alcune: «Quella prosa moderna, quel dialogo moderno bisognava, insomma, inventarlo di sana pianta . . . E ne abbiamo imbastita una pur che sia, mezza francese, mezza regionale, mezza confusionale . . . Ma gli scrittori che verranno dietro a noi ci accenderanno qualche cero, se non per altro, per l’esempio di aver parlato scrivendo» (195). Chiara Agostinelli, «Le tre lingue di Dolores Prato, ovvero l’infanzia salvata dalle parole» (207-21). Dalla descrizione dei vari livelli linguistici appoggiatisi nei primi anni e in quelli dell’adolescenza sull’esperienza di vita e quindi sulla memoria della scrittrice, vissuta a lungo e morta nel 1983, che ebbe un sentimento particolarissimo delle possibilità della lingua, scegliamo un efficace passaggio: «Recuperare il passato è per Dolores Prato, come per molti altri narratori che hanno vissuto e messo a tema della loro scrittura l’esperienza dello sradicamento, recuperare le parole di quel passato, nella convinzione che nella parola stia la cosa, e che dunque la nominazione, quanto più accurata e minuziosa possibile, abbia il potere di restituirlo alla vita. L’infanzia della Prato è . . . segnata da una serie di spostamenti che . . . contribuiscono a creare e approfondire il suo lacerante senso di inappartenenza» (208). Bianca Persiani, «Alcune note lessicali e retrodatazioni da commedie popolari senesi del primo Cinquecento» (223-35). Preceduto da una breve e chiara introduzione, l’elenco documentato dei termini e delle espressioni, con il commento lessicale, dei «comici artigiani» e dei Rozzi per cui si sono potute «registrare alcune retrodatazioni, talvolta notevoli (cf. bacchettare, bizza, cavolata, gabbano, gonnella, stecchito)» (226). «In generale, le voci registrate riflettono la tipologia dei testi dai quali sono tratte . . .: spesso si tratta di alterati . . ., di eufemismi . . . o di locuzioni popolari . . ., estratti da un tessuto che annovera tutte le classiche risorse del ‹comico del significato›» (227); un esempio dalla categoria dei «fraintendimenti»: «nel Vallera . . . il villano eponimo, ascoltata una descrizione di Amore, conclude che, avendo le ali e ‹girando attorno›, Cupido è certamente un ‹uccellaccio›» (227 N9). Giuseppe Antonelli, «Notazioni metalinguistiche nei Promessi sposi» (237-51): «‹L’eterno lavoro› di Manzoni sulla lingua del romanzo ha lasciato traccia di sé non solo nel dinamismo dell’itinerario variantistico, ma anche nel fitto apparato di glosse metalinguistiche 288 Besprechungen - Comptes rendus che, mimetizzato nel racconto, punteggia il testo dei Promessi sposi. Mi riferisco ai vari come si dice, vale a dire, per dir meglio, per dir così, sto per dire che tanto infastidivano il Tommaseo lettore della ventisettana . . .; ai più espliciti rimandi diatopici (come dicono colà, come chiamano qui) o diacronici (come dicevano allora, quel che ora si direbbe); a quella particolare specie di glossa tipografica costituita dai corsivi» (237). Questa la compatta ed esauriente premessa con cui Antonelli apre il suo lavoro: la verifica del fatto che alla sistematica collocazione testuale della nota manzoniana si unisca «una precisa corrispondenza fra tipologia dell’osservazione metalinguistica e formule usate per introdurla» che la «suddivisione in categorie ha fatto emergere, nel corso dello spoglio» (della quarantana [Q], con i necessari riferimenti alla ventisettana, e al Fermo e Lucia) (238 e N7). Emerge, prima di tutto, la consueta tensione verso la precisione linguistica, che la glossa accompagna; il mutare di una locuzione, talvolta per il parere dei corrispondenti che Manzoni interrogava, produce anche l’aggiustamento del correttivo 6 : «Il passaggio da cercare a naso ad andare al tasto, per esempio, porta con sé il passaggio della glossa dal come si dice (che in Q certifica la diffusione fiorentina di una locuzione) al per dir così (che in Q attenua usi impropri, estensivi, metaforici)» (239). Nella definizione del sistema di formule metalinguistiche con cui Manzoni mette in evidenza particolari termini ed espressioni, l’analisi della lingua e delle varianti arriva a comprendere le ragioni compositive; dunque, accanto agli «arcaismi di necessità», Antonelli isola i «lombardismi di necessità»: le voci conservate in ossequio al vero storico anche nell’abbandono di una lingua mista per quella dell’uso di Firenze, ma ormai glossate «tutte a parte obiecti» (241) - es. «la metà del riso vestito (risone lo dicevano qui, e lo dicon tuttora)» (242 N22). I titoli dei capitoletti (che riportiamo volentieri, perché ci sono piaciuti molto) diranno in che modo è stata organizzata la materia: «1. L’ambientazione linguistica. 2. La voce dei documenti. 3. La voce dei personaggi. 4. La vox populi. 5. La voce dello scrittore». Riuniamo cinque studi su diversi usi della lingua in àmbiti particolari, o proprio linguaggi settoriali 7 , di alcuni dei quali abbiamo tutti, più o meno, una «competenza passiva», e sui quali siamo invitati qui a riflettere. Francesco Zardo, «Ancora sui marchionimi» (253-69): «La coniazione ‹marchionimo›, che respingevo in apertura del lavoro che nel 1994 fu la mia tesi di laurea sull’argomento, ha conosciuto da allora a oggi una diffusione e un’attestazione che danno torto al mio rifiuto. Questo mi spinge oggi, nel tornare sull’argomento, a fare ammenda e accettare il termine suggerito al tempo da Luca Serianni e poi consolidatosi nell’ambito scientifico» (253 N1). Dunque l’indagine sui nomi di marchio, commerciali, quali Coca-Cola/ coca-cola o airbus o magnetofono, la cui «mobilità [grammaticale] . . . è confermata dai nuovi spogli che qui pubblichiamo [p. 256-65], legittimando ancora una volta . . . il giudizio esplicito di Bruno Migliorini che collocava fin dal ’27 queste parole ‹nella zona di confine fra i nomi propri e gli appellativi›» (255). Marco Lanzarone, «Dal media planning al nettissimo: la terminologia della pianificazione pubblicitaria» (327-38). Scopriamo che il «flight è . . . un ‘periodo di intensa pressione pubblicitaria’» (330), che «[pubblicità] tabellare . . . indica ‘la pubblicità classica normal- 289 Besprechungen - Comptes rendus 6 Che nella terminologia di Migliorini e di Serianni è il felice «riguardo verbale». 7 Per la definizione e la descrizione delle caratteristiche dei linguaggi settoriali si veda L. Serianni, Italiani scritti, Bologna 2 2007: 79-88. L’inizio del capitolo 6 (I linguaggi settoriali) è: «Il concetto di linguaggio settoriale, chiaro nel suo nucleo, è sfrangiato nei particolari» (79), e infatti qui se ne trova una precisa messa a punto (e in più godibile; per esempio: «Ma forse solo medici e giuristi sanno che cosa sono il crocidismo e l’evizione. O meglio: medici, giuristi e lettori di questo libro, ai quali diremo senz’altro che il crocidismo è un ‘movimento involontario delle mani di malati in delirio o in agonia, che sembrano afferrare delle piume sospese nell’aria’ e l’evizione è ‘la perdita totale o parziale dei diritti di proprietà su un bene legittimamente rivendicato da un terzo’)» (81). mente trasmessa raggruppata in un break’» (332); che «una volta applicato lo sconto [s. cliente o s. stagionale], si arriva . . . all’importo dell’investimento, che può essere lordo, netto o, con un ardito superlativo, nettissimo» (336); e anche che «fare media buying non dice nulla di più di comprare, acquistare, acquisire spazi» (338). Lucia Raffaelli, «Fra punteggiatura e sintassi: sondaggi sui titoli dei quotidiani» (455-68): «Appunto ai titoli è dedicato il presente contributo, nel quale considererò alcuni aspetti interpuntivi e sintattici che mi sembra possano ben documentare tanto il ridimensionamento della componente espressiva a vantaggio di una maggiore leggibilità, quanto l’emarginazione della stilizzazione orale in un contesto - come quello del titolo con discorso diretto - nel quale non risulterebbe inattesa» (456). Dall’analisi del corpus, un esempio di «titolo bipartito con primo elemento locutore»: «Berlusconi, i gay stanno tutti dall’altra parte» (462). Rosarita Digregorio, «Lingue speciali crescono: parole nuove in biblioteca» (495-505). Sull’attuale capacità della lingua italiana di coniare i termini necessari a nominare le cose, o almeno di adattare i prestiti dall’inglese, «dall’esame del sottocodice biblioteconomico si potrebbero trarre conclusioni pessimistiche, tanto più che si tratta di un ambito che contamina scienze dure e quel sapere umanistico in cui il nostro paese ha una centenaria tradizione di eccellenza. E tuttavia, più che a livello di letteratura specialistica, bisogna cercare indizi di creatività terminologica nella pratica quotidiana del lavoro bibliotecario. Nelle biblioteche è ormai consolidato, sulla scia di un’opzione vitale nel lessico scientifico italiano sin da Galileo, l’uso di parole provenienti dalla lingua comune, il cui significato corrente più si avvicina a quello che il tecnico vuole esprimere» (503-04). Vincenzo Faraoni, «La parola agli elettori: note linguistiche sul forum interattivo di Alleanza Nazionale» (595-618): «Nonostante questo originale proposito di comunicazione ‹verticale› - vale a dire tra vertici politici e semplici sostenitori - venga fin da subito disatteso [la comunicazione sarà solo orizzontale], il forum [creato il 3 gennaio 2006, in vita fino al 6 aprile 2006] ha continuato la sua attività lungo quasi tutto il periodo elettorale» (595). Un esempio dall’analisi della lingua dei partecipanti: «‹Se vincono i sinistri chiedo la cittadinanza americana! ! ! ! ›. Si noti . . . la presenza nella protasi dell’indicativo presente . . . Le ragioni non sono necessariamente solo di ordine grammaticale . . . ma anche di natura pragmatica; rispetto al congiuntivo, infatti, l’indicativo presente, conferendo maggiore consistenza all’ipotesi prospettata nella protasi . . ., enfatizza e costringe a percepire in modo più concreto anche quanto predicato all’interno dell’apodosi» (600). Enzo Caffarelli, «Ancora tra i Lapi e i Bindi di Fiorenza. Indagine su una metafora dantesca» (271-81). Uno studio di onomastica applicato a un luogo celebre: il verso del Paradiso (xxix 103) «Non ha Fiorenza tanti Lapi e Bindi» («/ quante siffatte favole per anno/ in pergamo si gridan quinci e quindi»). I conti non tornano a Caffarelli sulla spiegazione vulgata che vuole Bindo ipocorismo di Ildebrando/ Aldobrando/ -ino, e che troverebbe sostegno nel Libro di Montaperti (1260), in cui compare un «Aldobrandinus qui vocatur Bindus» (274). Le regole che presiedono alla formazione del nome proprio accorciato - es. il ben noto «Durante Dante» (273) - verrebbero disattese (soprattutto non si spiega il mancato mantenimento della tonica), e il «qui vocatur» (con le espressioni simili) introduce piuttosto un allonimo, un nome diverso, tanto che è necessario specificarlo, come risulta dai documenti notarili - es., nello stesso Libro di Montaperti, «Ubertus qui vocatur Grifus» (274) -; rimane non chiara l’etimologia di Bindo, come, del resto, quella di Lapo. I due nomi, prima rari, diventano frequenti (Lapo, frequentissimo) nella Firenze di fine Duecento, dunque all’epoca di Dante. Ma lo studioso giudica poco significativo questo dato quantitativo, «peraltro del tutto impressionistico» (278) in Dante, e accenna a diverse sollecitazioni che potrebbero aver agito sulla scelta dantesca, fra le quali la rima difficile (Indi : Bindi : quindi); piuttosto, il senso che poteva avere Lapo - nel Commento di Benvenuto -, e le attestazioni cinquecentesche di san Bindo come santo inesistente utile a espressioni proverbiali gli 290 Besprechungen - Comptes rendus fanno considerare la possibilità che Dante usasse «i due nomi come forme antonomastiche, quasi lessicalizzate» (279), e che potessero «i Bindi, accostati ai Lapi ‘avari, rapaci’, significare ‘truffatori’ o almeno ‘coloro che rinviano il mantenimento di una promessa e di un impegno a tempo indeterminato’» (281). Gianluca Lauta, «Un lessico da salotto. Il linguaggio borghese degli anni Cinquanta negli articoli di Camilla Cederna» (283-96), articoli godibilissimi, dei quali vengono dati ed esaminati qui ampi stralci. «La definizione ‹da salotto› sembra tutto sommato accettabile, se si guarda unicamente alla metà del Novecento, perché, in effetti, per quell’epoca, ciò che si descrive è un linguaggio di conguaglio tra quello degli intellettuali e quello dell’alta borghesia (non necessariamente coltissima): il luogo deputato per questo incontro era appunto il salotto borghese. Oggi è diverso; il privato è ormai entrato in televisione e il salotto è soprattutto quello mediatico (ha ben poco di alto borghese e di elitario); sarebbe forse più esatto parlare di ‹linguaggio da talk show›» (296). Lucilla Pizzoli, «Sulla legislazione in materia linguistica per gli italiani fuori d’Italia» (297-312). Dall’interessante trattazione (ed è interessante l’argomento, come si comprende), scegliamo un punto della «breve nota storica sul trattamento della lingua italiana nella legislazione in materia di emigrazione» (297): «Concretamente, il Cge [Commissariato generale per l’emigrazione] aveva predisposto per coloro che si accingevano a partire corsi che prevedevano anche nozioni sui mestieri e molti comitati italiani della Società Dante Alighieri, specie quelli situati nelle zone più direttamente coinvolte dall’emigrazione, istituirono scuole serali per provvedere all’alfabetizzazione primaria dei partenti, insieme ad altre attività di sostegno per gli emigrati (sale di lettura e scrittura o singolari iniziative come quella della ‹Bibliotechina navale per emigranti› promossa dal Comitato di Napoli su suggerimento di Benedetto Croce)» (301). Stefano Telve, «Essere o avere? Sull’alternanza degli ausiliari con i modali potuto, voluto (e dovuto) davanti a infiniti inaccusativi in italiano antico e moderno» (313-25). La scelta dell’ausiliare con i servili seguiti dall’infinito di un verbo intransitivo provoca incertezza nell’uso moderno, e ne provocava in passato: così risulta infatti dalle trattazioni dei grammatici antichi, che Telve esamina. Oggi si registra un uso piuttosto generalizzato di avere; con le parole di Giovanni Nencioni, la tendenza «a rendere il verbo modale autonomo dal verbo modalizzato con l’applicargli l’ausiliare suo proprio» (313); dunque, non: sono voluto partire ma: ho voluto partire. L’oscillazione nell’uso degli ausiliari è registrata - insieme alla tendenza all’espansione di avere -, e non censurata, nelle opere grammaticali di Luca Serianni, e perlopiù nelle grammatiche moderne. Telve ricostruisce la storia di questo uso nei testi, consultando gli archivi elettronici della LIZ e dell’OVI; dovere non aveva generalmente la funzione di servile fino al Seicento, dunque rimarrà in secondo piano nell’indagine, i cui risultati sono esposti in uno schema (318-19), e poi raccolti nell’analisi della distribuzione, cronologica e geografica, delle forme. Scegliamo due punti dalle conclusioni dell’interessante articolo (a tratti un po’ impegnativo, sotto l’aspetto terminologico, per i non specialisti: ma il difetto è, appunto, nostro): «Con infiniti inaccusativi e con essere il toscano (fiorentino) due-trecentesco privilegiava l’ausiliare essere. Questo costrutto (che un certo radicalismo bembiano dà come esclusivo) sarebbe stato ereditato per via soprattutto letteraria dagli scrittori successivi (quasi tutti non toscani) che avrebbero via via introdotto anche il costrutto con avere a loro più naturale per influsso del sostrato dialettale» (323). «Nel determinare la scelta dell’ausiliare interverranno in qualche misura anche i modali stessi: lo scarto tra potuto e dovuto, che si accompagnano spesso ad essere, e voluto, che predilige invece avere, potrebbe infatti dipendere anche dalle diverse proprietà sintattiche e semantiche dei verbi» (324). Francesco Sestito, «Sulle forme verbali del tipo tollere e vollere» (339-47): «Dal punto di vista della fonetica storica, è noto che i tipi oggi normalizzati togliere e volgere sono, con 291 Besprechungen - Comptes rendus trafile differenti, entrambi dovuti all’analogia con cogliere». «È altrettanto noto che all’infinito e nelle voci derivate dall’infinito il tipo sincopato torre doveva costituire la norma nella lingua antica, e poi a lungo nella lingua poetica» (339 e N3). Sestito ricostruisce la storia delle due forme verbali diversamente presenti nella lingua antica, e che sopravvivono variamente in alcuni dizionari moderni; daremo senz’altro le sue conclusioni, che riassumono così bene il suo studio (quella di licenziare il proprio lavoro accompagnandolo con chiare ed esaurienti conclusioni è un’abitudine diffusa, encomiabile, degli autori di questo libro): «Nel fiorentino antico le forme del tipo tollere e volvere, esiti foneticamente regolari delle corrispondenti basi latine, furono progressivamente sostituite dai tipi analogici togliere e volgere (in entrambi i casi, alla base dell’analogia sono esiti di colligere). A Firenze tollere doveva essere ancora vitale nel Duecento ma già minoritario all’epoca di Dante, e in seguito, anche a causa dell’assenza in autori canonici come Boccaccio e Giovanni Villani, rimase tagliato fuori dalla canonizzazione dell’italiano letterario, benché a lungo la forma isolata tolle appaia occasionalmente recuperabile come poetismo. In altre aree, marcatamente la senese, il tipo tollere dovette costituire la normalità almeno fino a metà Quattrocento tanto da produrre la forma analogica vollere [cf. N44], che, non fiorentina e priva di riscontri nei grandi trecentisti oltre che non interpretabile come latinismo, rimase sempre estranea alla lingua letteraria codificata a partire dal Cinquecento e di conseguenza all’italiano moderno. . . . Mentre in dizionari dell’uso contemporaneo la presenza di tollere può essere giustificata dalle attestazioni nei classici, ben più discutibile appare quella di vollere» (346-47)». Gianluca Biasci, «La ‹corretta pronuncia› nei manuali operativi per logopedisti» (349- 58): «Ci pare . . . lecito l’auspicio che, in una fase più matura, i manuali operativi possano coniugare l’indubbia efficacia terapeutica con una maggiore precisione e più saldi princìpi teorico-fonologici, magari dichiarando le fonti autorevoli da cui traggono le indicazioni ortoepiche, siano esse tradizionali o moderne. Si eluderebbe così il rischio di accreditare varianti troppo marcatamente locali, come accade, per esempio, alle autrici di uno dei nostri testi, costrette a precisare che gli elenchi di parole che illustrano le affricate alveolari sorde e sonore ‹si riferiscono alla pronuncia in uso in Liguria›» (358). Queste le conclusioni di un accurato esame dei libri, preceduto dalla ben utile trattazione dei «punti più critici del sistema fonologico italiano» (350) (problema che i non toscani vivono quotidianamente, benché diversamente; e infatti trovano qui le deviazioni dalla pronuncia normativa distinte per aree geografiche). Danilo Poggiogalli, «L’accordo dell’aggettivo nella lingua dei critici» (359-73). Studiato nella prosa «alta» (venti opere di critici letterari del Novecento, riunite nel corpus digitale CLID = Critica letteraria italiana digitalizzata), un problema di morfosintassi che tutti gli scriventi abituali incontrano, e precisamente l’accordo dell’aggettivo con due o più nomi (singolari, o singolari e plurali) coordinati. L’aggettivo deve assumere, in questo caso, il numero plurale; se i nomi sono diversi per genere, l’accordo è al maschile, con qualche eccezione ammessa, ma ben delimitata. La regola perlopiù si conosce (le eccezioni, meno, ma si leggono nella Grammatica di Luca Serianni, e sono riportate in questo studio 8 ), eppure, evidentemente, se ne sente il risultato «stridente», o artificiale, perché spesso non la si rispet- 292 Besprechungen - Comptes rendus 8 Segnaliamo una minima svista nella trascrizione, perché muta il senso (peraltro ben desumibile dagli esempi citati): «non sembra vigere una delle due restrizioni . . . in base alla quale, perché l’aggettivo si possa accordare al femminile con l’ultimo nome, ‹l’ultimo nome deve essere plurale›. . . . L’altra restrizione (l’ultimo nome deve ‹riferirsi ad un’entità animata [da leggere: inanimata]›) appare invece rispettata», con il riferimento al luogo di L. Serianni, con la collaborazione di A. Castelvecchi, Grammatica italiana. Italiano comune e lingua letteraria, Torino 1 1988 [ 2 1991] (367 e N11). ta. Non la rispettano, spesso, neppure i grandi critici, come ci mostra Poggiogalli. Qualche esempio: «nel suo significato ed etimo culturale (Mengaldo . . .)» (361); «lo spunto e l’obiettivo immediato era politico (Dionisotti . . .)» (362), ma «il populismo e il democratismo italiani erano atteggiamenti (Asor Rosa . . .)» (363); anche «una lingua e letteratura italiana poderose ancora e predominanti in Europa (Dionisotti . . .)» (364); «una poetica di concentrazione, purezza e astrazione lirica (Mengaldo . . .)» e «una rottura violenta nel linguaggio, nello spazio e nel tempo narrativi (Calvino . . .)» (365); «Il disprezzo e l’indifferenza odierni (Fortini . . .)» (loc. cit.) e «varianti d’intensità e colore espressivo (Contini . . .)» (366); «eliminare . . . il riflesso e la commozione autobiografica (Baldacci . . .)», «attraverso problemi e discussioni oggettive (Debenedetti . . .)» (loc. cit.). «Per spiegare la vitalità di quello che potremmo definire ‹accordo di prossimità›, si dovrà . . . invocare il fattore gusto, a cui i critici non saranno certo insensibili. Da questo punto di vista, sequenze in cui l’ultima posizione sia occupata da un nome femminile (singolare o plurale) possono essere mal percepite in unione con un aggettivo maschile plurale immediatamente seguente . . . Ciò che presumibilmente si tende a evitare è quella sorta di disarmonia grammaticale, di discordanza apparente . . . A maggior ragione . . . la componente impressionistica serve a spiegare la netta preferenza per l’accordo al singolare . . ., laddove persino con i nomi maschili il plurale appare l’opzione minoritaria» (367). Con una serie di più di due nomi (nelle varie combinazioni), invece, l’accordo è generalmente al maschile plurale. Poggiogalli completa la trattazione con l’esame dell’«accordo nei composti aggettivali»: «il tipo la concezione etico-politica» (369), con i suoi sviluppi. Luigi Matt, «Tassonomie gaddiane: medicina e psichiatria nell’impasto linguistico di Eros e Priapo» (375-85): «Le scienze, per Gadda, possono costituire un buon antidoto contro i mali di certa tradizione culturale italiana, che nella sua esclusiva propensione per la letteratura dimostra ‹di essere refrattaria alla storia naturale, d’ignorare le ere geologiche, il darwinismo, i classificatori del Sette e Ottocento, Malpighi e Spallanzani›» (375-76). È in Eros e Priapo, sostiene lo studioso, che «le lingue speciali giocano il ruolo più importante» (377). «Nello stesso calderone . . . sono . . . gettati elementi disparati: tecnicismi medici molto specialistici (uricemici, acromegalici, basedowoidi . . .), termini d’uso comune (ossessi, pazzi, gobbi . . .), ed espressioni vistosamente popolari, enfatizzate dalla presenza di dialettismi (‹co’ i’ ccazzo ritto›, ‹quelli che fanno ciriegie e peperoncini›); . . . [e] una sorta di gioco paretimologico costruito a partire dalla somiglianza delle forme oppilati (forse un ricordo del dantesco canto dei ladri) e pilettici (in cui l’aferesi può essere . . . tratto pseudoarcaico)» (385). Alessio Ricci, «Sulla scrittura degli studenti universitari» (387-400). Dalla sua esperienza di docente universitario ad Arezzo, non un cahier de doléances, nelle intenzioni dell’autore, ma un’analisi documentata dei «punti critici più ricorrenti delle competenze di scrittura degli studenti che si iscrivono all’università. Punti critici che, se tenuti in debito conto, possono dar luogo a strategie didattiche specifiche che colmino le lacune del curricolo scolastico» (387). Scegliamo qualche esempio: «sembrano in espansione le univerbazioni ingiustificate (inquanto, daltronde, approposito, menomale, lipperlì, maggiorparte, mezzora, che centra? )» (389); «si rivela decisamente esposto all’errore il vasto campo delle solidarietà lessicali, ‹in assoluto il settore più difficile per lo studente inesperto e quello che meno si presta ad essere sistematizzato attraverso regole che prescindano dal pulviscolo del caso per caso [L. Serianni, Prima lezione di grammatica, Roma-Bari 2006: 68]› . . .: ‹il bambino viene di continuo sobillato da stimoli di vario genere›» (391 e N22); «talvolta si attribuisce a una parola un significato completamente diverso per interferenza di un’altra parola di suono più o meno simile: ‹questo pregiudica il fatto che sono persone serie (anziché presuppone)›» (392). Matteo Motolese, «Appunti su lingua poetica e prima esegesi della Commedia» (401- 19). Partendo dalle dichiarazioni (di Antonio da Tempo, Francesco da Barberino, Dante, es- 293 Besprechungen - Comptes rendus senzialmente nel De vulgari eloquentia) che informano sulla consapevolezza che si aveva nel Trecento della specificità del linguaggio poetico, Motolese allarga il campo d’indagine agli aspetti più propriamente linguistici, quelli che ha analizzato Luca Serianni «nella sua Introduzione alla lingua poetica italiana [Roma 2001], descrivendo il processo di progressiva cristallizzazione - nel corso dei secoli - di una specifica ‹grammatica› della lingua poetica», e si chiede quale fosse «il grado di attenzione nei riguardi di quella ‹grammatica› . . . nei primi secoli della nostra letteratura da parte dei contemporanei» (402 e N5). Dunque, i commentatori trecenteschi della Commedia. Più attenti, appunto, si dimostrano nella loro esegesi Boccaccio, Benvenuto, Francesco da Buti, Filippo Villani; dall’ampia raccolta, e dalla puntuale analisi, dei dati che fa Motolese in questo informatissimo studio scegliamo qualche esempio. A proposito di Par. ix 73-81, Iacopo della Lana: «Intuare si è verbo informativo e descende da questo pronome tu; sì che intuare si è verbo, ed è a dire far sì quello tue a chi è drizzata tale parlatura. Immiare simile è verbo informativo, e descende da questo pronome volgare che è per lettera ego, sì che immiare tanto è a dire come un altro diventasse io»; e Francesco da Buti: «Illuiare, intuare, immiare sono verbi fatti e formati dall’autore da’ pronomi lui, me e te: illuiare è intrare in lui, immiare è intrare in me, intuare è intrare in te» (407-08). Ancora Francesco, su Inf. ii 64: «E temo, che non sia già sì smarrito . . . Et è nel testo la negazione d’avanzo, secondo l’uso del parlare volgare: però che veramente non temea del no; ma del sì» (409). Filippo Villani, a Inf. i 26 si volse a retro: «volsersi ad retro (. . .) naturaliter dici debet retro, sed propositio seu dictio ad apponitur gratia consonantie rithimi et fit prothesis» (410-11); a Inf. i 46 che contra me venisse: «Et actende quod licentia poetica venesse pro venisse pronumptiat gratia consonantie rithimi»; «sebbene la forma metaplastica di venire risulti circolante, fuori di Firenze, nella Toscana sia orientale sia occidentale del tempo, Villani la percepisce come morfologicamente estranea al punto da ricondurla alla libertà concessa al poeta nell’uso della lingua, non contemplando tra l’altro l’ipotesi della rima siciliana [desse : venisse : tremesse]» (412-13). E sempre Villani, a Inf. i 50 sembiava: «Semblava. Gallicum ydioma est, latine ‘similabat’» 9 (417); «non è possibile dire quanto sulla nota di Villani abbia influito anche la grafia non assimilata: la forma era infatti largamente circolante al tempo, sia in versi sia in prosa» (loc. cit. N50, con il riferimento al luogo in cui la discute A. Castellani, Grammatica storica della lingua italiana 1. Introduzione, Bologna 2000). Lo studioso segnala infine, accanto ai vocaboli glossati come gallicismi, altri gallicismi «tipici del lessico poetico», comuni o rari, non annotati (noia, dolzore, speglio, accismare, augello, i nomi col suffisso anza): «Simili omissioni mi paiono significative del grado di sensibilità su questioni di lessico poetico; ci dicono infatti che, quanto meno, tali riprese non sembravano degne di essere segnalate. E questo in un contesto in cui un commentatore come Boccaccio non solo poteva sottilmente distinguere tra aura e aria, ma anche segnalare che un termine come ombra ‹è vocabolo usitatissimo de’ poeti›» 10 (418). 294 Besprechungen - Comptes rendus 9 «Sembiava: imperf. di sembiare provenz. semblar ( lat. simil ñ re ‘somigliare’), con normale passaggio del nesso di consonante + laterale a consonante + ‹iod›; nella forma poi impostasi, sembrare, il nesso si è conservato, ma la laterale si è rotacizzata» (nel «Commento linguistico del I canto dell’Inferno» di L. Serianni, Lezioni di grammatica storica italiana. Nuova edizione, Roma 1999: 116). 10 Al giusto, e necessario, rilievo una piccola glossa, appunto, per rendere esplicito ciò che sarà implicito nel discorso: tra i vari motivi delle assenze avrà un ruolo anche il fatto che una «sistematicità» di metodo appartiene più alla nostra mentalità moderna che a quella degli uomini del Medioevo. Si possono leggere, sulla distanza concettuale che mantiene da noi il Medioevo - benché il problema e l’argomento siano affatto diversi, e di un’età precedente -, le considerazioni di F. Stella, «I canzonieri d’amore della poesia mediolatina: cicli narrativi non lineari, contesti epistolari, dimensione scolastica», in: F. Lo Monaco/ L. C. Rossi/ N. Scaffai (ed.), «Liber», «Fragmenta», «Libellus» prima e dopo Petrarca. In ricordo di d’Arco Silvio Avalle. Seminario internazionale di studi (Bergamo, 23-25 Mara Marzullo, «La lingua e i modelli linguistici in alcuni manuali epistolari di fine Ottocento» (433-43). Dopo la «grammatica poetica», la «grammatica epistolare». «I manuali ottocenteschi mantengono . . . l’intento didattico, che aveva sollecitato Sansovino nella redazione del suo Secretario, e fioriscono, non sempre con mire artistiche, a cura di personaggi anche cólti, ma non necessariamente interni al circuito letterario» (433-34); l’autrice analizzerà, più che le «indicazioni teoriche presentate in questi manuali - in realtà spesso poco attenti alle questioni linguistiche - . . . [la] lingua delle lettere proposte a modello» (434), evidenziando come i diffusi precetti di semplicità dello stile, perché la lettera privata risulti spontanea, non vengano perlopiù osservati nei testi. Un esempio: «Cesira mia! Quanto sarei felice, contento, beato, ove potessi avere il bene immenso di passare teco qualche ora, senza che alcuno fosse al caso di spiare i nostri moti, d’indagare le nostre intenzioni, di ridire quelle frasi che ci dettasse Amore! » (438). Cristina Faloci, «La ‹coscienza› del traduttore. Il Freud di Stefan Zweig nella revisione odierna e la difficile stabilizzazione del lessico psicanalitico in italiano» (445-54): «La storia delle traduzioni nelle varie lingue dell’opera di S. Freud costituisce un capitolo a sé di singolare interesse nella cultura novecentesca. In questo senso, un piccolo saggio, sia pure indiretto, dell’accidentata acquisizione dei concetti psicanalitici nella lingua italiana lo offre al revisore odierno proprio la prima traduzione della biografia di Freud, scritta quando il padre della psicoanalisi era ancora in vita (1931)» (445-46). La studiosa dà infine «la parola a Pier Vincenzo Mengaldo (Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna 1994: 44), a proposito della crescente diffusione, negli ultimi anni, della conoscenza di questo tipo di linguaggio scientifico: ‹Un caso di discreta divulgazione, con tutte le lacune, di terminologia medica è quello del freudianesimo . . . Dopo i primi adattamenti, che risalgono al ’14, sono oggi più o meno diffusi ad es. inconscio (con l’arbitrario subconscio) ma non preconscio, complesso (bon à tout faire) e, recente, super-io, ma pochino Es e per niente Id›» (453 e N18). Daniele Baglioni, «Poesia metasemantica o perisemantica? La lingua delle Fànfole di Fosco Maraini» (469-80): «Di Fosco Maraini (1912-2004) . . . quasi sconosciuta . . . è la produzione poetica, racchiusa in un’unica raccolta, Le Fànfole» (469). «Malgrado l’aggettivo ‹metasemantico› faccia pensare agli esperimenti pregrammaticali di certa poesia novecentesca . . . le Fànfole marainiane sono scritte in una varietà immediatamente riconoscibile come italiano, in cui gli inserti della lingua comune sono tutt’altro che infrequenti. L’invenzione linguistica infatti è limitata esclusivamente al lessico . . . Non c’è invece intervento sulla fonologia . . . e sulla morfosintassi . . . In ogni componimento, poi, è presente una certa quantità di lessico non metasemantico» (470-71). Un esempio di questa poesia (che andrà letta con l’aiuto della bella analisi che ne fa Baglioni): «- E tu quando vivesti? - Io vissi all’era/ degli Andali ludiati e porfidiosi: / gli artèdoni liriavano in finiera/ metàrcopi e sindrèfani rodiosi./ - Io invece vissi ai tempi laccheroni/ degli ùzzeri bagiogi e guazzacagni; / s’andava lornogorno a brencoloni/ tra làlleri, gaglioppe e trocidagni; . . . » (476). Maria Silvia Rati, «Indicativo e congiuntivo nella poesia delle Origini: le proposizioni completive» (481-93). L’analisi dei testi siciliani (toscanizzati), toscani, con quelli di Guinizzelli, e della poesia di Dante e di Petrarca per «appurare se l’incidenza della rima, del metro e della semplicità sintattica sia tale da produrre in poesia meccanismi di alternanza diversi da quelli osservabili in prosa. . . . L’alternanza I[ndicativo]/ C[ongiuntivo] sarà osser- 295 Besprechungen - Comptes rendus ottobre 2003), Firenze 2006: 35-53 (52-53): «la strutturazione complessa e alineare, derivata dalla forza della funzione topica . . .: la forza della topica, che subordina la consequenzialità al dominio repertoriale delle situazioni e delle scene, è irresistibile nella poesia medievale e specialmente in questi canzonieri, e forse in altri dove più o meno disperatamente cerchiamo di ricostruire una novella d’amore che interessa noi più di quanto sia stata a cuore del poeta». vata tenendo conto della modalità d’appartenenza degli elementi reggenti, in base alla quale i verbi saranno suddivisi in classi (verbi volitivi, verbi d’opinione, verbi assertivi, ecc.)» (482). Per una volta, non scegliamo Dante (ma lo studio delle forme nella poesia di Dante, e nella poesia precedente, è di evidente interesse) 11 . «Nel Canzoniere e nei Trionfi, dove le completive si inseriscono nell’àmbito di strutture tendenzialmente standardizzate e ripetitive, l’alternanza I/ C subisce un processo di razionalizzazione. Lo dimostra soprattutto il caso dei verba declarandi e dei verbi valutativi, che nei poeti precedenti reggevano indifferentemente entrambi i modi, mentre qui sono associati al C. . . . La strategia razionalizzante di Petrarca trova una limitazione nel condizionamento della rima . . . l’unico fattore in grado di determinare alternanze modali marcate. Come Dante, in molti casi Petrarca aggira l’ostacolo della rima servendosi di varianti morfologiche di C: in dipendenza da parere, ad esempio, spesseggiano le forme originarie di terza persona in -e, che fuori di rima non sono mai usate con questo verbo . . . ‹et sua sorella par che si rinove› (RVF 42 7)» (491-92 e N48). Luca Nobile, «De Brosses e Cesarotti. Origine delle lingue e origini della linguistica nell’età della rivoluzione politica» (507-21), dopo aver trattato «la posizione debrossiana nel quadro europeo al fine di riconoscere il portato modernizzante della sua teoria del segno e quindi riconciliarla con l’appurata modernità dell’arcade padovano», cercherà nella lingua di Cesarotti «materiali probatori, soprattutto lessicali e sintattici, a sostegno dell’impressione nencioniana di un suo ruolo di inventor dei nostri attuali discorsi» (508). Troviamo «la sommessa invenzione autoctona, veramente galileiana, invisibile perché ormai corrente, ed emblematica dell’intera portata del Saggio [sulla filosofia delle lingue applicata alla lingua italiana] nella storia della lingua italiana, costituita dall’uso sostantivato del participio presente di parlare . . . Il nome che ancor oggi occorre per designare i parlanti, infatti, non risulta attestato con questo significato prima del Saggio. Raccolta e tramandata da Manzoni e da Confalonieri, la nozione dei parlanti è l’autentica bandiera del libro, . . . nella sua posizione storicamente cardinale . . . il riflesso di questo cardinale fatto storico: che l’italiano comincia, per la prima volta nella sua storia, grazie a scuole e giornali, melodramma e commedia, ad essere parlato fuor di Toscana» (518). Una piccola serie di tre studi su testi (diversamente) antichi che si è disposta da sé nel libro. Alessandro Di Candia, «Il Modo di saper governare contro i Giesuiti: un trattatello politico del 1633. Osservazioni linguistiche» (535-46): «Il libello . . . è allegato come corpo di reato a un processo celebrato dal Tribunale Criminale del Governatore di Roma nel 1633. . . . Da varie notizie, apprendiamo che l’autore 12 del libello è lo spedizioniere Mattia De Valle, originario di Liegi, tratto in arresto e processato» (535-36). «L’argomento è . . . la descrizione e insieme la condanna delle modalità attraverso cui l’ordine religioso dei gesuiti condiziona la politica dei principi europei» (537). Dall’analisi degli «Espedienti stilistici», qualche esempio di «Dittologie e strutture ad accumulo»: «ricorrono frequentemente le 296 Besprechungen - Comptes rendus 11 Solo, se abbiamo ben compreso, un cortocircuito deve essere avvenuto fra forma e senso nell’esempio citato di «un C retto da sapere in Stefano Protonotaro . . .: ‹ma so’ ben di tal fede,/ poi c’Amor pò ferire,/ ch’elli possa guarire (3 18-20)›» (483); al so’ che l’autrice correttamente stampa, dunque ‘sono’ (convinto), si sarà poi sovrapposto nel ragionamento un so prima persona sing. dell’indicativo pres. di sapere. 12 Nel senso dello «scrivente», come si desume dal testo - per esempio: «Tutti i soggetti coinvolti nel processo . . . rientrano nella categoria degli scriventi professionisti . . . copisti variamente impiegati negli organi amministrativi ufficiali» (536) -, e come è esplicitamente detto avanti, nell’analisi della grafia del libello: «È importante tener presente l’ambiente professionale entro il quale si colloca non tanto l’autore (di cui non conosciamo nulla) quanto lo scrivente Mattia De Valle, soggetto bene addentrato al mondo diplomatico e quindi, si può credere, dotato di una solida cultura grafica» (542 N20). strutture ternarie, tanto di ordine semplicemente lessicale quanto di tipo frasale. In entrambi i casi l’autore può strutturare la terna in modo anaforico . . . ‹o sacerdoti, ò Chierici, o Conversi che sieno›; ‹fanno mercantie di perle, rubini, e diamanti›; ‹e per la virtu, e per la Santità, é per li suoi meriti con Santa Chiesa›; ‹sono sagaci accorti é sottili›» (543-44). Giulio Vaccaro, «Il Libro de la disposicione de alcune cose del mundo: un trattato di geografia nella Napoli aragonese» (547-57). L’inedito Libro «è tràdito da un solo manoscritto, conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli» (547); del codice, fattizio, è datata agli anni 1415-17 la prima parte, nella quale, con altre scritture, è contenuto il trattato. Questo «si articola in un sonetto proemiale [seguito da un autocommento delle quartine] e 46 capitoli . . . Si tratta, come dice l’incipit dell’opera, di un libro ‹compilato per vulgaro per notar Petri Testa de Pulci et è extratto de diversi dotturi sufficienti›: l’ignoto notaio, che s’attribuisce il ruolo di compilatore dell’opera, volgarizza e amplia, più che altro, le sezioni geografiche delle Etymologiae di Isidoro, introducendo però anche elementi originali» (549). Nel manoscritto sono «presenti delle immagini strettamente collegate al testo. Si può dire, anzi, che i capitoli rappresentino quasi una didascalia dell’immagine: ‹Vediamo appresso in che forma fo fatto el mundo. E certo è che lu mundo fo fatto in forma de spera . . . ›» (551). Alessandra Debanne, «Per un lessico geomorfologico dell’italiano antico: sondaggi sul Compasso de navegare» (559-69): «Le più preziose fonti sul lessico marinaresco antico sono i portolani, libri di rotte che descrivono, secondo l’antica tecnica nautica del cabotaggio, la costa, i fondali, i porti e le relative distanze in miglia tra i vari punti d’attracco del Mediterraneo. . . . Il portolano più antico della tradizione italiana [è] Lo Compasso de navegare, opera anonima . . . La data è indicata nell’incipit: ‹In nomine domini nostri Ihesu Christi amen. Incipit liber conpassuum. m.cc.lxxxxvi de mense januarii fuit inceptum opus istud›» (560 e N4). L’autrice commenta accuratamente in questo studio «quattro termini di origine non indigena, tutti assenti . . . dai principali lessici dell’italiano antico» (561): «aiopelago, aççopelago»; «arquillata»; «ballumenoso»; «encamerato», commento che presenta non pochi motivi d’interesse. Manuela Montebello, «Varianti lessicali e stilistiche di Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini» (571-81): «Per il riconosciuto valore di esperimento linguistico e per la pluralità dei codici messi in gioco, Ragazzi di vita ben si presta ad un’analisi linguistica di tipo variantistico. L’incessante lavoro di scrittura e riscrittura di Pasolini è testimoniato dai due dattiloscritti originali del romanzo, depositati presso la Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II di Roma» (571), prima e seconda stesura - vicina alla stampa del 1955 -, che la studiosa ha potuto consultare e sui quali ha condotto il suo lavoro. «Un discorso a parte va fatto per il lessico volgare. Il trattamento del turpiloquio da parte dell’autore appare fortemente condizionato dalle pressioni dell’editore Garzanti che invitò esplicitamente Pasolini a ‹depurare› il linguaggio» (574): «Nel lavoro di attenuazione . . . cesso diventa gabinetto, ‹gli rodeva il culo› . . . semplicemente ‹gli rodeva› . . . ; zoccole è sostituito con prostitute. Al contrario, il neutro ‹gli toccò una natica› . . . viene trasformato nell’espressione di marca volgare ‹gli paccò una natica› . . . e ‹con aria filona› . . . diventa ‹con aria scoglionata›» (574-75). Emiliano Picchiorri, «La lingua del Viaggio di tre giorni di Luigi Ciampolini» (583-93). Ampia analisi, tra sopravvivenze dell’antico e prime attestazioni (con alcune retrodatazioni fornite in questo studio, p. 588), degli aspetti linguistici, e stilistici, del «breve romanzo pubblicato anonimo a Firenze nel 1832» di Luigi Ciampolini (Firenze 1786-1846), uno dei «prodotti più originali di questa moda» (583 e N2): la moda di imitare il Viaggio sentimentale di Sterne, diffusa nell’Italia letteraria del primo Ottocento. A proposito della varia presenza delle altre lingue nel testo, spesso in funzione di parodia: «Alla condanna degli esotismi più in voga . . . non corrisponde affatto un atteggiamento puristico di chiusura verso la lingua contemporanea, come confermano anche l’ironia diretta contro l’abate pedante e 297 Besprechungen - Comptes rendus una nota apposta alla fine di un capitolo ricco di francesismi: ‹Il Lettore, se appartiene alla classe dei puristi in fatto di lingua, potrà ad ogni buon riguardo letto il Capitolo, risciacquarsi ben bene la bocca con due periodi del Maestruzzo, del Pungilingua, o di altro simile elettuario›» (590). Giordano Meacci, «‹In terra di smarrimento›. Alcune note linguistiche su Res amissa» (619-28); non solo linguistiche, ma su ogni aspetto dei versi di Giorgio Caproni nella raccolta postuma Res amissa. «E in questo universo fonico imploso, il tempo e lo spazio di Res amissa sono anch’essi postumi: marchiati da quegli oltre e quegli ormai che segnano un tempo (quello dell’oltremorte, appunto) e la distanza dalla produzione precedente proprio mentre si sta creando una possibile raccolta. Di questo troviamo la piena corrispondenza sintattica nelle temporali implicite: in quei veri e propri ablativi assoluti che, spesso insieme a lacerti nominali, contribuiscono a scandire un tempo già compiuto: e che però si continua nelle giunte interrogative che lo proseguono, o nei frammenti narrativi parentetici che digradano - ancora - fuori dalla clausura dei versi» (626-27). «Nella raccolta mai finita - variante analitica di quel tipo di ‘infinito’ caro a Caproni, probabilmente - e quindi irrimediabilmente perduta di Res amissa, ci si trova in quella ‹terra di smarrimento› purgatoriale che è il giusto sfondo tanto per le ricerche ultime del poeta quanto per gli appunti interpretativi che ne sono condizionati» (628). Marco Paciucci, «Osservazioni sull’impiego del lessico della geometria nella fisica sette-ottocentesca» (629-39). Per finire in bellezza. «Analizziamo . . . alcune caratteristiche del lessico geometrico ‹ospitato› nel più ampio ambito della lingua della fisica attraverso il suo impiego in tre fortunati manuali sperimentali sette-ottocenteschi: le Lezioni di fisica sperimentale dell’abate francese Jean Antoine Nollet, tradotte in italiano nel 1762, gli Elementi di fisica sperimentale del medico e scienziato napoletano Giuseppe Saverio Poli, del 1798, e gli Elementi di fisica generale del religioso siciliano Domenico Scinà, composti nella prima metà del XIX secolo. . . . È necessario distinguere, all’interno di questo insieme lessicale che lato sensu possiamo definire geometrico, due principali categorie . . . Da un lato troviamo quelli che potremmo chiamare termini geometrici propri» (631); dall’altro «potremmo definire . . . [i] termini che sfruttano elementi della lingua della geometria per riferirsi a realtà concrete riguardanti la descrizione dei fenomeni naturali tecnicismi fisico-geometrici o geometrismi fisici» (635). Un esempio: la locuzione «centro di curvatura . . . possiede . . . un chiaro significato legato alla geometria euclidea . . . A questo significato se ne affianca però nei nostri manuali un altro, secondo il quale il centro di curvatura non è più un’astrazione matematica, ma un punto fisico ben preciso, corrispondente al centro di curvatura di un determinato punto del globo terrestre, e, per estensione, al centro stesso della Terra, sede apparente della misteriosa (per quei tempi) origine della forza di gravità» (636). In chiusura del volume, l’Indice dei nomi (643-61). Maria Antonietta Marogna ★ Helga Thomassen, Lexikalische Semantik des Italienischen. Eine Einführung. Tübingen (Niemeyer) 2004, 142 p. (Romanistische Arbeitsheft 47) Helga Thomassen hat mit der 2004 erschienenen Lexikalischen Semantik des Italienischen. Eine Einführung ein verdienstvolles Buch in einer verdienstvollen Reihe vorgelegt. Im Vorwort vermerkt sie mit Recht, dass es keine deutschsprachige Einführung in diesen Bereich der Italianistik gibt und die zur Verfügung stehenden italienischen Werke allesamt älteren Datums sind. Zudem stellt sie ausdrücklich den Bezug zu der in der gleichen Reihe erschienenen «Einführung in die Lexikalische Semantik für Romanisten» von Andreas Blank 298 Besprechungen - Comptes rendus