Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2009
681
Kristol De StefaniI poeti della Scuola siciliana. Volume 1: Giacomo da Lentini. Edizione critica con commento a cura di Roberto Antonelli; volume 2: Poeti della corte di Federico II. Edizione critica con commento diretta da Costanzo Di Girolamo; volume 3: Poeti siculo-toscani. Edizione critica con commento diretta da Rosario Coluccia, Milano (Mondadori) 2008, clxvii + 688 p., ccx + 1103 p., clxxxiv + 1253 p. (I Meridiani)
121
2009
Paolo Gresti
vox6810243
menti di critica esterna, come la tradizione e il contesto manoscritto. Si tratta comunque, a ben vedere, dell’unico contributo di carattere letterario di questi mélanges peraltro intitolati all’art de la philologie: segno involontario di una specializzazione senz’altro fruttuosa ma che rischia di scindere la disciplina in due settori talvolta poco comunicanti. I rimanenti contributi sono: A. Bochnakowa, «Plaisir de lire l’Hexaglosson Dictionarium (Varsovie, 1646)»; B. De Marco/ J. R. Craddock, «Miracles at Montpellier: Petrus Calò and the Early Legends of St. Peter Martyr»; P. F. Dembowski, «Robert de Clari and the Shroud Revisited»; J. Härmä/ E. Suomeli-Härmä, «Daignez agréer ce foible hommage . . . Dédicaces et hommages dans les dissertations de l’Université royale de Turku»; M. Iliescu, «Je sème à tout vent» (sulla diffusione europea del fr. a partire dal lessico); W. Man´ czak, «Le mythe de l’origine scandinave des Goths»; O. Merisalo, «Mein lieber, lieber Werner. La correspondance de Ludwig Traube et Werner Söderhjelm»; S. Nevanlinna, «So many names for the pigeon in medieval English writings»; T. Pekkanen, «Vad visste Horatius om de nordiska länderna? » [Cosa sapeva Orazio dei paesi nordici? ]; I. Piechnik, «Tendances à diversifier les adpositions dans les langues romanes et balto-finnoises»; H. Rosén, «On Particles and Otiose Emendations: Epitactic sed»; H. Solin, «Zum Akkusativ als Universalkasus im Lateinischen»; M. Tut¸ escu, «L’universalité de la distinction de re vs de dicto». Francesco Carapezza Italoromania I poeti della Scuola siciliana. Volume 1: Giacomo da Lentini. Edizione critica con commento a cura di Roberto Antonelli; volume 2: Poeti della corte di Federico II. Edizione critica con commento diretta da Costanzo Di Girolamo; volume 3: Poeti siculo-toscani. Edizione critica con commento diretta da Rosario Coluccia, Milano (Mondadori) 2008, clxvii + 688 p., ccx + 1103 p., clxxxiv + 1253 p. (I Meridiani) il giorno è sempre un po’ più oscuro sarà forse perché è storia sarà forse perché invecchio La produzione poetica della Scuola siciliana era fino a oggi leggibile solo grazie a raccolte antologiche - tra le quali spicca quella curata da G. Contini (Poeti del Duecento, Milano- Napoli 1960), una vera e propria pietra miliare per la nostra filologia -, o all’edizione completa allestita da B. Panvini (Le rime della Scuola siciliana, Firenze 1962), filologicamente viziata da gravi mende, e praticamente priva di commento. I tre volumi che qui si presentano sono dunque la prima edizione critica completa, e accompagnata da una minuziosa glossa, della nostra più antica poesia; è condivisibile il giudizio di Cesare Segre, il quale, commentando a caldo l’uscita dei volumi (cf. Corriere della Sera, 24 giugno 2008), ha scritto che si tratta di un avvenimento: infatti «i Siciliani sono i primi poeti d’arte in Italia e possono senz’altro essere considerati i fondatori della tradizione letteraria italiana», anzi «la poesia dei Siciliani costituisce uno dei tesori più preziosi della lirica europea», come giustamente sottolinea Costanzo Di Girolamo nell’Introduzione al secondo volume (xvii e xciii). Con questa pubblicazione la filologia italiana compie senz’altro un passo importante, che ci potrebbe portare ad avere una visione più chiara della poesia che precede lo Stilnovo, anche se molto lavoro resta ancora da fare (a quando l’edizione completa del corpus di Guittone, vale a dire della personalità poetica più importante prima di Dante? Quella di Bonagiunta, fortunatamente, è ormai pronta per la stampa). Il primo dei tre «Meridiani», che contie- 243 Besprechungen - Comptes rendus ne l’opera di Giacomo da Lentini, è totalmente a carico di Roberto Antonelli; il secondo, dedicato ai Poeti della corte di Federico II, è diretto da Costanzo Di Girolamo; il terzo, infine, diretto da Rosario Coluccia, si occupa dei Poeti siculo-toscani. I direttori dei volumi secondo e terzo firmano solo le rispettive Introduzioni, giacché l’edizione dei testi è affidata a un nutrito gruppo di studiosi: Marco Berisso, Giuseppina Brunetti, Corrado Calenda, Annalisa Comes, Aniello Fratta, Riccardo Gualdo, Pär Larson, Fortunata Latella, Sergio Lubello, Gabriella Macciocca, Mario Pagano, Stefano Rapisarda, Margherita Spampinato Beretta. Pubblicare questi 337 testi - 150 Siciliani e 187 Siculo-toscani - è stato senz’altro un lavoro più che meritorio, che ha prodotto un’edizione monumentale in una collana di prestigio, destinata a fornire per lungo tempo il testo di riferimento per buona parte della poesia italiana che precede lo Stilnovo. Proprio per questo spiace sorprendere più di una sbavatura in alcuni dei tredici valorosi collaboratori, come se alcuni di loro non si trovassero perfettamente a loro agio sull’insidioso terreno della lirica italiana delle Origini. Forse l’équipe è troppo folta, forse poco omogenea: basti pensare che sugli anonimi - canzoni e sonetti - si avvicendano ben quattro studiosi diversi, con inevitabili squilibri operativi. Non escludo che se le molte mani che hanno confezionato questi testi fossero state guidate saggiamente da un’unica regia il prodotto finale sarebbe stato migliore. Ciascun volume è aperto da una ricca Introduzione, da una corposa Nota al testo e da un’esauriente bibliografia, ed è chiuso dall’utilissimo indice dei Luoghi citati nel commento (suddiviso in Testi del corpus, Testi di trovatori, trovieri e Minnesänger e Altri testi), nonché dall’Indice dei capoversi. I componimenti sono editi tutti criticamente, e il testo è preceduto da un cappello che dà informazioni metriche, ecdotiche, a volte contenutistiche, ed è seguito da un commento di solito ben informato, che dà ragione delle scelte fatte, che illustra le eventuali interpretazioni alternative, che allega i loci paralleli, in qualche caso con una larghezza forse perfino eccessiva. La dovizia delle informazioni utili fornite al lettore per comprendere in modo adeguato i testi, però, è talvolta viziata dalla mancata dichiarazione dei debiti contratti con gli studiosi che in precedenza hanno affrontato la medesima materia: è sconcertante scoprire una diffusa reticenza nel rivelare le fonti, sia, banalmente, nel caso di loci paralleli presentati nel commento, sia, ed è più grave, nel caso di aspetti o problemi particolari, come le soluzioni ecdotiche adottate a testo. Per fare un solo esempio: chi pubblica il testo 18.1 Ruggeri Apugliese, Umile sono ed orgoglioso legge il v. 20 «giorno e notte istò ’n pensagione», mentre il testimone unico ha isto poisasgione; nella nota si sottolinea che la correzione è necessaria, e che l’errore del copista è «sfuggito per una volta all’acribia» di Avalle 1 : all’editore è però sfuggito che l’emendamento era già in Contini (che legge «giorno e notte istò in pensagione»). Nelle schede dei singoli componimenti - che qui seguono - si trova un’esigua campionatura di tali «dimenticanze». Data la complessità e la ricchezza della materia, preferisco cominciare con qualche annotazione di carattere generale, per procedere solo in un secondo momento all’esame autoptico di una scelta, peraltro necessariamente ristretta, di componimenti. Nell’introduzione al primo volume Roberto Antonelli mette giustamente l’accento sull’importanza per l’intera Scuola della figura di Giacomo da Lentini; se infatti la nascita e lo sviluppo del movimento poetico andrà «attribuito . . . a Federico II e alla sua politica culturale», è ben vero che il Notaro - così nelle rubriche del Vaticano latino 3793 (d’ora in poi: V) 2 - 244 Besprechungen - Comptes rendus 1 Concordanze della lingua poetica italiana delle origini, I, a cura D’A. S. Avalle, Milano-Napoli 1992. 2 Gli altri due canzonieri antichi della nostra lirica delle Origini sono: Firenze, Biblioteca Mediceo-Laurenziana, Redi 9 (L) e Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 217 (ex Palatino 418: P). «è certamente il grande fondatore letterario, in quanto caposcuola e auctor canonico» (xviii), benché non sia stato, probabilmente, il primo poeta della Scuola: i pochi dati a nostra disposizione lo collocano tra i primi anni Trenta e i primi anni Quaranta del XIII secolo, anche se si potrà retrodatare qualche suo verso (in ogni caso «non abbiamo elementi sicuri per classificare cronologicamente tutte le rime di Giacomo o per individuare un ordinamento in qualche modo attribuibile all’autore»: xli). Per la comprensione dell’importanza di Giacomo e per la definizione stessa della Scuola è fondamentale il disegno storiografico-letterario di V, che pone in risalto, appunto, l’opera del Notaro, collocando all’inizio dell’antologia proprio la canzone Madonna, dir vi voglio, che, essendo una traduzione-rifacimento da Folchetto di Marsiglia, segna oltretutto in modo emblematico anche il debito artistico contratto dai Siciliani nei confronti dei Provenzali. Il primato artistico di Giacomo da Lentini è sancito, poi, dall’attenzione con la quale i poeti contemporanei e posteriori guardano ai suoi versi, fino al limite del plagio. Ma se la posizione di preminenza di Giacomo all’interno della Scuola ha riscosso consensi si può dire unanimi fin dalle origini - è un dato che questa nuova edizione mette bene in risalto, lasciando al Notaro un volume a sé stante -, assai più delicata è la questione relativa alla consistenza del corpus accolto nei «Meridiani». Nell’Introduzione al secondo volume Costanzo Di Girolamo scrive che esso «coincide sostanzialmente con quello di Panvini», visto che «è opinione comune che questa raccolta rappresenti . . . il canone corrente e quindi un condiviso modello di riferimento»; sono stati, però, accolti alcuni suggerimenti migliorativi, soprattutto dal Repertorio metrico di Antonelli, tra i quali una «distinzione . . . tra gli autori riconducibili, in linea di massima, alla Scuola vera e propria e gli autori siculo-toscani» (cx) 3 . Verrebbe da dire - un po’ malignamente, forse - che l’ammissione di questa duplice paternità (Panvini e Antonelli) potrebbe illuminare il mistero che avvolge la scomparsa del sonetto anonimo A simile ti parlo se m’intendi. Trasmesso dal solo V, nel quale occupa il numero 384 (f. 116 v ), questo sonetto manca infatti curiosamente all’appello sia nell’edizione curata da Panvini, sia nel Repertorio di Antonelli, riemergendo però dagli abissi dell’oblio tanto nei miei Sonetti anonimi 4 , quanto nelle Concordanze di Avalle. Ritengo sia piuttosto grave che esso scompaia di nuovo in questa importante edizione senza che se ne spieghi il perché 5 . È intricata la selva delle inclusioni e delle esclusioni. La poesia toscana che precede lo Stilnovo ha una consistenza fluida e viscosa a un tempo; essa annovera, come scrive Rosario Coluccia, sia «poeti nati e operanti in Toscana [che] ripropongono con adattamenti il modello siciliano», sia altri autori, che «tentano più decisamente il distacco e avviano la sperimentazione di forme relativamente più autonome»: si decide, dunque, di «chiamare Siculo-toscani i primi, coniando la qualifica di Toscano-siculi per i rimatori di varia estrazione che, in maniera più o meno esplicita e dichiarata, innovano rispetto ai grandi predecessori» (Introduzione al terzo volume: xlii). Lo studioso è ben consapevole della fragilità delle etichette, in particolare di quelle che non hanno alcun appoggio documentario: e ammette infatti che tra gli stessi Siculo-toscani possono allignare poeti «più aperti a contatti con la produzione toscana coeva, in primo luogo quella d’impronta guittoniana» (lii). Per questo non riesco a cogliere appieno il valore euristico di questa nuova etichetta, quando si consideri che già la vecchia (Siculo-toscani) non convince, e viene di volta in volta modellata sui gusti e la sensibilità degli studiosi che la usano. Non capisco bene, per fare qualche esem- 245 Besprechungen - Comptes rendus 3 Si veda R. Antonelli, Repertorio metrico della scuola poetica siciliana, Palermo 1984. 4 Sonetti anonimi del Vaticano Lat. 3793, a cura di P. Gresti, Firenze 1992. 5 Si noterà, en passant, che il sonetto non è del tutto ignoto ai curatori dell’edizione, giacché Antonelli lo cita un paio di volte nel suo commento alle poesie del Notaro e Berisso in una nota a Tiberto Galliziani, Già lungiamente, Amore: negli indici dei componimenti citati esso figura però sempre tra gli Altri testi. pio, perché Chiaro Davanzati debba essere considerato toscano-siculo e Bondie Dietaiuti siculo-toscano; o perché Bonagiunta Orbicciani appartenga alla prima categoria (lui che, secondo Contini, è vicinissimo «alla matrice siciliana, anzi lentiniana»), mentre la Compiuta Donzella, alla quale invia una lettera Guittone, è inserita nella seconda; o perché non possa essere accolto Pacino Angiulieri, la cui canzone Quale che per amor riprende chiaramente Pier delle Vigne e Giacomino Pugliese. E ancora: perché includere Caccia di Siena, Per forza di piacer, lontana cosa (canzone che si lega, come scrive il suo editore S. Lubello, al «modello lentiniano Dal core mi vene, che arriva a Bonagiunta, Guittone e Petrarca»), ma escludere Lemmo Orlandi, Lontana dimoranza? Perché è assente Ciuccio, al quale in V vengono attribuiti cinque componimenti (D’uno fermo pensero, Lontano e perillioso afanno, De sua grave pesanza, Donna, eo forziraggio, Ben me pensava)? Non solo «lo stacco tra Siciliani e Siculo-toscani non può essere individuato con assoluta precisione né sulla base dell’ambiente di produzione né su base cronologica» (Introduzione al volume 2: cx), ma gli stessi confini all’interno dei Siculo-toscani sono tracciabili solo con notevoli incertezze, e il nuovo cartellino Toscano-siculi, ben lungi dal semplificare il panorama, mi pare che anzi rischi di ingarbugliare senza motivo una matassa già aggrovigliata. Il problema si aggrava, evidentemente, per i testi anonimi, spesso usati dai copisti per riempire spazi di pergamena rimasti bianchi, tanto che per tali componimenti risulta «francamente temerario arrischiare la collocazione storico-culturale . . . in base alla loro posizione nei diversi fascicoli» (Introduzione al terzo volume: lviii-lix), anche in manoscritti che seguono una successione grossomodo cronologica (come, per esempio, V). Si aggiunga che spesso i compilatori dei canzonieri più antichi dimostrano di avere conoscenze limitate e deficitarie, perché non solo sbagliano a volte le attribuzioni, ma in alcune occasioni considerano adespoti testi il cui autore è invece a noi noto. Sono pochi gli anonimi che si possono collocare con un certo margine di sicurezza, e si tratta soprattutto di canzoni che hanno precisi riferimenti storici, o di componimenti che rivelano l’appartenenza linguistica dell’autore (ma l’argomento linguistico è sempre da considerare con molta cautela); ne deriva che la spartizione di questi testi tra i Siciliani e i Siculo-toscani è un esercizio i cui risultati rischiano di essere assai spesso puramente teorici: per questo motivo non concordo con la scelta di sistemare gli anonimi in due distinti volumi. Avrei preferito, insomma, che la giusta affermazione di Coluccia, che è opportuno «accostarsi con grande cautela» agli anonimi, la cui «definizione [è] particolarmente controversa» (Introduzione al terzo volume: lxi) risultasse più chiaramente operativa. Basterà qui un esempio. La canzone La mia amorosa mente reca vari indizî, ancorché certo non perentorî, di appartenenza all’ambiente toscano (se si vuole: siculo-toscano), e lo stesso curatore del testo, Mario Pagano, segnala la cosa nel commento (si vedano le note ai v. 1, 22, 25, 28). Tuttavia essa viene stampata, senza che ci sia un reale motivo, nel secondo volume, dedicato ai rimatori della corte di Federico II 6 . Ho insomma l’impressione che aver voluto suddividere gli autori su due volumi (lasciamo da parte ovviamente il primo) in base all’appartenza vuoi strettamente federiciana vuoi siculo-toscana, unificando però il tutto sotto il titolo I poeti della Scuola siciliana, non abbia spostato di molto la prospettiva rispetto a Panvini. Faccio fatica a pensare ai Siculo-toscani senza certi autori (Bonagiunta, Guittone, Monte, Chiaro), e non riesco a convincermi dell’utilità storico-letteraria della categoria dei Toscano-siculi: troppo intricate le isoglosse poetiche per poter installare delimitazioni nette e precise. Non ho soluzioni alternative da proporre, e tuttavia la scelta operata in questa edizione mi pare trop- 246 Besprechungen - Comptes rendus 6 Si veda anche M. Spampinato Beretta, «Tra ‹siciliani› e ‹siculo-toscani›: casi-limite di incerta collocazione», in: Dai Siciliani ai Siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone. Atti del Convegno (Lecce, 21-23 aprile 1998), a cura di R. Coluccia/ R. Gualdo, Galatina 1999: 1145. po remissiva, troppo appiattita su una visione non sufficientemente meditata del problema: se ci si deve fermare al quia, mi pare che la prospettiva continiana sia ancora la più convincente 7 . Passiamo a un altro argomento. Se non interpreto male, uno dei punti di forza di questa nuova pubblicazione è che essa è «ispirata a una tolleranza metrica sicuramente maggiore delle edizioni che l’hanno preceduta» (Introduzione al secondo volume: lxxiii). Il passaggio della poesia della Scuola dal Sud al Centro e al Nord rappresenta uno snodo capitale nella storia della letteratura italiana delle Origini, perché l’adeguamento della poesia dei Siciliani alla lingua toscana ha comportato vari dissesti, tra i quali la cosiddetta rima siciliana, sulla quale non è il caso di soffermarsi, essendo notissimi i meccanismi che la regolano. Di Girolamo insiste però molto su un altro aspetto linguistico, che assume, nella sua riflessione, un notevole rilievo anche sul piano metrico-prosodico. Egli ricorda che la lingua siciliana non sopporta i troncamenti dopo liquida e nasale (dir, bel, ben ecc.), che invece sono normali nella lingua toscana, e che si trovano in abbondanza in alcuni manoscritti 8 . È vero che la lingua letteraria dei poeti siciliani accettava vari occitanismi e latinismi, continua lo studioso, sicché forme come amor, amar, cor, amador, fin e simili possono essere considerate plausibili; tuttavia «per ammettere . . . che le migliaia di troncamenti [che si trovano nei manoscritti e nelle edizioni moderne] siano originali si dovrebbe postulare un improbabile effetto domino . . . causato da un pugno di vocaboli» (lx). Questa affermazione sembra leggermente in contrasto con quella che precede, sulla medesima pagina, secondo la quale l’editore non può che accettare i troncamenti proposti dai codici toscani, o proporne altri di sua iniziativa «per evitare l’ipermetria», giacché «il compito dell’editore è la ricostruzione del testo sulla base dei dati disponibili: nel caso dei Siciliani, la ricostruzione di un testo già toscanizzato». Ma si dovrà forse anche tenere in debito conto il fatto che nelle terre dove nasce la poesia della Scuola si parlavano molte lingue, tanto che «il siciliano del secolo XII e della prima metà del XIII appare . . . al centro di una fitta rete di influenze da parte di altre lingue, che certamente dovettero plasmarne per più aspetti la fisionomia» (liii-liv) 9 . Comunque sia, il problema dei troncamenti si pone in modo evidente nei versi con rima interna in cesura, per i quali Di Girolamo non ammette l’apocope: essa infatti salva la misura del verso, ma produce una rima imperfetta, istituto estraneo alla prassi poetica siciliana (il tipo amore : cor). Tuttavia, la rima interna, proprio in quanto tale, ha uno statuto diverso da quella in punta di verso, tant’è che i copisti non sempre la segnalano (si veda per esempio quanto scrive in proposito R. Antonelli nel primo volume, in margine a Membrando l’amoroso dipartire, 559). E poi: se lo scopo dell’editore, come anche Di Girolamo inevitabilmente ammette, è quello di approssimarsi all’archetipo toscano (cxii), il cui 247 Besprechungen - Comptes rendus 7 Non mi riferisco ai Poeti del Duecento, nei quali non è prevista una sezione di Siculo-toscani, ma alla Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, che stacca i Siciliani veri e propri dai (cosiddetti) Siculo-toscani, tra i quali troviamo, appunto, Guittone, Bonagiunta, Panuccio dal Bagno, Chiaro, Monte, Dante da Maiano, la Compiuta Donzella, Paolo Lanfranchi. La stessa prospettiva si ritrova per esempio nell’Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre/ C. Ossola, vol. I Duecento-Trecento, Torino 1997. 8 Tali troncamenti sono tuttavia ben attestati, per esempio, in Pir meu cori alligrari di S. Protonotaro, uno dei pochi testi arrivati fino a noi in veste siciliana (cf. v. 9, 12, 13, 16 ben, v. 18 son, v. 47 guarir, v. 54 favur, v. 59 bon, v. 62 amar). 9 Penso che non si debba neppure dimenticare che la lingua poetica non è, per sua natura, assimilabile ad alcun altro linguaggio, fosse pure letterario, è «quasi un altro idioma, diverso dalla prosa», come scriveva L. Salviati; questo varrà anche per la lingua della Scuola siciliana, benché il canone linguistico poetico italiano, che dura si può dire intatto fino alle soglie del Novecento, si irrigidisca soprattutto dopo Petrarca (la citazione di Salviati in L. Serianni, La lingua poetica italiana. Grammatica e testi, Roma 2009: 11). filtro è ineliminabile, egli non lo dovrà fare troncando, ove si manifestasse la necessità, anche nei casi di rima interna, visto che nei toscani questo tipo di rima è testimoniato (anche se non si vede perché abbinarlo alla rima siciliana 10 )? Insomma Iacopo Mostacci, per fare un esempio, avrà scritto, e letto, «Amore, bene veio che mi fa tenere», come scrive il copista di V, oppure «Amor, ben veio che mi fa tenere», come giustamente stampa il suo editore? La riflessione sul troncamento porta lontano, perché, come ho anticipato, essa ha per Di Girolamo diramazioni metrico-prosodiche, essendo uno dei tasselli della dimostrazione dell’esistenza della cesura epica nei poeti della Scuola, già avviata nell’articolo appena citato in nota 11 . Pur se ridotto ai minimi termini, il ragionamento è il seguente. Benché i trovatori prediligano il décasyllabe con cesura dopo l’accento di 4 a su parola tronca («Tant m’abellis | l’amoros pessamens»), nelle loro liriche non mancano esempi di altri tipi di décasyllabes, compresi quelli con cesura epica (accento di 4 a su parola piana e quinta sillaba atona soprannumeraria): è un tipo di cesura «ben documentata, ma molto rara» (lxix). Alcuni endecasillabi siciliani irriducibili - soprattutto con rima al mezzo - inducono Di Girolamo a ritenere che anche presso la Scuola tale cesura fosse praticata: solo gli editori moderni, soprattutto Contini, ne hanno fatto perdere le tracce. Ma c’è di più. Lo studioso sottolinea che nei trovatori e nei trovieri c’è sempre dialefe in cesura lirica quando s’incontrano due vocali («Bona domna, ab sol c’amor mi dens»: décasyllabe), e afferma, con una consequenzialità non suffragata da un’istruzione probatoria, peraltro auspicabile, che «si può ritenere che nella metrica galloromanza dei secoli XII e XIII in sede di cesura la sinalefe non sia consentita nemmeno nel décasyllabe standard, corrispondente all’a minore italiano» (lxxi). Proseguendo, Di Girolamo non esclude che i Siciliani prevedessero «una cesura simile a quella epica» (lxxii: fa piacere la sfumatura) in versi come «uso di bene amare otrapassante» (Guido delle Colonne, Gioiosamente canto, v. 36), sull’esempio provenzale e sulla base del fatto che in cesura lirica l’incontro vocalico produce sempre dialefe nella poesia siciliana. Laddove, poi, la parola in cesura è in rima interna con il verso precedente, la cesura epica sarebbe un dato di fatto incontrovertibile: «Ordunque vale meglio di poco avere» (Guido delle Colonne, La mia gran pena, v. 43, dove vale rima con il precedente sale. Ma si veda sotto). Si dica per inciso che l’editore di Guido, Corrado Calenda, il quale pure aderisce con entusiasmo all’idea delle cesure epiche nei Siciliani (cf. vol. 2, p. 55s), segnala la presenza di tale istituto solo nel caso di rima interna, dunque non per il citato verso 36 di Gioiosamente canto. In effetti la dialefe con cesura epica nei casi di incontri vocalici, ma in assenza di rima interna, non sembra avere incontrato un grande favore negli editori dei «Meridiani». L’uso della cesura epica nei Siciliani, insomma, è ben lungi dall’essere dimostrato. Ma ancora più grave, secondo me, è la convinzione dell’esistenza presso i Siciliani della cesura epica dopo accento di 6 a , ben testimoniata nel Girart de Roussillon, ma del tutto assente nei 248 Besprechungen - Comptes rendus 10 «Se in ambiente toscano si originò l’equivoco della rima siciliana, è ugualmente possibile che le rime interne piane e eccedenti dei fridericiani venissero mentalmente troncate dai lettori toscani, quando non lo erano già nei codici, legittimando una rima imperfetta» (C. Di Girolamo/ A. Fratta, «I decenari con rima interna e la metrica dei Siciliani», in: Dai Siciliani ai Siculo-toscani. Lingua, metro e stile per la definizione del canone, Galatina 1999: 182). Dirò per inciso che secondo me è del tutto superfluo introdurre nella metrica nostrana il concetto di decenario; ma a proposito della denominazione dei versi mi pare curioso ciò che Di Girolamo scrive: «in francese i versi sono denominati contando una sillaba in meno rispetto all’italiano, perché le parole ossitone sono più frequenti delle parossitone» (c: N77). Assai meno fuorviante dire che nelle lingue galloromanze i versi prendono il nome dall’ultima sillaba accentata, e, a rigor di logica e di cronologia, non sono i francesi che contano una sillaba in meno, ma siamo noi che ne contiamo una in più! 11 Si veda anche C. Di Girolamo, Scuola poetica siciliana, metrica, in: Federico II. Enciclopedia fridericiana, vol. 2, Roma 2006: 691-700. trovatori: tocca chiedersi ancora una volta su che cosa si basi questa certezza, tanto gravida di conseguenze metriche e stilistiche, della presenza di tale tipo di cesura nella lirica della Scuola. Quand’anche sia dimostrata (ma è dimostrata? ) la conoscenza del Girart da parte dei Siciliani, non capisco bene perché un istituto tipicamente epico - e in questo caso senza nemmeno gli sporadici prolungamenti trobadorici visti per la vera cesura epica (quella, cioè, dopo accento di 4 a ) - debba essere assunto da poeti lirici (allofoni) come cifra metrico-stilistica della loro produzione. In sostanza, le prove addotte (sia in questa Introduzione, sia nell’articolo a quattro mani con A. Fratta) sono deboli, per non dire assenti, e comunque insufficienti, secondo il mio parere, perché si possa passare senz’altro dalla teoria alla pratica (come avviene spesso in questa edizione). Per dire che la lirica della Scuola ammette la cesura epica in quanto tale, cioè come vero e proprio istituto prosodico, mancano ancora alcune importanti tessere. Preliminarmente: Di Girolamo non può che partire dal presupposto che l’endecasillabo derivi solo e soltanto dal décasyllabe occitanico, ma c’è chi autorevolmente affianca ad esso altre scaturigini (per esempio mediolatine). Di conseguenza Di Girolamo ritiene che l’endecasillabo debba essere necessariamente sempre cesurato, come il décasyllabe galloromanzo: ma anche su ciò non tutti concordano 12 . «Bisogna riconoscere che, fin dai testi più antichi, l’impressione ritmica che si riceve da una qualsiasi serie di endecasillabi italiani è totalmente diversa da quella dei décasyllabes occitanici» 13 : questa semplice constatazione dovrebbe indurre gli specialisti a un surplus di riflessione, e certo alla cautela. E ancora: dato l’assunto che si vuole dimostrare, sarebbe stato necessario approntare un’accurata indagine preventiva sulla cesura epica nei trovatori, per stabilirne la consistenza, per capire se essa, per esempio, è presente - e in che misura - nei trovatori che sono più manifestamente presenti nelle liriche della Scuola. Di più: l’assenza della cesura epica nel caposcuola Giacomo da Lentini (si veda l’edizione preparata da Antonelli, il quale, se non ho visto male, postula, e solo ipoteticamente, un’unica cesura di questo tipo) doveva in qualche modo essere segnalata, giacché è da tutti pacificamente accettato che il Notaro è stato un costante punto di riferimento artistico per i poeti della sua generazione e di quella successiva. Riprendendo il discorso del troncamento, per esempio, Antonelli non esita, per me giustamente, a stampare un «Ed ò vista d’Amor cosa più forte» (dove Amor - nel ms. amore - rima con errore del verso precedente), rigettando quindi l’idea di una cesura epica come àncora di salvezza della rima interna. Faccio qualche altro esempio tra i molti possibili. Guido delle Colonne, La mia gran pena: il v. 25 suona «e per un cento m’àve più di savore», con cesura epica. Contini aveva eliminato il partitivo (più savore), ma il problema dell’eccedenza si potrebbe risolvere con la sinalefe interversale (anasinalefe), un istituto abbastanza diffuso nei Siciliani, e autorizzato dallo stesso Notaro. La medesima soluzione si potrebbe adottare al v. 43 «ordunqua vale meglio di poco avere», per il quale si potrebbe anche ipotizzare un meglio occitanicamente monosillabo (quando non si voglia ovviamente apocopare val, nonostante la rima interna). Ancora Guido, la canzone Gioiosamente canto, v. 57: «Così mi tene Amore lo cor gaudente», dove Amore rima con il precedente fredore. Contini risolve molto elegantemente con 249 Besprechungen - Comptes rendus 12 Su queste fondamentali questioni si veda A. Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova 1993: 443-45 e 466s., nonché, dello stesso autore, l’articolo «Quelques considérations sur la structure et l’origine del l’‹endecasillabo›», ora in A. M., Saggi metrici, Firenze 2006: 251-69, in particolare p. 256s. Dov’è, per esempio, la cesura in un verso come «di loco ove possa essere affannato» (Iacopo Mostacci, 13.4, v. 32)? O in «sentisse per una sola speranza» (Iacopo Mostacci, 13.5, v. 50)? In effetti l’editore (A. Fratta) scrive che nel primo caso la cesura potrebbe essere «mediana o lirica o a maiore sdrucciola», mentre nel secondo è «anomala». Non si potrebbe ammettere che la cesura manca in entrambi? 13 A. Menichetti, Metrica italiana: 444. il provenzalismo corgaudente, ma Calenda rifiuta apoditticamente tale soluzione: «non è testualmente ricevibile» (? ), talché sembra che la cesura epica sia una verità da difendere coûte que coûte. Un altro caso risolvibile con la sinalefe interversale è quello di Ruggieri d’Amici, Sovente Amore n’à ricuto manti (edito da A. Fratta): il v. 28 è «e no mi trago arieto ma pur avante». Secondo l’editore, «se non c’è guasto» siamo in presenza di una cesura epica a maiore. Al v. 55 di Federico II, Poi ch’a voi piace, Amore (14.3) Stefano Rapisarda individua una cesura epica «irriducibile per apocope», ma non si capisce perché troncare buon, che V ovviamente legge buono, e lasciare integro segnore (il verso è: «Spero à tutora chi al buon segnore crede»): il verso risulterebbe piuttosto legnoso, ne convengo, con tre accenti e due troncamenti consecutivi, e infatti la soluzione migliore rimane, a mio modo di vedere, quella tradizionale: troncare tutora nonostante la rima interna. È vero che spesso le soluzioni proposte implicano l’accento di 5 a , il cui indebito proliferare rischia di dare a questa poesia un’immagine prosodica falsata. C’è però da dire che la sinalefe interversale smorza l’effetto straniante - almeno alle nostre orecchie, se non anche a quelle dei poeti delle Origini - di questo accento, che comunque rimane documentato nella poesia soprattutto pre-dantesca (si veda in ogni caso il mio commento qui sotto all’anonimo S’eo pato pena ed aggio gran martire). Inoltre io ho solo voluto mostrare che è pericoloso affezionarsi a una sola idea in sede di edizione di testi, perché a volte altre soluzioni sono a portata di mano, e lo studioso dovrebbe tenerne conto almeno come ipotesi da riservare al commento. È comunque curioso che alcuni curatori tra i più convinti dell’esistenza della cesura epica si lascino scappare qualche esempio: il v. 3 di Mostrar voria in parvenza di Iacopo Mostacci (13.6) viene stampato da A. Fratta «s’ausasse adimostrar lo mio talento», producendo un endecasillabo perfetto tramite troncamento dopo vibrante, benché il manoscritto abbia adimostrare, il cui mantenimento permetterebbe una cesura epica (a maiore per di più! ). La discussione di altri casi particolari si trova, qui, nelle schede ai singoli testi. È ben vero che a volte l’ipertrofia sillabica sembra configurarsi come una patologia immedicabile, resistente anche agli interventi chirurgici normalmente praticati in casi siffatti; ma è altrettanto vero che può essere piuttosto pericoloso sottovalutare con troppa disinvoltura le implicazioni di una tradizione manoscritta che molto spesso, per i Siciliani, è unitestimoniale: il dato manoscritto va sempre preso, in questi casi, con beneficio d’inventario. Senza contare che non dovrebbe far gridare allo scandalo l’esistenza di qualche ipermetro autenticamente d’autore (come, d’altronde, non dovrebbe stupire qualche assonanza in luogo della rima). Ripeto: dove sono le prove vere dell’esistenza della cesura epica nei Siciliani? In una manciata di versi irriducibili in testimonianza quasi sempre unica, o comunque molto povera (tranne che per 4.2, che ha cinque testimoni e per 14.3, che ne ha otto)? In altri termini: quello che non vale per un pugno di parole tronche (vedi quanto detto sopra) può valere per un manipolo di versi ipermetri? (Se non ho contato male, le cesure epiche dichiarate nei cappelli sono una settantina su alcune migliaia di endecasillabi: solo i sonetti anonimi pubblicati in questa edizione contano 1162 versi). Io penso che sia più saggio - oltre che più corretto metodologicamente - convenire con quanto scrive Menichetti, che «sarebbe quanto meno imprudente che l’editore scegliesse a occhi chiusi, senza previo, attento scrutinio, endecasillabi di questo genere [cioè con la cesura epica]. La prassi, specie nella poesia culta, sembra alquanto eccezionale» 14 . E infatti non tutti i curatori dei testi contenuti nei «Meridiani» accolgono l’idea della cesura epica in modo indiscriminato. Un altro spunto di riflessione: l’editore di componimenti poetici antico-italiani non può non scontrarsi con il problema della corretta interpretazione prosodica dei testi. Accenno qui solo a due questioni: a qualcuno sembreranno senz’altro delle minuzie, ma io ritengo 250 Besprechungen - Comptes rendus 14 A. Menichetti, Metrica italiana: 70. che non sia ammissibile l’approssimazione nel trattamento dei fatti prosodici (e comunque il filologo non è un pretore, e dunque de minimis curat). La prima questione riguarda la differenza tra dieresi e sineresi. Nell’Introduzione al secondo volume Costanzo Di Girolamo scrive che «è ben singolare . . . che criatura sia a volte sineretico, a volte dieretico» (lxvii), ma di singolare c’è, piuttosto, l’idea che una stessa parola possa essere considerata, a seconda delle esigenze, dieretica e sineretica: in effetti la dieresi propriamente detta «è lo scindersi in due sillabe . . . di nessi vocalici che . . . normalmente costituiscono in italiano una sola sillaba», mentre la sineresi è il fenomeno inverso, e dunque la «fusione in una sola sillaba metrica di vocali contigue che nella lingua sono normalmente separate da iato e che quindi corrispondono normalmente a due sillabe» 15 . È evidente che con criatura/ creatura siamo nel secondo caso, perché si tratta di parola normalmente - dunque senza che intervenga alcuna dieresi - quadrisillaba, che in poesia può essere trattata come trisillaba per sineresi. E che ciò accada non è singolare, ma piuttosto normale nella lingua antica. La seconda questione, invece, riguarda l’uso del segno di dieresi, che avrebbe potuto essere qua e là più sorvegliato: non è necessario metterlo, perché nella lingua c’è iato, per esempio su disiare, criatura, chiunque, creomi e simili, viaggio ecc. La prassi editoriale ci ha abituati in questi casi a una certa inutile ridondanza, ma dopo le lucide pagine dedicate all’argomento da Menichetti sarebbe auspicabile da parte degli editori una maggiore attenzione 16 . Per evitare incomprensioni, magari nei lettori meno esperti, si potrebbe riservare il segno di dieresi anche in presenza di uno iato ai casi più ambigui, per esempio au, che di solito è sentito come monosillabo (aündanza). Per nulla tollerabile l’errore commesso dall’editore di Re Enzo per il v. 7 di Tempo vene che sale chi discende (20.4), il quale, per evitare l’«ennesimo inserimento della congiunzione coordinativa a inizio verso», diroccia su un vengiare dieretico. Il verso suona «tempo di vengiare chi t’offende», ed è chiaro che la dilatazione dell’infinito è assolutamente ingiustificabile, giacché la i è puro segno grafico di palatale (oltretutto questa forma verbale è un gallicismo, e già in antico francese la grafia oscillava tra vengier e venger, mentre in occitanico è per lo più venjar). Inverosimile è poi il rinvio all’incolpevole Menichetti per avallare l’intervento, perché gli esempi riportati nel luogo citato della Metrica italiana (coscienza, scienza, religione, che sono latinismi) nulla hanno da spartire con la forma vengiare. Passo dunque all’analisi, necessariamente selettiva, dei singoli testi. Vol. 1. Come ho anticipato, questo volume è integralmente dedicato a Giacomo da Lentini, ed è il solo nel quale il curatore-editore è unico. Per quanto riguarda il testo critico, Roberto Antonelli si appoggia alla sua precedente edizione (Roma 1979), anche se l’analitica revisione sui manoscritti e il ripensamento globale sull’opera del Notaro hanno portato alcuni cambiamenti nelle scelte ecdotiche (cf. p. xci), forse non sempre davvero migliorative, come si vedrà. La novità è tuttavia il ricco commento, che rappresenta la prima seria esegesi all’opera completa di Giacomo, e che colma una delle più gravi lacune della nostra filologia, visto che il Notaro è il capostipite della lirica italiana. L’evidente esuberanza è motivata con l’intenzione di misurare da una parte l’impatto degli autori precedenti su Giacomo, dall’altra la diffusione nell’immediata posterità (fino a Petrarca) dei moduli poetici del Notaro, giacché «la lirica italiana predantesca, per adesione o per negazione, fu sostanzialmente siciliana e soprattutto lentiniana» (xciv). Tuttavia, nonostante il lodevole intento dell’editore, e la sua nota e apprezzata acribia, l’impressione dominante è che la glossa soffochi il testo, che essa abbia, come averte del resto lo stesso Antonelli, «caratteristiche . . . abnormi ed 251 Besprechungen - Comptes rendus 15 A. Menichetti, Metrica italiana: 182, e anche 268s. 16 A. Menichetti, Metrica italiana: 307-10. esorbitanti da quel che dovrebbe essere una notazione intrepretativa sobria, ‹amichevole› nei confronti del lettore» (xciv). Ciò che manca è proprio l’amichevolezza, cioè la leggibilità del commento. Per quanto riguarda la grafia adottata, essa «è quella più vicina alla forma moderna, ovunque non implicasse la perdita di elementi fonematici specifici del manoscritto . . . o di elementi ascrivibili all’archetipo toscano» (xcvii), secondo una prassi ormai consolidata. Temo di non avere ben compreso, invece, l’annotazione a proposito della punteggiatura (xcviii), che - sembrerebbe di poter interpretare - risulta più sobria in questa edizione che in quelle correnti, giacché «si è spesso preferita l’ambiguità di una notazione essenziale a decisioni forse più chiare ma non rispondenti pienamente ai problemi posti dal testo o alle soluzioni ambigue ascrivibili già al Notaro»: al di là dell’oggettiva difficoltà di sorprendere scelte ambigue d’autore in assenza di autografi, di fatto il confronto con i testi di Giacomo pubblicati anche da Contini nei Poeti del Duecento non hanno messo in luce, mi pare, differenze quantitativamente rilevanti. 1.1: Madonna, dir vo voglio. Nel cappello si avverte che al v. 24 ci sarebbe una dialefe, ma foc’aio al cor non credo mai si stingua ha una sinalefe. Al v. 1 vo è forma «più che sospetta», avverte Antonelli in nota, giacché conservata solo nel pisano L a : essa viene qui mantenuta per «coerenza interna», giacché l’editore ha scelto «L a quale testimone privilegiato». In una simile fattispecie io credo sia non solo lecito, ma addirittura doveroso allontanarsi dal codice base, e ha ragione Luca Serianni a stampare vi, probabilmente originale, seguendo la testimonianza degli altri codici 17 . Al v. 68 la dieresi su dispiacerï’ a provoca ipermetria, giacché creio non può che essere bisillabo (anche in questo caso Serianni stampa correttamente): non condivisibile l’annotazione di Antonelli nella quale viene difesa la scelta fatta per l’«eccezionalità di crio dieretico fuori rima», giacché la forma verbale è iatica. Si aggiunga che il verso era corretto invece nell’edizione del 1979, a parte ovviamente il superfluo segno di dieresi su creio. 1.5: Dal core mi vene. Al v. 18 Antonelli stampa viverïâ tormenti, con crasi, come annotato nel commento, mentre in Madonna, dir vi voglio v. 68 dispiacerïâ (dove peraltro la dieresi è di troppo, come s’è visto) è solo data come possibilità: eppure il caso mi pare identico. 1.26: A l’aire claro ò vista ploggia dare. Il v. 7 suona qui «e dui guerreri infin a pace stare», secondo una suggestione di A. Roncaglia; ma a me pare difficilior, e dunque preferibile, la lettura del 1979 «e dui guerreri in fina pace stare». 1.34: Chi non avesse mai veduto foco. Non si capisce, nel cappello, il dubbio riguardo alla dialefe in cesura del v. 9 Che s’aprendesse in voi, donna mia, che è necessaria (meno plausibile qui, e da usare sempre con cautela, la dieresi su voi). 1.17: Dolce coninzamento. L’articolazione del discorso diretto all’interno del componimento può essere problematico, come avverte lo stesso Antonelli; è possibile che quella proposta dal nuovo editore - che asseconda del resto l’edizione del 1979 - sia la più corretta, eppure l’assetto preparato da G. Contini mi convince maggiormente: anzi, a me pare senz’altro più congruo addebitare i v. 18-20 («Rimembriti a la fiata / quand’io t’ebi abrazzata / a li dolzi basciari») all’uomo, benché lo stesso Contini, che così fa, annoti che anch’essi «potrebbero, più persuasivamente, riferirsi alla donna, qualora si ammettesse che il participio del verbo transitivo . . . concorda col soggetto» (è suggestione accolta da Antonelli). Al v. 18 a la fiata significa più probabilmente ‘talvolta’ (Contini) che ‘quella volta in cui, quando’ (Antonelli). 252 Besprechungen - Comptes rendus 17 L. Serianni, La lingua poetica italiana, 2009: 271. Vol. 2. 2. Ruggieri d’Amici: testi editi da A. Fratta. 2.1: Sovente Amore n’à ricuto manti. Tra i v. 20 e 23 salta la rima; al v. 20 i ms. leggono arichuto (V) e ariccuto (P), mentre al v. 23 veduta (VP). Fratta segue Panvini e corregge il primo in aricato (da arricare per arricchire) e il secondo in visato. Mi pare un intervento assai oneroso e inutilmente deformante, da proporre semmai nel commento, ma certamente da non esibire a testo, giacché dà sicuramente meno fastidio l’assonanza originale aricuto ~ veduta (oltretutto al v. 23 è meglio mantenere il participio al femminile: più rica gioia mai non fu veduta). Si aggiunga che anche al v. 33 c’è un problema, irresolubile, in sede di rima. 2.2: Lo mio core che si stava. Nel cappello l’editore avverte che i v. 30 e 42 sono ipometri; entrambi possono essere sanati con dieresi d’eccezione, nel primo caso su voi, nel secondo su suo: è vero che il primo caso richiede una «valutazione più cauta» rispetto al secondo, ma è anche vero che la «dieresi d’eccezione risulta ammortizzata dinanzi a pausa o cesura» (A. Menichetti, Metrica italiana, 1993: 246), e qui dopo voi c’è un inciso. In ogni caso non mi pare metodologicamente corretta la soluzione di Fratta, che risolve a testo solo il v. 42 lasciando in sospeso il v. 30. 3. Tommaso di Sasso: testi editi da S. Rapisarda. 3.2: D’amoroso paese. I v. 18-20 suonano «non trovo chi lo saccia, ond’io mi schianto, / ch’è vicino di morte / crudel e forte mal che nonn-à nomo», quindi ‘non trovo chi lo sappia [cosa sia Amore] e dunque muoio di dolore, dato che un male crudele e forte cui non si riesce a dare un nome è assai simile alla morte’: in nota si ricorda che Panvini aveva corretto al v. 18 con il sicilianismo mi scanto ‘mi spavento’ il mi schianto del ms. Tale correzione è giudicata «del tutto avventurosa». Poteva però valere la pena di ricordare che tale intervento panviniano era stato valorizzato da A. Roncaglia, il quale propose « . . . miscanto / ch’è vicino a morte . . . », dando all’hapax il significato di ‘biasimare’, ‘lamentare’ (del resto lo stesso schiantare, come avverte in nota Rapisarda, non è usato altrove nella poesia dei Siciliani) 18 . 4. Guido delle Colonne: testi editi da C. Calenda. 4.1: La mia gran pena. Tra i testi che hanno un tema simile a quello della canzone di Guido andavano segnalati i sonetti anonimi Non saccio a che coninzi (49.33) e Al primo ch’io vi vidi (49.47): R. Gualdo, curatore del primo, nota un’affinità tra i due anonimi e un altro sonetto anonimo, Come fontana (49.71), che però a sua volta è fortemente influenzato da Gioiosamente canto (cf. i miei Sonetti anonimi, 128), ancora di Guido delle Colonne. Al v. 5 sarebbe stato corretto segnalare che l’integrazione in merzede di merze del manoscritto (V, testimone unico) si deve a Contini; al limite si potrebbe, anziché integrare merzé, leggere süa con accento di 5 a (il verso è «in sua merzede m’àve riceputo»). Al v. 14 aggio visto secondo il curatore sarebbe «da intendersi impersonalmente», ma non se ne vede la ragione; v. 16-17: per il concetto espresso, più che il citato Guinizzelli (Ch’eo cor avesse, v. 3) sembrerebbe meglio Paolo Lanfranchi, Dime, Amore, vorestù tornare, v. 4: «ché talor nose lo tropo adastare»; al v. 23 è giusta, in linea di massima, l’osservazione che gioia è spesso monosillabo nella lirica duecentesca (per influsso dell’occitanico joi) e che quindi è inutile ridurlo a gioi, come fa Contini, per distinguerlo dai casi in cui la parola è bisillaba (qui, per esempio, ai v. 3 e 42); è comunque bene tener presente che la forma gioi non è assente dai Siciliani (cf. lo stesso Guido in Gioiosamente canto, v. 9, in rima); ai v. 33-34 Calenda cambia la punteggiatura di Contini (e delle Concordanze di Avalle) mettendo i due punti dopo vallimento e virgola dopo ’norato; la differenza non è, mi pare, significativa, e poco cogente la 253 Besprechungen - Comptes rendus 18 A. Roncaglia, «Conservare o congetturare: un falso dilemma», in: A. Ferrari (ed.), Filologia classica e Filologia romanza: esperienze ecdotiche a confronto. Atti del Convegno Roma 25-27 maggio 1995, Spoleto 1998: 291-306 (p. 300s.). giustificazione dell’editore, che afferma di essere intervenuto per evitare «l’inutile complicazione, a 33, di una consecutiva con ellissi della congiunzione», giacché l’ellissi in questione non è così sorprendente nella sintassi antica; ai v. 41-42 mi pare che Calenda abbia ragione nel sostenere che il tema qui non sia tanto il celare, quanto piuttosto l’incapacità da parte del poeta-amante di manifestare il proprio sentimento. 4.2: Gioiosamente canto. Al v. 18 l’editore legge «che non fa d’una fera», come Contini, seguendo la lezione di P e del Chigiano, mentre VL b leggono fa una fera, con dialefe. Calenda opta per una soluzione testuale in fondo accettabile, ma egli scivola poi pericolosamente nella glossa, mostrando quanto il terreno dell’ecdotica possa essere infidamente muscoso. L’editore afferma infatti che la lezione è stata accolta a testo perché difficilior, in quanto contiene «un non comune nesso sintattico», ma poi si contraddice aggiungendo che essa «potrebbe recare un intervento arbitrario del trascrittore per sopprimere la dialefe tra fa e una»; delle due l’una: o si tratta di una lezione che può essere considerata difficilior, oppure si tratta di un rimaneggiamento del copista - come è noto, infatti, i copisti normalmente banalizzano. I v. 21-22 suonano nell’edizione Calenda: «sovr’ogn’altra, amorosa, mi parete / fontana che m’à tolta ognunqua sete» (secondo VL b ); Contini aveva «sovr’ogn’agua, amorosa - donna, sete / fontana che m’ha tolta ognunqua sete» (secondo PChV 2 ), cioè ‘più che non sia qualsiasi acqua, donna amorosa, voi siete fontana che mi ha tolto qualunque sete’. Mi pare che la nuova edizione peggiori la vecchia, difficilior anche perché è presente una rima equivoca; Calenda, al contrario, chiosa che la variante è «interessante, ma non tale . . . da giustificarne l’assunzione a testo . . . (tra l’altro la modifica del secondo emistichio instaura rima equivoca)»: affermazione, quest’ultima, piuttosto sibillina. 4.3: La mia vit’è sì fort’e dura e fera. Nel cappello si afferma che «la misura del primo verso della sirma, ottonario per Contini e Antonelli, settenario per Panvini, non è coerentemente rispettata in nessuno dei due mss.»: a me pare, piuttosto, che P sia qualche volta ipometro, e che V conservi invece sempre l’ottonario (per il v. 17 vedi sotto). Al v. 2 si opta per la lezione di P «ch’eo non posso vivere né morire», accolta per salvare una cesura lirica e un accento di 5 a : mi pare comunque meglio V (scelto da Contini) «ch’eo non posso né viver né morire»; al v. 17 «cad eo no mi trovo aiuto» Calenda mescola le lezioni dei due ms. per ottenere l’ottonario (V ha «cad eo non trovo a.», P «k’eo no mi trovo a.»), ma in nota avverte che si potrebbe adottare la lezione di P con eo dieretico: con eo dieretico funzionerebbe anche la lezione di V, nonostante l’assenza del mi («cad ëo non trovo a.»). Il v. 28 è ipometro, e in nota si suggerisce la possibile soluzione, cioè una dieresi d’eccezione su eo: non si capisce perché non renderla operativa. Il v. 30 «senza dritto sono in mala via», ha una cesura lirica e l’accento di 5 a ; ma è interessante il suggerimento di Contini di inserire un ne prima di sono, in parallelo al v. 20 «e venuto ne sono a male (mal Calenda) porto». 7. Rinaldo d’Aquino: testi editi da A. Comes. 7.11: Meglio val dire ciò ch’omo à ’n talento. Il sonetto ha una tradizione manoscritta piuttosto curiosa: è inserito a forza nella canzone Poi li piace di Rinaldo d’Aquino, come terza stanza, nella sezione che V dedica al rimatore, e allo stesso modo compare in L b ; nel codice vaticano, però, esso è trascritto anche nella sezione dei sonetti, e qui è anonimo. In questa edizione mi pare che il componimento sia attribuito a Rinaldo un po’ troppo frettolosamente, dal momento che la Comes non porta alcuna prova a favore dell’attribuzione, non essendo certo tale la forzata inclusione in Poi li piace. Al contrario, la studiosa cita altri due casi simili che depongono decisamente a sfavore dell’assegnazione di Meglio val dire a Rinaldo. Il primo è In un gravoso affanno, dello stesso rimatore, che in alcuni ms. presenta un congedo in realtà di Chiaro Davanzati; il secondo è Inghilfredi, Caunoscenza penosa, dopo la cui prima stanza è trascritta, in P, la terza strofe (non l’ultima come scritto da M. Berisso, vol. 2, p. 507, apparato) di Ben m’è venuto di Giacomo da Lentini (cf. anche volume primo, 254 Besprechungen - Comptes rendus 176). Si aggiunga che la stessa Comes deve ammettere che «i rilievi stilistici e tematici . . . non costituiscono sufficiente elemento positivo per l’attribuzione a Rinaldo d’Aquino» (226), e che R. Coluccia, nell’Introduzione al terzo volume, parla di «dubbia attribuzione» (lxx). Per me il sonetto resta anonimo, e comunque sarebbe stato più prudente inserirlo nella sezione dei testi dubbi. 13. Iacopo Mostacci: testi editi da A. Fratta. 13.1: Allegramente canto. Tra gli errori che provano l’esistenza dell’antecedente comune a VL b Fratta include quello del v. 36 lamore in luogo del corretto lomare di P. Si tratta senz’altro di un errore, per il senso e perché è strutturalmente necessaria una rima interna in -are; tuttavia potrebbe trattarsi di una banalizzazione poligenetica, sia perché si tratta di un semplice scambio vocalico, sia perché in quella strofe c’è anche la rima -ore, che potrebbe aver tratto in inganno i copisti di V e L b indipendentemente l’uno dall’altro. Sul piano retorico Fratta segnala il collegamento capfinit tra le stanze I-II (v. 12-13 temere-temenza) e, in modo meno rigoroso, II-III (v. 22-26 laudato-laudo); in verità le stanze II e III sono anche capdenals, anche se non rigorosamente (temenza-temendo). Per l’incipit del componimento poteva valer la pena di citare anche l’inizio di Peire Bremon Ricas Novas, Ben dey chantar alegramen (v. 1), e anche, a rovescio, i primi due versi di Bertran Carbonel, «S’ieu anc nulhs tems chantiei alegramen / ar chant marritz, et ay en ben razo». Al v. 11 non mi pare che ci sia un’intenzione ironica in Iacopo, come invece sostiene Fratta. I v. 34-36 suonano «Così tegno saria / vostro pregio per arte / come lo mare per lo scoridore», cioè ‘allo stesso modo ritengo che con artifici (per arte) succederebbe al vostro pregio ciò che càpita al mare grazie al fiume (scoridore)’. In altri termini: come le mie parole poetiche non possono aumentare il vostro pregio, così un fiume non può aumentare la quantità di acqua del mare. Il ms. P ha al v. 34 E così cresceria, lezione ipermetra, e che secondo Fratta ha depistato tutti i precedenti editori: «se il poeta qui affermasse di poter sensibilmente accrescere il pregio della donna per arte, verrebbe a trovarsi in contraddizione con quanto asserito a 27-9», cioè «che certo credo che poco saria / ciò ch’io di ben dicendo / potessevi avanzare». In verità, a parte l’ipermetria - condivisa peraltro da V, e quindi forse, come giustamente ipotizza Fratta, d’archetipo -, la lezione di P cresceria non provoca alcuna contraddizione: il poeta, anzi, ribadisce quanto ha già affermato, cioè che con le sue parole il pregio della donna potrebbe aumentare come l’acqua del mare grazie a un affluente, cioè poco o nulla. 13.2: Amor, ben veio che mi fa tenere. Viene segnalato il legame capdenal tra I e II (Amor) e tra III e IV (Madonna-Donna), ma in realtà la strofe IV inizia con Donna e Amor, legandosi in questo modo, a mo’ di conclusione riassuntiva, sia alla str. III, sia alle str. I e II. I versi iniziali del componimento sono: «Amor, ben veio che mi fa tenere / manera e costumanza / d’auscello ch’arditanza lascia stare / quando lo verno vede sol venire: / ben mette ’n ubrïanza / la gioiosa baldanza di svernare». Fratta fa dipendere dunque il v. 4 dal v. 3, come gli editori ottocenteschi, mentre gli studiosi recenti, fino alle Concordanze di Avalle, sconnettono questi due versi «mutilando in tal modo i nessi logico-semantici di 3» (Avalle per esempio, mette i due punti dopo stare): in realtà il senso torna ugualmente, anche mettendo, poniamo, una virgola alla fine del v. 3 e legando il v. 4 ai seguenti. Al v. 11 inova non significa semplicemente ‘riprende’, come glossa Fratta, ma ‘rinnova’, con un più chiaro collegamento al ben noto cliché anche trobadorico del canto nuovo primaverile. Al v. 16 Fratta spiega megliorato con ‘pervenuto a una condizione più felice’, sulla scorta del GDLI; ma qui il significato del participio dipende da quello dell’infinito megliorare del verso precedente, quindi ‘affinato’, ‘perfezionato’ (come peraltro spiegato nella nota corrispondente). Al v. 47 il parallelo con Raimon de Miraval funziona a patto di avvertire che il senso è completamente rovesciato rispetto al verso di Iacopo: il trovatore dice infatti che nel mondo non c’è rocca o muro che possa difenderlo dalla donna, mentre per Iacopo è la donna stessa la sua dife- 255 Besprechungen - Comptes rendus sa. Al v. 31 Fratta stampa bonaventura, ma a 13.5, v. 26 (Di sì fera ragione) opta per bona ventura, senza che venga segnalata, mi pare, una differenza interpretativa. 14. Federico II: testi editi da S. Rapisarda. 14.3: Poi ch’a voi piace, Amore. Al v. 55 è buona la correzione, a inizio verso, del pero di V, che diventa spero, rara forma maschile per ‘speranza’. 14.5: Misura, providenza e meritanza. Al v. 5, «né di richezza aver grande aundanza», l’editore ipotizza una dialefe tra grande e la parola che segue, «se non c’è dieresi su aundanza». Il caso è interessante, perché in aundanza ci dovrebbe essere iato (più che dieresi), giacché le due vocali sono diventate contigue per la caduta di una consonante. Tuttavia un aggettivo come sciaurati - che ha le stesse caratteristiche - viene spesso trattato dai poeti antichi in modo sineretico, sicché anche qui non è fuori luogo leggere aun-dan-za, quindi con dialefe dopo grande. La scansione più probabile è sinalefe seguita da iato. 17. Giacomino Pugliese: testi editi da G. Brunetti. 17.1: Morte, perché m’ài fatta sì gran guerra. Al v. 8, «la mia alegranza post’ài in gran stristanza», la Brunetti commenta che «la misura del verso è corretta a patto di una dura sinalefe», ma non mi pare che nessuna delle due sinalefi di questo endecasillabo possa essere giudicata dura. Al v. 22, «ch’io son smaruto, non so ove mi sia», si ipotizza, ma per fortuna solo dubitativamente, una cesura epica, che chiaramente non c’è: il verso non è neppure ipermetro, qualora ove si legga mentalmente ’ve. 17.4: Lontano amor mi manda sospiri. Il v. 11 è, come avverte G. Brunetti, «difficile per misura e prosodia»; il ms. unico (V) ha se nonn-in voi che siete la gioia mia, che l’editrice risolve, «con qualche dubbio», espungendo l’articolo e interpretando gioia come monosillabo. Panvini aveva corretto il voi in lei («se non ’n lei, ch’è la gioi mia»), perché in tutto il componimento Giacomino non si rivolge mai direttamente alla donna. Credo che Panvini possa avere ragione, ma proporrei «se nonn-in lei ch’e[ste] la gioia mia», con gioia monosillabo: la forma este per è può infatti essersi tramutata in siete sotto il calamo del copista, con conseguente passaggio lei voi 19 . Il v. 32 viene letto «di quello regno che è più fino», e nella nota iniziale si sottolinea la presenza della dialefe (si tratta di un decasillabo): non risulta però dall’apparato che in verità V ha che piu fino, dunque è ipometro; si potrebbe anche integrare «ch’è [lo] più fino», ovvero «ch’e[ste] più f.». 17.5: Donna, di voi mi lamento. Alla fine del v. 40 G. Brunetti mette un punto interrogativo, staccando quindi il v. 41 dai precedenti; forse si potrebbe chiudere con i due punti il v. 38 e mettere una virgola alla fine del v. 40: «Donna, non ti pesa fare / fallimento o villania: / quando mi vedi passare / sospirando per la via, / asconditi per mostranza» 20 . Mi sembra, infatti, che per il poeta non sia in dubbio il fatto che alla donna non pesi fare fallimento o villania. Al v. 46 l’apocope di sire è superflua, giacché può fare sinalefe con la vocale seguente. Il v. 61 è ipermetro (basta apocopare amore), come il v. 70 (lo ’l). 17.6: La dolce cera piasente. Il v. 29 suona «Quando veggio l’avenente»: V ha quando vegio venire l’avenente, P ha quando vegio venire l’aulente; nell’apparato manca Ch, che leggerà presumibilmente come P, altrimenti non si comprende la nota relativa. G. Brunetti pensa che in questo luogo V sia contaminato per «l’inserimento esplicativo di venire»: ma credo si possa ipotizzare anche l’errore poligenetico, essendo il sintagma veggio venire banale e diffuso. 256 Besprechungen - Comptes rendus 19 Ricavo questa e le seguenti suggestioni da Emilia Zannoni, Le rime di Giacomino Pugliese. Edizione critica con commento, glossario e rimario, tesi di laurea, a. a. 1986-87 (relatore: A. Menichetti). 20 Zannoni, Le rime, 1986-87: 135. 17.7: Quando veggio rinverdire. Al v. 9, «che l’amanti pere a torto», il testimone unico (il solito V) ha una grave ipermetria: che gl’amanti perono a gran torto. La soluzione adottata dalla Brunetti è la stessa di Panvini, il quale giustifica l’intervento con l’incomprensione da parte del copista toscano del siciliano amanti singolare. È una buona soluzione, che però cancella il sintagma molto diffuso a gran torto. Credo che nessuno abbia ipotizzato un «manti perono a gran torto», preceduto da una punteggiatura forte (punto o punto e virgola) 21 . 17.8: Ispendïente.Al v. 51 è buona la soluzione proposta, ch’entrava gente di V in «che strana g.» (si poteva allegare in nota anche quella di Monaci, «che prava g.»). Non si capisce perché sia stato lasciato ipermetro il v. 55, decasillabo nello schema, «Tu·ssai, amore, le pene ch’io trasse» (amore amor? ), al quale, nel commento, si poteva accostare - per la vicinanza estrema, anche se di segno opposto - Bernart de Ventadorn, En cossirer et en esmai, v. 11: «Qu’ela no sap lo mal qu’eu trai». Il v. 64, «che si diparte di reo amore», nel manoscritto è che sparte di reo amore: «l’integrazione è facile e l’omissione di V si potrebbe spiegare per l’attrazione del successivo di reo amore» (così G. Brunetti, che però omette di ricordare che la facile integrazione deriva, almeno in parte, da un suggerimento del Cesareo al Santangelo). Si potrebbe anche pensare a una aplografia, e leggere «che s[é s]parte di reo a.», però con dieresi d’eccezione su reo, seguito da dialefe 22 . 19. Mazzeo di Ricco: testi editi da F. Latella. 19.2: Lo core inamorato. Al v. 15 la soluzione «inamorato sì come lo me’ ò», per evitare la rima identica (meo) con 18, è assai forzata, per non dire inaccettabile. Ai v. 31-32 la curatrice stampa «ed ò sempre paura / ne per altra intendanza»: il ne è in P, mentre V e il Chigiano hanno che; in nota la Latella commenta: «difficilior il relato di P, che registra una costruzione sintattica condotta sul modello latino dei verba timendi non peregrina nelle lingue romanze antiche», con rinvii agli scritti di F. Ageno e C. Segre. In primo luogo gli esempi addotti per esempio da Segre hanno sempre no o non, mai ne (che non so se sia attestato altrove con questa funzione nell’italiano antico); in secondo luogo al v. 33 c’è un’altra negazione («lo vostro cor non faccia fallimento»), che complica le cose, giacché gli esempi di Segre non hanno mai la doppia negazione. La donna, che sta parlando in questa strofe, teme che il cuore dell’amato faccia fallimento a causa di un’altra intendanza, dunque sembrerebbe più corretto, al v. 32, il che di V e del Chigiano, come in Inferno II 35 «temo che la venuta non sia folle» (il che può anche mancare: «per tema non traluca», Dante, Così nel mio parlar, v. 29). 19.4: Madonna, de lo meo ’namoramento. Sarebbe stato opportuno dichiarare nel cappello o nel commento che ai v. 36 e 37 gioia viene trattato come monosillabo, visto che tale misura non è ovvia, benché assai diffusa tra i Siciliani. Oltretutto qui questa interpretazione non è strettamente necessaria, visto che in entrambi i casi si potrebbe leggere prosessione non dieretico. 19.5: Sei anni ho travagliato. La fonte di Mazzeo è Folchetto di Marsiglia, Sitot me soi, ma i dieci anni di servizio amoroso dichiarati dal trovatore qui diventano sei: «non esistono nella lirica siciliana riscontri tali da illuminare sui motivi della scelta» di Mazzeo, commenta in nota F. Latella, ricordando (con Gorni) il valore trinitario del sei, che rende questo numero simbolo di perfezione. Dubito che Mazzeo si sia lasciato fascinare dalla numerologia: più prosaicamente (anzi: prosodicamente), sei era l’unica scelta monosillabica valida a sua disposizione, poiché due o tre anni avrebbero rappresentato uno spazio di tempo troppo limitato per una onesta lamentatio. Al v. 32 c’è la forma giachinti, e la curatrice del testo sembra propendere per l’interpretazione della grafia «alla francese», quindi con fonema palatale, 257 Besprechungen - Comptes rendus 21 Zannoni, Le rime, 1986-87: 156. 22 Zannoni, Le rime, 1986-87: 190. sulla scorta delle Concordanze di Avalle (che allega altri esempi): ma credo che valga di più il parallelo, pure citato dalla Latella, con giaquinti (per esempio in Giacomo da Lentini), e che quindi qui la consonante sia velare. 19.7: Chi conoscesse sì la sua falanza. Le rime interne ai v. 4 e 11 sarebbero «non strutturali» per la curatrice; può essere, e tuttavia avrei qualche dubbio, visto che si trovano all’ultimo verso, rispettivamente, della prima quartina e della prima terzina, ed essendo entrambe sotto accento di 4 a . 25. Anonimi. 25.3: Nonn-aven d’allegranza (editore M. Spampinato Beretta). Non è segnalata la forte sinalefe tra chi e ama al v. 48. 25.17: La mia amorosa mente (editore M. Pagano). Della probabile appartenenza toscana di questo testo si è già detto. Al v. 23 i ms. leggono rilevati (V) e risveglomi (P): Pagano mette a testo Rileva’mi, ma non dice nel commento che si tratta di una soluzione mutuata dalle Concordanze di Avalle, il quale a sua volta s’ispira a Panvini, che stampa rilevomi. La correzione è valida, perché spiega sia V sia P, ma forse non necessaria, giacché si potrebbe lasciare la lezione di P (anche se sospetta di essere facilior). Al v. 30 Pagano stampa luce, spiegando che tale forma «ha valore di imperfetto»: ma il rinvio al v. 10 di Giacomino Pugliese, Morte, perché m’ài fatta sì gran guerra (17.1) non è utile, giacché lì il verbo è soglio, che può avere normalmente il valore di imperfetto per gallicismo (non mi risulta che la stessa cosa possa valere per luce o per altri verbi). Poiché qui ci vuole un imperfetto, tanto vale scegliere la variante di P, lucea. Ai v. 32-33 tentava / di voi, è glossato ‘mi spingeva verso di voi’, ma l’editore non spiega se e dove è attestato altrove questo significato di tentare. Apparato del v. 37 (ma cf. anche il cappello): P ha ben non bene come V. La lettura del v. 40 dolz’è ’ riso è ancora una volta delle non citate Concordanze di Avalle. 25.27: Non trovo chi mi dica chi sia Amore (editore M. Pagano). Nell’apparato del v. 3 mancano i puntini espuntori che nel manoscritto si trovano sotto il na che segue p(er)che. Al v. 6 pare tutto sommato superflua la pur ingegnosa correzione di dotato in dontato, sulla scorta di un suggerimento di Simonetta Bianchini. 25.28: Io no lo dico a voi sentenzïando (editore M. Pagano).Al v. 3 l’editore accetta la correzione mi parto sulla scorta di S. Santangelo, che però continua a convincermi poco (nei Sonetti anonimi avevo lasciato mi parlo di V); il verso è «ca s’eo mi parlo con voi ragionando». Al commento del v. 11 («ma sono molti che l’apellan deo») si aggiunga Monte Andrea, Sovr’ogn’altra è, Amore, la tua podesta, v. 11 (dunque la medesima posizione): «Da molta gente è apellato Dio». 25.29: Dal cor si move un spirito, in vedere (editore M. Pagano). La citazione da Uc Brunenc ai v. 1-2 è esplicitamente veicolata da Santangelo: viene citato anche l’articolo di M. Spampinato Beretta, ma non si fa parola di A. Gaspary, che probabilmente è stato il primo a mettere in contatto il trovatore con l’anonimo italiano (come si evince dai Sonetti anonimi, p. 29). Al v. 1 il ms. unico (V) ha uspirito, ed è superfluo integrare la n dell’articolo (u·spirito). 25.30: Fin amor di fin cor ven di valenza (editore M. Pagano). Al v. 9, per sospecione Pagano glossa, giustamente: «meglio intendere ‘paura, timore di un danno eventuale’ . . ., tenuto conto della citazione (13) di due amanti coraggiosi come Tristano e Isotta» (il verso è «che fino amor non tiene sospecione»). Al v. 11 il ms. legge chiaramente amorosa prima di sprone, ma qui l’apparato non registra nulla, mentre a testo, ovviamente, c’è amoroso. Pur nell’abusata metafora equestre, può valere l’accostamento al tardo Sennuccio del Bene, incipit «Punsemi il fianco Amor con nuovi sproni». La soluzione adottata per il v. 12, porta·la, presuppone una terza persona plurale (portan) con assimilazione e successiva caduta della nasale finale: ottimo, ma si poteva citare la fonte (cioè i Sonetti anonimi). 258 Besprechungen - Comptes rendus Vol. 3. 28. Neri de’ Visdomini: testi editi da S. Lubello. 28.2: L’animo è turbato. È certo eccessiva la perentorietà con la quale l’editore asserisce che «i vv. 6, 45 e 84, di dodici sillabe, sono da considerare endecasillabi a maiore con cesura epica», certificando quindi l’esistenza della più indimostrata delle cesure in un testo che, pessimamente conservato (come ammesso dallo stesso Lubello, sulla scorta di Menichetti), meriterebbe maggior cautela interpretativa: l’unico testimone, V, ha guasti tanto evidenti che, per esempio, il testo dei v. 68-70 sono incorniciati da cruces. 34. Folcacchiero: testi editi da S. Lubello. 34.1: Tutto lo mondo vive sanza guerra. Nel cappello l’editore scrive: « . . .si sono mantenute le misure dei secondi emistichi di 40 e 50 . . . le cui presunte ipometrie depongono a favore di un computo sillabico 7 + 3 (non a caso i tre v. 10, 20 e 30 che apparentemente presentano misura sillabica 7 + 4 - tutti con attacco vocalico nel secondo membro - con la sinalefe consentono la lettura 7 + 3)». Mi sembra, però, che Lubello aggrovigli inutilmente una situazione piuttosto semplice, giacché i versi in questione sono dei normali endecasillabi con rima interna: il v. 10 è «dolzi versi faceano - agli albori», dove faceano può essere sineretico (perché normalmente queste forme verbali non presentano iato se si trovano all’interno del verso), e allora sarà seguito da dialefe, oppure quadrisillabo (secondo la normale scansione della lingua), e allora sarà necessaria la sinalefe; il v. 20 è «tornato m’è lo bene - in dolori», con una normale dialefe; il v. 30 è «tute le pene amare - in dolzori», anch’esso con una normale dialefe in cesura (e sinalefe dopo pene); il v. 40 suona «a lui, così ch’i’ amasse per cori», con dialefe dopo i’ (meglio che una dieresi d’eccezione su lui); il v. 50, «però ch’eo ardo e ’ncendo - da fori», ha una doppia dialefe, dopo eo e dopo ardo. 46. Pucciandone Martelli: testi editi da M. Berisso. 46.3: Lo fermo intendimento ch’ëo aggio. Nel commento al v. 1 sorprende l’assenza del memorabile inizio della sestina di Arnaut Daniel, Lo ferm voler qu’el cor m’intra, anche perché voler e intendimento sono praticamente sinonimi (‘intenzione, desiderio amoroso’). 48. Arrigo Baldonasco: testi editi da M. Berisso. 48.2: Ben è rason che la troppo argoglianza. Al v. 49 «Rason’è che voi deggiate patire» l’accento di 5 a su voi sembra secondario, più forte quello di 3 a (dunque 3 a e 7 a ), a meno che non si promuova ritmicamente il che (accenti di 4 a e 7 a ). Al v. 9, «Stando in gioia e in sollazzo poco», Berisso legge il verso con la doppia dialefe, dopo stando e dopo e, dunque con gioia monosillabo o con sinalefe tra gioia e la congiunzione seguente; ma si potrebbe pensare a una sinalefe dopo stando, con gioia bisillabo seguita da due dialefi (o integrando ed), oppure, e forse meglio, alla forma prostetica istando a inizio verso seguita da sinalefe, con gioia bisillabo seguito da dialefe. Al v. 35, «in grande altezza e in valore stando», Berisso pensa che la dialefe sia dopo e, ed è assai probabile, ma potrebbe anche essere dopo altezza. Queste e altre dialefi, in verità non così eccezionali - alle quali si aggiungono due endecasillabi con accento di 5 a , i v. 34 e 49 - sarebbero, secondo Berisso, da «ricondurre . . . con buona sicurezza a incidenti di copia». È possibile, naturalmente, ma non mi pare che gli endecasillabi in questione siano così tanto fuori norma (e poi: qual è la norma a questa altezza cronologica? ) da far ipotizzare particolari incidenti di trasmissione. 49. Anonimi. La sezione degli anonimi del terzo volume è affidata a Riccardo Gualdo e Aniello Fratta secondo una geometria non lineare: preferisco quindi, a questo punto, procedere per editore e non per numero progressivo di componimento, cominciando con i testi curati da Aniello Fratta. Per quanto riguarda la parte relativa ai sonetti mi pare - ma potrei sbagliarmi - che lo studioso si lasci condurre, qua e là, da una certa passionalità negativa nel maneggiare i miei Sonetti anonimi (che nelle pagine che seguono saranno citati più volte: mi scuso in anticipo con il lettore per questa non voluta, e tuttavia inevitabile, in- 259 Besprechungen - Comptes rendus vadenza). Non è ovviamente in discussione la scontata divergenza di opinioni su singole questioni - quasi doverosa, visto l’oggetto del contendere -, né tanto meno la evidente necessità di correggere gli errori di chi ci ha preceduto: sed est modus in rebus. Ciò che segue è solo un’esigua campionatura. 49.4: Giamai null’om nonn-à sì gra·richezze. Il componimento è un devinalh, come rilevato da Menichetti (nell’edizione di Chiaro Davanzati, 257s.), citato da Fratta nel cappello introduttivo; Menichetti, chiamando in causa questo testo insieme a Giraut de Bornelh, Un sonet fatz e Inghilfredi, Poi la noiosa erranza afferma che «il genere è destinato a scadere gradualmente a mero artificio»: Fratta obietta, un po’ sterilmente, che tra i testi di Giraut e di Inghilfredi e l’anonimo «c’è una vistosa differenza», perché nei primi due «sono presenti . . . indicazioni per la soluzione del ‹non senso›. . ., in Giamai null’om manca ogni accenno di questo tipo». Poi però conclude che «la composizione finisce per diventare un vero e proprio repertorio di opposita», convergendo, nella sostanza, con l’opinione di Menichetti. 49.20: Per gioiosa baldanza. L’editore isola un gran numero di cesure epiche in questo componimento, e precisamente ai v. 3, 12, 15, 18, 33, 36, 39, 51, 54, 60, 66, 75. Si tratta di versi con la rima interna, dunque, secondo la prassi normale per questo editore, non procustizzabili mediante apocope. Mi chiedo, però, perché non dichiarare con cesura epica anche i versi che presentano un incontro vocalico, come per esempio 6 «e più m’invita - a buon confortamento», o 30 «che non colora - in mostrarmi plagenza», oppure, con cesura epica addirittura a maiore, 9 «li tormenti e le noie - e le gran pene» (per i quali, in assenza di dichiarazioni contrarie, viene ipotizzata la sinalefe), o 21 «perché lo vuol misura e veritate» (dove c’è addirittura l’apocope dopo liquida), ecc. Al v. 12 si risolverebbe il problema con gioie monosillabo, in altri casi prendendo in considerazione la possibilità della sinalefe interversale (non solo a 3 e 36, come suggerisce lo stesso Fratta, ma anche a 39 e 51). Si può comunque osservare che il copista di V, unico relatore della canzone, segnala con il solito puntino solo le rime interne della fronte, omettendolo sistematicamente nella sirma. È un’indicazione certo ambigua (benché non eccezionale, visto che la presenza delle rime interne non sempre viene sottolineata), ma si potrebbe magari ipotizzare una diversa architettura metrica: a7 b7 b5 c7, a7 b7 b5 c7; d7 d5 (e)f7+5, d7 d5 (e)f7+5. In questo modo le indiscutibili cesure epiche - in base, sia chiaro, ai principî di Fratta - si troverebbero ai soli v. 33, 60, 75: gli ultimi due restano immedicabilmente ipermetri, mentre per 33 si potrebbe ancora, ovviamente, troncare Amor. 49.38: Posso ben dir ch’Amor veracemente. A p. 884 Fratta ricorda che il sonetto si ritrova, rimaneggiato e attribuito a Noffo Bonaguide, nei ms. Chigiano L.VIII.305 e Magliabechiano VII.1208, e cita, come bibliografia, Gambino e Borriero: peccato che dimentichi di citare i Sonetti anonimi (dove si trova la bibliografia pregressa). Il v. 1 è ipermetro, giacché il manoscritto ha Eo posso bene dire; nei Sonetti anonimi avevo risolto con Eo pos’ ben dir, seguendo una proposta di Roncaglia per un verso di Chiaro Davanzati. Fratta sostiene che l’apocope proposta è «arbitraria quando, come nel nostro caso, tra i due elementi del sintagma [posso dire] se ne incunea un terzo»; e aggiunge: «al di là anche degli aspetti più strettamente metrico-linguistici, va sottolineato che nella proposta di Gresti, con tre monosillabi tronchi, la scansione del verso risulta stentata e smozzicata. La soluzione più economica appare l’eliminazione del pronome d’esordio». Non discuto sull’arbitrarietà della mia soluzione: si trattava di una proposta - che oggi più prudentemente affiderei al commento -, e in quanto tale discutibile; quanto alla scansione stentata e smozzicata, non posso giudicare, giacché si tratta di gusto soggettivo: convengo, comunque, che il verso non sia un capolavoro. Ma non sarei così sicuro che la soluzione più economica sia quella proposta da Fratta, cioè Posso ben dire, con eliminazione del pronome iniziale; io lascerei tutti gli elementi del manoscritto con un’inversione, Poss’eo ben dir, assecondando la vecchia ipotesi di Santangelo, ripresa da Panvini, e suffragata, tra l’altro, da uno degli esempi portati da Fratta per 260 Besprechungen - Comptes rendus scartare il pos’: «così poss’io ben dir . . . » (Rinaldo d’Aquino, Poi li piace, v. 35). Il cologara del v. 11 potrebbe essere, secondo l’editore, «un crudo occitanismo ( cologar), coincidente nella desinenza con il tipo meridionale di condizionale derivato dal piucheperfetto latino»: ma se fosse un occitanismo crudo sarebbe piuttosto colgara (da colgar): se non ho visto male, nelle concordanze trobadoriche non c’è neppure un esempio da cologar. 49.39: S’eo pato pena ed aggio gran martire. Secondo Fratta «una peculiarità strutturale del componimento», sistematicamente «piallata» nei Sonetti anonimi, sarebbe l’accento di 5 a : «presentano accentazione in questa sede 8, 10 e 11: a 8 Gresti pensa a una dialefe dopo e, palesemente inesistente; la ignora, invece, a 10, integrando con eo l’avvio; a 11, infine, l’ipometria è sanata (seguendo Santangelo) ancora a scapito del ritmo (afoll[et]isco)». Ora, nella poesia italiana delle Origini, soprattutto in quella di autori non particolarmente eccelsi, le scelte prosodiche sono quanto meno opinabili: è anche possibile che al v. 8 «e acèrtole tutta mia valenza» si debba preferire una dieresi d’eccezione su mia, ma scrivere che la dialefe dopo la congiunzione è palesemente inesistente significa assumersi la responsabilità di una affermazione che potrebbe denotare, in chi la fa, una scarsa dimestichezza con la prosodia italiana antica. Per quanto riguarda il v. 10 «non m’ardisco solo u·motto fare» non risponde a verità che ignoro la dialefe: la propongo come seconda ipotesi in nota. Al v. 11 «anzi m’afollisco come lo muto» Fratta preferisce integrare lo, ipotesi possibile, ma che non condivido, perché risponde al (pre)concetto che l’autore di questo sonetto abbia voluto insistere, come cifra stilistica, sull’accento di 5 a : il che è, piuttosto, da dimostrare. Ma c’è di più: l’editore, tutto proiettato nel recupero di quel tipo d’accento - che, vale la pena di ricordare, non è estraneo all’orecchio pre-dantesco, ma neppure a esso così consono 23 (in altra occasione lo stesso Fratta, pur facendo, anche lì, confusione, è infastidito dall’accento di 5 a , vedi 49.41) -, non esita a «piallare» a sua volta l’assonanza che il testimone unico reca tra il v. 10 e il v. 13 (fare: pietate). Fratta postula «un *piatare nell’antecedente, letto piatate pietate dal copista»; il verso, «madonna, che ’l meo mal avrà piatare», significherebbe ‘madonna, che dovrà compatire il mio male’. Ma l’intervento appare macchinoso e la presunzione d’errore sembra un comodo ripiego - per usare le stesse parole impiegate da Fratta in altra occasione (si veda 49.65, v. 5): le assonanze, ancorché non ricercate dagli autori lirici italiani del Duecento, non sono nemmeno inedite (si veda il cappello a p. 72 dei Sonetti anonimi). 49.40: Sanza lo core viver mi convene. Nella nota introduttiva Fratta afferma che le relazioni messe in evidenza nei Sonetti anonimi tra questo sonetto e quelli seguenti «paiono irrilevanti o comunque fortemente amplificate nell’opinione dell’editore»; non mi pare di avere amplificato, tanto meno fortemente, alcunché: mi sono limitato a ipotizzare dei collegamenti (che comunque continuano a non parermi fittizi), senza voler dire con questo - come forse immagina Fratta - che tutti questi sonetti siano stati scritti dallo stesso autore. Diversa la questione per i sonetti V 373-77 (qui 49.44-48), per i quali si veda oltre. Al v. 14 Fratta chiosa chiara figura dicendo che è «difficile pensare che qui figura valga ‘viso’, come ritiene Gresti, forse ingannato dall’insolito aggettivo»; confermo di non essere stato ingannato da nulla, si tratta di opinioni: ma io allegavo sia un verso di Cavalcanti che illuminava (è il caso di dirlo! ) la mia interpretazione, sia i numerosi episodi nei quali i poeti del Duecento parlano di chiaro viso. Che poi sia «dirimente» il luogo citato da Fratta, cioè Giacomo da Lentini, Or come pote, 11-12 («così per gli ochi mi pass’a lo core, / no la persona, ma la sua figura»), non mi pare proprio: tant’è che lo stesso Notaro (e non il solo Piero Asino 261 Besprechungen - Comptes rendus 23 L’endecasillabo con accento di 5 a è «già piuttosto raro nel Due e Trecento», come scrive A. Menichetti, Metrica italiana: 411 (la frequentazione assidua del volume è sempre di grande giovamento, come sa bene chiunque si occupi di poesia, antica e moderna). citato da Fratta in nota) usa più volte figura con il significato di ‘viso’ (cf. 1.3 Guiderdone aspetto avere, v. 49, e nota di Antonelli; 1.5 Dal core mi vene, v. 76; 1.14 S’io doglio no è meraviglia, v. 28). 49.41: Se lo meo core in voi, madonna, intende. È possibile che Fratta abbia ragione, che l’autore del sonetto si rifaccia «alla teoria aristotelica della volontà come determinazione della ragione . . . contro le cui decisioni si muove il core». Tuttavia non mi pare che la nuova punteggiatura renda più chiaro il testo rispetto alla vecchia. Trascrivo per chiarezza: «Se lo meo core in voi, madonna, intende, / incontro a la mia voglia è, ben sacciate, / e la mia conoscenza mi riprende / e dice ched è troppo alta amistate» (Sonetti anonimi); «Se lo meo core in voi, madonna, intende / incontro a la mia voglia, è ben, sacciate, / e la mia conoscenza mi riprende / e dice ched è troppo alta amistate» (Fratta). Il nuovo editore interpreta i versi da me pubblicati: «Se il mio cuore aspira a voi, o madonna, sappiate che ciò avviene contro la mia volontà, e che la ragione me ne rimprovera», dimenticando di segnalare che intende per me significa ‘sentirsi attratto verso qualcuno da un sentimento d’amore’ (come detto in nota), che è diverso da un generico aspirare, e che per conoscenza avevo suggerito anche ‘intelletto’ o, più bonariamente (e meno aristotelicamente), ‘buon senso’ (per quello che segue). La sua interpretazione è: «Se il mio cuore, o madonna, vi ama contro la mia volontà, è cosa ben fatta, anche se la ragione mi biasima». Non vedo bene il problema: qui il core è l’istinto amoroso, che agisce indipendentemente dalla volontà del poeta, e il buon senso rimprovera il poeta, perché si lascia trascinare dal core verso un amore (amistade) troppo elevato. Non mi pare un concetto «scarsamente comprensibile», e neppure inaudito. Per i v. 1-4, l’incipit di Paganino di Serzana («Contra lo meo volere / Amor mi face amare / donna di grande affare troppo altera»), che io cito «opportunamente», secondo Fratta sarebbe però in contraddizione con «la lettura vulgata e da me accolta»: confesso che mi sfugge la contraddizione. Il v. 5 è stampato da Fratta se·ll’om là ove non giunge si stende, mentre nei Sonetti anonimi suona se·ll’omo là ove ecc. Nella nota metrica Fratta scrive: «Gresti semplicemente non si accorge della dialefe né dell’ipermetria né dell’accento di 5 a ». Se Fratta avesse usato maggior cautela, e avesse letto con attenzione, si sarebbe accorto della mia lettura bisillabica di là ove, certo non scandalosa: sarebbe bastato che l’editore si consultasse con sé stesso, visto che nel sonetto Lo ben fare e lo servire (49.65), al v. 5 egli non può che leggere là ove appunto bisillabo (benché non lo dichiari; il verso, piuttosto difficoltoso, è: «là ove givi e’ venn’e io le givi incontra»). Il che non significa, sia chiaro, che io ritenga priva di senso o errata la proposta di Fratta: è solo un’altra ipotesi di lettura; ma contesto la scorbutica cecità dell’editore. Quanto all’accento di 5 a , temo che si tratti più che altro di un fantôme, giacché in questo verso non può essere messo alcun accento su quella sillaba, a meno che non lo si voglia, appunto, ipermetro. E non mi è neppure chiaro come l’accento di 5 a possa disturbare Fratta, visto che altrove ne fa addirittura un tratto stilistico caratterizzante di un sonetto (vedi sopra 49.39). In apparato manca mieo per meo al v. 7. 49.43: Per ciò non dico ciò ch’ò in voglienza. Nell’apparato del v. 10 manca come. 49.44-48: Convengo, a distanza di anni, che forse la «cronistoria della vicenda amorosa» (901) così come l’ho raccontata e ricostruita possa essere un po’ «romanzesca»; tuttavia non capisco bene che cosa voglia significare Fratta quando scrive che il rapporto tra i sonetti 45 e 46 «sembra . . . un tipico caso di confronto dialettico con posizioni e opinioni diverse e contrastanti che si fronteggiano»; non capisco, cioè, chi si affronta: il poeta con sé stesso? Il poeta con altri? E in questo caso: quali sono i sonetti della serie scritti dall’altro? Fratta sottoscrive il legame metrico che salda questo gruppetto di testi, ma non comprendo se accolga anche l’unicità d’autore. 49.44: Se ciascuno altro passa il mio dolore. Al v. 6 concordo con l’idea di togliere la d eufonica a né (con dialefe) e mantenere lo. I v. 12-14 sono così interpretati da Fratta: «ciò che mi evita la morte è la speranza che voi non sopportereste che, morendo, io (ma anche 262 Besprechungen - Comptes rendus voi) perderei un amore così profondo come quello che nutro per voi». Ma al v. 11 credo certamente indica una certezza, non una speranza (quella è al v. 8, qui sembra superata, o meglio rafforzata); il ma anche voi parentetico della parafrasi non c’è in nessun luogo del testo. 49.49: Francheza di fin core naturale. Al v. 6 Fratta stampa «se fosse ’n alto quant’è del sol lo rai», giustificando l’ipermetria con una cesura epica; la correzione da me proposta, «se fosse alto ecc.», con sinalefe, viene bollata come irricevibile, a causa dell’«invenzione di una possibile cesura lirica». Perché invenzione? Per il v. 14, «che più è nanti donna che donzella», si aggiunga il confronto con Raimon Vidal de Bezalu, So fo el temps, v. 554: «car mais val domna que donçela». 49.51: Eo sono assiso e man so’ gota tegno. Nella nota introduttiva, dove discute dell’attribuzione del sonetto a Ugo di Massa di Siena voluta da Leone Allacci, Fratta si dimentica di citare i Sonetti anonimi (vedi anche 49.26). C’è qualche altra dimenticanza, come per esempio il rinvio alla mia edizione per la citazione di Chiaro Davanzati al v. 3 (per sesto e disegno): ma, come ho già ricordato, tali dimenticanze sono colpevolmente diffuse nei «Meridiani», in particolare nel secondo e nel terzo volume. Vale la pena qui citare i primi sei versi del sonetto: «Eo sono assiso e man so’ gota tegno, / e penso forte e non so divisare, / e co lo core assai sesto e disegno / di quistion che ’mposivole mi pare: / e veggio che mi spiace e sì lo sdegno / e pur mi sforza mia voglia d’amare». Io avevo interpretato mia voglia d’amare del v. 6 come soggetto, citando a riscontro Guinizzelli, Donna, l’amor mi sforza, v. 4-5: «e ciascuno giorno inforza / la mia voglia d’amare». Chiosa Fratta: «ma nel passo guinizzelliano la mia voglia d’amare è sicuramente oggetto (sogg. 1 amor), sicché l’editore [cioè il sottoscritto] dovrebbe o rigettare la prossimità dei due luoghi oppure considerare oggetto anche la voglia dell’anonimo [non si capisce perché: il riscontro può essere una suggestione lessicale, non necessariamente anche sintattica . . .]. In realtà . . ., non considerandola oggetto, i due versi in esame diventano incomprensibili». L’interpretazione sarebbe: io conosco gli atteggiamenti e le situazioni che mi recano dispiacere; ma questi, pur da me rifiutati razionalmente, ‘sforzano’ di continuo la mia voglia d’amare. È chiaro che si tratta di una questione d’amore (v. 12: «ch’eo no li credo deïtà ’n amore»): il poeta innamorato riflette attentamente (sesto e disegno) con il cuore, capisce che la situazione in cui si sta cacciando non va bene, eppure la sua voglia d’amare lo costringe a fare ciò che non vorrebbe/ dovrebbe, cioè farsi signoreggiare - come si capisce nelle terzine - dall’amore. Insomma: per me la voglia d’amare rimane soggetto di sforza; il fatto che al v. 10 nell’espressione sforza lo core il sostantivo sia complemento oggetto non implica nulla (ma per Fratta è la dimostrazione che mia voglia d’amare è, anch’esso, oggetto). 49.53: Oi avenente donna di gran vaglia. Al v. 4 è buona la semplice, ma efficace, proposta di sanare l’ipometria con quant’ïo: la metterei senz’altro a testo. Al v. 5 Fratta stampa incominzaglia, ma nel manoscritto c’è inconinzaglia, e non c’è motivo di correggere (ma qui sarà un semplice errore di stampa, giacché manca nell’apparato). 49.54: Io doglio ch’amo e non sono amante. Al v. 3, «e merzé clamo e non sono clamante», Fratta interpreta ‘e invoco pietà e non sono invocato (richiesto, desiderato)’, ma preferisco Pellegrini (seguito del resto anche da Fratta per il verso successivo): ‘invoco pietà e non protesto’. 49.56: Lo gran valor di voi, donna sovrana. Ha ragione Fratta nel dire che il sonetto non è divisibile, come da me ipotizzato, tra lodi morali (quartine) e lodi fisiche (terzine) della donna. Abbiamo qui un altro esempio del curioso modo che ha Fratta di citare le proprie fonti: nella nota al v. 2 esibisce esempi da Dante da Maiano e Chiaro Davanzati dichiarando di aver mutuato tale accostamento dai Sonetti anonimi, mentre nella nota al v. 3 cita ancora i due toscani, ma la fonte scompare (si consideri, in aggiunta, che per Dante da Maiano Fratta rinvia alla stessa nota della Bettarini che già io avevo citato). 263 Besprechungen - Comptes rendus 49.62: Se del tuo amore giunta a me non dai. Nel cappello l’editore mette in evidenza due versi ipermetri. Il v. 4 suona, in base al testimone unico V, per neiente si può cangiare esto mercato, soprannumerario di due sillabe: nei Sonetti anonimi lasciavo l’ipermetria a testo e suggerivo in nota di sopprimere il per iniziale, interpretando nel contempo neiente come bisillabo; Fratta accetta neiente bisillabo, ma propende per la soppressione di si, «probabile interpolazione del copista». Egli interpreta, inoltre, può come seconda persona puo’. Ipermetro è anche il v. 11, che nel manoscritto suona: ca ’n ora ’n ora, aspetando vita e pena. Nei Sonetti anonimi lasciavo l’ipermetria, segnalandola e suggerendo in nota l’aferesi ’spetando insieme all’apocope del secondo ora. Fratta sostiene che il verso è regolarizzabile «solo con l’obliterazione del prefisso di aspetando», e infatti stampa «ca ’n ora ’n ora, spetando vita e spera», risolvendo l’ipermetria residua con una improbabilissima cesura epica. D’altra parte, secondo l’editore anche il v. 6 avrebbe questo tipo di cesura: «ca ver’ l’augello saresti asomigliato» (assai più probabile l’apocope di augello). Al v. 11, oltre all’ipermetria c’è anche un problema interpretativo. Nei Sonetti anonimi intendevo ’spetando come un gerundio per l’infinito (sulle orme di Menichetti), normale nella lingua antica, mentre il nuovo editore lo collega al morire del verso precedente: «ca meglio m’è morire nanti l’ora / ca ’n ora ’n ora, spetando vita e pena». Non mi pare congruo; e soprattutto è curiosa la giustificazione: Fratta cita il verso 14 del sonetto anonimo Vedut’aggio una stella mattutina, che è «che ’nn-ora ’n ora mi penso morire», per concludere che esso conferma «che l’espressione ’n ora ’n ora . . . è più perspicuamente riferibile a morire di 10». 49.65: Lo ben fare e lo servire ème incontra. I v. 5-6, «Là ove givi e’ venn’e io le givi incontra / com’a segnore servo bene a punto», vengono spiegati ‘dovunque andai esso [cioè lo ben far e lo servire dell’incipit] mi seguì, mentre io andai incontro a lei come un servo impeccabile (va incontro) al suo signore’. È una spiegazione plausibile, anche se un po’ faticosa, e molto faticosa (e improbabile) è anche la scansione del v. 5: mi rimane il sospetto che il primo givi possa essere errore d’anticipo, anche se questa ipotesi è giudicata da Fratta un «comodo ripiego». 49.70: Vis’amoros’, angelico e clero. A proposito degli attributi amoroso e clero per il viso della donna Fratta chiosa, giustamente, che sono «piuttosto comuni», e aggiunge che, al riscontro con Monte suggerito da Contini, «Gresti ne aggiunge altri, non particolarmente significativi; inedito semmai è l’accostamento tra amoroso e angelico (cf. anche l’incipit di Nicolò de’ Rossi Ançelica figura et amorosa)». Se Fratta avesse letto con attenzione si sarebbe accorto che io cito appunto il De’ Rossi, aggiungendo che questo sonetto anonimo è l’unico che accosta amoroso e angelico: quel semmai non ha dunque ragion d’essere. Piuttosto, è ben curioso che Fratta non veda la dialefe dopo angelico. 49.81: Nel tempo averso om de’ prender conforto. Nel cappello il curatore segnala una «sinalefe eccezionale» al v. 3 «che vilitate no gli dia isconforto», ma non si vede dove stia l’eccezionalità; inoltre ci sarebbe anche una sinalefe «inusuale» (? ) al v. 9 «Così spero in alegrezza tornare». Riccardo Gualdo, al quale si deve anche l’edizione di tutti i sonetti anonimi conservati nel Chigiano L.VIII. 305 (n. 49.89-109 di questa edizione), è nel complesso attento sia al dato manoscritto, sia alla bibliografia precedente. 49.3: U·novello pensiero ò al core e voglia. Nell’elenco delle dialefi mancano il v. 14 «chi mette in amore intendimento», dopo mette (o dopo amore, ma si avrebbe accento di 5 a ), e il v. 18 «gioco e canto e riso ed alegrezza», dopo gioco o canto (meno facilmente, mi pare, dopo riso: anche in questo caso si avrebbe un accento di 5 a ). 49.26: Tutte le cose ch’om non pote avere. Gualdo discute, nella nota iniziale, dell’attribuzione di questo sonetto e dei seguenti a Ugo di Massa da Siena: secondo la prassi già stigmatizzata, dimentica di riferire che la cosa era stata sottolineata da editori precedenti (cf. i Sonetti anonimi). 264 Besprechungen - Comptes rendus 49.28: Uno piacere dal core si move. I v. 12-14 suonano: «Dunque lo core è sempre giudicato / da gli ochi che gli mostran lo piacere / onde lo mena e tene e distrigne»; secondo l’editore, gli occhi del v. 13 svolgerebbero la funzione di soggetto del v. 14, ma l’ipotesi mi pare irricevibile. Ritengo ancora preferibile l’integrazione panviniana di Amor dopo mena (cf. i Sonetti anonimi). 49.31: Quando gli ausignuoli e gli altri agelli. Nella nota al v. 4 Gualdo sottolinea la vicinanza, pur nella topicità, del sonetto anonimo alle prime stanze dell’Intelligenza, ma tale accostamento era già nell’introduzione dei dimenticati Sonetti anonimi. Al v. 14 è probabilmente giusto lasciare il più del ms., anziché correggere in plu basandosi su un ipotetico errore d’anticipo che segna il precedente plungie al posto di punge. 49.35: Lo folle ardimento m’à conquiso. Al v. 1 è giusto riprendere la dialefe segnalata da Panvini in luogo dell’integrazione (di Santangelo e mia) Lo [mio] folle ecc. Al v. 7 do non vuole ovviamente l’accento. Al v. 10 è poco pertinente il rinvio a Tommaso di Sasso per folle natura, giacché il sintagma non è inserito nell’immagine del parpaglione. L’anonimo rimane l’unico italiano a usarlo in questo contesto, sulla scia di Folchetto di Marsiglia. Al v. 11 c’è l’immagine della farfalla che si brucia al fuoco: un interessante commento iconografico è nel canzoniere provenzale N (New York, Pierpont Morgan Library, 819, f. 60 v ), proprio in margine alla canzone di Folchetto. 49.34: Non me ne maraviglio, donna fina. Al v. 2 il ms. legge sentralaltre mi parete ilfiore, chiaramente ipometro; come avverte Gualdo, citando i Sonetti anonimi, la misura del verso si può sanare variamente, con dialefi o con l’integrazione di ben dopo altre («se ’ntra l’altre ben mi parete il fiore»), che è la scelta, appunto, dei Sonetti anonimi confluita qui. Per evitare l’accento di 5 a , inoltre, Gualdo suggerisce la possibilità di integrare ben prima di ’ntra. L’integrazione di ben mi era stata suggerita da Giacomino Pugliese, Donna, per vostro amore, v. 42, «che ’nfra l’altre ben mi pare la fiore», che è l’esempio più evidente da accostare all’anonimo: oggi recupererei, forse, l’altra soluzione suggerita da Giacomino, e non menzionata da Gualdo, cioè il cambio di genere del sostantivo fiore («se ’ntra l’altre mi parete la fiore»), che avevo scartato per gli accenti anomali di 3 a e 7 a : ma Menichetti 24 allega alcuni esempi (Guittone, Chiaro, Monte, Jacopo da Lèona) che rendono plausibile questo recupero gallicizzante non certo estraneo alla lingua del Duecento. 49.50: Un’alegrezza mi vene dal core. Anche in questo caso non vengono citati i precedenti editori per alcuni importanti riscontri, come quelli alle note 5 (da Guittone), 8 (dai Memoriali bolognesi e da un altro anonimo), 9 (per il poliptoto e il rinvio a Giacomo da Lentini).Al v. 13, «risembra (t’aunoro, Dïo? ) divina», Gualdo non considera tra le varie proposte quella messa a testo nei Sonetti anonimi (con T’aunoro, Dïo, quindi ‘sembra divina, e per Te, o Dio, è titolo d’onore’, oppure, come formula di rispetto, ‘con tutto il rispetto che ho per Te, o Dio’). 49.58: S’a torto voglio gli ochi giudicare. Al v. 4 Gualdo legge ch’egli è quel, ma in V c’è chegli eque (è que’, dunque). Al v. 8 l’editore legge «agli ochi contro a sé, chi lo crede», che salva la lezione del manoscritto, senza aggiunte (Sonetti anonimi: «agli oc[c]hi contro a sé, [s’è] chi lo crede»), ma con una dialefe prima di ochi, o dopo contro, che andava segnalata. La lettura del v. 9 è «Ed io ’nodisco i rei consigliatori», sulla scorta di Avalle, che delle Concordanze «mantiene ’nodisco», mentre nei Sonetti anonimi il verso è «E Dio ’nodisca i rei consigliatori»: in realtà V ha chiaramemente nodisca, sicché Avalle corregge, e Gualdo, che lo segue, avrebbe dovuto mettere in apparato la lezione manoscritta. 49.60: La mia vita è più dura ed angosciosa (in collaborazione Fratta e Gualdo). Nella nota introduttiva si sottolinea la comicità del testo, già messa in risalto nei non citati Sonet- 265 Besprechungen - Comptes rendus 24 Menichetti, Metrica italiana: 414. ti anonimi (ignorati anche nella nota al v. 8, dove si parla del tono ironico della donna, ma presenti alla nota 13, sul medesimo argomento: è una dimostrazione ulteriore della casualità con la quale viene trattata la bibliografia pregressa). Al v. 12, «dovea pensare: ‘Chi ò nonn-è romita’», si inferisce una sinalefe durissima tra Chi e ò, assai improbabile, ma che comunque doveva essere segnalata. O si tratta di un endecasillabo con cesura epica non dichiarata? Comunque è senz’altro preferibile l’apocope di pensare. L’ultima sezione di testi, che figura come appendice, è riservata a componimenti anonimi o frammenti di tradizione manoscritta varia e per lo più occasionale (si tratta, per esempio, di riempitivi in documenti d’archivio, o di marginalia). L’edizione di questi testi è ottimamente condotta da Pär Larson con la consueta puntuale precisione. Paolo Gresti ★ Roberto Cardini, Ortografia e consolazione in un Corpus allestito da L. B. Alberti. Il codice Moreni 2 della Biblioteca Moreniana di Firenze, Firenze (Olschki) 2008, lxviii + 173 p. Mit der von R. Cardini besorgten Edition des Florentiner Codex Moreni 2 liegt ein weiterer Band der prestigeträchtigen, bei Leo S. Olschki erschienenen Reihe Provincia di Firenze, Collana Cultura e Memoria vor. Seit 1996 werden hier Dokumente und Studien zur florentinischen und toskanischen Geschichte präsentiert sowie Bestände lokaler Archive aufgearbeitet und einem breiteren Publikum zugänglich gemacht. Einen weiteren Einblick in die Schätze florentinischer Archive und Bibliotheken gewinnt man mit der vorliegenden Faksimile-Edition verschiedener Schriften Leon Battista Albertis, die der Herausgeber selbst als « . . . gioielli della Biblioteca Moreniana di Firenze, ma un gioiello anche . . . tra i reperti albertiani a noi pervenuti» (v) wertet. Cardini geht minutiös auf die Überlieferungs- und vor allem auf die Rezeptionsgeschichte des Kodex ein: Vor dem 20. Jahrhundert kaum bekannt, ist es vor allem das Verdienst von Carlo Nardini und A. Gigli, die im Zuge einer Generalkatalogisierung der Biblioteca Moreniana im Jahre 1903 auf die Handschrift aufmerksam wurden und die Abhandlungen Alberti zuschrieben. Es handelt sich um die folgenden Schriften des Universalgelehrten der italienischen Renaissance: Theogenius (ohne Überschrift, 3r-52r), Widmungsbrief zum Theogenius an den Ferrareser Fürsten Leonello d’Este (Leonis Bap(tiste) Alb(erti) ad Leonellum illustrissimu(m) principem Estensem, 52r-53v), Naufragio tracto dello XI libro Intercenalium (67r-73v, Epistola di Leone Baptista Alb(erti) Consolatoria). Der sogenannte Naufragio volgare war bis 1903 völlig unbekannt und wurde noch im selben Jahr von Albertis Biographen Girolamo Mancini veröffentlicht 1 . Nicht unerwähnt bleiben sollen auch die - bereits von Nardini identifizierten - handschriftlichen Kommentare aus dem 18. Jahrhundert von Domenico Maria Manni, wohl einem der frühneuzeitlichen Besitzer des Codex, der denselben auf dem vorderen Vorsatzblatt mit der Bemerkung versah « . . . Opuscoli Morali di Leon Battista Alberti necessarj al viver dell’uomo . . . » (2 r.), sowie der nicht signierte Ordine d ẻ lle lætt ẻ re p ẻ lla linghua toschana (1 v.). 1962 konnte Carmela Colombo nachweisen, dass dieses orthographische Zeugnis nicht allein von Albertis Hand stammt, sondern im Zuge der Redaktion der sogenannten Grammatichetta vaticana entstanden ist 2 . Hiermit ließ sich dann auch die bis dahin ungeklärte 266 Besprechungen - Comptes rendus 1 G. Mancini, «Una intercenela inedita di Leon Battista Alberti», GSLI 41 (1903): 318-23. 2 C. Colombo, «Leon Battista Alberti e la prima grammatica italiana», SLI 3 (1962): 176-87.
