Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniJuhani Härmä/Elina Suomela-Härmä/Olli Välikangas (ed.), L’art de la philologie. Mélanges en l’honneur de Leena Löfstedt, Helsinki (Société Néophilologique) 2007, 319 p. (Mémoires de la Société Néophilologique de Helsinki 70)
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Francesco Carapezza
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Juhani Härmä/ Elina Suomela-Härmä/ Olli Välikangas (ed.), L’art de la philologie. Mélanges en l’honneur de Leena Löfstedt, Helsinki (Société Néophilologique) 2007, 319 p. (Mémoires de la Société Néophilologique de Helsinki 70) Leena Löfstedt, esponente della illustre scuola di romanisti scandinavi e allieva diretta di Veikko Väänänen, è festeggiata da ventiquattro studiosi affiliati a istituzioni universitarie e di ricerca non solo finlandesi (Helsinki e Jyväskylä, sedi principali del suo insegnamento) ed europee (Cracovia, Parigi, Nancy, Bruxelles, Bielefeld, Innsbruck, Pavia, Aberystwyth, Bucarest), ma anche americane (Berkeley, Chicago, Evanston) e asiatiche (Gerusalemme, Tokyo). Alcuni contributi prendono spunto dai lavori più importanti della studiosa, ovvero la tesi dottorale sulle espressioni di comando e di divieto fra latino e romanzo (Helsinki 1966), e la monumentale edizione critica della versione antico-francese del Decretum Gratiani, pubblicata in cinque volumi dal 1992 al 2001 per la Societas Scientiarum Fennica, sulla quale è imperniata buona parte della sua produzione saggistica recente (si veda l’elenco delle pubblicazioni in fondo al volume, 301-19). Alla prima s’ispirano i rilievi di A. Englebert (69-78) sulle formule ingiuntive presenti in due ricettari antico e medio-francesi, gli Enseingnementz qui enseingnent a apareillier toutes manieres de viandes della fine del sec. XIII (BNF, lat. 7131, c. 99v-100r) e un Viandier Taillevent della metà del sec. XV (Paris, Bibliothèque Mazarine, ms. 3636, c. 219-28): a parte la scontata preminenza del presente indicativo e, in misura minore, del presente congiuntivo, cui si affiancano esempi circoscritti e problematici di infinito nel secondo testo, desta qualche perplessità l’attribuzione di valore ingiuntivo al futuro in clausola che segue una compatta serie di indicativi negli Enseingnementz (prenez . . . cuisiez . . . fetes . . . ecc. si avrez vostre comminee, 72, es. 8), e soprattutto l’interpretazione di due costrutti insoliti del Viandier (Tructes cuictes en aigue et mangier . . .; Abletes cuites avec parressi et maingier . . ., 76, es. 26 e 27), da spiegare semmai in relazione con formule del tipo Carpe soit cuite en aigue et maingier . . . (ib., es. 24), quali esempi di un presunto «participe passé injonctif» (77) che non avrebbe lasciato traccia nella lingua oltre il Quattrocento. Partendo dal glossario selettivo contenuto nell’ultimo volume dell’opus magnum della festeggiata e mettendo a frutto le banche-dati del medio-francese (DMF) approntate dall’équipe ATILF, G. Roques (217-30) offre invece una «petite liste commentée de mots régionaux», in tutto ventiquattro, che indirizzano verso «l’Ouest au sens large» (228) e sono riconducibili per il loro arcaismo piuttosto alla fine del sec. XII che a quella del successivo, in conformità con l’ipotesi avanzata da Löfstedt che il Decretum sia stato tradotto nell’entourage di Thomas Becket durante l’esilio in Francia (1164-70). Nel quadro della sintassi di afr. ja, anche l’approfondita indagine di O. Välikangas (281-300) utilizza l’edizione del Decretum per studiarne il frequente costrutto in cui la particella è seguita da una negazione completa (ja + ne . . . pas) e sembra rivestire valore argomentativo. Esso traduce tipicamente domande retoriche introdotte da numquid che presuppongono una risposta negativa, trasformandole in asserzioni negative: ad es. «Ingressus es ut aduena, numquid ut iudices? » (Gen. 19.9) viene reso in un luogo con l’interrogativa «fu ce por jugier nos? » (V + S), ma poco più avanti con «ja n’i venis tu pas por jugier nos! » (292). Tale processo di «riscrittura negativa» innescata dall’avverbio interrogativo latino risulta essere peculiare della versione di Graziano (almeno a giudicare dal confronto con le citazioni bibliche contenute nei coevi Quatre livres des rois) e lo stesso costrutto impiegato come «rejet d’une proposition» relativamente raro nella lingua letteraria dei sec. XII-XIII (si citano quattro esempi da opere narrative in versi, ma non parrebbe lecito inferire che siano gli unici): si avanza perciò l’ipotesi che possa trattarsi di una «construction typique de l’idiolecte d’un traducteur ou d’un groupe de traducteurs» (297), dovuta all’intenzione di facilitare la lettura da parte di un pubblico inesperto di questioni teologiche. All’interesse per il lessico giuridico medievale di Löfstedt si ricollega in- 240 Besprechungen - Comptes rendus fine il contributo di D. Trotter (257-70) sul cosiddetto Mirror of Justices anglo-francese (propriamente Mireur a Justices, ca. 1285-90), conosciuto più dai giuristi che dai linguisti, di cui presenta alcuni ragguagli sulla struttura (cinque capitoli a imitazione dei libri del Pentateuco? ), sulla retorica (tendenza alla ripetizione e alla tripartizione della materia) e soprattutto sul lessico, classificando fra le oltre mille citazioni dell’opera presenti nell’Anglo- Norman Dictionary almeno 15 prime attestazioni e 43 hapax (ma alcuni vanno emendati o eliminati) non sempre riconducibili alla terminologia giuridica: fra questi lemmi si contano ben 24 aggettivi deverbali in -able, una vera e propria classe di neologismi che esprimono il senso della possibilità, in linea, secondo l’autore, col proposito morale intriso di religiosità del trattato. Fra i rimanenti contributi d’interesse precipuamente romanzo, si segnala quello di J.-P. Chambon (13-25) che, nel solco metodologico di un saggio di ormai dieci anni fa («L’agencement spatial et fonctionnel des vicaries carolingiennes dans le Midi de la Gaule: une approche linguistique» RLiR 63 (1999): 55-174) e sulla base dei documenti raccolti da F. de Gournay nella sua tesi dottorale (Le Rouergue de l’an mil. De l’ordre carolingien à l’ordre féodal, Rodez-Toulouse 2004), si propone di far convergere dati linguistici e dati storici per chiarire l’origine di alcune località del Rouergue medievale: si tratta in particolare di vallis Lendisca (att. 937), interpretato come coronimo deidronimico dal fluvium Linde (att. 885, limpidu), che avrebbe costituito fin dal 900 circa una circoscrizione di base (vicaria) del sistema amministrativo carolingio con centro da situare ipoteticamente nell’ecclesia sancti Michaelis de Landesca (att. 1116, oggi Saint-Michel-de-Landesque, comune di Les Costes- Gozon, Aveyron); e della coppia toponimica Candas-Candadès, cui era stato riferito erroneamente un ministerium Condadense (att. 948), ma che fornirebbe invece un valido indizio per ricostruire l’esistenza di una vicaria *Candatensis bicefala, con centro amministrativo e sito difensivo geograficamente separati, nella valle del Tarn. Dalla toponomastica si passa alla linguistica testuale con l’intervento di B. Combettes (27-42) che analizza i processi di identificazione dei referenti noti («ridenominazione» dei personaggi) nel tessuto narrativo del romanzo Jehan de Saintré (1456) di Antoine de la Sale (ed. J. Blanchard 1995) distinguendo il livello discorsivo (cambio di unità o di piano narrativo, distanza fra le menzioni, catafora «apparente») da quello frastico (cambio di statuto sintattico, prossimità del verbo) e giungendo, con le limitazioni dovute alla conservatività della prosa narrativa e alla mancanza di uno studio complementare sui processi d’introduzione di referenti nuovi, alla conclusione che la preminenza dei fattori discorsivi su quelli che pertengono alla struttura sintattica della frase costituirebbe una «spécificité du codage de la cohérence textuelle telle qu’elle se présente durant la période du moyen français» (41). Stimolato dai recenti studi etimologici di A. Eskénazi/ Sankèze apparsi sulla R 123 (2005): 273-91 e 124 (2006): 1-49, P. Flobert (79-87) ritorna sul problema semantico di lat. tutare, riconosciuta base di fr. tuer e di altre forme romanze centro-meridionali fin dai tempi di Diez, per rilevare che in testi latini di ambito religioso dal VI (Règle du Maître) al IX secolo (Ordus Romanus) il termine sembra essersi specializzato per indicare «l’extinction graduelle des lampes» (85) e che il significato circoscritto di tuer ‘spegnere (il fuoco)’ riapparirà, quasi un fossile semantico, nel sec. XVI; si ipotizza perciò, sulla base della sola variante «tuta lampada de parte dextra» contenuta in un ms. dell’Ordus (BNF, lat. 974), un’accezione ‘sécuriser, mettre en sûreté’ del verbo mlat. tutare che farebbe da ponte tra il significato originario del dep. tutari (‘protéger’ ma anche ‘écarter’) e quello dei continuatori medievali romanzi, come aoc. (a)tudar, ait. stutare ‘spegnere’, quindi afr. tuer ‘uccidere’ (dalla metà del sec. XII, in concorrenza con ocire). L’ingegnosa soluzione pecca forse di eccessiva sottigliezza e andrebbe più solidamente documentata. Dai contributi di taglio analitico si passa alla chiara sintesi espositiva di B. Frank-Job (89- 100), autrice con J. Hartmann dell’Inventaire systématique des premiers documents des 241 Besprechungen - Comptes rendus langues romanes (Tübingen 1997), che enfatizza il ruolo dello scriba nel processo di Verschriftlichung dei volgari romanzi distinguendo «trois phases bien distinctes qui se succèdent dans chaque région» (89). A una prima fase d’innovazione (grossomodo sec. IX-X) in cui gli scribi, pur educati all’interno della tradizione latina, sperimentano nuovi accorgimenti grafici (uso ridotto delle abbreviazioni, scriptio discontinua) e nuove soluzioni di mise en page in funzione di una «prassi comunicativa bilingue» (l’esempio offerto in questo senso, ovvero il cd. Sermone su Giona, è un caso più unico che raro) seguirebbe una seconda fase (sec. XI-XII) in cui si formano i primi modelli di scritturalità romanza per imitazione e adattamento di quelli offerti dalla tradizione latina (si ricorda il caso delle chansons epiche che riprendono la mise en page dei testi virgiliani e dei poemetti agiografici che imitano gli schemi delle canzoni liturgiche e paraliturgiche latine, con divisioni strofiche e possibile introduzione della notazione musicale, ad es. Passion di Clermont-Ferrand), e quindi una terza fase (sec. XIII) in cui la «culture vernaculaire écrite» si emancipa dalla tradizione latina e si costituiscono atelier di scrittura (eminente quello di Guiot de Provins) e mercati librari esclusivamente romanzi. L’avvincente percorso delineato dall’autrice ha il merito di mettere in evidenza l’iniziativa, a volte personale, degli scriventi e la fecondità dell’approccio codicologico riguardo il delicato processo di affermazione degli idiomi romanzi nel mondo della scrittura; non va dimenticato, però, che la distinzione e la successione schematica delle prime due fasi (innovazione e sperimentazione prima, imitazione e adattamento poi) non è sempre così evidente: si pensi per es. al sicuro assetto grafico-fonologico e alla ordinata disposizione della Cantilena di sant’Eulalia (ca. 880) che riflette piuttosto i parametri della seconda fase nonostante l’arcaicità del reperto. È verosimile, in effetti, che l’opposizione sperimentale/ tradizionale a livello di mise en texte e di mise en page osservabile in questa lunga fase aurorale della scritturalità romanza (sec. IX-XII) sia da mettere in relazione a condizionamenti per così dire esterni allo scrivente, quali la tipologia testuale, il contesto manoscritto, la funzione della scrittura, ecc., per cui gli appunti vergati da un predicatore in vista della recitazione di un sermone e l’accurata registrazione di testi altamente formalizzati come la Vie de Saint Léger e la Passion all’interno del Liber glossarum di Clermont non andrebbero visti sullo stesso piano. Segnaliamo ancora la scrupolosa recensione di T. Matsumura (147-56) dell’edizione J. M. Pinder, The Life of Saint Francis of Assisi. A Critical Edition of the Ms Paris, Bibl. Nat. fonds français 2094 (= versione B dell’afr. Vie de Saint François d’Assise, databile al 1250 ca.), uscita nel 1995 presso una casa editrice obsoleta come il Collegio S. Bonaventura di Roma e forse anche per questo passata inosservata agli addetti ai lavori; le annotazioni linguistiche di W. D. Paden (185-95) sulle formule di scongiuro occitane di Clermont-Ferrand (sec. X) tese a rilevarne l’arcaicità rispetto alla lingua letteraria del sec. XII; e infine l’articolato saggio di E. Schulze-Busacker (239-50) sulle tre opere in versi attribuibili all’anglonormanno Chardri (= Richard? ), attivo tra fine XII e inizio XIII secolo, di cui si cerca di delineare «l’horizon culturel . . . et si possible celui de son public présumé» (239). Se la Vie de Seint Josaphaz e la Vie des Set Dormanz si qualificano come «riduzioni», sia dal punto di vista teologico che da quello tematico, di tradizioni agiografiche complesse, è soprattutto il cosidetto Petit Plet, dibattito fra un vecchio e un giovane saggio la cui attribuzione congetturale a Chardri non viene però discussa, che offre materiale interessante per via del noto riuso della tradizione paremiologica di scuola (Disticha Catonis, De remediis fortuitorum dello Pseudo-Seneca, cui viene ad aggiungersi la Fecunda ratis di Egberto di Liegi), anche specificamente insulare (Proverbia del maestro di retorica Serlon di Wilton, ca. 1150-70), coniugato ad allusioni al «contexte féodal immédiat» (244): si ipotizza, in conclusione, che lo sconosciuto autore non sia stato un chierico vagante o un giullare, ma abbia diffuso un «message chrétien simple» (248) per un pubblico variegato ma circoscritto, forse quello dei propri parrocchiani. Sarebbe stato forse utile, in questa prospettiva, sfruttare anche ele- 242 Besprechungen - Comptes rendus menti di critica esterna, come la tradizione e il contesto manoscritto. Si tratta comunque, a ben vedere, dell’unico contributo di carattere letterario di questi mélanges peraltro intitolati all’art de la philologie: segno involontario di una specializzazione senz’altro fruttuosa ma che rischia di scindere la disciplina in due settori talvolta poco comunicanti. I rimanenti contributi sono: A. Bochnakowa, «Plaisir de lire l’Hexaglosson Dictionarium (Varsovie, 1646)»; B. De Marco/ J. R. Craddock, «Miracles at Montpellier: Petrus Calò and the Early Legends of St. Peter Martyr»; P. F. Dembowski, «Robert de Clari and the Shroud Revisited»; J. Härmä/ E. Suomeli-Härmä, «Daignez agréer ce foible hommage . . . Dédicaces et hommages dans les dissertations de l’Université royale de Turku»; M. Iliescu, «Je sème à tout vent» (sulla diffusione europea del fr. a partire dal lessico); W. Man´ czak, «Le mythe de l’origine scandinave des Goths»; O. Merisalo, «Mein lieber, lieber Werner. La correspondance de Ludwig Traube et Werner Söderhjelm»; S. Nevanlinna, «So many names for the pigeon in medieval English writings»; T. Pekkanen, «Vad visste Horatius om de nordiska länderna? » [Cosa sapeva Orazio dei paesi nordici? ]; I. Piechnik, «Tendances à diversifier les adpositions dans les langues romanes et balto-finnoises»; H. Rosén, «On Particles and Otiose Emendations: Epitactic sed»; H. Solin, «Zum Akkusativ als Universalkasus im Lateinischen»; M. Tut¸ escu, «L’universalité de la distinction de re vs de dicto». Francesco Carapezza Italoromania I poeti della Scuola siciliana. Volume 1: Giacomo da Lentini. Edizione critica con commento a cura di Roberto Antonelli; volume 2: Poeti della corte di Federico II. Edizione critica con commento diretta da Costanzo Di Girolamo; volume 3: Poeti siculo-toscani. Edizione critica con commento diretta da Rosario Coluccia, Milano (Mondadori) 2008, clxvii + 688 p., ccx + 1103 p., clxxxiv + 1253 p. (I Meridiani) il giorno è sempre un po’ più oscuro sarà forse perché è storia sarà forse perché invecchio La produzione poetica della Scuola siciliana era fino a oggi leggibile solo grazie a raccolte antologiche - tra le quali spicca quella curata da G. Contini (Poeti del Duecento, Milano- Napoli 1960), una vera e propria pietra miliare per la nostra filologia -, o all’edizione completa allestita da B. Panvini (Le rime della Scuola siciliana, Firenze 1962), filologicamente viziata da gravi mende, e praticamente priva di commento. I tre volumi che qui si presentano sono dunque la prima edizione critica completa, e accompagnata da una minuziosa glossa, della nostra più antica poesia; è condivisibile il giudizio di Cesare Segre, il quale, commentando a caldo l’uscita dei volumi (cf. Corriere della Sera, 24 giugno 2008), ha scritto che si tratta di un avvenimento: infatti «i Siciliani sono i primi poeti d’arte in Italia e possono senz’altro essere considerati i fondatori della tradizione letteraria italiana», anzi «la poesia dei Siciliani costituisce uno dei tesori più preziosi della lirica europea», come giustamente sottolinea Costanzo Di Girolamo nell’Introduzione al secondo volume (xvii e xciii). Con questa pubblicazione la filologia italiana compie senz’altro un passo importante, che ci potrebbe portare ad avere una visione più chiara della poesia che precede lo Stilnovo, anche se molto lavoro resta ancora da fare (a quando l’edizione completa del corpus di Guittone, vale a dire della personalità poetica più importante prima di Dante? Quella di Bonagiunta, fortunatamente, è ormai pronta per la stampa). Il primo dei tre «Meridiani», che contie- 243 Besprechungen - Comptes rendus
