eJournals Vox Romanica 68/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2009
681 Kristol De Stefani

Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato

121
2009
Laurent  Vallance
vox6810045
Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Le Regole osservanze, e avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi (Napoli, 1545) di Paolo del Rosso, prima grammatica toscana del ’500 Anche nella storia della linguistica in Europa il Rinascimento è stato un momento decisivo perché allora si afferma la grammatica delle lingue moderne sviluppatesi nei secoli precedenti. Nella Romania il secolare processo di differenziazione linguistica che accompagnò l’espansione e lo smantellamento dell’Impero romano terminato verso l’anno mille è seguito prima dal sorgere delle varie letterature in volgare. Verso il 1500 si registra poi una svolta: le grammatiche, fino a tutto il ’400 quasi esclusivamente latine (del latino scritte in latino), diventano prevalentemente volgari (del volgare in volgare). Culla del Rinascimento, l’Italia capeggia anche in campo linguistico. Insieme alla Francia è il paese dove la produzione grammaticale è stata più abbondante: il numero di grammatiche del volgare stampate in Italia nel secolo XVI si aggira sulla settantina, tra cui solo un pugno scritte in latino. La stragrande maggioranza degli autori di questo nuovo genere letterario è originaria da regioni periferiche della penisola (Triveneto soprattutto e Campania) e i pochi grammatici toscani scendono in campo tardi, solo verso la metà del secolo - eccezion fatta del pioniere Leon Battista Alberti con la sua Grammatichetta (1440 ca.). Certo non indifferenti alla cosiddetta questione della lingua che ferve in quegli anni - si pensi al Discorso intorno alla nostra lingua (1524 ca.) di Nicolò Machiavelli o al Cesano de la lingua toscana di Claudio Tolomei (1529 ca.) - i Toscani appaiono più restii a codificare la lingua letteraria. Fino al 1545, le uniche opere linguistiche di autori toscani sono trattati di ortografia e fonetica: il Polito di Tolomei (Siena, 1525) e il Trattato de’ diphtongi toscani (Venezia, 1539) di Giovanni Norchiati. Il gruppetto delle grammatiche toscane del ’500 comprende le Regole osservanze, e avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi (Napoli, 1545) di Paolo del Rosso, gli Avertimenti sopra le regole Toscane con la Formatione de Verbi, & variation delle voci di M. Nicolò Tani dal Borgo San Sepolcro (Vinegia, 1550), De la lingua che si parla e scrive in Firenze (Firenze, 1552) di Pier Francesco Giambullari (Regole della lingua fiorentina secondo un manoscritto), le Regole della lingua thoscana (1553) di Michelangelo Florio (scritte in esilio a Londra), le Regole della toscana favella (1576 ca.) di Lionardo Salviati 1 . Solo 1 Si aggiungono le sottili osservazioni sul toscano contenute nelle pagine finali della grammatica latina Della lingua romana libri sei (Vinegia, 1540) di Francesco Priscianese - su cui Luigi Vignali ha richiamato l’attenzione in un articolo del 1980 -, nei due volumi degli Avvertimenti Vox Romanica 68 (2009): 45-97 Laurent Vallance due sono state finora studiate nell’ambito di un’edizione critica moderna (oltre a quella di Alberti; cf. Grayson 1964 e 1973 e Patota 1996): quella di Giambullari (Bonomi 1986) e quella di Salviati (Antonini Renieri 1991). Questo articolo mira a presentarne una terza, a lungo disconosciuta e trascurata dagli studiosi, per quanto interessante sia da un punto di vista storico e linguistico: le Regole osservanze, e avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana di P. del Rosso (Firenze, 1505-1569) 2 . Tornerò prima sulle curiose circostanze della sua creazione, analizzerò poi la lingua descritta e impiegata dall’autore - elemento determinante anche ai fini dell’attribuzione del testo a del Rosso - e infine situerò l’opera tra le grammatiche toscane coeve. 1. Le Regole osservanze, e avvertenze di del Rosso, prima grammatica toscana del Cinquecento Basta uno sguardo all’elenco cronologico qui sopra per constatare che le Regole osservanze, e avvertenze di del Rosso sono la prima grammatica toscana del ’500 e la prima mai uscita a stampa, quella pioniera di Alberti, oltre un secolo prima, essendo rimasta manoscritta e ignota fino al ’900. L’affermazione che il titolo spetti a quella di Giambullari è quindi più che opinabile, anche se la si trova in autori eccellenti, a cominciare da Bruno Migliorini già nel 1948 e poi nel 1960: «il suo trattatello De la lingua che si parla e scrive in Firenze, pubblicato nel 1552 (1551 stile fior.), che è la prima grammatica di un autore toscano dopo le Regole quattrocentesche [= la grammatichetta di Alberti]» (Migliorini 1960: 323, ribadito a p. 329). All’origine del mito ci sarà l’informata e influente Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza (1908), che nel capitolo V, La grammatica de’ Toscani (N. Machiavelli - C. Tolomei - G. B. Gelli e P. F. Giambullari), tace sia su del Rosso che su Tani (pur annoverando Machiavelli tra i grammatici . . .), e, senza dirlo esplicitamente, sembra considerare quale prima grammatica toscana le Regole di Giambullari. Donde forse l’errore di chi si avvale dell’autorità di Trabalza, forzandone il testo come Pietro Fiorelli (1956: 191 e N75): «il trattato De la lingua che si parla e scrive in Firenze, che è, com’è noto, la prima grammatica italiana d’autore toscano» «per non tener conto della cosiddetta grammatichetta vaticana del sec. XV, attribuita da vari a L. B. Alberti». Tutti e tre hanno dimenticato, oltre alle Regole di del Rosso, anche gli Avertimenti di Tani: altro che prima, quella di Giambullari è solo la terza grammatica toscana del Cinquecento 3 . 46 della lingua sopra ’l Decamerone (Venezia, 1584 e Firenze, 1586) di Salviati o in certi scritti inediti di Tolomei. 2 A tutt’oggi l’unico ad esservisi interessato è Francesco Sabbatino (1995) nei capitoli III e IV (Le Regole del fiorentino Paolo del Rosso nella «nobilissima cittade» di Napoli e «Per ragione di grammatica» Le Prose del Bembo, Il Polito del Tolomei e le Regole di Paolo del Rosso). 3 Da notare che anche Kukenheim (1932: 219-23) omette la grammatica di del Rosso, ma non quella di Tani. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato La doxa infine ha ricevuto la consacrazione ufficiale trent’anni dopo, nell’edizione curata da Bonomi 1986: «Le Regole della lingua fiorentina di Pierfrancesco Giambullari costituiscono, com’è noto, la prima grammatica fiorentina: o meglio la prima grammatica fiorentina uscita in luce, dopo quella quattrocentesca dell’Alberti, rimasta inedita e priva di risonanza» 4 (Introduzione, XXXV). Anche se restringe l’ambito a Firenze («fiorentina» e non più «toscana»), l’affermazione in fondo resta inesatta: la prima grammatica fiorentina era uscita, seppure lontano dalla terra toscana, ben sette anni prima 5 . Bonomi antepone Giambullari a del Rosso senza la minima spiegazione, ma diversamente dai predecessori, non ignora le Regole osservanze, e avvertenze, citate più volte in nota - il che segna un progresso. Nonostante l’assenza di obiezione da parte dei vari recensenti, ha saputo cambiare giudizio: dodici anni più tardi, infatti, Bonomi 1998: 339 presenta le Regole della lingua fiorentina come la «première grammaire publiée et composée par un auteur florentin». Spia della rettifica è l’ordine inconsueto dei participi passati («pubblicata e scritta»), in cui l’accento cade su «composée» quale secondo termine. Fermo restando che l’«opuscolo» d’Alberti è stato la première grammaire composée mais non publiée, la formulazione sembra sottenda l’esistenza di un’altra grammatica, la «première publiée, mais non (véritablement) composée par un auteur florentin» - la sintesi («publiée et composée») spettando poi al Giambullari. E questa grammatica intermedia (tra quelle di Alberti e di Giambullari) altra non può essere che quella di del Rosso. Tale correzione però era troppo criptata per innescare una rivalutazione dell’anello mancante: il primato di Giambullari è rimasto finora un cliché che ognuno va ripetendo 6 . L’unico elemento di spiegazione si nasconde proprio nelle circostanze particolari di stesura e di edizione della grammatica, cui avrebbero partecipato altre due persone. Conviene dunque incominciare da qui, e cercare innanzitutto di fare luce sulla genesi delle Regole osservanze, e avvertenze in modo da appurare la parte avutaci dal fiorentino Paolo del Rosso. 47 4 Si noti di nuovo l’inciso. 5 È vero che la locuzione grammatica fiorentina è ambigua: oltrecché «scritta da un Fiorentino», «in lingua fiorentina» o «che tratta della lingua fiorentina», può significare persino «stampata a Firenze». Ma il luogo di edizione non è certo il criterio più significativo per definire una grammatica e dalle citazioni risulta chiaramente che Bonomi aveva in mente piuttosto la prima accezione. Nel suo primo articolo sull’argomento, aveva usato una formulazione che calzava meglio: «Della grammatica del Giambullari, nota come la prima uscita in ambiente fiorentino, prescindendo dalle quattrocentesche Regole della lingua fiorentina . . . » (1978: 375). 6 Pur chiamandolo «fiorentino» - il capitolo III comincia addirittura così: «Il caso del fiorentino Paolo del Rosso . . . offre una preziosa testimonianza per avviare il capitolo sul magistero linguistico che i toscani esercitarono nella capitale del Viceregno spagnolo» (131) - Sabbatino non si cura di far valere i diritti di del Rosso, perché ritiene la sua grammatica in fondo culturalmente più napoletana che fiorentina, e stilisticamente più modellata sulle Prose della volgar lingua di Bembo che ispirata all’uso, malgrado qualche tentennamento. Laurent Vallance 2. Il giallo dell’edizione delle Regole osservanze, e avvertenze: un caso letterario Il frontespizio dell’opera difetta dell’indicazione dell’autore, la cui identità si evince dalla dedica. Il fatto, anche se raro, non è unico. Si possono fare almeno tre esempi: nella pagina di titolo della Grammatica volgar dell’Atheneo (Napoli, Giannes Sultzbach, 1533), Marcantonio Carlino si nasconde dietro il suo pseudonimo letterario e si scopre alla pagina seguente nella dedica in latino (Fabricius Iesusaldus/ M. Antonio Atheneo Carlino); il nome di Tizzone Gaetano manca dal frontespizio della Grammatica volgare trovata ne le opere di Dante, di Francesco petrarca, di Giovan boccaccio di Cin da pistoia di Guitton da rezzo (1539), pubblicata postuma ad opera del cugino Libero (che non lo cita nemmeno nella sua dedica) e stampata anch’essa da Giovanni Sultzbach; quello di Rinaldo Corso non compare nella pagina di titolo dei Fondamenti del parlar thoscano (1549) - dove l’editore, Comin da Trino di Monferrato, ha menzionato solo il luogo di stampa Venetiis - ma solo alla pagina successiva nella dedica all’amata (Ad Hiparcha sua Rinaldo Corso). Le Regole osservanze, e avvertenze risalgono al periodo di esilio a Napoli, dove il giovane del Rosso si è rifugiato sin dagli anni Trenta, per sfuggire alle persecuzioni del regime mediceo contro gli esponenti repubblicani (tra cui anche Tolomei). Ma nel 1545, quando escono, l’autore non è più a Napoli: l’anno precedente si è trasferito in Francia (sulla sua vita travagliata si legga la biografia di Simoncelli 1990). In assenza dell’autore, l’iniziativa della stampa è del libraio Domenico Gamucci, che così riferisce nella lettera di dedica (a Giovan Vincenzo Belprato, conte d’Aversa) in apertura del libro: Si che per la buona occasione, ch’egli [= Giovanthomaso Cimello] facilmente havria presa la fatica; & io così sarei diventato servidor caro à V. S. gli dissi che traducendo Messer Paulo del Rosso alchune opere latine in lingua volgare, e scrivendole io mi furo da lui dettate insieme alchune avvertenze di scrivere rettamente, quali se volea correggere, ampliare, & ordinare, io senza dubbio promettea dedicarle à V. S. il che mi parve, che gli fusse buona consolatione; e disse io ciò farò più che volentieri . . . E trà pochi giorni ciò mise in effetto (A2-v). Stando a questa unica testimonianza, rilasciata da un diretto interessato, le Regole osservanze, e avvertenze, scritte quindi a due mani (quelle di Gamucci e di Cimello), non sarebbero l’opera di un unico autore bensì di tre coautori. Questo caso letterario davvero singolare potrebbe spiegare l’assenza di qualsiasi indicazione d’autore: invece di segnare più nomi, si è preferito non menzionarne alcuno. Ma è probabile che le cose stiano ben diversamente. La genesi delle Regole, così come raccontata da Gamucci, è atipica quanto misteriosa. Non si capisce perché del Rosso non avesse steso le regole di sua mano - mentre la Biblioteca nazionale di Firenze conserva parecchi suoi manoscritti autografi - e fosse ricorso a un segretario 7 . Avesse egli abbandonato una brutta co- 48 7 Forse Gamucci mira innanzitutto a legittimarsi quale ‹esecutore del lascito› di del Rosso, presentandosi quale coautore (sia pure nelle modeste vesti di estensore materiale), possessore in Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato pia dell’opera, stesa magari in fretta e furia, è ovvio che sarebbe stato necessario emendarla prima di pubblicarla, ma non è verosimile che abbia dettato a Gamucci una bozza, sconnessa e scorretta (bensì semmai un testo già alquanto elaborato, come l’esordio). Gamucci poi non era analfabeta (se ritenuto da del Rosso degno di raccogliere la sua grammatica) e, a giudicare dalla dedicatoria, sembra fosse abbastanza pratico del volgare: perché allora, invece di sbrogliarsela da solo, chiedere a un terzo la revisione del testo che aveva trascritto personalmente sotto dettatura dello stesso autore? E perché tirare in ballo proprio Cimello? Un bel giorno, «in corte della Illustrissima S. Donna Giovanna Aragona de Colonna», Gamucci s’imbatte in Cimello «sdegnato e irato» perché «gli era stato rubbato un fascio d’opere sue, non corrette», tra cui, «quel che piu dannoso riputava», «un libro de brevissime regole della lingua volgare, qual gia volea mandare in luce, sacrandolo à V. S. & al Signor Giovanbernadino suo figliuolo». Se non è certo in grado di far tornare la grammatica rubata, il libraio possiede invece (per un caso straordinario) un altro testo «di brevissime regole della lingua volgare», che ben potrebbe sostituirla: quello lasciatogli da del Rosso. Non si può immaginare compenso più perfetto né consolazione più opportuna. Gamucci propone quindi a Cimello di rimaneggiare l’altrui grammatica - di modo che abbia il sentimento che sia diventata anche un po’ sua - esigendo per prezzo del suo aiuto una sciocchezza: il privilegio di dedicarla al conte (l’abbandono di questo onore da parte di Cimello funge da riconoscimento di debito). Per Cimello, è più rapido e facile «correggere» le regole già bell’e scritte da del Rosso che ricominciare tutto da capo e riscrivere interamente la propria grammatica: non sorprende che abbia accettato «più che volentieri» la proposta «diabolica» di Gamucci (magari ricevendo, o strappando, la promessa che il nome di del Rosso sarebbe stato cancellato almeno dal titolo). Ma come mai in Gamucci tanto zelo a confortare il povero Cimello? Per mera compassione? In assenza di altri documenti in merito, la risposta a tante domande prende necessariamente la forma di un’ipotesi, basata sul confronto dell’unica fonte disponibile con la scrittura della grammatica. All’ambizione apertamente confessata da Gamucci di diventar «servidor caro à [S.] S.», regalandogli un libro dedicato (un omaggio naturale da parte di un libraio) 8 , si associerà la sua voglia comprensibile di trarre qualche profitto dalla grammatica che da tempo gli giace inutile in cassetto. Mancando definitivamente l’imprimatur di del Rosso (ormai lontano e irraggiungibile), bisognava trovare una soluzione per farne formalmente a meno. Il modo migliore di aggirare l’ostacolo era svincolare la grammatica dai diritti dell’autore legittimo su di essa, trovando chi accettasse di «riscriverla» (as- 49 quanto tale di qualche diritto sul testo, almeno quanto basta per ritenersi abilitato a chiederne la revisione a Cimello. 8 Ecco la perorazione della lettera: «Onde restando sol, ch’io facessi la dedicatione promessa, ho voluto farla pur presto, e non co’l mandarnele una copia di mia mano; ma molte à stampa, si perche possa farne dono à molti amici . . . e da tutti che la vedano se sappia, ch’io sia perpetuo servidore di V. S. à cui quà bacio la mano inchinevolmente» (2v). Laurent Vallance sumendo pubblicamente questo intervento) e di farla pubblicare, senza pretendere molto in compenso. La cosa è piuttosto delicata e difficilmente Gamucci poteva agire in nome proprio. In quel frangente, il furto subito da Cimello appare davvero provvidenziale. Coll’incarico ufficiale di «correggere, ampliare e ordinare» il testo, Gamucci consegna la grammatica a Cimello, così da dileguare la proprietà morale di del Rosso e sbloccare finalmente la pubblicazione. Il ruolo di Cimello quindi sarebbe stato di «riciclare» per conto del libraio Gamucci la grammatica di del Rosso. All’insaputa dell’autore assente, si sarebbe svolta una transazione alquanto paradossale: Gamucci non avrebbe esitato ad «alienare» il testo della grammatica (che non era sua) a Cimello; e questi avrebbe accettato di stare al gioco e di adottare un testo che non aveva le carte in regola per l’adozione (senza il beneplacito di del Rosso), ritrovando sì la paternità di una grammatica, ma una paternità più fittizia che reale (visto che non è indicato come autore). Se il libraio risulta logicamente il maggiore benefiziario dell’operazione, la vittima principale è il vero autore, cui i due complici hanno difatti rubato la grammatica. E di questo furto hanno lasciato tracce: non solo hanno cancellato dal titolo il nome di del Rosso - che sarebbe rimosso totalmente dall’opera se un ultimo scrupolo non avesse spinto Gamucci a citarlo una volta nel passo della dedica riportato sopra - ma hanno immesso i propri nomi qua e là in certi esempi e soprattutto nei due luoghi più notevoli: in cima e in fondo alla grammatica. L’uno troneggia in capo alla prima pagina, nel titolo della lettera dedicatoria (AL .S. GIOVANVI N CENTIO BELPRA/ TO Conte d’Aversa. In Apruzzo. / Domenico Gamucci: A2v) e l’altro signoreggia in calce al testo nel titolo della quartina conclusiva in onore del conte (Ioan. Thom. Cimelli Tetrasticon Ad Vincentium / belpratum, Aversa Iit. Comitem: F2v). Apertasi con l’omaggio di Gamucci, l’opera si chiude con quello di Cimello, così da dare al lettore l’impressione che il primo sia l’editore e il secondo l’autore, e da far dimenticare del Rosso. Soppresso il suo nome dal frontespizio, i due non hanno osato andare oltre e sostituirlo con quello di Cimello e hanno preferito pubblicare la grammatica anonima 9 . Povero del Rosso dimezzato pubblicamente da due cortigiani spregiudicati: a uno la stesura, la pubblicazione e la dedica del libro, all’altro, ufficialmente, la correzione, l’ampliamento e il riordinamento del testo. Poiché non conosciamo la fisionomia, l’estensione né la composizione del testo originale - di cui nessun manoscritto pare si sia conservato, forse perché Cimello ha distrutto quanto prima un documento suscettibile di comprometterlo - è difficile pronunciarsi in merito e determinare la natura e l’importanza degli interven- 50 9 Un’anomalia evidente che è una spia dell’usurpazione: i titoli delle altre opere di del Rosso infatti portano la menzione (per m.) Paolo del Rosso (a volte con la precisione cittadino fiorentino), ad es. Le Vite de dodici Cesari di Gaio Suetonio Tranquillo. Tradotte in lingua toscana per m. Paolo del Rosso cittadino fiorentino (1544) - si veda l’elenco qui sotto alla N63. Del Rosso teneva al suo statuto d’autore, anche nel caso delle traduzioni (di cui parecchie sono state realizzate durante il soggiorno a Napoli). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato ti compiuti 10 . Tuttavia molti indizi suggeriscono che siano stati minimi - d’altronde il lavoro potè essere sbrigato «trà pochi giorni». Da correggere c’erano soprattutto (per non dire solo) i trascorsi di penna e gli sbagli sfuggiti all’attenzione dello scrivente. Complessivamente la lingua della stampa risulta corretta: gli errori presenti sono per lo più refusi, dovuti piuttosto allo stampatore, mentre può darsi siano meridionalismi, imputabili al fondo dialettale di Cimello, certe consonanti doppie che rafforzano indebitamente la sillaba iniziale atona, contro il testo che richiama l’attenzione degli scrittori appunto sulla distinzione tra scempie e doppie 11 - profferire (con una -fsolo in B2v e B3), accutissimo (A3v, per contaminazione di accusativo? ), Cammilla (C4v), immitarli (D, per contaminazione di immagine? ) 12 - oppure certi esiti vocalici non fiorentini: occurrendoci (A4), profundandosi (A4v). Emendare un testo in volgare toscano scritto da un Toscano era per un non Toscano quale Cimello un’impresa rischiosa: meno correggeva, meglio era. Un caso manifesto (e credo rivelatore) di mancata correzione è la frase accresciuta da del Rosso, «Io hò pregiato la virtù» (E3v): prima di tornare definitivamente al verbo iniziale, «Io sempre la virtù . . . hò sommamente pregiato» (3 volte: E4v-F), si legge successivamente amato, lodato, desiderato (E3v), poi di nuovo lodato due volte e desiderato (E4) - tali oscillazioni, tipiche di un dettato (e che a distanza di così tante righe sarebbero naturali persino in un testo scritto), andavano spianate in vista della stampa. Da riordinare ci doveva essere ben poco e la struttura stessa dell’opera, compatta e con frequenti riepiloghi, non lascia immaginare grandi margini in questo senso. Altrettanto dubbio infine l’ampliamento. Fatto sta che la grammatica stampata è brevissima (un «trattatello», la definisce l’autore, di una ventina di fogli: accanto a quelle di Alberti e di Acarisio una delle più stringate del Rinascimento), e, per forza, anche ellittica e lacunaria, offrendo ampi spazi al completamento. L’autore presenta, sì, tutte le parti del discorso, ma non s’inoltra nella morfologia, 51 10 Sabbatino (1995, in particolare 132-36 e 139-42) ha sottolineato le incertezze che circondano la composizione della grammatica rinunciando però prudentemente a indagare e a districare quanto spetti a del Rosso o a Cimello. Accettando il racconto di Gamucci, parla rispettivamente di «paternità naturale» e «adottiva» (131): «Su questa dedica si levano numerosi interrogativi, destinati a rimanere tali . . . Di fronte alla reale impossibilità, al momento, di dare risposte utili, che permettano di marcare nettamente le stratificazioni del testo e di definire quanto sia rimasto del nucleo originario, quanto sia stato aggiunto successivamente e quanto sia stato corretto, occorre prendere atto del fatto che, pur rimanendo la paternità di del Rosso formalmente riconosciuta, il testo appartiene anche al Cimello, il quale ricevette in adozione la grammatica, con la mediazione di Gamucci, e la fece crescere come volle e come gli fu possibile» (140). 11 Particolarmente importante in Toscana e spesso delicata per gli Italiani di altre regioni: «anchora avvertete di non lasciare nello scrivere qualche lettera nella penna, come scrivendo porete, in vece di porrete, tutavolta per tuttavolta, capone in vece di cappone, balare, in vece di ballare, & cosi pe‘l contrario por due consonanti ò vero raddoppiarle dove una sola e scempia ne harebbe ad essere» (C3v). 12 Fenomeno già rilevato da Fortunio, che riteneva che tali voci «piu segu[issero] la romana pronontiatione chella tosca» (30v). Laurent Vallance nominale o verbale che sia. Cimello aveva quindi l’imbarazzo della scelta: a p. Cv, poteva coniugare (ai tempi proposti da del Rosso) i quattro verbi menzionati quali esempi dei quattro «colonnelli» (amare, vedere, udire, leggere); a p. C3, ricordare che «li nomi de‘l maschio parlando d’un solo finiscono in o in i & in e» nonché in a, oppure soffermarsi sui nomi invariabili; a p. C3v, sviluppare la formazione degli altri tempi verbali (il testo evoca solo il presente indicativo); a p. C4, a proposito del passivo, soggiungere almeno la coniugazione del «verbo sostantivo» essere. Invece, tutto questo manca. Salvo ad avanzare l’ipotesi - assurda - che il testo di partenza fosse scheletrico, è giocoforza concludere che Cimello non l’ha integrato. Invece di rielaborare la grammatica altrui, avrà fatto solo finta: la sua parte si sarà limitata a coniare alcuni exempla ficta con il nome suo e di Gamucci, di Belprato e della moglie, per dare a intendere che avesse scritto egli il testo per Belprato: «appresso a Giovanvincenzo, intorno a Sulmone» (B2), «io amo L’antonina tucia, tu ami la Costanza tolfa» (C4). D’altronde, se così non fosse, non avrebbe egli giustamente preteso a un riconoscimento formale più netto del suo lavoro (altro che le scarne parole spese nella dedica da Gamucci)? Tutto sommato si giunge a una conclusione chiara: se il testo della grammatica di del Rosso non è certo interamente di sua mano, gli interventi di Cimello sono stati solo cosmetici e superficiali, non tali comunque da metterne in forse l’attribuzione. Le Regole osservanze, et avvertenze, titolo compreso, vanno attribuite a del Rosso: non ve n’è miglior prova che la lingua descritta e usata nel testo, come ora si vedrà 13 . 3. Delle regole per scrivere, in una veste tipografica innovativa Conformemente al titolo dell’opera, l’autore propone raccomandazioni per scrivere, come molti suoi colleghi grammatici. Insiste su questo punto sin dal preambolo: «Volendo con facilità, a chi non hà al meno i princípij della Grammatica, ciò è dell’Arte de’l bene, e rettamente scrivere; ò la Latina, ò la Toscana lingua, anchora chiamata volgare, dimostrare in che modo s’habbia a rettamente scrivere, quello che bene, e rettamente s’è pensato; fà dimestiero, cominciare un poco da alto a ragionare» (A3). Il verbo scrivere, qui usato due volte, ricorre spesso lungo tutta l’opera. Convinto che il canale scritto ha esigenze sue proprie 14 , del Rosso insiste molto sull’ortografia (5 pagine: B3-B4 poi Cv-C3, vale a dire quasi un ottavo dell’opera), 52 13 Altri indizi si potrebbero desumere forse dall’analisi della scrittura di del Rosso così come risulta dai manoscritti autografi conservati a Firenze e dalle altre sue opere stampate. 14 «Anzi se gli huomini sono avvertiti ne‘l profferire, molto più debbono essere avvertiti nello scrivere; percioche come, che la scrittura resti, e la parola passi, cosi avviene anchora, che quelli, che ascoltano chi parla, stando vigilanti e desti, meglio vengono ad intendere e non restano offesi, quando pure ne‘l profferire sentissero qualche errore: ma molte volte leggendo accade, che li sensi un poco s’addormentano, & perciò bisogna, che la scrittura sia chiara & aperta» (D2). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato in particolare sulla scrittura delle consonanti doppie o della h. Dà pure molta importanza ai segni diacritici - accenti acuto, grave e circonflesso, apostrofi rivolti verso sinistra (’) o verso destra (‘) secondo che la lettera elisa appartiene alla parola precedente o alla seguente 15 - e alla punteggiatura - prescrive ben sei specie di punto oltre alle parentesi: «Punto fermo . Sospeso , Dipendente; Dapperse: Intromesso () Condoglienza! » (E4v) e «inforse, ò vero interrogamento in questo modo? » (F) -, cui sono concesse rispettivamente quattro (Dv-D4v) e sei pagine (E3v-F2).A guidare l’uso di questi segni, deve essere l’economia. Perché risulti utile, l’accento va usato solo quando necessario: «non bisogna segnarli tutti [= gli accenti], che sarebbe cosa soverchia; oltre che darebbero bruttezza e confusione in vece d’ornamento e di chiarezza» (D2), bel principio contraddetto dall’accentazione sistematica dei monosillabi anche fuori da ogni ambiguità. L’uso dell’interpunzione poi viene illustrato in una sequenza di quattro pagine (E3v-Fv), che forma quasi la coda dell’opera, da una frase modello di ben 16 righe (quasi mezza pagina) a cui del Rosso giunge a partire da una cellula di base (Io hò lodato la virtù) progressivamente ampliata e sviluppata dall’aggiunta di una serie di proposizioni dipendenti e secondarie (dall’autore chiamate accrescimenti o accresciuti: E3v). Un insolito esercizio di stile che trasforma una dichiarazione banale e realistica in una frase virtuale e surrealistica dalla complessità bembiana. Cosa intenda del Rosso per scrittura «chiara & aperta» lo rivela anche un altro aspetto formale. Mattio Cance, lo stampatore bresciano della grammatica, si è giovato di due serie di caratteri dello stesso corpo: il testo è in corsivo e gli esempi, le forme trattate o commentate nonché i termini tecnici sono evidenziati in tondo (salvo nelle numerose annotazioni marginali, che indicano il contenuto del testo a fronte, tutte esclusivamente in corsivo).Applicata con grande rigore dall’inizio alla fine del libro (malgrado qualche omissione come Pecchie: A3, thomaso vo ad Arpino: B, vedei: D3v), questa disposizione, non rompe l’unità tipografica della pagina stampata come l’alternanza di minuscole e maiuscole utilizzata da Sultzbach per La grammatica volgare di Gaetano, a seguito della prima edizione delle Prose della Volgar lingua (preferibile però alle sbarre poco visibili che precedono le forme citate nelle Regole di Fortunio).Anche se non si può escludere un’iniziativa del correttore o dello stampatore (che ha svolto in ogni modo un lavoro accuratissi- 53 15 «Resta hora che voi sappiate come tagliando un’° per mezo se ne fanno doi segni ‘’ come vedete l’uno volto al contrario dell’altro il primo de quali si segna sopra le consonanti delle voci che seguitano dopo l’altra voce terminante in vocale ogni volta, però che cominciando la detta seguente voce da vocale, essa Vocale s’è levata percioche‘l mezo, ò vero lunetta sta in vece e per segno della detta vocale come dicendo de‘l, che vuol dire de il & per essere levato la I, s’è sopra la L segnata quella lunetta: L’altro volto al contrario si segna quando manca la vocale nella quale termina la voce antecedente, come scrivendo l’amore, ciò è lo amore, ma per esserne levato la O, s’è segnato in suo cambio quella lunetta ò vero segno ’ volto al contrario sopra la L» (D4). Una distinzione ripresa nella sua Grammatica da Citolini trent’anni più tardi in Inghilterra: «l’apostrofo ha queste due forme. ‘’ la prima mostra il mancamento de la vocal precedente; come l’Imperatore, l’invidia: la seconda de la seguente; come lo ‘mperatore, la ‘nvidia» (15v). Laurent Vallance mo 16 ), è verosimile che tale distinzione fosse già presente nel manoscritto lasciato a Gamucci, e voluta da del Rosso. Comunque sia, le Regole osservanze, et avvertenze riescono la prima grammatica italiana a sfruttare fino in fondo le risorse offerte dalla stampa per separare formalmente il discorso metalinguistico dal suo oggetto o dagli esempi illustrativi 17 . Ma per il resto il testo, come quello di molte altre grammatiche italiane del tempo, non è suddiviso in capitoli né in paragrafi: è un blocco monolitico (non c’è un solo capolinea in quaranta pagine), appena interrotto ogni tanto da uno spazietto bianco in mezzo a una riga (come nella prima edizione delle Prose di Bembo). 4. Un’apologia di un alfabeto fonetico e di una scrittura che rispecchi il discorso orale Se si addiziona il numero delle pagine dedicate all’ortografia, alla punteggiatura e agli accenti, si arriva almeno a 18; quasi metà dell’opera viene così dedicata alla scrittura del toscano: una differenza essenziale rispetto alla grammatica di Alberti, la cui attenzione allo scritto si focalizza sulla riforma dell’alfabeto in senso fonetico nei paragrafi iniziali (2-3). Anche se non presenta nessun progetto, del Rosso pure è sensibile a questo tema. La grammatica è cosparsa di accenni alle proposte di riforma ortografica discusse all’epoca: notazione del grado d’apertura relativa delle vocali e e o di Trissino (A3, B3), soppressione della h etimologica (C1v-C2) o distinzione tra i vocale / i/ e consonante / j/ (C2) - meno rilievo è dato all’opposizione parallela tra u vocale / u/ e consonante / v/ . La grammatica comincia con una lunga presentazione delle lettere dell’alfabeto, notevole in quanto del Rosso insiste soprattutto sulla loro pronuncia. Se l’avvertimento sulle due pronunce di e e o è classico (lo si trova già nelle Prose di Bembo, II 10 e gli esempi illustrativi, mele, torre, ricordano quelli della famosa epistola di Trissino al papa del 1524 18 ), le osservazioni sulle consonanti sono più originali: «Quanto al B vi potrei più largamente mostrare la familiarità la quale ha con l’V quando è consonante, & similmente co ‘l P & con lo M ma ciò non fa al proposito nostro . . . Bastivi per hora sapere, che egli si scambia con lo V tale che noi dicia- 54 16 Tra gli errori più spiacevoli, la dimenticanza, di un «punto dipendente» in una frase destinata ad illustrare il suo uso a p. Fv: «Se egli pregiasse la virtù ; sarebbe veramente degno d’honore». 17 Da osservare infine che la congiunzione coordinativa e (spesso sostituita da &) è sempre stampata con un carattere speciale, che la contraddistingue dalla 3 a persona dell’indicativo presente di essere o dal pronome personale soggetto, scritti con l’accento grave (è): una e con una codetta attaccata all’occhio (presente anche nel manoscritto della grammatica di Citolini, ma per differenziare la e aperta dalla e chiusa: cf. di Felice, 168, 172). Anche Alberti, oltre a distinguere la e aperta dalla e chiusa, illustrate rispettivamente dalla congiunzione (ae) e dall’articolo determinativo (e’), aveva creato un segno speciale, apparentemente superfluo, per la forma verbale di essere (e‘), come se la sua pronuncia non fosse aperta come quella della coniunzione (Grammatichetta, §3). 18 Ispirato a quello degli avverbi di Trissino (§86) sembra pure il catalogo delle adherenze di parole a pag. B-v. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato mo Boto, & Voto . . . » (B3). A differenza di Trissino, del Rosso si è scordato, come Alberti, che la s, come pure la z, ha due pronunce, sorda o sonora, e come tutti gli altri ha dimenticato che accanto alla u consonante / v/ e vocale / u/ esiste una pronuncia semiconsonantica / w/ . Del Rosso non nasconde di preferire un’ortografia che rispecchi precisamente e fedelmente la pronuncia, dunque un alfabeto fonetico, come avevano proposto, senza successo, oltre ad Alberti, Trissino e Tolomei 19 : Similmente Meta, che diversamente profferita ha tre significati, & cosi molt’altre voci senza numero: Ma se bene ciò è vero, tuttavolta poi ch’alchune voci si ritrovano scritte, le quali si possono in qualche modo differenzare, non mi pare da biasimare la diligenza di chi come differenti le segnasse, & se bene dirado s’erra, basta quel poco che s’erra, e che si pûo errare a persuadere che è si deve fare qualche differenza di scrittura sopra quelle voci, dove non la facendo si pûo prenderne una per un’altra. Oltraciò a volere corretto scrivere, bisogna scrivere in quel modo scrivendo, che profferendo si distingue (D2). Questa preferenza poggia su motivi pragmatici evidenti: rendere il codice scritto il più preciso possibile serve ad evitare ambiguità e confusione (anche se un alfabeto fonetico è impotente a distinguere veri e propri omonimi o le diverse accezioni di una parola polisemica) e ad eliminare quanto ostacoli inutilmente la comunicazione. Del Rosso è consapevole che la lingua orale preceda la lingua scritta. Come spiegare altrimenti che l’articolo sia lo e non il davanti ai nomi comincianti da due consonanti? «E l’articolo lo a nomi che cominciano da vocale e da due consonanti delle quali sia la prima S . . . per lo duro proferire» (B2v). Che convenga adeguare la scrittura alla pronuncia è un punto di vista diffuso all’epoca: anche nella prima grammatica italiana a stampa, quella di Fortunio, viene più volte ribadito che la «penna deve esser seguitatrice» della «pronontia» (24). Ma per del Rosso la scrittura deve pure tener conto di considerazioni grammaticali e farsi analitica per evidenziare ad esempio la composizione delle preposizioni articolate: «& come anchora dicendo, ò per dir meglio scrivendo, dal, del, al, nel, dovete scrivere da‘l, de‘l, a‘l, ne‘l, con la lunetta rivolta alla L» (Ev) (che ripete: «scrivendo al, del, dal, nel, per ragione di Grammatica havete à Lunettare la L in questo modo a‘l, de‘l, da‘l, ne‘l»: E) 20 . Una posizione equilibrata tra esigenze di chiarezza comunicativa e voglia di rappresentare l’organizzazione sintattica della frase, tra uso e ragione. 55 19 All’amico e alla sua intelligenza del Rosso (membro dell’ordine dei cavalieri ierosolemitani) tributa un omaggio personale sentito, che contrasta con il rispetto formale (più ecclesiastico che grammaticale) con cui parla di Bembo: «trà glialtri n’hà scritto il Bembo, hoggi Reverendissimo Cardinale; e particolarmente da Messer Claudio Tolomei huomo d’accutissimo ingegno . . . si come anchora egli, molte altre cose utilissime, e belle alla grandezza, e leggiadria de’l parlar nostro, và ogni giorno iscogitando» (A3v). Il secondo riferimento al cardinale è inserito in un passo tra parentesi «leggendo le prose de‘l Reverendissimo Bembo» (Ev). 20 Da notare che questo tipo di lunetta (‘) non viene mai usato nelle prime quattro pagine della stampa, dove tutti gli apostrofi sono classicamente rivolti verso sinistra (’). I due tipi di lunetta alternano regolarmente solo dalla pagina B in poi. Laurent Vallance Seppure appartenenti alla dimensione scritta della lingua, i segni diacritici e certi punti ovviamente mirano anch’essi a rappresentare sulla pagina particolari modalità di pronuncia di suoni, parole o frasi, cioè tratti pertinenti alla dimensione orale, che la combinazione delle singole lettere dell’alfabeto non basta a simboleggiare: l’accento tonico (città), la melodia della frase e l’intonazione (? o! ), le pause (, o .) 21 . Se del Rosso intende dare regole per «scrivere correttamente la lingua toscana», queste non consistono mai in una rigida e cieca osservazione di modelli o usi tradizionali (tranne il lungo catalogo delle parole da aspirarsi: Cv-C2, improntato a una sterile pignoleria ortografica). Sensibile alle specificità del codice scritto, si preoccupa innanzitutto della relazione tra scrittura e pronuncia. L’ortografia non è per lui questione di dogma ma di comunicazione. 5. Un grammatico che non fonda la sua grammatica sugli autori del passato Se le Regole osservanze, e avvertenze sono destinate agli scrittori e insistono fortemente sull’ortografia, va sottolineato che non pertanto del Rosso fonda la sua grammatica sulla letteratura. Prende decisamente le distanze dai modelli letterari di una volta, a cominciare da Boccaccio, e da chi, come Bembo (o Fortunio) traeva le sue regole dall’osservazione dell’osservanza di quegli autori. La sua non è una grammatica di scrittori. Il nome dell’autore del Decameron, libro di riferimento per Bembo, è menzionato una volta (come quelli di Tibaldeo o Serafino), nemmeno in modo autonomo, ma solo nella locuzione «diligenti osservatori di Dante, de‘l Petrarca, e de‘l Boccaccio» (C4v). Del Rosso non gli concede l’onore della pur minima citazione. Dante e Petrarca sono evocati in tre o quattro occasioni, per lo più con tono molto neutrale 22 . Le tre corone occupano un posto davvero marginale. Tra i grammatici precedenti, solo Alberti e Trissino avevano fatto a meno degli autori più radicalmente. Letterato fine e colto, del Rosso non ha ovviamente nulla contro i grandi scrittori del ’300, ma la lingua da scriversi ormai non è più la loro. Il rifiuto di codificare una lingua letteraria museale si legge tra l’altro nel rigetto delle parole della lingua antica che del Rosso percepisce come arcaismi, per esempio guari - citato nondimeno più su tra gli avverbi «ch’à tempo appartengono» (B) -, altre- 56 21 «havete à considerare come [gli accenti] nascono da‘l profferire, e che è sono suono di voce, per lo che si viene à comprendere . . . come ciaschuna sillaba di qualunque dittione ò vero parola è accentuata percioche tutte hanno suono» (D2). 22 «Io hò ò vero haggio usato da i Poeti & anchora habbo, ma non perciò da usare molto con tutto che Dante l’habbia usato» (B4), «troverete hebe detto da‘l Petrarca, & se non che’l suo lume a l’estremo hebe» (Cv), «halla usata il Petrarca [la x] in alchuni luoghi percioch’al suo orecchio hà dato in tal modo più suono al verso» (C2v), «Dante disse le Peccata» (C3v), «come il Petrarca questi m’ha fatto men amare Iddio» (D). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato sì e costinci: «lasciando però indietro guari, altresì, costinci, & cotali altre voci antiche; & cosi alchuni modi di dire, c’hoggi ne’l vero per lo più sono rifiutati, anchora da quelli che bene scrivono: & per dar lor bando ne cominciano a volare li cartelli per l’Italia» (D) (con quanto gusto del Rosso usa l’iperbole). Ora Bembo menziona queste tre parole senza riserva sul loro uso, precisando soprattutto il loro significato; anzi mentre di guari osserva che è molto usata da gli antichi (il che non vuol dire che è antiquata), propone di estendere l’uso di costinci anche alla prosa 23 . Che umorismo graffiante poi nel commento: «rifiutati anchora da quelli che bene scrivono», a sottindere che i buoni scrittori hanno tendenza ad abusare di simili arcaismi, ai quali sono gli ultimi a rinunciare, e che, per «scrivere bene» «oggi», non c’è affatto bisogno di imbarazzarsi di tale vecchiume 24 . Stesso umorismo per difendere la forma popolare boto (per voto), una pronuncia (e una grafia) più frequente al sud dell’Italia, ma attestata anche in Toscana (e impiegata da Boccaccio: cf. Rohlfs: §167). Con tono semiserio il cavalier del Rosso prende in giro la severità di chi la censura: «a scrivere Boto non è peccato mortale, e non hà si mal suono, come pare ad alchuni» (B3), senza condannare però la forma più sostenuta (subito dopo invece nel riferire il fenomeno inverso, tipicamente meridionale: cf. Rohlfs: §150, preferisce le forme toscane con b: «Baciare ha miglior suono che se egli si dicesse Vaciare; & cosi dicendo Bottega ha miglior suono, che se egli si dicesse Vottega»). Raccomanda un uso differenziato delle due varianti, consigliando la prima nella corrispondenza e la seconda nei componimenti letterari: «al fiorentino consiglierei, che nelle lettere Mercantili e Famigliari scrivesse Boto per accommodarsi a l’uso di glialtri soi & poi venendogli voglia di far qualche compositione in verso ò prosa, che scrivesse Voto» (B3). Quella popolare è della lingua standard, da usarsi nella comunicazione quotidiana (e sarà anche adatta all’orale, perché non marcata), quella latineggiante appartiene al registro letterario (e rischia di stonare nella conversazione). Tale distinzione stilistica tra scrittura pratica (personale o professionale che sia) e artistica è notevole e inconsueta all’epoca, giacché gli altri grammatici si limitano solo agli usi letterari. 57 23 Si vedano le Prose della volgar lingua, I 10, III 37 e III 63, 67 e 57. 24 Già un paio d’anni anni prima nella sua Lettera in difesa de la lingua volgare (Vinegia, 1540), Citolini, anche lui vicino al Tolomei, si era squagliato contro la moda arcaizzante citando di seguito le tre parole prese di mira da del Rosso: «hor vedete che esso [= Cicerone] fece tutto il contrario di quello che fan costoro che così strettamente si legano, i quali non si stimano poter’esser tenuti buoni scrittori, se le lor carte non puzzano di uopo, testè, hotta, altresì, guari, costinci, sezzai; e se non ficcano unquanco in un sonettuzzo, perche hanno l’affettazione per imitazione . . . » (13v). Che queste parole siano sopravvissute fino a oggi è una delle tante prove che la linea arcaizzante abbia avuto la meglio su quella modernista. Laurent Vallance 6. Un grammatico che rifiuta la dicotomia tra lingua della poesia e lingua della prosa Il discrimine per l’uso di boto o voto è di natura sociale e non ha nulla a che vedere con le categorie letterarie di poesia o di prosa, anzi. Si ritrova una stessa distinzione meramente formale tra prosa e poesia più avanti: «percioche componendo ò Verso ò Prosa vi servirà tale avvertenza a volere che quello chè sia appiccante e grave, ò vero leggiero e corrente secondo che tornerà bene al vostro orecchio» (E2v). Va sottolineato che le allusioni alla lingua poetica, promesse dal titolo dell’opera, sono rarissime, e sempre discrete e fugaci: «La R & la L si scambiano come vedella in vece di vederla, & questo per lo più da Poeti s’usa per cagione della rima» (C2v). Qui si tratta tutt’al più di licenza poetica. Bersaglio poi di una delle battute più polemiche dell’opera è la duplice ortografia delle preposizioni articolate che alcuni vogliono distribuire tra poesia e prosa: «& troverrete i migliori scrittori haverci fatto questa differenza ciòè a lo s’habbia a scrivere ne‘l verso, & allo nè le prose, di che non sanno per ventura la ragione» (D4v). Questi esempi autorizzano a pensare che, per del Rosso, non ci sia differenza tra i due registri: non ci sono due lingue toscane, una per la prosa e un’altra per la poesia, ma una sola lingua, da parlare e da scrivere. Il titolo dunque non inganni: in prosa non vi si oppone a in versi; le due espressioni sono accomunate. Poesia e prosa non sono due cose ma tutt’una. Discretamente, senza dichiarazioni reboanti, viene così contestato uno dei dogmi della dottrina difesa da Bembo 25 . Poesia o prosa, poco importa: la grammatica e le sue ragioni ignorano i confini dei generi letterari. 7. Un grammatico che si ribella contro il culto dogmatico della lingua trecentesca La ribellione contro il culto della lingua delle tre corone non investe solo certe opzioni stilistiche di Bembo o dei suoi seguaci come nel caso di guari, altresì e costinci oppure dell’opposizione tra prosa e poesia. Concerne anche la grammatica vera e propria. Essa culmina a proposito della famosa questione dell’uso di lui o lei come pronome personale soggetto: Hora compreso tutto ciò havete a sapere come li corretti scrittori & diligenti osservatori di Dante, de‘l Petrarca, e de‘l Boccaccio hanno avvertito come egli, eglino, ei, è, ella, elle, elleno, e chi, sempre si pongono nella parte che và innanzi alla parola ciò è secondo li latini ne‘l no- 58 25 Che consiglia ad esempio niuno per la prosa e nessuno per la poesia e corregge sistematicamente nessuno in niuno nella revisione del manoscritto delle Prose (perché, come dice Fortunio, «questa voce niuno over niuna non hanno usata gli dui poeti toschi, ma il Boccaccio in molte parti delle novelle la ha lassata iscritta», 21): una dicotomia lessicale mantenutasi poi fino al secolo diciannovesimo. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato minativo ò vero retto, & cosi lui, lei, e cui, non mai si pongono nella parte che và innanzi; ma si bene si possono porre in ciaschuna delle parti che vanno dopo perche sono obliqui d’egli, ella e chi. Dante in un luogo ne‘l suo convivio non hebbe tale avvertenza havendo posto lui nella parte che và innanzi alla parola e similmente fece‘l Sanazaro dicendo anzi gli‘l vinsi e lui non volea cedere. Ne fù usata questa regola ne molte altre da‘l Pico, Politiano, da‘l Benivieni, dal Tibaldeo, dal Serafino, ne da glialtri ch’al tempo di questi scrissero in volgare. E però come che ancho molt’altre cose habbiano straccurate quanto alla lingua, non sono da quelli c’hoggi scrivono approvati per immitarli: Vogliono pertanto costoro, che è si dica egli amò Vi[n]cenzo belprato; & non lui amò Giovanbernardino belprato ò vero Vincenzo belprato fù amato da egli: & così egli si servi di lui; & non lui si servi di egli, egli portava reverenza a lui; & non lui portava reverenza a egli; il medesimo osservando d’ella, & di lei; & se alchuna accettione ci sarà la potrete avvertire leggendo come sarebbe, che il Petrarca ha detto girmen con ella, & non girmen con lei (C4v-D) 26 . Qui la critica si precisa. Del Rosso distingue Dante, Petrarca e Boccaccio dai loro emuli e ammiratori. La pratica della lingua dei primi non è così coerente e monolitica come lasciano intendere le regole rigorose tratte dai secondi per dare lezioni sul buon uso. In termini molto diplomatici, mediante perifrasi cortesi e generiche («li corretti scrittori & diligenti osservatori», «quelli c’hoggi scrivono»), saranno Bembo e i suoi seguaci a venir presi di mira, il loro modo di decidere quel che si può o non si può scrivere, il loro ruolo di censori ufficiosi dell’uso. La rottura è segnata nettamente dalle parole «Vogliono pertanto costoro»; il pronome costoro esprime perfettamente la presa di distanza da quella gente, mentre l’avverbio chiarisce la manipolazione: una volta condannati i testimoni imbarazzanti (dichiarati indegni di essere imitati) e occultati i loro controesempi, uno può comodamente «volere» quel che gli pare 27 . Significativamente il passo procede a un lungo elenco di autori che non hanno rispettato la regola in questione, e si apre e chiude con due eccezioni, la prima e l’ultima mutuate da autori «approvati»: una di Dante (che non ha però l’onore di una citazione) e di Sannazaro all’inizio, una di Petrarca per concludere, inserita in una domanda retorica al lettore, dove del Rosso giustappone il verso qual è e il verso quale sarebbe dovuto essere, terminando con la negazione della forma prescritta 28 . Quel che del Rosso denuncia, in questo paragrafo inconsueto, è l’impostura di certi colleghi troppo corretti e troppo (poco) diligenti: pretendono di esercitare un magistero morale del buon toscano traendo autorità da quella di Dante 59 26 L’uso della forma alterata per metatesi straccurare (‘trascurare’ e non ‘curare eccessivamente’) invece di trascurare - già attestato prima: «sempre sarete à tempo à straccurare tal soverchia diligenza» (C2) - dimostra che l’autore, che usa poi trascuraggine (E2), non ha scelto una lingua dotta. 27 Si noti la stessa diffidenza nei riguardi dei grammatici latini, nettamente distinti dalla gente latina: «& se bene li Latini, ò per dir meglio li S c rittori delle regole de’l parlare latino hanno detto, che di queste [consonanti] la L M N R S X Z sono mezzevocali . . . si sono in questo ingannati» (A3v). 28 Esempio già sottolineato da Fortunio: «Ma non mi par di posporre li essempi nelli quali siano in casi oblichi: Pet. nella Canz. XXXIII» (9v). Laurent Vallance e di Petrarca in materia di lingua, ma senza riferirsi fedelmente al loro uso, anzi deformandolo. 8. Un grammatico preoccupato di proporre anziché imporre, di comunicare anziché convertire Del Rosso mette in causa la legittimità dell’autorità rivendicata da certi grammatici contemporanei e il loro passatismo dogmatico. Pur essendo toscano, e autorizzato a dire quale sia l’uso linguistico della propria regione, rifiuta, con grande coerenza, di ergersi egli stesso ad arbitro o a direttore d’eloquenza che prescriva altrui come debba scrivere: Non voglio che queste regole & osservanze di corretto scrivere vi servino in questa ne in altra parte in luogo di precetto e comandamento come assolutamente così, ma solamente in luogo di consiglio e di conforto, & più vi giovino ad osservare da qui in poi come correttamente si scrive, & la ragione d’esso corretto scrivere ch’ad havervi posto innanzi cotali osservamenti e ragioni (E2). Qui come altrove nella grammatica conviene sottolineare l’iterazione della nozione di «corretto». A differenza di altri, che scambiavano bene scribere e recte scribere e col pretesto di proporre una norma grammaticale imponevano una norma stilistica, del Rosso dà unicamente regole per scrivere correttamente, cioè grammaticalmente - come Alberti, che concepisce il suo opuscolo come «ammonitioni, apte a scrivere e favellare senza corruptela» (§1). L’espressione correttamente scrivere, che figura significativamente sin dal titolo, torna spessissimo lungo tutta l’opera - forte indizio questo per attribuire il titolo a del Rosso 29 . Del Rosso intende dare ai lettori semplici consigli, richiamare la loro attenzione sull’uso e sensibilizzarli ad esso, di modo che capiscano la posta in gioco e poi, a partire dall’osservazione autonoma delle opere, possano scegliere in cognizione di causa il proprio modo di scrivere: ricerca non già un consenso cieco, ma un accordo ragionevole. Invece di imporre la propria norma, di modellare lo stile di chi legge o di fornirgliene uno bell’e fatto, vuole sviluppare la sua coscienza linguistica. Un’ambizione poco banale più volte ribadita, ben lungi dal dogmatismo di alcuni suoi predecessori - anche se sembra a volte solo un pretesto per non entrare in questioni complicate, come a proposito dei nomi: «Ma per ciò che l’andare in questo profundandosi richiederebbe altro ordine, & a me basta havervi più desto l’animo» (A4v- B). 60 29 «per farvi accorto a correttamente scrivere» (C3), «quelli che‘l ben pensato e ben ordinato e disposto vogliono correttamente e chiaramente scrivere» (Dv), «in che modo hoggi s’usa nella volgar lingua di scrivere correttamente» (D3v), oltre a « il corretto scrivere»: «[questo avvertimento] verrà a proposito de’l corretto scrivere» (B2v), «imprendere il corretto scrivere» (Dv), «a volere corretto scrivere» (D2), «la ragione d’esso corretto scrivere» (E2), «potrete non solamente scrivere corretto» (Fv) . . . Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Tale modestia si manifesta in particolare nell’uso frequente del condizionale nella formulazione delle avvertenze: «in quel modo non si harebbono à profferire», «ne ancho quelle . . . si harebbono cosi à chiamare» (A3v), «Quanto al T avvertirete come in molti luoghi alle volte si pone dove non harebbe à stare per ciò che si dice stiavo & s’harebbe à dire schiavo e cosi schiavone, schiavina, schiavare» (C2v). 30 La semplicità si rivela anche nella terminologia. Del Rosso infatti traduce la nomenclatura latina delle parti del discorso, il più delle volte mediante una perifrasi (che per le preposizioni e le congiunzioni si limita al generico «voci da latini dette . . . »: l’adattamento manca). Nei titoli in margine viene prima la perifrasi volgare, accompagnata spesso dall’equivalente di stampo latino 31 , mentre nel testo del Rosso utilizza in genere le proprie locuzioni (verbo compare solo tre o quattro volte: Bv, Dv e E), magari in concorrenza con il latinismo, specie se questo è più comodo (come imperfetto: «pigliando di se la voce dell’imperfetto, e quella de‘l participio»: C) 32 . Limitatamente alle parti del discorso, questo atteggiamento ricorda quello di Bembo, accentuandolo: mentre nelle Prose della volgar lingua tutta la terminologia poggia sulla coppia nome-verbo, qui scompare pure verbo (come in Carlino), e resta solo nome, nonché articolo (B2) e indirettamente preposizione e congiunzione. Si noti tuttavia che del Rosso (a differenza di Gabriele per esempio) non riprende mai le perifrasi eterogenee e poco felici del cardinale 33 . Le sue espressioni 61 30 Una moderazione che anticipa quella di Giambullari, sottolineata da Bonomi: «la sua norma non è mai rigidamente imposta, ma viene enunciata in modo estremamente cauto e moderato. Sono del tutto assenti quei toni impositivi e rigidamente prescrittivi che caratterizzano certa parte della codificazione grammaticale coeva . . . » (Introduzione, XLVI). 31 «La parola è principale [scil. voce delle quali se compone la favella] che da latini è detta verbo» (A4), «Vecenomi over pronomi quali si pon g ono in loco de nomi proprij» [nel testo: «i vicenomi ò vero luogotenenti di nomi»], «Voci tra nomi & parole» [= participi], «Adherenze di parole over adverbij come se dicono da latini» (B) [più avanti (E) adherenze di verbi o adherenze de‘l verbo sono denominate anche le preposizioni che servono alla reggenza verbale], «Affettuose voci quali da latini sono dette interiettioni», «Voci quali da latini sono dette congiontioni», «Voci quali da latini sono dette prepositioni» (B2), adherenze di nomi per «preposizione» (E). 32 Nel proporre nuove denominazioni delle parti del discorso nemmeno Carlino era andato così lontano (tranne la coppia dittione-addittione per verbo-avverbio non aveva innovato: «Nome, Pronome, Articolo, Dittione, Participante, Addittione, Preposigione, Congiuntione, Interposigione», 17). Dopo del Rosso, che usa pure intromesso per parentesi, solo Giambullari, guardacaso, è ricorso a neologismi, per due parti invariabili ritenute tradizionalmente secondarie: «Nove sono le parti del parlar nostro cioè nome, pronome, articolo, verbo, adverbio, participio, preposizione, inframmesso, et legatura» (10: De le parti del parlare), imitato in ciò poi da Salviati: «Dieci sono in questo linguaggio le parti del favellare: nome, articolo, pronome, verbo, participio, gerundio, proposizione, avverbio, tramezzo e legame. E chiamo tramezzo quella che da’ latini interiectio, e legame ciò che da’ medesimi è detta coniunctio» (1). Comune quindi ai grammatici toscani è una certa volontà di scansare la terminologia tradizionale o persino di toscanizzarla. 33 Che ora fanno riferimento all’etimologia per rimotivare semanticamente le designazioni tradizionali: «voce . . . la quale di verbo e di nome pure nel passato tempo partecipa» (32) o «quelle voci; che dell’uno et dell’altro [= del Verbo e del Nome] col loro sentimento partecipano» (53) Laurent Vallance sono più semplici e assieme più significative (parola è il calco esatto di verbum, cui si applica la stessa specializzazione, in modo da designare la parola par excellence 34 ). Sono anche più efficaci perché viene utilizzata sempre la stessa perifrasi per ogni parte: il participio, ad esempio, se non è menzionato così alla latina (C), è detto «voce ch’è trà ‘l nome e la parola chiamata dalli Latini Participio» (B4v) o al plurale «voci trà nomi e parole» (B3) - mentre in Bembo colpisce la versatilità delle designazioni 35 . Per il resto della terminologia, specie verbale appunto, del Rosso usa sia persona, modo e tempo che i nomi tradizionali dei singoli tempi (imperfetto, passato, futuro . . .): una differenza fondamentale con Bembo che non vuole sentirne parlare. Il rifiuto dei tecnicismi nonché l’effetto prodotto dai loro sostituti risultano diversi nei due autori. Nel dare regole della volgar lingua, Bembo è intento a scrivere un’opera letteraria: siccome pretende di riferire una discussione da salotto tra non specialisti, fugge la terminologia tradizionale, ma con tanta applicazione che la sua scrittura sa di maniera. Del Rosso invece non si preoccupa di letteratura. Scrive la sua grammatica nella stessa lingua che userebbe per esporla a viva voce. Le sue perifrasi non suonano artificiali perché sono le parole cui uno ricorre naturalmente quando vuole spiegarne il significato: le interiezioni sono proprio «affettuose voci con le quali s’esprimeno gli affetti del animo». Sono infatti esponenti di spicco della cosiddetta funzione «espressiva» del linguaggio. 9. Un atteggiamento modernista assunto da un moderno timido Con la sua presa di posizione a favore di un adeguamento dell’alfabeto, del Rosso si schiera indubbiamente dalla parte dei moderni. Ma è una dichiarazione tutta teorica. Nella pratica, infatti, dimostra conformismo e pusillanimità, consigliando, contro le sue convinzioni personali, di attenersi in ogni caso all’uso tradizionale, finché la questione non sia risolta dagli specialisti: quanto a far differenza dallo O chiuso allo aperto; & così della E aperta alla chiusa bisogna aspettarne la resolutione & il consentimento di quelli che bene iscrivono; & per hora se bene c’è differenza di profferire non ci si fà differenza di scrittura (B3); Vi dico, che come, che nell’un modo e nell’altro vi potreste iscrivendo salvare; tuttavolta vi conforto ad usare diligenza 62 per participio, ora sono del tutto insignificanti, come «particella del parlare; che a verbi si da in piu maniere di voci» (56) per avverbio. 34 Anche se del Rosso pretende che il passaggio semantico sia stato dal significato particolare di «verbo» a quello generale di «voce»: «Et percioche questa è con l’altre voci come è l’anima col corpo nostro senza la quale . . . l’altre voci sarebbono sciolte & niente rileverebbono, e da lei molte volte sono l’altre voci chiamate anchora esse parole» (A4). 35 Il participio passato è chiamato successivamente «la voce . . ., la quale di verbo e di nome . . . nel passato tempo partecipa», «le participanti . . . voci», «voce che partecipa» (32), «voce del passato tempo» (36) e la «voce, la quale è quella che io dissi che al passato si dà in questo modo» (49). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato di aspirarli, per fino a più chiara risolutione, che sempre sarete a tempo a straccurare tal soverchia diligenza (C2); Quanto allo I noterete come alchuna volta è consonante, percioche si come è vocale in questo nome Maria, Christo, Dio, & somiglianti; cosi in noia e moia, è consonante, & a scriverlo differentiato ne aspetterete il consentimento si come de’l correggere l’alfabeto da quelli che di cotali cose sono studiosi (C2-v). A conferma di quanto detto prima, gli autori da cui dipende la decisione di segnare o no l’opposizione tra vocali aperte e chiuse sono quelli contemporanei e non quelli d’una volta: «quelli che bene iscrivono». Il che poco o nulla cambia se gli scrittori di oggi imitano gli antichi, certo, ma, in principio, la questione dell’ortografia deve essere risolta da un punto di vista sincronico e non storico o diacronico. Del Rosso è abbastanza modesto per non annoverarsi tra questa élite di studiosi-arbitri poiché, rinunciando ad applicare ogni pur minima distinzione novatrice, si astiene dal contribuire, anche solo da seguace, all’evoluzione che si augura. Conformemente alle dette raccomandazioni, il testo della grammatica non distingue tra le diverse pronunce delle vocali o delle consonanti. Le lettere greche introdotte da Trissino sono citate (e riprodotte) solo in un’annotazione marginale a pagina B3. Per quanto riguarda la h, del Rosso è ben conscio che l’uso non è più univoco come una volta - «ma perciò c’hanno cominciato à variare nello scrivere dove prima sempre gli aspiravano, & io hò veduto diligenti scrittori, & osservatori della lingua, che non aspirano havere» (C2) - e tende chiaramente verso l’abolizione della h «soverchia», ma non fa nulla per accelerare le cose. Se in sede teorica, con la consueta tolleranza, accetta le due ortografie (con e senza h-), in pratica non sceglie quella più congeniale: come già il manoscritto della Grammatichetta d’Alberti, mantiene la h dappertutto all’iniziale («sopra tutta la parola havere», C1v, il che rende superfluo l’accento grave sulla preposizione a per distinguerla da ha, in homo, hora e composti . . .), pur sottolineando che non è mai pronunciata da nessuno: «quantunque ne Toscani, ne altri Italiani parlando questa lingua la profferischino» (B4) 36 . Non solo è mantenuta la h etimologica latina ma viene introdotta una h anche dove non c’entra, in parole la cui etimologia ne è priva: abhominazione (B4) abominati õ nem (per contaminazione di homo o di abhorrire? ); alchuno *aliqu’unu e ciaschuno quisque unu incrociato con il francese chascun (probabilmente per contaminazione di qualche, qualcheduno, ciascheduno) 37 . Viene così contraddetta l’osservazione giusta della pagina B4 sulla necessità di inserire una h dopo la c davanti a e o i, se si vuole che si pronunci come in ca, co, cu: «volendo, che questi habbiano il medesimo profferimento c’hanno ca, co, cu, bisogna servirsi della H & cosi scrivere chi, che . . . ». Pur propugnando una scrittura quanto mai fonetica e un uso ragionevole della h, il testo adopera una scrit- 63 36 Come lo ripete a proposito di hamo ( h ñ mu), scritto con una h muta, segno di un’aspirazione non (più) realizzata: «Hamo oncinetto da pescare pur s’aspira ciò è si scrive per H quantunque profferendo non s’aspiri» (Cv). 37 Ma non in toscano ( tusc ñ num) né in Petrarca, a differenza di Bembo e di molti altri. Laurent Vallance tura etimologica e latineggiante, arcaica e tradizionale. E questo è tanto più sorprendente in quanto altrove del Rosso avverte che i nessi consonantici latini non vanno conservati: «Non so s’io vi debbo ricordare come non s’hà a scrivere lecto, decto, perfecto, epso, capsa, adcresco, ma letto, detto, perfetto, esso, cassa, accresco. Percioche chi hà la lingua Latina pûo facilmente incorrere in tale errore» (C3v) 38 . Lo stesso avviene a proposito dell’ortografia delle preposizioni articolate: «Ben è vero che per ragione di Grammatica s’haverebbe a scrivere dà lo, e non dallo» (D4v). Quanto segue mira poi a sviluppare le ragioni della Grammatica. «La ragione per la qual più presto si debba scrivere de lo che dello» è che il raddoppiamento è dovuto all’accento delle preposizioni e non va segnato proprio come non si segna in da Marcello. «Dico pertanto ch’atteso quanto ho detto, & ricercando bene la virtù e forza di queste particelle a, de, da, ne . . . verrete chiaramente à comprendere, come più tosto si debbe scrivere da lo, che dallo; & cosi de glialtri» (E). La conclusione è definitiva (qui dopo come si trova eccezionalmente l’indicativo e non il congiuntivo: debbe); dopo tale requisitoria, non si può immaginare che l’autore stesso si sottragga alle esigenze della ragione grammaticale. Però, di nuovo, come per l’alfabeto, dopo aver bravamente difeso il suo punto di vista e i suoi princìpi, non osa applicarli (a guardarci meglio, la risolutezza si affievoliva alla fine: «più tosto si debbe»). Vanificando tutti gli sforzi consentiti per convincere il lettore che la sua posizione è fondata, del Rosso si rassegna a rinnegarla nella scrittura. Usa quasi sempre allo, dello, dallo e non a lo, de lo né da lo . . . 39 , che sono le uniche forme presenti nella grammatica di Gaetano, pubblicata sei anni prima nella stessa «fedelissima città di Napoli», le uniche adottate da Trissino nella sua grammatica sin dal 1529, nonché quelle raccomandate da Tolomei nel Polito: precedenti non trascurabili che avrebbero potuto incoraggiarlo visto che il primo passo era già stato compiuto. Fate come dico e non come faccio. A meno che tali incoerenze (o alcune di esse) siano il risultato delle correzioni di Cimello. In quegli anni le Prose della volgar lingua erano in auge a Napoli 40 e forse era proprio questo il senso della richiesta di Gamucci: non tanto «correggere» l’ortografia e la sintassi del testo quanto normalizzarlo, secondo i princìpi difesi da Bembo. Forse le sequenze «preposizione-articolo» preferite da del Rosso, di cui rimane qualche traccia, sono state poi sostituite (con qualche dimenticanza) 64 38 Raccomandazioni identiche già in Fortunio: «Altri sono poi di piggior . . . intendimento, e quali dicono di soverchio essere le volgari norme, perché la volgar lingua dalla latina originata sì nel parlar come nel scrivere deve seguitarsi, scrivendosi e dicendosi io dixi, epso scripse, un saxo, molte parte e molte morte, e l’equale e sancto, prompto con infiniti altri simili che piu tosto giudicar si possono voci latine che volgari» (Agli studiosi della regolata volgar lingua, a2v-a3). 39 Salvo poche eccezioni, i tre esempi prima della conclusione del passo: «Questi và à la Cornelia, & questi parla dè la Vergine madre . . . questo è dè l’A n tonina» (E), oltre ad alcuni qua e là: «parte che và innanzi à la parola» (C4), «Altre [voci] convengono à l’affermare» (Bv), «dire Thomaso esser innamorato dè L’Antonina» (C4v), mentre è dubbio «Dal’altra banda» (E2). 40 Sull’argomento vedi Sabbatino 1986. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato da preposizioni articolate vere e proprie. Forse è stato anche Cimello ad aggiungere qualche h 41 . E proprio come non ha rinunciato a riprendere le lettere di Trissino per segnare la diversa apertura di e e di o, ad abolire la h latina e a scrivere staccate le preposizioni articolate, del Rosso usa sempre come soggetto ella o essa, egli o esso, essi, mai lei né lui né loro. «Uh che bel caso» di grammatico dimezzato questo del Rosso, diviso tra la passione per il toscano vivo dei suoi contemporanei e la norma scritta della tradizione. Rarissimo esempio d’un autore divaricato tra le sue convinzioni moderniste e le tendenze contrarie dell’epoca, che non ha la forza di assumere le prime fino in fondo e di resistere fermamente alle seconde 42 ; abbastanza forte per denunciare quel che gli spiace, troppo debole per non conformarsi infine alla moda dominante; abbastanza coraggioso per giudicare abusivi i dettati degli scrittori alla moda, quando molti altri li hanno solo plagiati servilmente, troppo modesto scrittore egli stesso per non sottoporvisi. Superando solo in sede teorica il proprio complesso d’inferiorità, del Rosso ha prodotto una tra le grammatiche italiane più originali del Rinascimento. 10. Un grammatico che si riferisce all’uso moderno Come puntualizza del Rosso stesso (peraltro nel passo meno felice di tutta la grammatica, visto che vi si nega, contro ogni evidenza, la presenza dell’articolo nelle preposizioni articolate), c’è uso e uso - «voglio solamente che basti dire, che se essi prendono l’uso de‘l parlare per suo fondamento e ragione, noi anchora prendiamo l’uso de‘l parlare per nostro fondamento e ragione» (Ev) - ed egli pro- 65 41 Così si potrebbero spiegare certi esempi che sembrano ripresi dalle Prose (ma pochissimi sono sicuramente tali).Anziché immaginare, come Sabbatino, che del Rosso abbia aggiunto qualche esempio suo a quelli del cardinale, sarebbe stato invece Cimello a completare gli esempi originali di del Rosso con altri letti in Bembo come aggiunse esempi «cortigiano-familiari» di suo sacco a quelli di storia latina dell’autore (a p. D4v o E3). 42 Anche Sabbatino (1995), pur esagerando l’influenza di Bembo - sul passo a proposito di questi e quelli, nota: «Rimanere col Bembo e farsi trovare continuamente con le Prose della volgar lingua in mano ha un preciso significato: stare dalla parte dell’auctoritas. Esiste ormai il modello grammaticale, a cui guardare e da cui attingere, in un continuo impegno di imitazione ovvero di riproduzione personale del modello grammaticale» (208), e più avanti: «La collazione tra le Prose della volgar lingua e le Regole prova che del Rosso sta costruendo a questo punto il manuale con tessere esclusivamente bembiane, le quali danno in questi luoghi informazioni sulla lingua toscana parlata» (213) -, ha avvertito questa bipolarizzazione modernità/ tradizione nel testo di del Rosso: «Già da questa prima avvertenza si rileva che del Rosso traduce dalle Prose della volgar lingua del Bembo nelle Regole le singole notizie sull’uso corrente del toscano, l’unico ambito a cui il manualista toscano è interessato» (209); «In questa annotazione è possibile vedere, in controluce, la filigrana delle Regole di del Rosso, un grammatico che si iscrive di diritto tra le fila di quanti rifiutano i tasselli più marcatamente antichi della lingua e si muovono verso uno statuto della lingua fondato sulla modernizzazione» (214). Laurent Vallance testa contro quello tradizionale propugnato dogmaticamente da certi autori contemporanei: & troverrete i migliori scrittori haverci fatto questa differenza ciòè a lo s’habbia a scrivere ne‘l verso, & allo nè le prose, di che non sanno per ventura la ragione, ma se n’attengono a come hanno trovato scritto salvandosi con l’uso di buoni scrittori, percioche l’uso de‘l volgo non debbe mai essere approvato in veruna cosa, anzi sempre riprovato non possono essere ripresi; Ben è vero che per ragione di Grammatica s’haverebbe a scrivere dà lo, e non dallo (D4v). I «migliori scrittori» (di oggi) si fondano, per giustificare le proprie prescrizioni, sull’uso dei «buoni scrittori» (di ieri), rivendicandone per sé la successione legittima in seno a una stessa élite attraverso il tempo. Del Rosso denuncia questo elitarismo «naturale», secondo cui i buoni scrittori attuali sarebbero quelli che imitano l’uso dei buoni scrittori del passato. Gli effetti perversi di questa logica di classe sono noti: riferendosi agli autori di una volta e prendendo come modello per i propri scritti il «buon uso» antico, gli scrittori dominanti di un’epoca non fanno che perpetuare di generazione in generazione una lingua letteraria solidificata, sempre più staccata dalla lingua parlata realmente. L’attacco aperto a chi si appella ciecamente all’uso dei «buoni scrittori» si accompagna a una difesa, in modo ironico, dell’uso del popolo: del Rosso finge di fare suo il discorso dei fautori dell’uso letterario, una maniera di affermare meglio la dignità dell’ortografia degli «illetterati», cioè di chi sa scrivere ma è privo di cultura libresca. Significativamente, il verbo dell’annotazione corrispondente, L’uso del volgo debba riprovarsi e lassare, è al congiuntivo: si tratta di un’opinione altrui alla quale l’autore non aderisce (come nel caso litigioso della scrittura della h: Da quali parole non debba toglierse la h). 11. Un grammatico che ricorre soltanto ad esempi di sua invenzione L’uso a cui si riferisce del Rosso è quello del volgo, cioè di quelli che sanno scrivere ma sono illetterati, nel senso che ignorano i classici letterari. È quindi l’uso moderno 43 .A differenza di Fortunio o di Bembo e della maggior parte dei loro successori, compreso Giambullari, del Rosso non usa, per illustrare le sue regole, citazioni d’autore ma unicamente esempi di sua invenzione, proprio come Alberti. Esattamente come nella Grammatichetta, gli exempla ficta ispirati alla storia dell’antica Roma, cara al traduttore di Svetonio - «questi fù il grande Scipione, quelli fù il fiero Anibale» (D) che ricorda «Questo Scipione superò quello Hannibale» (§43), «Cesare perdonó a Cicerone» (D2v), «Catilina hà seguitato il vitio, 66 43 Ovviamente, del Rosso non è del tutto impermeabile alle influenze letterarie né al riparo di un lapsus: mentre raccomanda e usa costantemente i condizionali toscani in -ebbe, glien’è sfuggito uno in -ia, «& cosi sodisfaria ad ogn’uno» (B3). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Curtio amò la patria, Catone s’uccise in Utica» (E3v) 44 - alternano con altri suggeriti semplicemente dal contesto immediato, entourage o luoghi circostanti - «Io vo ad Arpino» (B), «Io amo, tu ami, quelli ama, Quel cavallo corre, Il fiume cresce . . . io voglio bene alla Cammilla, io sono figlio della Cammilla, io recevo questo dalla Cammilla, io do questo alla Cammilla», «dalla Cammilla sono amati li figli» (C4v), «Io ho avuto questo da Cesare [C]ossa, Costui viene da Benevento, Questo stà ne‘l tuo arbitrio, Gli Indi habitano ne‘l Ponente, & ne‘l Levante» (E) . . . Esempi semplici, di stampo quanto mai banale e popolare, anche se non mancano eccezioni, dove il tono si fa più alto o il contenuto più dotto (accenno alla scoperta dell’America mezzo secolo prima). Ma sono sempre esempi non letterari, bensì rappresentativi dalla lingua contemporanea. Come Alberti, del Rosso fonda la propria grammatica non sulla letteratura ma sull’uso orale quotidiano. È ben lungi da Bembo. Insomma si può riprendere questo giudizio di Sabbatino: «Il contrasto tra i due è di fondo. Il Bembo guarda al toscano dei modelli, Petrarca e Boccaccio . . . Quando fa riferimenti al toscano parlato lo fa per condannare ciò che non concorda con i modelli o per esaltare ciò che è rimasto. Del Rosso, invece, guarda al toscano parlato e si impegna a raccoglierne le regole per il corretto scrivere» (221). 12. Una grande sensibilità alla lingua parlata e all’uso vivo Le Regole osservanze, e avvertenze dimostrano molta attenzione alla dimensione orale del toscano. Numerosi sono i passi della grammatica dove del Rosso rivela uno spiccato interesse per la lingua fiorentina o toscana parlata. Così, dopo le adherenze delle parole (avverbi) e prima delle congiunzioni, non tralascia le «affettuose voci quali da latini sono dette interiettioni con le quali s’esprimeno gli affetti dell’animo» (B2), di cui è il primo a proporre una breve descrizione 45 : Oltraquesto per isprimere li nostri affetti e passioni dell’animo ardentemente si sono trovate alchune voci c’hanno dell’addolorato come dicendo oh, ohime, ahi, & somiglianti. Alchune altre hanno dell’allegro, come ou, ou, o` bene. Alchune altre dimostrano paura come ue, ue, guarda, guarda. Alcune dimostrano abhominatione, come dicendo ah, eh. Alcune hanno de‘l burlevole, come dicendo ehi: Ci si possono anchora mettere le risa le quali si scrivono ah, ah, ah (Bv-B2). Seppure importanti nell’opera lirica di Dante e Petrarca, le interiezioni, ahi lasso! sono neglette nelle grammatiche del Cinquecento. Molti grammatici (specie pre- 67 44 Questo gusto per l’Antichità si manifesta con frequenti riferimenti ai Greci o ai Latini e alla loro lingua, un accenno alla famosa favola di Esopo: «essa lingua secondo ch’ella è usata è la più utile & la più pernitiosa cosa che si trovi» (C1v), e con questa curiosa digressione: «s’aspira hebe la figliuola di Giunone & ministra di Giove nata d’un torso di lattuga» (Cv). 45 Trattando le interiezioni separatamente dagli avverbi (riuniti da Dionisio Tracio e da Prisciano in un’unica categoria), del Rosso si iscrive nella tradizione di Donato. Laurent Vallance cedenti), che si concentrano sulle parti del discorso da loro ritenute principali (vale a dire quelle variabili, nonché gli avverbi), non le menzionano nemmeno: Fortunio, Bembo, Trissino, Acarisio, Gabriele, Delminio. Non annoverate tra le parti necessarie per formare un’«orazione completa», le interiezioni sono considerate del tutto superflue perché non si connettono sintatticamente con le altre componenti della frase, cui sembrano più o meno estranee. Prima soltanto Alberti (§86: «Interiectioni Sono queste: heu, hei, ha, o, hau, ma, do») e Gaetano (De la intergettione, 44-v: «sono queste: O, oh, ah, ai, ahi, aime, ai dolente, ai lasso, oime, o miserme, ome, deh, e, egli») si erano soffermati (brevemente) sulle interiezioni, mentre Carlino aveva solo elencato l’interposigione tra le nove parti del discorso (17). Come del Rosso lo formula leggiadramente a proposito delle risa, le interiezioni si possono «scrivere», cioè trascrivere, ma in fondo sono espressioni orali, più o meno spontanee, con le quali diamo sfogo ai nostri «affetti e passioni», e la cui scrittura è spesso mimetica. Tra tutte le parti del discorso, le interiezioni sono quelle più specifiche del registro orale e meno pertinenti allo scritto 46 . Del Rosso ha osservato che ogni parola toscana (o italiana) riceve un accento tonico: «ciaschuna sillaba di qualunque dittione ò vero parola è accentuata percioche tutte hanno suono» (D2). Particolarmente interessanti i casi in cui questo accento cade sull’ultima sillaba. Se la parola che segue comincia poi da consonante, si verifica infatti il raddoppiamento sintattico, per esempio dopo una preposizione monosillabica: «& se voi Fiorentinamente spiccando tal profferire volete conoscere se profferendo da Marcello voi raddoppiate la M . . . » (E) o dopo il pronome e’ nelle frasi Io hò caro che è sia venuto/ che è siano venuti, che vanno pronunciate diversamente a seconda che il pronome soggetto sia espresso o meno: «Dove avvertirete quanto alla scrittura, che se voi direte che siano venuti ò vero che sia venuto senza mettervi la è che significa eglino, ò vero egli, la forza dell’Accento che và sopra la chè fà raddoppiare la S ne‘l profferire» (E2v). 13. Gorgia e «benedicta tue in mulieribusse» Del Rosso ha registrato anche l’aggiunta di una vocale d’appoggio finale nella pronuncia toscana delle parole terminate da consonante, accompagnata da un raddoppiamento, altrettanto caratteristico, di detta consonante finale 47 : «ella tutte le voci 68 46 Anche Giambullari qualche anno dopo non manca di trattare lo inframesso (nel secondo libro dedicato alle parti del discorso indeclinabili), di cui distingue (seguendo in ciò da vicino la sua fonte, il De emendata structura latini sermonis di Thomas Linacre) molte «spezie»: «Lieti: ei, ohou, gala, ela e. Dolenti: ahi, ehu, gua, ah, ohi. . . . Spaventativi: veh, guai. Esclamativi: ahi, ohi, eu, lasso. Pregativi: deh. Del riso, o da ridere: ah, ah, eh» (108). 47 Che compare regolarmente nell’adattamento italiano standard delle parole straniere: lombardo strak stracco, arabo tabbâq tabacco o al-manakh almanacco, polacco polak polacco, rumeno valach valacco, russo kozak cosacco, slovacco Slovák slovacco, turco kalpak colbacco, francese sérac seracco . . . Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato termina in vocale, & li medesimi Toscani e massimamente le persone rustiche, che si lasciano menare dalla forza e proprietà della lingua profferendo cose latine non possono sofferire di terminarle in consonanti; onde in vece di Dominus diranno dominusse, & cosi benedicta tue in mulieribusse» (D3v). La predilezione dei Toscani per le desinenze vocaliche, già notata da Alberti e menzionata pure da Bembo 48 , è illustrata qui, per la prima volta, da un controesempio, che unisce alla pertinenza dell’osservazione linguistica il piacere del colore locale 49 . Il cavalier del Rosso ricorre naturalmente al latino ecclesiastico che i suoi concittadini sentono regolarmente in chiesa. Per molti di loro questa è la sola lingua straniera che abbiano presente, l’unica che abbia colpito il loro orecchio: una scelta tanto più giudiziosa in quanto queste parole non hanno se non uno statuto orale per i fedeli campagnoli, che non sanno leggere il messale e le ripetono come le sentono pronunciare dal parroco. I Toscani letterati, che sanno come si scrive dominus, sono in grado di evitare la pronuncia toscanizzata, ma la loro va contro «la proprietà della favella»: «Per che dunque tale è la proprietà della favella, & coloro che scrivono e parlano con più eleganza fuggono cotali agiatezze, perciò segnando la proprietà della lingua, & accennandola con l’accento scrivano e parlano levando quella coda o strascico delle voci» (una «specie di vocale di ripercussione» si dice in Rohlfs: §335). In altri termini il popolo parla un toscano più genuino che i ceti colti. La frase latina citata è interessante per un altro motivo: offre testimonianza di un altro tratto caratteristico del toscano parlato, che non è sfuggito a del Rosso né è senza legame con il precedente: l’aggiunta di una -e alla fine del pronome tu, come sopra a havè: havee (B4v), per smorzare la brutalità della desinenza accentata 50 . In ambedue i casi si tratta coll’aggiunta di una sillaba supplementare (-se o -e), senza toccare direttamente l’accento, di cacciarlo di fatto dalla sillaba finale per farlo risalire sulla penultima 51 . Oltre alla predilezione per i fini vocalici, il to- 69 48 Grammatichetta, §4: «Ogni parola e dictione toscana finisce in vocale: solo alchuni articholi de’ nomi in l et alchune prepositioni finiscono in d, n, r»; Prose, 3: «dico che si come nella maggior parte delle altre lingue della Italia, cosi etiandio in quella della citta mia, i Nomi in alcuna delle vocali terminano et finiscono sempre: si come naturalmente fanno anchora tutte le Thoscane voci, da alcune pochissime in fuori». 49 Priscianese aveva già menzionato il fenomeno: «Alcuni dicono nosse, adde, utte per nos, ad, ut», «Alcuni dicono dicitur, legitur e tante altre parole simili al modo di un cane che ringhia come se questa r fosse vista doppia» [De fastigiis, 101: «Alij, nosse, adde, utte pro nos, ad, ut, dicunt», «Alij dicitur, legitur et similia tanta nare canina, ut r illud geminatum videatur»], descritto più precisamente nella grammatica: «Alcuni sono che ad ogni consonante finale aggiongono un’altra consonante et così dicono utte, atte, adde, quello che ut, at, ad dire si converrebbe», «Altri suonano di maniera lo r che, dicendo dicitur et legitur, giurereste che diciturre et legiturre detto havessero» (Della lingua romana, 279). 50 Nelle Prose Bembo citava una serie di forme simili: «tue, piue, sue, giue, dae, stae, udie, uscie, et alla terza voce anchora di questo stesso verbo ee, che disse Dante, et mee», attribuendo però l’aggiunta della e alla «licentia» dei poeti «per cagione della rima» (50): una spiegazione poco convincente. 51 Il che significherebbe che dominus e mulieribus fossero pronunciati in quel tempo con l’accento sulla desinenza (e non come oggi sull’antepenultima sillaba, conformemente alle regole latine di accentuazione). Laurent Vallance scano rivela una preferenza per le «parole piane», cioè parossitone, e una ripulsione per le parole cosiddette «tronche» (il termine parla chiaro), cioè ossitone, come del Rosso l’ha ben capito e formulato in modo efficace: «è da sapere che non solamente fuggono di terminare in consonanti per riposare il fiato, ma anchora abhorriscono di terminare in accento acuto, & che lasci in un certo modo impiccato e sospeso il profferire, e non lasci cadere giù il fiato: Per questo adunque dicono più tosto maestane ò vero maestae che maestà, podestane, che podestà, metane che metà, tune che tu, stane che stà, vane che và. Dicono pertanto anchora più volentieri io vedetti ò vero vedei, ch’io vedè & si pûo andare discorrendo per tutte le voci che terminano nell’accento risonante e signoreggiante la voce» 52 . Del Rosso fa altre osservazioni precise sulla pronuncia, specie sulla gorgia toscana, quel modo di aspirare la lettera cdavanti a -a, -o o -u (come pure l’iniziale del gruppo cro persino chinelle stesse posizioni): «Seguita appresso la H la quale come di sopra habbiamo detto non è lettera, ma è nota d’Aspirazione che cosi la chiamano li Latini. Questa s’harebbe a scrivere quando noi diamo più fiato, ò vero più halito alle voci, ma se particolarmente li Fiorentini l’havessero a porre in tutti quei luoghi dove danno più fiato e spirito alle voci, non è quasi voce profferita per co, cu, ca, dove porsi non dovesse, & massimamente quando se parla con ardore & con affetto d’animo» (B3v) 53 . Una pronuncia che l’autore consiglia di evitare, nonostante le «belle ragioni» linguistiche che la giustificassero e permettessero di «attribuirla alla virtù della lingua»: «il che anchora che a virtù della lingua potesse con assai belle ragioni & avertimenti attribuirse, tuttavia per essere odiosa e ridicula tal pronunti a a tutti i Forestieri della lingua & anchora a quei Toscani e Fiorentini specialmente che fuori de‘l paese loro hanno praticato, li conforto assai a guardarsene» (B3v). Si vede che gli accenti regionali, seppure autentici, non sono sempre graditi: certe pronunce eccentriche e minoritarie non sono accettabili e vanno sacrificate in nome di una pronuncia italiana comune, primo segno della formazione di uno standard nazionale. Colpisce ancora una volta in questo esempio la modestia di del Rosso, la sua 70 52 Del Rosso appare il primo grammatico a spiegare, con un preciso motivo prosodico, la creazione dei passati remoti in -etti (analogici di stetti) accanto a quelli regolari in -ei: tutte le parole riescono cosi parossitone (con accento sulla prima sillaba della desinenza). 53 Un fenomeno attestato per la prima volta, pare, nel trattato De Romanis fastigiis et linguæ tuscæ vel de pronunciatione, redatto probabilmente negli anni 1517-1520 (secondo Vignali: 22) dal linguista toscano F. Priscianese (Pieve Presciano, Arezzo, 1494-dopo il 1549), amico di del Rosso: «Rursus c pro x græco charactêre, dum tunicha, manicha pro tunica, manica proferunt» (101). Tolomei dedica alcune pagine all’argomento nel Polito (1525): 16v, 18v-19v e vi torna in tutte le sue opere linguistiche, nel Cesano (1529 ca.), in De le lettere libri sette (1547) e nel Trattato della lingua toscana (1547? ). Pure Erasmo, nel famoso saggio De recta latini græcique sermonis pronunciatione (1528), testimonia di aver sentito tale pronuncia a Firenze - ma siccome la crede tipica dei marinai o degli isolani (61), dubita che il locutore fosse fiorentino (52v). Ispirato o travolto dall’entusiasmo, del Rosso ha naturalmente dato più alito all’alito, aggiungendo una h all’inizio della parola - come più avanti a hisprimere: «Ma subitamente posteci le parole si veggono in sieme concatenate, & mandar fuora, & hisprimere un concetto ò ver pensiero» (E3), contro isprimesse (A3v), isprimiamo (A4). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato assenza di campanilismo: non erige a modello la pronuncia fiorentina, che non è ipso facto la migliore. Per quanto riguarda la sintassi, del Rosso prescrive l’articolo (determinativo) con tutti i nomi femminili, sia propri sia comuni, e con gli aggettivi sostantivati, a differenza del maschile, in cui l’articolo non s’impiega con i nomi propri - un uso asimmetrico tipico del toscano parlato: «quanto a nomi de’l maschio si prepone quella particella il, ò lo, da nomi proprij in fuora a tutti glialtri cosi comuni come di qualità . . . Quanto a nomi della Femmina a tutti cosi proprij come comuni e di qualità si prepone l’Articolo la, quando si parla d’una sola, & l’Articolo le quando si parla di più» (B2v), «gli Articoli appartinenti alla Femmina si propongono a qualunque sorte di nomi di quel sesso senza differenza alchuna, percioche si dice la Cornelia, la Faustina, con quella accezione di nomi Romani, che di sopra habbiamo detto» (E) 54 . Nota pure l’uso della forma contratta e’ per egli/ ei (elli nella lingua antica: cf. Rohlfs: §446, 448) quale pronome soggetto maschile (o neutro) di terza persona, così presentato: «sappiate come noi diciamo egli è gran tempo, ponendo quello egli solamente per gratia e riposo de‘l parlare ch’altramente è di soverchio. Oltraccio è mi piace di farvi intendere dove è fa il medesimo effetto che egli di sopra & è la E dello egli . . . » (C3v); «Di sopra v’habbiamo detto come s’usa egli & come alchuna volta si dice ei, & e, & come questo ei, & e, servono così a‘l numero di molti come al numero d’uno solo; percioche è si dice. Io hò caro che è sia venuto, ciò è che egli sia venuto; & cosi Io hò caro che è siano venuti, ciò è che egli siano venuti» (E2v). L’uso di egli/ e’ come pronome soggetto neutro espletivo (cf. Rohlfs: §449) non è limitato alla formulazione stessa della regola (un’illustrazione pedagogicamente azzeccata) 55 . Del Rosso dimentica invece la variante gli davanti a vocale, nonché la forma femminile la, che si trova una volta: «nella medesima parola ò composta ò scempia che la sia» (C2v). Usata correntemente da Florio, è dimenticata pure da Citolini, che tra le particelle espletive cita solo egli, e e ei (70v) 56 . 71 54 Uso menzionato da Alberti senza esempio: «E’ nomi feminini, ó proprii o appellativi, o in vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo. Singulare: La stella, della stella, alla stella, la stella, ó stella, dalla stella. La aura, della aura, alla aura, la aura, ó aura, dalla aura» (§16), rilevato poi anche da Corso: «Similmente à nomi talhora, che son di femmina, come la Fiammeta» (23v) e Florio (19 e 21). 55 «Baciare ha miglior suono che se egli si dicesse Vaciare; & cosi dicendo Bottega ha miglior suono, che se egli si dicesse Vottega» (B3), «Vogliono pertanto costoro, che è si dica egli amò Vi n cenzo belprato» (D), «basta quel poco che s’erra, e che si pûo errare a persuadere che è si deve fare qualche differenza di scrittura sopra quelle voci, dove non la facendo si pûo prenderne una per un’altra» (D2), «percioche è si dice. Io hò caro che è sia venuto» (E2v). 56 A proposito di sintassi, un campo notevolmente trascurato dalle prime grammatiche italiane, va sottolineato almeno di sfuggita che le Regole osservanze, e avvertenze offrono spunti di grande interesse. Del Rosso è il primo grammatico a dedicare tanto spazio alla grammatica della frase (E3v-F), a interpretare in termini di posizione rispetto al verbo e di costrutto con o senza preposizione le nozioni tradizionali, e ormai inadeguate, di ‘nominativo’ e di ‘casi obliqui’ (C4-v) o a isolare il modo chiamato pochi anni più tardi ‘condizionale’ da R. Corso, separandolo chiaramente dal congiuntivo (Fv). Tre esempi che bastano a meritargli un posto di rilievo nella grammatica italiana del primo Cinquecento. Laurent Vallance 14. Un grammatico che codifica l’uso moderno Ora se a conferma di quanto detto sopra si cercano tratti del toscano usuale dell’epoca (vale a dire il primo ’500) codificati nelle Regole osservanze, e avvertenze, e attestati nella scrittura, se ne trovano tanti 57 . Prendiamo quale riferimento lo studio di Paola Manni (1979), dove viene elencata una buona quarantina di fenomeni affermatisi dopo il secolo d’oro, tra la fine del ’300 e l’inizio del ’500, e che si possono ritenere caratteristici della lingua fiorentina del Rinascimento (sui 43 tratti censiti, alcuni pertinenti alla fonetica possono essere raggruppati; altri, invece, riuniti legittimamente in sede teorica, vanno separati a seconda dei tempi o dei modi verbali, perché la pratica dell’autore considerato è differenziata). Certi sono indigeni, parecchi invece di provenienza toscana, giunti a Firenze dalle zone periferiche (Pisa, Lucca, Siena, Arezzo . . .) 58 . Ecco i fenomeni presenti nella grammatica di del Rosso, con la citazione corrispondente e accompagnati dal giudizio di Manni, di Bonomi (dalle note alla sua edizione delle Regole di Giambullari) o di Rohlfs. Ho modificato lievemente l’ordine di presentazione di Manni, ma non la sua numerazione, affinché ci si raccapezzi: il rango del tratto nella lista è indicato tra parentesi quadre dopo l’esempio illustrativo. Sono ben conscio che in certi casi siamo entro i margini dell’errore statistico, visto il piccolo numero di occorrenze, e tenuto conto di eventuali refusi. Fonetica a. inizio della riduzione dei dittonghi ie, uo dopo consonante + r [1], «fenomeno la cui maturazione si compie in un arco di tempo che abbraccia, dal XIV al XVI, tre secoli . . . sotto la spinta dei dialetti toscani occidentali in cui, fin dall’inizio, erano costanti le forme con la vocale semplice» (Manni 1979: 121). Del Rosso usa sempre le forme non dittongate di trovare: «ciò che è, e si ritrova» (A4: due occorrenze), «si trovano» (B3v), «che se trova» (B3v, C2v), «che si trovi» (Cv), «si ritrovano scritte» (D2), Nessun controesempio. b. passaggio del gruppo / skj/ a / stj/ [stiavo per schiavo, 3]: «tipico soprattutto del secolo XVI» (Manni 1979: 123). 72 57 Nonostante il testo presenti solo la coniugazione di havere (B4v-C), e non abbiamo quindi nessuna indicazione per gli altri verbi, compreso essere. L’analisi della Grammatichetta di Alberti condotta da Patota ha fruttato quattro tratti assenti in del Rosso: 1) el, e invece di il, i quale articolo determinativo maschile (forme né raccommandate né usate da del Rosso); 2) la desinenza con m scempia anziché raddoppiata alla prima persona plurale del passato remoto, «fiorentinismo demotico soprattutto quattrocentesco» (Bonomi 1986: 55 N1) (del Rosso prescrive havemmo ma usa mostramo (E2), solo esempio utile); 3) per il verbo ‘essere’, sete invece di siete alla seconda persona plurale dell’indicativo presente (nessun esempio in del Rosso); 4) fusti invece di fosti alla seconda persona dell’indicativo passato remoto (nessun esempio in del Rosso). 58 Si veda Manni 2003: 41-55 che offre utili puntualizzazioni sui singoli tratti dialettali. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Il tratto è menzionato da del Rosso per essere non già censurato ma timidamente criticato: «Quanto al T avvertirete come in molti luoghi alle volte si pone dove non harebbe à stare per ciò che si dice stiavo & s’harebbe à dire schiavo e cosi schiavone, schiavina, schiavare, schiuma, schiera, schiena, ischiovare, ischiantare, & non per T» (C2v). Nessun esempio nella scrittura 59 . Morfologia nominale e altra c. Plurale in -gli ( -li) dei nomi maschili in -lo (o -le) [6]: «tratto tipico della Toscana orientale» (Arezzo), «frequente anche nel senese e nel sangimignanese» (Manni 1979: 125 e N1), presente nei dintorni di Firenze e in molti dialetti settentrionali e meridionali (Rohlfs: §221 e 375). & anchora saprete come s’usa dire le fila le cigl i a , le cervella , le vestigia e cosi li fili , li cigli , li cervegli , li vestigii » (C3v). Un controesempio nella scrittura: «tutti gli animali habitanti in ciaschuno de quattro Elementi» (A4v) (mentre animagli, come cavagli, è attestato in antico senese). d. dua invece di due [12]: «tipo frequente solo nel pieno secolo XV» (Manni 1979: 137) e duoi al maschile (per analogia con tuoi e suoi) («sono invece limitate al maschile altre due forme vitali soprattutto nel secolo XVI: duoi e dui», Manni 1979: 135). Del Rosso cita solo due tra i numerali (Bv), ma usa anche le varianti in questione: una volta dua («quelli per una z sola questi per dua si scrivono»: C3), più volte duoi («in duoi modi»: A3, «con duoi punti»: E4v) e soprattutto doi («doi significati»: C4, «doi suoni»: D3, «doi segni»: D4, E4v, «doi punti»: E4, «quei doi parlari»: Fv), due essendo riservato al femminile («due consonanti»: B2v, C3v, «due parole»: Cv, «le due S»: C2v, «due sillabe»: D3). e. anco invece di anche [34]: «forma comune alla maggior parte della Toscana» per influenza di manco avverbiale (Manni 1979: 165). Del Rosso usa più volte questa forma in concorrenza con anchora: ancho (B2v, B3v), ne ancho (B4v); anche non si trova. f. fuora per fuori [38]: «episodio tipico della lingua quattrocentesca e cinquecentesca» «forse dovuto all’influsso del pisano dove questa forma era comune già in epoca molto antica» (Manni 1979: 168). Del Rosso enumera tra gli avverbi: «dentro, fuori, fuora, fore» (B), poi fuora (B2) e usa il più delle volte fuora (A3, A4, D3, E2v, E3), infuora (B2, B2v), ma anche fuori (B3v). 73 59 Si aggiunga il passaggio da v iniziale a b in boto, e l’uso della forma metatetica straccurare (C2, D), mentre la forma escessive (Bv) attesta sì un trattamento popolare del nesso latino excma diffuso sia in Toscana che in tutto il Meridione (cf. Rohlfs: §225). Laurent Vallance Morfologia verbale g. la base ardi avere al futuro dell’indicativo e al presente del condizionale [arò, arei per avrò, avrei: 18]: «forma del fiorentino vivo, di grande diffusione anche al tempo suo [di Giambullari, che è lo stesso di del Rosso] nel fiorentino parlato di ogni livello» (Bonomi 1986: 49 N1): «Io harò, haverò, & havrò . . . » (B4v) e «harai, ò vero haverai, & havrai tu» (C) al tempo avvenire del modo di comandare; «havessimo haremmo haveremmo, & havremmo, havessi, ò vero haveste, haresti, haveresti, & havresti, havessino, harebbeno, haverebbeno, & havrebbeno», «non fà di mestiero ch’io vi dica la differenza che facciamo parlando da dire havessi, harei» (C). Del Rosso usa quasi esclusivamente queste forme, attestate a Lucca a partire dal secolo tredicesimo (Rohlfs: §587): «harà» (C4v), «in quel modo non si harebbono a profferire» «ne ancho quelle . . . si harebbono cosi a chiamare» (A3v), «dove s’harebbe a segnare il punto fermo», «dove harebbe a porsi il punto fermo» (E4). Vi è un solo esempio contrario nella scrittura, s’haverebbe («Ben è vero che per ragione di Grammatica s’haverebbe à scrivere dà lo, e non dallo»: D4v) - tipo «senza sincope ne dileguo della labiodentale, attestato nella letteratura due-trecentesca . . . e molto diffuso nel fiorentino parlato quattro, e meno, cinquecentesco» (Bonomi 1986: 56 N1). h. la base di essere in -u- (e non -o-) al passato remoto dell’indicativo e all’imperfetto del congiuntivo (fussi per fossi, fusti per fosti: 20): «pur se già presenti nel Petrarca, sono considerabili forme del fiorentino vivo, in cui penetrano dai dialetti della Toscana occidentale e meridionale dal tardo ’300» (Bonomi 1986: 43 N5). Nel congiuntivo imperfetto («desiderativo presente o imperfetto») del verbo essere, del Rosso usa esclusivamente le forme dalla base in -u-, fusse, fussero: «potrebbe essere che l’intenzione di chi hà scritto fusse stata di dire . . . » (C4v), «Quando vi fusse detto . . . » (E2), «se bene hora il dichiararlo non fusse se non a proposito» (E3), «se bene vi fusse di quelle voci» (F), «acioche‘l suo scrivere fusse più chiaro» (F2v), «quelle che da noi non fussero state comprese», «potrebbe essere . . . che gli Accenti & altri contrasegni fussero impertinenti conciosia che delle voci . . . che fussero congiunte insieme . . . » (Dv). Nessun esempio al passato remoto (fusti, fuste per fosti, foste), dove si può comunque immaginare che le cose non stiano diversamente. i. dia, stia per dea, stea al presente del congiuntivo [19], cioè la chiusura in -idella -etonica in iato, tratto censito da Manni (2003: 41) tra quelli caratteristici delle varietà occidentali sin dal Trecento. Nessuna prescrizione, due esempi di stare: «in che modo stia bene notare tal differenza» (A3v), «pare che addimandino e stiano in forse» (E4v). j. terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -ere e -ire in -ano invece di -ono (vedano per vedono: 22): «divenute frequenti soprattutto nel secolo XVI, esse ancor oggi caratterizzano il fiorentino medio e popolare, e sono di gran lunga le piu diffuse in Toscana» (Manni 1979: 146), «invasione» caratteristica del 74 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato vernacolo fiorentino secondo Rohlfs: §532: «Nel vernacolo fiorentino -ano ha invaso le altre coniugazioni». Nessuna prescrizione ma la sostituzione analogica, alla terza persona plurale dell’indicativo presente, della desinenza -ono con -ano (della prima classe) è frequente, soprattutto nei verbi in -ere (rispondano, pongano, scrivano, prendano, tolgano, distinguano, reggano, dependano; finiscano, servano): «Altre chiamano . . . Altre rispondano . . .Altre importano separamento» (Bv), «Se ne pongano alchune più per ornamento de‘l parlare» (B2), «scrivano e parlano levando quella coda» (D3v), «l’uso de‘l quale tutte le regole si prendano», «lo, la, le, li, il, sempre si debbono preporre à quei nomi, à quali costoro li tolgano» (Ev), «parlare de Punti che distinguano i sensi ò vero concetti, & li rendono . . . più netti & aperti» (E2v), «percioche li predetti trà nomi e parole alchuna volta reggano dopo se quelle medesime cose» (F), «percioche quasi tutti l’uno dall’altro dependano» (Fv); «quelle cominciano in vocale queste vi finiscano» (A3v), «trà quelle particelle ch’à nomi si prepongono, le quali anchora servano come adherenze de‘l Verbo» (E). k. terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -are in -ono invece di -ano (lavono per lavano: 21), tipo «già vitale nel fiorentino della seconda metà del Trecento», Manni 1979: 145), fenomeno tipicamente toscano (Siena, Firenze: cf. Rohlfs: §532). Nessuna prescrizione ma tre casi di questa sostituzione analogica, contraria alla precedente (usono, chiamono, restono): «usono a dire questi e non quello» (D), «quello che li Greci chiamono soscritti» (D3v), «ce ne restono anchora alchun’altri» (Fv). l. terza persona plurale dell’indicativo imperfetto dei verbi in -are in -avono anziché in -avano (lavavono per lavavano: 24): sostituzione parallela e posteriore alla precedente «le prime forme con -ono all’imperf. indic. sono posteriori di qualche decennio all’apparizione del tipo lavono, da cui in primo luogo dipendono» (Manni 1979: 149); «tipo usuale un tempo a Firenze» e «riprovato dai puristi» (Rohlfs: §550). Nessuna prescrizione e un solo esempio (bisognavono per bisognavano): «a voler dire molte cose insieme ci bisognavono alchune voci che congiungessino li parlari» (B2). Tali forme in -ono sono rarissime in Giambullari (solo due occorrenze al presente: dimandono (101), dirizzonsi (149) in una grammatica molto più voluminosa di quella di del Rosso), alla grande sorpresa di Bonomi (1986: 42 N2): «Da notare, comunque, l’assenza vistosa di alcune forme del fiorentino parlato, che stupisce di non veder figurare come forme dell’‹uso moderno›: p. es.: amono, amavono, amamo al passato remoto, abbi alla 3a pers.». m. il fine -o (prima di -a) alla prima persona dell’indicativo imperfetto (io lavavo per io lavava: 23): «forma dell’uso fiorentino», «non appoggiata dall’autorità letteraria trecentesca» (Bonomi 1986: 43 N2). 75 Laurent Vallance Del Rosso prescrive la terminazione -o prima di -a: «io havevo & haveva» (B4v). Nessun esempio nel testo. n. seconda persona plurale dell’indicativo imperfetto e passato remoto, del congiuntivo imperfetto e del condizionale modellata sulla seconda singolare (voi lavasti, che voi lavassi, voi laveresti: 32): uso «tipicamente quattrocentesco e vivo nel ’500, estraneo al fiorentino letterario trecentesco», «è tratto popolare e come tale non è contemplato (o è proscritto) dalle grammatiche» (Bonomi 1986: 44 N1). Del Rosso prescrive «voi havevi, ò vero havevate», «voi havesti» (B4v), «havessi, ò vero haveste, haresti, haveresti, & havresti» (C). La scrittura è parzialmente conforme: due esempi contro uno nel congiuntivo imperfetto («se parole da questi nomi [voi] formassi»: Cv, «l’havervi solamente ricordato, che ponessi mente come glialtri l’usavano»: C2, ma «quando voi trasponeste l’ordine»: F2); un controesempio al condizionale («come che . . . vi potreste iscrivendo salvare»: C2); nessun esempio al passato remoto né all’imperfetto, dove il fenomeno, di origine settentrionale secondo Rohlfs: §550, «assente nella letteratura due-trecentesca, ricorre come tratto tipico del parlato in molti testi quattrocinquecenteschi» (Bonomi 1986: 43 N4). o. terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -ere e -ire, terza persona plurale dell’indicativo passato remoto forte, del congiuntivo presente e del condizionale in -eno al posto di -ono o -ero (vedeno, disseno, lavasseno, laverebbeno . . . per vedono, dissero, lavassero, laverebbero: 33): «per influsso dei dialetti occidentali (pisano, lucchese e anche sangimignanese e volterrano), dei quali è tipica» (Manni 1979: 164). All’indicativo presente del Rosso nota che «la terza persona de‘l tempo presente & de‘l modo risoluto de‘l parlare & de‘l numero de‘l più si forma dalla terza de‘l numero de‘l meno; onde pigliando una delle parole de‘l primo ordine ò vero Colonnello, & dicendo Amo, Ami, Ama, di questa terza s’aggiugne no, & dice Amano poi pigliando glaltri tre ordini vede, ode, legge, & aggiunto no faranno vedeno, odeno, leggeno; ma meglio si muta la e in o & si dice vedono, odono, leggono» (C3v), anche se ammette che è «meglio» usare le forme in -ono e così pure scrive: si trovano solo due esempi contrari, vedeno (A3), esprimeno (B2), forme caratteristiche anche della koinè italiana dell’epoca (cf. Rohlfs: §532); così nella sua Grammatichetta Trissino raccomanda soltanto «quelli leggenw» (38), e usa anche solo tali forme: «ne li prenwminati ca ɾ i, i quali cwn le già dette particelle cwn lj’articwli si distinguenw» (§9), «nwn admettenw articulw» (§17) . . . sottolineando più avanti che «la e si muta in w . . .: scrivenw, scrivwnw, sentenw, sentwnw . . . E questa mutaziwne di e in i et in w è secwndw la lingua fiwrentina» (§67). Del Rosso prescrive la desinenza -no alla terza persona plurale prima di quella in -ro nel passato remoto: «quelli hebbono, hebbeno, hebbero» (B4v) - la prima forma «estranea agli auctores ma diffusa nella lingua letteraria anche più elevata» e «tipica del fiorentino popolare», la terza, «tradizionale ma presente nel fiorentino vivo scelto» secondo Bonomi (1986: 51 N2); e sola (senza alternativa) nell’im- 76 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato perfetto congiuntivo e nel condizionale presente: «havessino, harebbeno, haverebbeno, & havrebbeno» (C). L’uso rivela una sottile gradazione: nel passato remoto del Rosso usa unicamente la desinenza in -ero (nacquero: A3v, oltre a furno: B2); nel congiuntivo imperfetto alterna ambedue i tipi, quello «del fiorentino popolare, ma con impiego letterario» e quello «della tradizione ma anche dell’uso fiorentino scelto» (Bonomi 1986: 45 N2), forme prescritte: congiungessino, qualificassino («alchune voci che congiungessino li parlari, & in un certo modo li qualificassino»: B2) e forme che vanno quindi considerate omesse nel modello di coniugazione di havere: havessero, fussero, seguissero, sentissero, seguitassero («se li Fiorentini l’havessero a porre»: B3v, «ne conseguiterebbe, che neanchora li derivati di questo s’havessero ad aspirare»: C2, «parrebbe havessero . . . a segnarsi»: D2v); si vedano le citazioni qui sopra al punto h; «per le parole le quali . . . seguissero»: Dv; «quando . . . sentissero qualche errore»: D2; «& tanti quanti parlari perfetti seguitassero»: E3v); nel condizionale, invece, usa piuttosto le forme prescritte, che godevano «nel Cinquecento . . . di maggior fortuna e prestigio» di quelle in -ebbero (Bonomi 1986: 45 N1, che sottolinea che sono le uniche usate da Giambullari): harebbono (esclusivamente, e non harebbeno), sarebbono, rileverebbono, rileverebbeno, potrebbono («senza la quale . . . l’altre voci sarebbono sciolte, e niente rileverebbono»: A4, «senza quella l’altre voci . . . niente rileverebbeno»: C4, «molte cose si potrebbono rispondere»: Ev), contro un’occorrenza di sarebbero nella ripetizione d’una frase dove compariva l’altra forma («senza quella l’altre voci sarebbero sciolte e smembrate»: C4), direbbero, darebbero, potrebbero, segnerebbero («Ma non gia direbbero . . . si come direbbero»: D, «oltre che darebbero bruttezza e confusione»: D2, «alchuni forse potrebbero dire»: Ev, «con tanti punti perfetti si segnerebbero»: E3v). p. terza persona plurale dell’indicativo passato remoto con -mscempia nella desinenza (lavamo per lavammo: 25). Nessuna prescrizione, un solo esempio utile: «Dal’altra banda mostramo qual sia la cagione di esso raddoppiamento» (E2). q. base in -are non in -ernel futuro (e nel condizionale) dei verbi in -are (lavarò, lavarei per laverò, laverei: 27): Manni (1979: 154) nota che l’evoluzione di ar atono a er è fenomeno «tipico del fiorentino e dei dialetti occidentali . . . costante nella prima metà del secolo XIV» e che le forme con ar in luogo di er sono attestate «a partire dalla metà del Trecento». Nessuna prescrizione (tranne il caso particolare d’harò, harei); tre casi di mantenimento della base dell’infinitivo in -anel futuro dei verbi della prima classe: dimostraremo (B), parlaremo (Dv), bastarà (E3), forme normali, in Toscana, nel Senese (oltrecché nell’Italia nord-orientale, cf. Rohlfs: §587) - affogate in una quantità di controesempi: desterà (A3), rileverebbono (A4), discosteranno, accosteranno (A4v), noterete (B4, C2), conseguiterebbe, aspetterete (C2), tornerà (C2v), dichiareremo (C3v), lascerà (C4), errerete (E2), chiamerannosi (E3v). 77 Laurent Vallance r. prima e terza persona singolare, terza persona plurale del congiuntivo presente dei verbi in -ere e -ire rispettivamente in -i e -ino invece di -a, -ano (abbi, abbino al posto di abbia, abbiano: 29): forme tipiche delle parlate della Toscana occidentale (cf. Rohlfs: §555, §557), e del «fiorentino vivo» secondo Bonomi (1986: 50 N1), che aggiunge che sono «estrane[e] alla lingua degli auctores trecenteschi» (anche se troviamo dichi in Dante e abbino in Boccaccio). Per havere, del Rosso dà habbi (e non habbia) alla seconda persona singolare del congiuntivo presente e habbia, habbiano alla terza persona singolare e plurale - e non habbi, habbia, habbino come Alberti, che prescrive d’altra parte «ch’io scriva, tu scriva, lui scriva» nell’optativo futuro per la coniugazione in -e (che raggruppa i verbi dall’infinitivo in -ere e -ire), precisando «e chosì fanno tutti» (§77). Va sottolineato tuttavia che del Rosso usa spesso il fine (della lingua parlata) -ino, invece di -ano, alla terza persona plurale del congiuntivo presente dei verbi della seconda e terza coniugazione: habbino (Ev) - ma habbiano (B4, D, E2v) -, voglino (A3v, B2), raccolghino (B2), preponghino (B2 quindici righe al di sotto di pongano, B3), correspondino (C), s’aggionghino (C4v), debbino (Dv), ponghino (D4v), riduchino (F2), profferischino (otto righe al di sotto di profferisca, B4), servino (E2). A questi 17 tratti sui 43 presentati da Manni (vale a dire un buon terzo), conviene aggiungerne altri 5 che lei non menziona, alcuni perché esistevano già precedentemente, e non sono innovazioni del Quattrocento, altri che corrispondono a questo criterio e sembrano essere stati dimenticati: cinque tratti da considerarsi non letterari, presenti nei testi marginalmente, limitati alle parlate regionali o al registro orale, ma che completano utilmente la lista. s. la desinenza regolare, accanto a quella rifatta in via analogica -iamo, alla prima persona plurale dell’indicativo presente (cf. Rohlfs: §541): «noi habbiamo, ò vero noi haggiamo, ò vero havemo» (B4v) - quest’ultima «estranea da lungo tempo al fiorentino ma presente, pur se scarsamente, negli auctores e nella tradizione» (Bonomi 1986: 51 N1). Haggiamo è il pendant analogico della forma popolare haggio ( *ajo). Del Rosso usa solo habbiamo. Conformemente alla priorità riconosciuta alla forma più recente, si trova nel testo un solo esempio in -emo: scrivemo (D4v) (contro scriviamo: B4, rispondiamo: A4, vogliamo: B2, diciamo: B2v, possiamo: B4), oltre a un altro in -amo: chiamamo (A4v) (contro due chiamiamo: B2v, F, parliamo: B4, troviamo: D2v), un mantenimento delle desinenze etimologiche «d’uso corrente negli antichi testi di Pisa e Lucca» secondo Rohlfs: §530, che precisa che queste forme, conservatesi «nelle parlate campagnole» di Toscana lungo un arco da Pistoia a Siena via Lucca, Pisa, Livorno e Grosseto, sono condannate da Bembo: «Che non amamo valemo leggemo; ma amiamo valiamo leggiamo si dee dire. Semo e havemo, che disse il Petrarcha, non sono della lingua» (27) (si veda anche Prose, 46). t. Alla prima persona singolare dell’indicativo presente di andare, del Rosso usa vo - forma in uso a Firenze, Siena e Pistoia - e non vado: «in vece di dire [T]homaso vo ad Arpino, si dice Io vo ad Arpino» (B). 78 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato u. la generalizzazione analogica, al passato remoto, della base arizotonica, cioè senza l’alternanza ebb- (sg. 1 e 3, pl. 3)/ have- (sg. 2, pl. 1 e 2): havei, havesti, havee, havemmo, haveste, haver(o)no - forme, la prima delle quali prescritta anche da Citolini accanto a ebbi (avei: 40v), di cui Rohlfs (§565-66, 574, 584-86) non dice nulla, con una rara coincidenza delle varianti della prima e della terza persona singolare, attestata anche per i verbi in -ire da Florio che scrive: io mi parti (111v, 113v), (io) pati (116v) per contrazione di partii, patii (cf. Rohlfs: §571) 60 - accanto a hebbi, hebbe, hebbono, hebbeno ou hebbero. Del Rosso prescrive: «Io hebbi, ò vero havei, & anchora havè, tu havesti, quelli hebbe, havee, & havè: & ne’l numero de’l più noi havemmo, voi havesti, quelli hebbono, hebbeno, hebbero, haverono, haverno: che in tanti modi si pûo dire questa terza persona de‘l numero de‘l più» (B4v) 61 e usa hebbe («Dante . . . non hebbe tale avvertenza»: D), oltre a scrisse: C3v, fece, scrissero: D, ma osserva che i contadini toscani dicono piuttosto vedetti o vedei («Dicono pertanto anchora più volentieri io vedetti ò vero vedei ch’io vedè»: D3v). La forma forte vidi, così importante in Dante o in Petrarca («io vidi la speranza dei beati», «uno spirto celeste, un vivo sole/ fu quel che vidi»), non è menzionata. v. Del Rosso raccomanda la forma havee per havè, parallela a ee per è codificata da Giambullari (54) e Florio (èe: 100v), con epitesi di una -e per evitare l’accento sull’ultima sillaba (in termini più tecnici, trasformare l’ossitono in parossitono): «forme presenti nella letteratura due-trecentesca in misura sporadica e prevalentemente con il valore di plebeismi, ben documentate nei testi fiorentini quattrocenteschi, mentre nel ’500, praticamente assenti negli autori, venivano sentite come decisi volgarismi» (Bonomi 1986: 42 N3). Nessun esempio nel testo. w. Nel futuro, del Rosso usa più volte, in concorrenza con le forme tradizionali in -rò, -rai, -rà, le forme «dell’uso vivo» con raddoppiamento analogico della r, «tipiche del fiorentino quattro-cinquecentesco e molto diffuse nei testi letterari . . ., ma estranee agli auctores trecenteschi» (Bonomi 1986: 54 N1): «che ci troverrete molti errori e differenze» (Cv, ma sotto «troverete hebe detto da‘l Petrarca», «Troverete anchora»), «troverrete alchuna volta scritto» (C2v), «troverrete i migliori scrittori» (D4v) - ma «lo troverete posto» (B3v), «troverete aspirato e non aspirato» (C2), «troverete la ragione di tutto» (Ev), «la troverete» (E2); «si scriverrà» (E2) contro «scriverete per F» (B3v). Vi erano due esempi del primo verbo alla seconda persona singolare nella grammatichetta d’Alberti «Non troverrai» (§33), «Nè troverrai» (§70). Tale generalizzazione abusiva della -rgeminata, che risulta dalla sincope e dall’assimilazione, persiste a Siena e Pisa (cf. Rohlfs: §587). 79 60 Già Alberti osservava che la pronuncia delle forme di prima persona era con una i sola: «Ma que’ verbi che finischono in -sco, fanno eı preteriti in -ii per due ii, come esco, uscii; ardisco, ardii; anig h ittisco, anig h ittii (ma, per più suavità, nella lingua toscana non si pronuntiano due iuncte vocali)» (Grammatichetta §74, dove anche dà per udire la forma udi). 61 Pure Trissino dava due coniugazioni: oltre quella con alternanza, anche havei, havesti, havew, havemmw, haveste, haverwnw (Grammatichetta §55). Laurent Vallance Insomma, certe forme sono citate nella parte teorica ma non usate da del Rosso (terza persona plurale del passato remoto in -no, epitesi di -e nelle parole ossitone, plurale in -gli . . .), altre, al contrario, sono utilizzate, mentre manca il sostegno teorico (spesso perché manca un modello di coniugazione dei verbi regolari), e sono a volte molto minoritarie rispetto alle forme concorrenti, tradizionali o letterarie. Si noti poi l’allusione, purtroppo sibillina, alle diverse pronuncie regionali dei verbi in Toscana: «Molte cose anchora ci sarebbono che dire intorno alla parola, & qualche differenza di pronuntia trà li Toscani» (C3v). Se del Rosso non sviluppa il tema, il suo uso fornisce comunque qualche indizio rivelatore in merito: I. l’uso, più che saltuario, di se (per si) quale pronome personale riflesso atono, più spesso in posizione proclitica che enclitica - «Chel suono della voce humana in cinque modi se manda fuora di bocca da tutte genti ma diversamente se segna» (A3), «Che la e & la o suonano in doi modi come che possa dirsi e, & o chiuso & e & o, aperto come se vedeno diversamente scritte nelle rime de’l dressino» (A3), «Che le voci delle quali se compone la favella sono di più sorti» (A4), «Adherenze di parole over adverbij come se dicono da latini» (B), «suole doppiarse», «quando se parla» (B3v), «Del R Che spesso se cambia in L», «Del T che se trova dove non conviene» (C2v), «Al fin del parlare che sia perfetto . . . se fa un ponto», «Il parlare lungo se debba distinguere con virgolette cosi / » (E3v) . . . -, forma che, secondo Rohlfs: §479), è caratteristica della regione di Arezzo (come dell’Ombria, di Roma, del Salento e del nord della Calabria, nonché dell’Italia settentrionale, da dove proviene lo stampatore, Maestro Mattio Cance, Bresciano), un regionalismo assente in Giambullari 62 . II. d’altra parte, l’uso sporadico, alla terza persona plurale dell’indicativo presente nei verbi in -ere, della desinenza con la vocale tematica, -eno, invece di -ono, forme proprie a Lucca e Pisa per la Toscana (Manni 2003: 43-44; cf. sopra punto o.). III. i tre casi, già menzionati (cf. sopra punto q.), di mantenimento della base dell’infinitivo in -anel futuro dei verbi della prima classe, forme normali nella regione di Siena. 15. Le Regole osservanze, e avvertenze: una grammatica del toscano scritta in toscano Se sintetizziamo tutti questi elementi, possiamo concludere che il fondo linguistico fiorentino di del Rosso mostra influenze provenienti dalla Toscana occidentale (Pisa e Lucca: scrivemo, chiamamo; vedeno, esprimeno; voglino, raccolghino, preponghino, profferischino; fusse, fussero; troverrete, scriverrà) o meridionale (Arezzo e soprattutto Siena: se manda, se segna; fusse, fussero; troverrete, scriverrà; 80 62 La presenza diffusa del pronome atono se nel testo e nelle annotazioni è un indizio che hanno uno stesso autore. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato dimostraremo, parlaremo . . .). La sua pertanto non è una lingua composita o artificiale: la presenza di questi tratti, per lo più segnalati da Manni, starebbe a confermare semmai che, dal secondo ’300 al primo ’500, si è verificata una certa toscanizzazione del fiorentino - così come in senso contrario gli altri dialetti toscani hanno accolto dal centro altri tratti -, prima tappa di una lenta omogeneizzazione nell’ambito del ducato. La lingua della grammatica di del Rosso fornisce anzi un ottimo esempio del nascente italiano regionale, documentato a suo modo dagli spogli di Manni. Il carattere spiccatamente toscano del testo dimostra comunque che deve ben poco alla coppia di scrivani Gamucci-Cimello. Alla luce di questa analisi si capisce perché del Rosso, pur essendo nativo di Firenze, abbia scelto per il titolo della sua opera l’espressione «lingua volgare toscana» e non «fiorentina», conoscendo meglio di ogni suo predecessore le differenze non trascurabili che passano tra i dialetti toscani, e conscio che alcuni tratti del fiorentino provengono da zone periferiche della Toscana. Oppure ha preferito non restringere la sua presentazione al fiorentino materno, ma allargarla all’intera regione, per una volontà di generalizzazione comune a tutti i grammatici italiani del tempo. Come gli altri cercano, a partire dai classici che hanno letto e studiato, di individuare nella lingua scritta degli auctores un modello di volgare globale, più o meno toscano o italiano, eliminando le forme statisticamente divergenti e i tratti insoliti ritenuti aberranti, così del Rosso, a partire dalla sua conoscenza delle varie parlate regionali, prova a descrivere (e a scrivere) un toscano comune. Un fatto merita di essere sottolineato a questo proposito. Le Regole osservanze, et avvertenze possono vantare un altro primato: sono la prima grammatica italiana - tranne forse quella di Alberti, il cui titolo originale è dubbio, anche se gli argomenti di chi pensa che le si possa restituire il titolo Della lingua toscana sono buoni (cf. per esempio Colombo 1962: 182) - che specifica geograficamente la lingua di cui tratta 63 . Tutte le grammatiche precedenti infatti presentavano nel titolo 81 63 Il titolo è probabilmente di del Rosso (e non degli editori Gamucci e Cimello). Oltre all’indizio rappresentato da «correttamente scrivere», conviene anche sottolineare che tutte le traduzioni pubblicate da del Rosso portano nella pagina di titolo il sintagma «[tradotto] in lingua toscana», e questo sin dal 1543: 1. Opera di Andrea Fulvio delle antichità della città di Roma et delli edificii memorabili di quella, tradotta in lingua toscana per Paulo dal Rosso (In Vinegia: per Venturino Roffinello, 1543) 2. Le Vite de dodici Cesari di Gaio Suetonio Tranquillo. Tradotte in lingua toscana per m. Paolo Del Rosso cittadino fiorentino (Stampato in Roma: per Antonio Blado Asulano, ad istanza, et a spese di m. Francesco Priscianese fiorentino, 1544) 3. Gaio Cecilio, cognominato poi Plinio secondo il piu giouane . . . De gli huomini valorosi et illustri, tradotto di latino in lingua toscana, da Messere Paulo del Rosso, cittadino Fiorentino (In Vinegia: appresso Gabriel Giolito de Ferrari, 1546) 4. Statuti della religione de Caualieri Gierosolimitani tradotti di latino in lingua toscana dal r. f. Paolo del Rosso caualier’ di detto ordine. Aggiuntoui un breue raccolto dell’origine e fatti d’essa religione. Con la descrizione dell’isola di Malta (In Fiorenza: per li Giunti, 1567). L’uso di «in lingua toscana» è tanto più significativo che si oppone spesso a «di latino», in un contesto dove molti, ancora in quegli anni, userebbero «in lingua volgare». Sorge quindi il dubbio che volgare sia stato aggiunto dopo nel titolo della grammatica, forse da Cimello. Laurent Vallance il sintagma «lingua volgare» o «volgar lingua» (a cominciare dalle due opere fondamentali di Fortunio e Bembo), anche se quasi tutti gli autori - all’eccezione di Trissino, che tiene all’aggettivo «italiana», del trissiniano Carlino che parla di «tersa volgar lingua» e di Delminio - la ritenevano in fondo toscana e così la chiamavano spesso nel testo delle loro opere 64 . Per quanto accanito infatti fosse il dibattito sul tipo di lingua letteraria e sul nome da darle, dal pordenonese Fortunio nel 1516, a cui per primo venne rimproverato di voler «dimostrare altrui» «le regole dagli auttori toschi usate» e «dar norme della tosca lingua» pur essendo «di loquela alla tosca poco somigliante» 65 all’emiliano Acarisio (Vocabolario, grammatica e ortografia della lingua volgare, 1543) che censura «le voci terminanti in eno usate dal Petr.» perché «non sono thoscane» (13), passando dal veneziano Bembo, che nelle Prose della volgar lingua affida l’esposizione di quanto «a parlar toscanamente fa mestiero» al cardinale Giuliano dei Medici, molti assimilano, in modo più o meno sistematico e cosciente, la lingua volgare alla lingua toscana. Ora questo volgare che aleggiava sull’Italia in uno spazio indeterminato, del Rosso lo riporta a terra; questa lingua astratta e sciolta da ogni ancoraggio preciso, l’iscrive, definitivamente, in un territorio reale e la restituisce a locutori concreti. Non sarà certo un caso che il primo a dichiarare nel titolo di una grammatica volgare che scrive regole della lingua toscana sia appunto un Toscano (si tratti di Alberti o di del Rosso). Quanto si è fatto aspettare tale sintagma: «lingua volgare toscana»! Ci sono voluti quasi trent’anni per passare dalle Regole grammaticali della volgar lingua di Fortunio alle Regole osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana di del Rosso, perché si precisasse nel titolo di una grammatica l’origine geografica o la componente geografica maggiore della lingua volgare di cui si trattava, quella lingua oggetto di tante attenzioni e al centro di tanti dibattiti. E appena apparsa la locuzione scompare: se non sbaglio infatti è la prima e l’ultima volta che un epiteto geografico è giunto a «volgare», finora usato da solo 82 64 Le sole eccezioni anteriori (in cui compare «toscano» nel titolo di un opera linguistica) sono due libri che trattano di ortografia e fonetica: Il discacciamento de le nuove lettere inutilmente aggiunte ne la lingua toscana (Roma, 1524) di Angelo Firenzuola, risposta polemica immediata all’epistola de le lettere nuwvamente aggiunte nella lingua italiana di Trissino, pubblicata poco prima nella stessa città, dove «toscana» mira innanzitutto a controbattere «italiana»; e d’altra parte il Trattato de’ diphtongi toscani (Venezia, 1539) del toscano Norchiati (canonico di San Lorenzo, nominato nel 1540 all’Accademia degli Umidi insieme a Bartoli e Giambullari e morto l’anno successivo), dove la precisione è richiesta dalla natura del soggetto - oltre al sopraccitato Cesano della lingua toscana di Tolomei (stampato soltanto nel 1555). 65 Ecco quanto dichiara nella prefazione alla sua grammatica: «Altri poi . . . dicono che, come che altro che ben non sia le regole dagli auttori toschi usate intendere, et quelle intese, dimostrare altrui, a me, come ad huomo di professione molto diversa, & di loquela alla tosca poco somigliante, meno che di fare ogni altra cosa richiedersi, perche, volendo io dar norme della tosca lingua, tutto che vere nelli miei scritti le porgesse, con maniera di parlare da quella degli auttori diversa porgendole, & in quello ch’io volesse altrui insegnare errando, opera ne a me lodevole, ne ad alcun altro dilettevole potrebbe riuscire» (Agli studiosi della regolata volgar lingua, a2v). Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato quasi esclusivamente, e che cade poi lentamente in disuso. «Volgare» serviva da decenni, a torto o a ragione, di sostituto generico a «toscana», termine più preciso che lo implica: è logico che non possano coesistere e che il secondo finisca col subentrare al primo. Già nell’introduzione d’altronde del Rosso preferisce «lingua toscana», che pone sullo stesso piano di «lingua latina»: «Volendo con facilità, à chi non hà al meno i princípij della Grammatica, ciò è dell’Arte de’l bene, e rettamente scrivere; ò la Latina, ò la Toscana lingua, anchora chiamata volgare, dimostrare . . . » (A3). Si è tentati di leggere anchora come un avverbio di tempo piuttosto che come sinonimo di anche. Tale appellazione «lingua Toscana», che torna a p. D3v («Dico che proprietà della lingua Toscana è l’havere dell’agiato e del riposato») risalta tanto meglio in quanto Gamucci, nella dedica, utilizza due volte «lingua volgare» («un libro de brevissime regole della lingua volgare», «traducendo Messer Paulo del Rosso alchune opere latine in lingua volgare»). Il parlare semplice e tradizionale del non addetto si oppone nettamente al rigore del grammatico 66 . Conviene osservare infine che, in due occasioni, per designare la lingua toscana, del Rosso dice «la lingua» tout court: «Ne paia questo avvertimento impertinente massimamente à chi è della lingua» (B2v) e «tuttavia per essere odiosa e ridicula tal pronuntia à tutti i Forestieri della lingua & anchora à quei Toscani e Fiorentini specialmente che fuori de’l paese loro hanno praticato, li conforto assai à guardarsene . . . » (B3v). Lasciando perdere «volgare» che non ha più ragione di essere, del Rosso arriva logicamente a questa locuzione, che si è mantenuta fino ai giorni nostri per distinguere la lingua letteraria dal dialetto (le commedie «in lingua» di Goldoni di fronte a quelle in veneziano). L’espressione generica «la lingua volgare» usata all’inizio del Cinquecento per indicare la lingua letteraria italiana in opposizione al latino cede allora il passo a «la lingua» per contrapporla ai suoi dialetti. 16. Giambullari: l’attenzione maggiore nella codificazione alla lingua parlata Se riassumiamo ora quanto analizzato e confrontiamo sulla scorta dello studio di Manni le quattro principali grammatiche toscane del Rinascimento, quelle di Alberti, di del Rosso, di Giambullari e di Florio, come presentato nel quadro sinottico qui sotto, si osserva che è Giambullari a citare o codificare il maggior numero di forme dell’uso contemporaneo (27, vale a dire la metà dei tratti considerati nel- 83 66 Anche se si trova una volta «volgare» senza ulteriore precisazione: «Habbiamo anchora noi altri volgari alchune particelle, le quali naturalmente à tutti li nomi si prepongono . . . » (B2) e «nella volgar lingua» (D3v) dove ci si aspetterebbe come prima «nella nostra lingua volgare» (A3), dove «nostra» equivale logicamente a «toscana» sotto la penna di del Rosso (che parla dell’apertura delle vocali toscane). Da notare che, più avanti, del Rosso distingue i «Toscani» dagli «altri Italiani»: «quantunque ne Toscani, ne altri Italiani parlando questa lingua la profferischino [i. e. la h]» (B4). Laurent Vallance la tabella, contro 17 a del Rosso, 16 a Alberti e Florio), ma il confronto delle cifre lorde è ingannevole. Per una valutazione più fine conviene ponderarle, tenendo conto di più criteri, a cominciare dal volume rispettivo delle grammatiche (soltanto quella di Florio è paragonabile ai primi due libri di Giambullari, le altre due essendo molto più corte), e dal loro contenuto (nell’opera di del Rosso, come si è visto, la parte riservata alla morfologia è molto ridotta, a favore di considerazioni sulle lettere, l’ortografia e la punteggiatura; più breve, l’opuscolo di Alberti tratta comunque delle parti del discorso in modo più sistematico e particolareggiato, il che lo avvicina alle due grammatiche più sviluppate). Il carattere relativamente ellittico delle Regole osservanze, e avvertenze spiega perché sono queste a presentare il maggior numero di punti interrogativi per quanto riguarda le prescrizioni teoriche (specie nel campo delle coniugazioni: mancano il verbo essere e le tre coniugazioni regolari). È spesso impossibile determinare quale sia la posizione di del Rosso e queste incertezze, anche presenti, in misura minore, negli altri autori, falsano il paragone. Per attenuare le distorsioni dovute alle dimensioni disuguali delle grammatiche e ridurre l’errore derivante dal loro diverso taglio, dalla loro copertura differente del campo grammaticale, si possono neutralizzare i punti dubbi, e, invece di paragonare quanti tratti sono codificati nell’assoluto o rispetto al totale, guardare per ogni singola grammatica la proporzione di tratti codificati in rapporto al numero di tratti non codificati. Si ottiene così un’immagine più fedele dell’adesione di ogni autore alla lingua del suo tempo. Calcolati alla stregua dei segni -, i + sono molto minoritari in Alberti e Florio (16 contro 30 o 31), quasi equilibrati in del Rosso (17 contro 21) e maggioritari in Giambullari (27 contro 23). Con questa correzione, le cifre confermano la grande attenzione prestata da Giambullari nella sua codificazione alle forme dell’«uso moderno», non solo del verbo (domani, i numerali diciassette e diciannove, mila), soprattutto nei confronti di Florio. Anche la grammatichetta d’Alberti che si suole definire un po’ meccanicamente, come una grammatica dell’uso, esce alquanto ridimensionata dal raffronto. Se ora ci si focalizza non più sulla codificazione ma sull’uso personale dei quattro autori, quale emerge dall’analisi del testo delle loro grammatiche, il quadro cambia del tutto. Giambullari è ben lungi infatti dall’usare tutte le forme che cita o raccomanda, e viene sorpassato non solo da del Rosso ma anche da Florio (17, 29 e 18 rispettivamente). Questi due attestano nella loro scrittura più tratti che nella presentazione teorica (29 contro 17 e 18 contro 16), mentre in Alberti e Giambullari, si registra, al contrario, un forte calo, di un quinto o di due (da 16 a 13 e da 27 a 17). Giambullari in realtà non illustra nella sua scrittura più tratti di quanti ne presenta del Rosso (17), e del Rosso, al contrario, ne illustra più di quanto ne raccomanda Giambullari (29 contro 27): un capovolgimento significativo. 84 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato 17. Del Rosso: il maggiore spazio dedicato nel testo alla lingua parlata Per esporre le sue regole, del Rosso usa una lingua che non è libresca o letteraria ma caratterizzata, invece, da una quantità di tratti del parlare toscano contemporaneo (la lingua di Giambullari applica in maniera meno conseguente le regole enunciate). Quel che distingue la sua grammatica da quelle di Alberti o di Giambullari, e dunque da tutte le altre, e la rende originale e unica nella produzione grammaticale del Rinascimento italiano, è il modo in cui rispecchia l’uso linguistico contemporaneo. Diciamo che idealmente una grammatica (non storica) dovrebbe soddisfare a due esigenze: trattare la lingua standard contemporanea ed essere redatta anche in detta lingua in modo che coincidano lingua di esposizione e lingua descritta. Nel Rinascimento siamo ancora ben lungi da una tale configurazione. Bembo cerca di scrivere le Prose della volgar lingua alla maniera di Boccaccio, di cui propone la lingua a modello, ma l’inconveniente è che detta lingua non è più quella della Toscana del primo Cinquecento; Giambullari prova a raccomandare la lingua che si usa a Firenze nel primo Cinquecento tenendo però sempre d’occhio quella dei maestri del Trecento, a cui si ispira. Del Rosso invece lascia del tutto perdere i modelli letterari del passato: non solo la lingua che usa coincide con quella che raccomanda ma questa lingua si avvicina alla lingua del tempo come in nessun’altra grammatica coeva. Tutto sommato, se si combinano punti di vista teorico e pratico, le Regole osservanze, e avvertenze si riferiscono di più alla lingua parlata che non le grammatiche di Alberti o di Giambullari, e meritano quindi a buon diritto il titolo di prima grammatica dell’uso toscano vivo, fermo restando che la grammatica di Giambullari è più completa, di struttura più leggibile e d’impianto forse più moderno dell’opuscolo atipico di del Rosso. Da un punto di vista strettamente grammaticale, le Regole di Giambullari, che si possono fregiare di trattare ampiamente la sintassi, risultano più pregevoli di quelle di del Rosso. 18. Giambullari e del Rosso: due grammatici opposti Se ci si avventura fuori dal campo grammaticale per fare un excursus nella biografia e nell’impegno politico dei due autori, forse si capisce meglio l’orientamento diverso delle loro grammatiche. Giambullari ha trascorso l’intera vita nella città natia, fedelissimo ai Medici, al servizio dei quali era entrato da giovane (già a sedici anni): membro influente dell’Accademia fiorentina (fondata dal duca Cosimo nel 1541), la quale si dimostrava incapace di raggiungere l’obiettivo che si era prefisso - redigere e pubblicare una grammatica toscana di riferimento -, decise di stenderne una a titolo personale, e la regalò a Francesco, figlio maggiore del duca, probabilmente per il suo settimo compleanno nel 1548. Concepite per le autorità fiorentine in seno all’accademia ducale da un letterato fine, franco-tiratore e opportunista, le Regole della lingua fiorentina sono una grammatica da élite, la 85 Laurent Vallance grammatica ufficiosa del regime. In questa prospettiva, la lingua del popolo di Firenze, le cui simpatie politiche erano dubbie, non offriva una base linguistica appropriata; ci voleva un modello più alto. Giambullari perciò, qualunque fossero i propri gusti, non volle (o non osò) accontentarsi dell’«uso moderno» dei concittadini, e giudicò più opportuno assumere quali locutori di riferimento gli auctores, quelle vecchie glorie nazionali su cui si era fondata la cultura letteraria ufficiale del ducato, ampiamente citate. Ecco d’altronde quanto dichiara nella sua dedica A lo illustrissimo et Eccellentissimo Principe, il Signor Don Francesco de’ Medici, Primogenito del Signor Duca di Firenze, Signor Suo Osservandissimo (a-b): il disio nondimeno ardentissimo di giovare in quel ch’io poteva; se non a’ nostri medesimi, che di me non hanno bisogno; a’ forestieri almanco, ed a’ giovanetti che bramano di saper regolatamente parlare et scrivere, questa dolcissima lingua nostra, tanto onorata et pregiata, non solamente in Italia tutta; ma in tutte le regali et prime corti della Europa; mi ha stimolato ed acceso l’animo in così fatta maniera, che posto da parte qualsivoglia rispetto, mi sono assicurato pur finalmente a mettere insieme, sotto nome et forma di Regole, quanto io ho saputo ritrarre de’l vero uso degli antichi buoni scrittori, et de’ miglior moderni che abbiamo. Giambullari cioè non si è comportato molto diversamente da Fortunio 67 . Donde risulta nelle Regole di Giambullari questa strana mescolanza di lingua parlata e di lingua d’arte, d’Alberti temperato con Bembo, per così dire, che si ritrova poi solo in Salviati, l’altro grammatico toscano «di regime» del Rinascimento 68 . Del Rosso invece è un ribelle, che aveva dovuto lasciare Firenze precocemente per via delle sue convinzioni repubblicane e per sfuggire alla repressione della dinastia medicea. Redige la sua grammatica in esilio a Napoli all’inizio degli anni 1540. Dante è stato anch’egli bandito per motivi politici, Bocaccio è vissuto anch’egli a Napoli: queste coincidenze biografiche forse possono suscitare la simpatia di del Rosso, ma non bastano certo per erigere a modello linguistico questi famosi predecessori, emblematici, sì, di un’epoca in cui Firenze era ordinata a Repubblica, ma diventati nel frattempo autori ufficiali del ducato (la Commedia 86 67 Che nella prefazione così racconta la genesi delle sue Regole grammaticali della volgar lingua, prima grammatica italiana a stampa (settembre 1516): «Soleva io nella mia verde etade, . . . quanto di otioso tempo dallo essercitio mio delle civili leggi mi venia concesso, tanto nella lettura delle volgari cose di Dante, del Pet. e del Boccaccio dilettevolmente ispendere. & scernendo tra’ scritti loro li lumi dell’arte poetica, et oratoria non meno spessi che a noi nella serena notte si mostrino le stelle, & non con minor luce che in qualunque più lodato auttore latino, risplendere: non mi potea venir pensato che sanza alcuna regola di grammaticali parole la volgar lingua così armonizzatamente trattassono . . . & con più cura alquanto, rileggendoli; & il mio aviso non vano ritrovando, per ammaestramento di me medesimo, quelli finimenti di voci che a ffare o generali regole, overo con poche eccettioni, mi paressono convenevoli, cominciai a raccogl i ere» (a2). 68 Nota lucidamente Bonomi (1986: xl): «Il riferimento agli autori pervade tutta l’opera: l’esemplificazione letteraria, alternata a quella tratta dalla lingua dell’uso, è massiccia, esclusiva in alcune parti e contrariamente alla dichiarazione dell’autore, . . . limitata ai tre grandi del ’300, se si eccettuano alcune sporadiche citazioni da altri autori fiorentini». Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato viene letta e commentata pubblicamente, il Decameron è un bene nazionale maneggiabile e rimaneggiabile a piacere, come dimostra la commissione Salviati vent’anni più tardi). Alla lingua scritta una volta dagli auctores ben visti dalle autorità, del Rosso preferisce la lingua parlata dai Toscani della sua giovinezza, dal popolo analfabeta che non parla «tout comme un livre», perché non ha imparato a parlare leggendo, ma parlando; alla lingua dell’élite e del potere ducale, preferisce la lingua di tutti, la lingua comune degli anonimi; la lingua che ha nell’orecchio, ed è (con i ricordi) quanto sempre rimane all’esule, il legame più forte e intimo che lo ricollega al paese natìo; la lingua materna, che sola permette, finché la si parla (seppure in una rapida rassegna in vista di una grammatica), di sormontare l’esilio. 19. Un’adesione limitata alla lingua contemporanea Si sa che la lingua volgare di cui i primi grammatici italiani stabiliscono le regole, non è tanto la lingua parlata in Toscana dal popolo - variabile da un’area regionale all’altra - quanto la lingua scritta dagli autori toscani, più o meno antichi - il cui vantaggio è di offrire, se non una più grande omogeneità, almeno una base più solida per definire una norma nazionale applicabile da tutti gli scrittori italiani. Questo vale anche per i grammatici toscani, compreso del Rosso o Giambullari. Prova ne sia che questi non rendono conto di molte evoluzioni importanti subite dalla lingua toscana tra l’epoca delle Tre Corone e il momento in cui stesero la loro grammatica. Parecchi tratti linguistici che secondo Manni si sono affermati a Firenze tra la fine del Trecento e l’inizio del Cinquecento, e che si possono considerare caratteristici del toscano rinascimentale non sono attestati in nessuna delle grammatiche toscane elencate all’inizio di questo articolo, nemmeno da quegli autori più sensibili alla lingua parlata contemporanea. Non si tratta solo di fenomeni minori o puntuali, quali il passaggio da / l/ a / w/ (autro per altro: 2) e il suo dileguo in ultimo ( utimo: 42); il rafforzamento di / w/ in / vw/ all’initiale (uomo vuomo, uovo vuovo: 5); la sincope di -iintertonico tra -te -s- (vent(i)sei venzei, Orzanmichele: 15); la metatesi (con passaggio di / d. . .tr/ a / dr. . .t/ ) in dentro ( drento: 36) o dietro ( drieto: 37); la dissimilazione parziale in iersera ( iarsera: 39) o in venerdì ( venardì: 43); la prima persona plurale in -no e non in -mo (laviano per laviamo, lavereno per laveremo, lavavano per lavavamo: 31); la duplicazione della preposizione in (in nel per nel: 40) 69 ; l’epitesi 87 69 In un passo alquanto confuso, del Rosso non attesta il fenomeno ma l’analisi erronea che ne sta all’origine (siccome la preposizione non è più riconosciuta nella forma articolata, cioè contratta con l’articolo, la si ripete separatamente). È uno dei suoi argomenti contro le scritture univerbate dallo, dello, nello, allo . . .: «et percioche in tal modo s’usa e sempre si dice . . . lo honesto, & qualunque nome di questa sorte ricerca innanzi à se detto Articolo, de‘l quale si priva congiungendolo à da facendone una sola voce adherenza di nome ò vero di parola la quale dica dallo» (Ev). Laurent Vallance di -n o -r in su davanti a un (Sun e sur invece di su nei sintagmi in sun un, in sur un: 41) Contrariamente alle tendenze osservate da Manni, si constata il mantenimento del dittongo mobile dopo i nessi {consonante occlusiva + r} [1] in Giambullari e specie in Florio. Il plurale dei nomi (e aggettivi) femminili in -e è sempre in -i (e non in -e: 7), e questo presso i quattro autori studiati più da vicino nella tabella qui sotto (censurata da Fortunio (1-v): dimenticata da Bembo (III, 5), tale variante è menzionata da Trissino (§15): «e questw è propriw fiwrentinw»). I possessivi sono dappertutto conformi all’uso moderno e non si trova né mie, tuo, suo invariabili (anche se Alberti §98 nota la toscanità di «mie pro mio e mia»), né mia, tua, sua al plurale per ambedue i generi [11]. Non c’è neanche traccia del tipo glielo con accusativo variabile in luogo di gliele invariabile [9]. Tranne un esempio isolato in del Rosso (sodisfaria, B3), il condizionale è sempre in -ei, -esti, -ebbe . . . mai in -ia [28] Altri tratti si trovano solo presso uno o due autori. Ad esempio gli articoli maschili el e e per il e i [8] sono attestati soltanto nella grammatichetta d’Alberti §25, che è l’unica a prescrivere desinenze con -mscempia (invece di -mm-) alla prima persona plurale sia del passato remoto (tipo lavamo per lavammo) (§48, §60, §70, con un solo esempio nel testo, dicemo: §75) che del condizionale presente (§58, §65) - vi è però un esempio isolato al passato remoto in del Rosso: mostramo (E2). La desinenza -eno per -ono alla terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -ere è ammessa solo da del Rosso (C3v), che è pure l’unico a raccomandare e ad utilizzare, nel congiuntivo imperfetto, le forme in -ino anziché in -ero (essi avessino: 30), mentre Giambullari le cita senza usarle - le Regole osservanze, e avvertenze offrono due esempi di ogni fenomeno: vedeno (A3), esprimeno (B2) e congiungessino, qualificassino (B2). Solo del Rosso segnala il plurale in -gli (invece di -li: 6) dei nomi maschili in -lo (li cervegli, C3v) o attesta la dentalizzazione di / skj/ (schiene stiene, maschio mastio: 3): stiavo per schiavo (C2v). La riduzione del nesso / kw/ a / k/ (dunche per dunque: 10) è praticata solo da Giambullari, in maniera sistematica - in Alberti, che scrive adonque e qualunque, la si legge in negativo nelle quattro occorrenze [§11, §12, §32, §38] della forma ipercorretta anque per anche. Giambullari è anche l’unico ad attestare il passaggio da / zj/ a / gj/ (o persino a / dj/ : giusto ghiusto, suggetto sugghietto, ghiaccio diaccio: 4) in agghiettivo (14), a citare (tutte a pagina 150) le forme moderne domani (impiegata a p. 46) e stamani (per domane e stamane: 35), diciassette e diciannove (per dicissette et dicennove: 13) e mila (per milia: 14) (ma, se non sbaglio, questi numerali sono del tutto assenti dalle altre grammatiche, sicché non è detto che Alberti, del Rosso o Florio preferissero le forme antiche). La base messal passato remoto di mettere per analogia con il participio passato messo (messo missinvece di mis-: 17, di origine occidentale (Manni 2003: 44)) si registra solo in Florio - promessi (2), si messe (14) -, che è anche l’unico, d’altra parte, a utilizzare più volte la forma di pronome personale soggetto femminile la, così tipicamente fiorentina, pendant del maschile ei / e / gli: «parmi cosa ragionevole primamente dirvi donde nasca che l’è cosi stimata [= la nostra lingua thosca- 88 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato na]» (4), «E quando l’ha [= la preposizione di] tale sentimento sempremai serve al caso Ablativo» (15v). Ammessa teoricamente da Alberti e Florio, ma non da Giambullari, la forma sete per siete alla seconda persona plurale dell’indicativo presente di essere è usata una sola volta da Florio (50v) in concorrenza con l’altra (3). Riconosciuta in sede teorica da del Rosso e Florio (che però non l’usa mai), la terza persona plurale dell’indicativo imperfetto in -ono anziché -ano (lavavono per lavavano: 24) è impiegata, pure un’unica volta da del Rosso. Segnalate solo da Giambullari e Florio, le forme di terza persona plurale del passato remoto in -or(o)no invece di -arono sono presenti a livello di tracce: due esempi in Alberti, uno in Florio, nessuno in del Rosso né in Giambullari. Certe forme sono menzionate in teoria ma non vengono usate: Florio cita anco (107) e fuora (115) ma usa esclusivamente anche e fuori. Quel che colpisce è la grande eterogeneità linguistica tra autori, tutti (salvo Alberti) nati a Firenze nel giro di pochi anni al volgere del Cinquecento: un fenomeno menzionato o una forma usata in una grammatica sono del tutto ignorati in un’altra che invece prescrive o attesta altri tratti. Questo ci mostra anche come bisogna essere cauti quando si pretende definire la lingua di una data regione a una determinata epoca, per esempio il toscano quattrocentesco: sommare i tratti registrati in tutti gli scrittori toscani del tempo ci permette di individuare la diversità della lingua e l’estensione dell’uso, che comporta sempre comunque una notevole componente individuale. Ogni locutore dispone solo di una parte, più o meno importante, della propria lingua, nella quale opera una selezione più o meno cosciente o attiva. 20. Grammatiche dell’uso, ma di un uso scelto È più rapido fare l’inventario dei tratti presenti in almeno tre autori (sui quattro studiati). Oltre alla base ardi avere nell’indicativo futuro e nel condizionale presente (arò, arei per avrò, avrei: 18), le forme dia, stia per dea, stea al congiuntivo presente di dare e stare [19], l’estensione analogica della base in -rrnell’indicativo futuro (e nel condizionale) (troverrai per troverai . . .), la forma e’ quale pronome personale soggetto maschile e neutro, che si trovano più o meno nell’uso dei quattro autori, eccoli per ordine decrescente di frequenza: - la base di essere in -u- (e non in -o-) all’indicativo passato remoto e al congiuntivo imperfetto (fussi per fossi, fusti per fosti: 20); - le forme vo per vado e fo per faccio alla prima persona singolare dell’indicativo presente di andare e fare; - la terza persona plurale del congiuntivo presente dei verbi in -ere e -ire in -ino (invece di -ano) (abbino, voglino, finischino e anche vadino invece di abbiano, vogliano, finiscano, vadano: 29) (ma se alla seconda persona singolare, la desinenza usuale è -i non -ia, alla terza è -ia); 89 Laurent Vallance - la terza persona plurale dell’indicativo passato remoto dei verbi in -are in -orono e -orno (accanto a -arono) (lavorono, lavorno per lavarono: 26); - la prima persona singolare dell’imperfetto indicativo in -o (accanto a -a) (io lavavo per io lavava: 23); - la seconda persona plurale dell’indicativo passato remoto, del congiuntivo imperfetto e del condizionale modellata sulla seconda persona singolare (voi lavasti, che voi lavassi, voi laveresti: 32) (prescritta da Alberti, del Rosso e Giambullari, è attestata nella scrittura soprattutto nel congiuntivo imperfetto); - la terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -ere in -ano (accanto a -ono) (vedano per vedono: 22); - la terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -are in -ono (accanto a -ano) (lavono per lavano: 21); Complessivamente si tratta solo di una dozzina di tratti sulla cinquantina considerata, tra quelli enumerati da Manni e altri. Conclusione L’analisi della lingua codificata e usata nelle Regole osservanze, e avvertenze corrobora la tesi sostenuta all’inizio, dimostrando che il testo porta chiaramente la firma del fiorentino del Rosso. Se proprio le origini oscure dell’opera, la sua nascita illegittima, sono il motivo principale perché essa è stata a lungo ignorata (e quasi disprezzata) dagli studiosi, ricuperando l’«autorità» di del Rosso si viene così a ripristinare la dignità di questa grammatica importante. Per quanto limitata sia l’adesione dei grammatici italiani del Rinascimento alla lingua contemporanea, questo studio poi conferma che bisogna fare un discorso a parte per i toscani. Bonomi e Patota rispettivamente avevano dimostrato che Giambullari e Alberti proponevano nelle loro grammatiche una lingua più vicina all’uso di quella, spiccatamente letteraria e talvolta arcaizzante, propugnata dai loro colleghi. Il caso del Fiorentino del Rosso ne è la riprova. Mentre per gli scrittori originari delle altre regioni d’Italia il volgare letterario, imparato nei libri, è una lingua decisamente libresca e straniera, per i Toscani si tratta di una lingua più vicina a quella che parlano e sentita come delle loro parti. È quindi più facile per questi conciliare uso passato e contemporaneo (giustapponendo diacronicamente più forme), oppure selezionare nella letteratura i tratti linguistici meno invecchiati o rimasti vivi, in altri termini di mettere in rilievo, nella loro presentazione, o persino nella loro codificazione del toscano quei punti in cui lingua parlata e scritta coincidevano e di realizzare un compromesso. Comunque stiano le cose, fatto sta che Alberti, del Rosso e Giambullari, tutti e tre toscani, sono i tre grammatici che hanno presentato nella loro grammatica, la lingua meno letteraria e arcaica di tutti. Non sarà certo un caso. Nancy Laurent Vallance 90 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Appendice: Paragone dei tratti della lingua parlata contemporanea in quattro grammatiche toscane. Autore, Alberti del Rosso Giambullari Florio Grammatica Grammati- Regole Regole d. Regole d. chetta osservanze . . . lingua lingua fiorentina thoscana data (ca. 1440) (1545) (1552) (1553) tratti t u t u t u t u base di avere in arindic. futuro + + + + + + + + condizionale + ? + + + + - + presente sete per siete + ? ? ? - - + + pl. 2 indic. presente di essere base di essere in -u (e non -o) indic. p. rem. congiuntivo + + ? ? + + + + imperfetto + + ? + + + - 1 suto participio - - ? - (+) - + - p. di essere eramo pl. 1 indic. - - ? ? + ? - ? imperfetto di essere vo per vado, fo + ? ? + ? + + + per faccio . . . messi per misi ? ? ? ? ? ? ? + dia, stia per dea, stea + + ? + ? + ? + (congiuntivo presente) desinenza regolare -a/ -e/ -i-mo (oltre a quella in -iamo) pl. 1 dell’indicativo - - ? + ? 1 1 - - + + - - - presente desinenza -eno ? - + + - - - - per -ono pl. 3 dell’indicativo presente nei verbi in -ere 91 Autore, Alberti del Rosso Giambullari Florio Grammatica Grammati- Regole Regole d. Regole d. chetta osservanze . . . lingua lingua fiorentina thoscana data (ca. 1440) (1545) (1552) (1553) tratti t u t u t u t u Laurent Vallance desinenza -ano - - - + - - (+) + per -ono pl. 3 dell’indicativo presente nei verbi in -ere desinenza -ono per -ano pl. 3 dei verbi in -are nell’indicativo presente - - - + - - + (+) e imperfetto - - - 1 - - + - desinenza -o + - + ? + - (-) + (oltre a -a) sg. 1 indic. imperfetto° fine con -mscempia pl. 1 indic. passato + + - + - - - - remoto pl. 1 condizionale + ? - - - - - - presente desinenza pl. 2 calcata su sg. 2 indic. imp.° - / + ? / + +/ + ? / ? +/ (+) - - ? / 1 e p. remoto* congiuntivo + ? + + (+) - - 1 imperfetto* condizionale + ? + - - - - ? presente* fine -orono per - + ? + + - + + -arono* (e (e pl. 3 dell’indicativo -orno) -orno) -orno p. remoto nei verbi in -are desinenza -no per -ro pl. 3 nell’indicativo - 1 + - (+) - (+) - p. remoto pl. 3 congiuntivo - - + (+) + + - - imperfetto* pl. 3 condizionale - - + + + + - - presente 92 Autore, Alberti del Rosso Giambullari Florio Grammatica Grammati- Regole Regole d. Regole d. chetta osservanze . . . lingua lingua fiorentina thoscana data (ca. 1440) (1545) (1552) (1553) tratti t u t u t u t u Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato desinenza -i(no) per -a(no)* sg. (pl.) 3 cong. -/ 1 - - -/ + -/ + -/ + (+)/ + -/ + pres. nei verbi in -ere e -ire epitesi di una -e - - + + + - + (èe) - nelle forme ossitone, verbali o no generalizzazione - - + + - - - - della base arizotonica n. passato remoto base in -arnei verbi in -are indicativo futuro - - ? + - - - - condizionale - - ? - - - - - presente estensione della base in -rr-* indicativo futuro - (+) - (+) + (+) - (+) condizionale - ? - ? + -? - -? presente condizionale in -ia - - - 1 - - - - el, e per il, i + + - - - - - - (articolo masch.)* e’/ gli quale pron. + + + + + + + + s. m. e n. la quale pron. - - - 1 - - - + pers. s. fem. glielo, gliela . . . - - - - - - - - per gliele invar. riduzione del ? + ? + ? - ? - dittongo mobile (-oper -uò-; -eper -iè-) passaggio di / skj/ a - - (-) - - - - - / stj/ 93 Autore, Alberti del Rosso Giambullari Florio Grammatica Grammati- Regole Regole d. Regole d. chetta osservanze . . . lingua lingua fiorentina thoscana data (ca. 1440) (1545) (1552) (1553) tratti t u t u t u t u Laurent Vallance passaggio di / zj/ a / / - - - + - - / gj/ pl. in -e dei n. e agg. - - - - - - - - fem. in -e* plur. in -gli -li dei - - + - + - - - n. m. in -lo duoi al m. per due - - - + - (+) - - dua - 1 - 1 - - - - diciassette, dician- ? ? ? ? + ? ? ? nove per dicissette, dicennove mila per milia ? ? ? ? + ? ? ? -che per -que - [-] - - + + - - (dunche, dovunche . . .) anco per anche - - - + + - + - domani, stamani ? ? - - ? + - ? per domane, stamane fuora accanto a - ? + + + - + - fuori se per si (pron. - - - + - - - - rifless. atono) + / - (su 49) 16/ 50 13/ 25 17/ 21 29/ 16 27/ 23 17/ 31 16/ 31 18/ 28 Abbreviazioni agg.: aggettivi n.: nomi pron.: pronome fem.: femminile N: neutro rem.: remoto imp.: imperfetto p.: passato s./ sogg.: soggetto indic.: indicativo pers.: personale m./ masch.: maschile pl./ plur.: plurale 94 Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Per ogni grammatica si precisa se il tratto sia contemplato o meno in sede teorica (t: colonna di sinistra) e se sia attestato o no nella prassi scrittoria dell’autore (u: colonna di destra). +: il tratto considerato è espressamente prescritto o attestato. +: le forme che illustrano il tratto considerato precedono le altre. Per esempio, il + nella colonna del Rosso per il tratto «arò per avrò . . . / arei per avrei . . . (indicat. futuro/ condiz. presente di avere)» significa che, nella sua grammatica, queste forme sono indicate prima di altre: «Io harò, haverò, & havrò . . . » (B4v), «harai, ò vero haverai, & havrai tu» (C). (+): il tratto considerato è attestato nella scrittura, ma minoritario. 1: il tratto considerato è attestato un’unica volta. -: solo il tratto alternativo è prescritto o attestato. Per esempio, Alberti prescrive solo e usa sempre la desinenza -ono (e mai -ano) per la terza persona plurale dell’indicativo presente dei verbi in -ere. -: il tratto considerato è espressamente censurato. Per esempio Florio nota a proposito della prima persona plurale dell’indicativo presente: «È stato chi ha usato dire Amamo, Leggemo, Havemo. ma non son’ voci propriamente thoscane» (77v). (-): le forme corrispondenti, seppur menzionate, sono ritenute «meno toscane», «meno corrette» o «meno comuni» delle altre. Per esempio Florio nota a proposito della prima persona singolare dell’indicativo imperfetto: «La detta prima persona ancora si fa finire in o e dire Amavo, Compravo, etc. ma la prima è piu thoscana» (79). [-]: non è attestato il tratto considerato bensì forme ipercorrette che presentano il tratto contrario. Per esempio, Alberti scrive «adonque» e «qualunque» ma usa «anque» per «anche», che tradisce la tendenza diffusa nella lingua a ridurre / kw/ a / k/ . ? : la questione non è affatto trattata o non vi è nel testo un esempio utile per determinare la preferenza dell’autore. Per esempio, Alberti prescrive una desinenza di seconda persona plurale modellata sulla seconda del singolare all’indicativo passato remoto (t: +) ma non all’imperfetto (t: -) e se troviamo, infatti, esempi al passato remoto nella Grammatichetta (u: +), all’imperfetto invece non abbiamo nessun esempio di seconda persona plurale, ne di «voi avevi» ne di «voi avevate»: impossibile quindi sapere quale sia l’uso dell’autore (u: ? ). / : Il tratto non può essere presente essendosi affermato dopo la morte dell’autore. *I tratti contrassegnati da un asterisco sono ancora citati da Salviati, nel capitolo X del libro secondo del volume primo Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone (1584), come esempi delle «scorrezioni, se però tutte o parte scorrezioni son da dire», di cui «alcuni stranieri» «al nostro moderno popolo poco discretamente danno (il biasimo)»: «Ma perche ciò che noi diciamo molto rilieva a ribattere il biasimo che, dietro a questa parte, al nostro moderno popolo poco discretamente danno alcuni stranieri, delle predette scorrezioni, se però tutte o parte scorrezioni son da dire, alcuni esempli ci piace recare avanti e far conoscere a chi ha creduto il contrario che el per il, e buoni per i buoni, le fecero per elle fecero, sua parole e tua piedi per sue parole e tuoi piedi, gentile donne per gentili donne, partiano e troverreno per partiamo e troverremo, voi amavi per voi amavate, voi mostrasti e voi diresti per mostraste e direste, arrivorono e levorsi e do- 95 Laurent Vallance mandonno per arrivarono, levaronsi e domandarono, serà, che per sarà si dice in Toscana da certi popoli ma non dal nostro, io rimanesse per rimanessi, nel quale a’ nostri tempi, più che la plebe, incorrono i letterati, egli andassi per egli andasse, voi fossi per voi foste, facessino per facessono, io abbi o egli habbi e quei vadino in vece d’abbia e di vadano, indrieto per indietro, prieta per pietra, eziandio nel miglior secolo, non che nella favella, alcuna volta trascorsero nelle scritture» (Pozzi 1988: 831-32). A proposito di voi fossi per voi foste, Salviati aggiunge: «il quale abuso è oggi nella plebe cotanto universale che fa ridere i circustanti chi lo dice altramente» (ibid.). All’imperfetto indicativo l’uso della desinenza -o per -a alla prima persona e l’estensione della forma della seconda singolare alla seconda persona plurale è notato anche da Delminio, che consiglia tuttavia di seguire l’esempio degli antichi (cioè di attenersi a io amava e voi amavate): «A me pare che l’uso d’hoggi habbia ottenuto che la prima di questo preterito imperfetto termini in O, & dicesi amavo, & usasi oltra di questo di porre la seconda de’l singolare in luogo della seconda del plurale, cioè amavi, volendo significare, amavate. Io per me giudicarei ottimamente fatto il seguire in cio gli antichi massimamente il Petr. & il Bocc.» (134). Questo dimostra che anche grammatici non toscani erano al corrente delle tendenze della lingua contemporanea. Bibliografia Testi Acarisio, A. 1543: Grammatica, in: P. Trovato (ed.) 1988: Vocabolario, grammatica e ortografia della lingua volgare (ristampa anastatica di Vocabolario, grammatica, et orthographia de la lingua volgare d’Alberto Acharisio da Cento, con ispositioni di molti luoghi di Dante, del Petrarca, et del Boccaccio, Cento), Bologna Alberti, L. B. ca. 1440: Grammatichetta, in: G. Patota, G. (ed.) 1996: «Grammatichetta» e altri scritti sul volgare, Roma: 15-39 Bembo, P. 1525: Prose della volgar lingua, in: C. Vela 2001: L’«editio princeps» del 1525 riscontrata con l’autografo Vaticano latino 3210, Bologna 70 Citolini, A. 1540-1575: Scritti linguistici. A cura di C. di Felice, Pescara 2003 (Comprende Lettera in difesa de la lingua volgare, Venezia 1540 e Grammatica de la lingua italiana, ca. 1575: 383- 418 e 215-365) 71 Corso, R. 1549: Fondamenti del parlar thoscano, Venezia del Rosso, P. 1545: Regole osservanze, et avvertenze sopra lo scrivere correttamente la lingua volgare Toscana in prosa & in versi, Napoli Delminio, G. C. 1560: Grammatica, in: Il secondo tomo dell’opere di M. Giulio Camillo Delminio, cioè, la Topica ouero dell’Elocutione. Discorso sopra l’Idee di Hermogene. la Grammatica. Espositione sopra il primo & secondo sonetto del Petrarca, Venezia, 123-49 [edizione postuma, redazione anteriore al 1544] Florio, M. 1553: Regole della lingua thoscana, in: G. Pellegrini 1954: «Michelangelo Florio e le sue Regole della lingua thoscana», Studi di filologia italiana 12: 104-201 [i riferimenti sono alla paginazione del manoscritto] Fortunio, G. F. 1516: Regole grammaticali della volgar lingua. Riproduzione anastatica dell’edizione originale (Ancona, Bernardino Vercellese) a cura di C. Marazzini e S. Fornara, Pordenone 1999 Gaetano, T. 1539: La grammatica volgare trovata ne le opere di Dante, di Francesco petrarca, di Giovan boccaccio di Cin da pistoia di Guitton da rezzo, Napoli [edizione postuma, redazione anteriore al 1531] Giambullari, P. F. 1552: Regole della lingua fiorentina, ed. da I. Bonomi, Firenze 1986 [i riferimenti sono alla paginazione originale] 96 70 I riferimenti sono ai paragrafi del terzo libro salvo indicazione diversa. 71 I riferimenti sono alla paginazione originale. Uh che bel caso! Il grammatico dimezzato Priscianese, F. 1550: Della lingua romana libri sei, Vinegia, Bartolomeo Zanetti da Brescia, 1540 (nel mese d’Agosto). Seconda edizione: Della lingua latina libri sei, Vinegia, Erasmo di Vincenzo Valgrisi [le citazioni sono tratte da Vignali 1980] Priscianese, F. s. d.: De Romanis fastigiis et linguæ tuscæ vel de pronuntiatione, Biblioteca Palatina di Parma, ms. Parm. 2331 [le citazioni sono tratte da Vignali 1980] Salviati, L. ca. 1576: Regole della toscana favella. Ed. critica a cura di A. Antonini Renieri, Firenze 1991 Salviati, L. 1584: Degli avvertimenti della lingua sopra ’l Decamerone, Venezia, in: M. Pozzi (ed.) 1988: Discussioni linguistiche del Cinquecento, Torino: 791-896 Trissino, G. G. 1524-1529: Scritti linguistici. A cura di A. Castelvecchi, Roma 1986 (Comprende l’epistola de le lettere nuwvamente aggiunte nella lingua italiana, il Dialwgw del Trissinw intitulatw il Castellanw, nel quale si tratta de la lingua italiana, I dubbii grammaticali, La grammatichetta) Studi Bonomi, I. 1978: «A proposito di alcune forme verbali nella grammatica di Pier Francesco Giambullari», Studi di grammatica italiana 7: 375-97 Bonomi, I. (ed.) 1986: «Introduzione», in: P. F. Giambullari, Regole della lingua fiorentina, Firenze Bonomi, I. 1998: «Giambullari», in: B. Colombat/ E. Lazcano (ed.): Corpus représentatif des grammaires et des traditions linguistiques, vol. 1, Paris: 339 Colombo, C. 1962: «Leon Battista Alberti e la prima grammatica italiana», Studi linguistici italiani 3: 176-87 Di Felice, C. 2003: «Introduzione», in: A. Citolini, Scritti linguistici, Pescara: 7-213 Fiorelli, P. 1956: «Pierfrancesco Giambullari e la riforma dell’alfabeto», Studi di filologia italiana 14: 177-210 Grayson, C. 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