Vox Romanica
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Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniCarlo Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, Firenze (Olschki) 2009, 394 p. (Biblioteca di «Lettere italiane». Studi e Testi 71).
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Paolo Gresti
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Italoromania Carlo Delcorno, «Quasi quidam cantus». Studi sulla predicazione medievale, Firenze (Olschki) 2009, 394 p. (Biblioteca di «Lettere italiane». Studi e Testi 71). In questo bel volume che i curatori - Giovanni Baffetti, Giorgio Forni, Silvia Serventi e Oriana Visani - hanno assemblato per festeggiare i settant’anni di Carlo Delcorno, sono riuniti quattordici dei numerosi saggi che lo studioso ha consacrato alla predicazione nel Medioevo, dalle origini (Francesco d’Assisi) alla metà del secolo XV. La raccolta è suddivisa in tre parti: 1) I linguaggi del pulpito (1-84), con i saggi: «Professionisti della parola: predicatori, giullari, concionatori»; «Tra latino e volgare»; «Il ‹parlato› dei predicatori»; 2) Modelli e interferenze (85-155), con i saggi: «Bibbia e generi letterari del Medio Evo»; «‹Antico› e ‹moderno› nel sermone medievale»; «Maestri di preghiera per la pietà personale e di famiglia»; «Exempla e facezie fra Bernardino da Siena e Poggio Bracciolini»; 3) Tradizione e rinnovamento della predica francescana (157-377): è la sezione più ricca, e si «si propone . . . come verifica conclusiva, in uno degli ambiti più importanti e originali dell’oratoria sacra postmedievale» (vi); i saggi in essa contenuti sono: «Le origini. Francesco d’Assisi»; «La retorica dei Sermones di Antonio da Padova»; «L’exemplum multiforme di Bernardino da Siena. Tra fonti scritte e canali di informazione»; «La diffrazione del testo omiletico»; «Vincent Ferrer e l’Osservanza francescana»; «Modelli retorici e narrativi da Bernardino da Siena a Giacomo della Marca»; «Due prediche di Giacomo della Marca (Padova 1460)». L’insieme di questi interventi configura «a posteriori un percorso fecondo e coerente, tra vigili aperture metodologiche e sostanziosi approfondimenti particolari» (v): il saggio più antico è quello relativo a due prediche di Giacomo della Marca (titolo originale: Due prediche volgari di Iacopo della Marca recitate a Padova nel 1460), pubblicato nel 1970, mentre il più recente è quello dedicato a Vincent Ferrer (titolo originale: Da Vincent Ferrer a Bernardino da Siena. Il rinnovamento della predicazione alla fine del Medioevo), che è del 2006. La maggior parte degli interventi risalgono agli anni Novanta. La predicazione medievale offre lo spunto a riflessioni articolate, di tipo linguistico, di tipo letterario, di tipo culturale. La lingua della predicazione medievale è sospesa tra latino e volgare, tra scrittura e oralità; lo scopo dei predicatori è di farsi comprendere dai propri ascoltatori, e dunque «la lingua dei sermoni, di qualunque origine, presenta alcuni tratti comuni: la sintassi segue un ordine naturale, vicino ai moduli del parlato; il lessico risente di condizionamenti locali» (27). Del resto, quello della lingua della divulgazione del messaggio evangelico è un problema antico, e ne era ben consapevole, tra gli altri, Sant’Agostino, che nelle Enarrationes in Psalmos scriveva: «melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi». La lingua usata, dunque, può essere, e il più delle volte è, il risultato dell’ibridismo linguistico, che «si presenta . . . con alternanza organica, oppure con una fusione inorganica di latino e volgare» (29). Proprio la «mescolanza prolungata e irrazionale delle lingue rappresenta il terreno più propizio allo sviluppo dello stile macaronico» (34), anche se difficilmente i predicatori raggiungono quella consapevolezza artistica che fanno del vero e proprio macaronico, straordinario risultato di una sapiente mistura di dialetto e latino classico, una vera e propria arma di eversione linguistica. Il predicatore non è sullo stesso piano di Teofilo Folengo. Ma d’altra parte, le omelie medievali sono giunte fino a noi grazie all’intermediazione delle reportationes degli ascoltatori, che a volte, per colmare lacune o chiarire punti rimasti oscuri, chiedevano delucidazioni o integrazioni al predicatore stesso; è ciò che càpita, per esempio, con fra Giordano da Pisa (cf. p. 245). Si può dunque affermare che la fissazione scritta del sermone è il frutto della «collaborazione tra oratore e uditore» (332).A volte succede che le prediche vengano registrate da uditori diversi, e addirittura in lingue diverse. Un 276 Besprechungen - Comptes rendus caso molto interessante - illustrato da Delcorno nel saggio La diffrazione del testo omiletico - è rappresentato dai sermoni di Bernardino da Siena. Alle reportationes in volgare si aggiungono quelle in latino di Iacobus Nannis de Griffulis, esponente dell’importante famiglia senese dei Griffoli. Costui è abile nel tradurre «il senese di Bernardino nel latino grosso, infarcito di volgarismi, che serviva alla comunicazione tra gli intellettuali» (248). Ma le differenze tra le due serie di reportationes non si fermano alla lingua, giacché spesso ci si rende conto che i due ascoltatori, nelle note messe per iscritto, registrano o tralasciano parti del sermone seguendo la sensibilità personale: certo «la pluralità dei tachigrafi migliora solo in parte la situazione rispetto alle tradizioni . . . che mettono capo ad un’unica registrazione» (261), e tuttavia le due trascrizioni, una volta integrate l’una all’altra, ci dànno un’immagine meno frammentaria del reale discorso del predicatore. Griffoli ci fornisce «notizie più abbondanti e precise . . ., e non solo per quanto riguarda gli elementi cronachistici, pragmatici, extratestuali, ma anche circa il piano concettuale del discorso, disegnato per divisioni, variato da una serie di procedimenti retorici che vanno sotto il nome di dilatatio» (250). Ma d’altra parte l’anonimo trascrittore volgare, meno colto del Griffoli, «ebbe miglior orecchio per cogliere e fissare le digressioni narrative e i registri teatrali della predicazione bernardiniana» (ib.), quegli elementi, cioè, che sono «più vicini alla cultura e alla sensibilità di un pubblico semicolto» (255). A volte il quadro si complica, come nel caso delle prediche di Giacomo della Marca pubblicate dal Delcorno alle p. 343-77. In questo caso l’ascoltatore che annota i sermoni è Ser Francesco de’ Novellini; ma a costui e all’oratore si affianca una terza persona, «un copista che collabora vivacemente, non foss’altro che sul piano linguistico, alla redazione delle prediche» (332): Girardo «pilizaro», probabilmente «lo stesso Giraldus che sottoscrive l’intero codicetto» che trasmette le prediche di Giacomo della Marca (ms. 5-3-24 della Biblioteca Capitular y Colombina di Siviglia), il quale afferma di essere stato, egli stesso, presente alle prediche. Giraldo «è un copista per devozione», e non è escluso, anzi è probabile, che egli «non si sia limitato a copiare gli appunti del più dotto uditore, ma vi abbia liberamente aggiunto alcuni ritocchi» (ib.). A esemplificazione, ecco un breve passo, che segue la narrazione di un miracolo: «Nota che lo predito meser fra Jacomo de la Marcha, homo tenuto buono e perfetto e de sancta vita, predicò questo miracholo aver lui personalmente visto, e fo recitado in la dita predicha, e per Francesco Novelino ne la mente lo portoe a caxa e sscripse, et io, Gerardo, de audito mio proprio fui a la dita predica, et vero quello è sscrito». Importante è anche lo spazio della predicazione, che è per eccellenza la piazza cittadina, «che spesso i predicatori dovevano difendere . . . dall’aggressiva invadenza di giullari e cantastorie» (7), nei confronti dei quali, peraltro, «i chierici non smisero mai un atteggiamento di sospetto e vigilanza» (9): ma si è ormai sgretolato quel monopolio della parola che era saldamente nelle mani dei chierici dell’Alto Medioevo. La predicazione medievale è regolata dalle artes predicandi, che consigliano numerosi artifici retorici, che però devono essere usati con cautela, per non correre il rischio di adulterare «la nuda bellezza della parola divina» (92); spicca la cosiddetta connexio autoritatum, arma fondamentale per il sermo modernus, cioè l’omelia che, staccandosi dalla prassi dei Padri di illustrare narrativamente una pagina della Scrittura, parte da un versetto biblico per percorrere in tutta la sua estensione il Libro Sacro, mettendone in rilievo l’inesauribile possibilità autoesegetica. Dunque, la connexio autoritatum permette al predicatore moderno - che si avvale di strumenti quali le distinctiones e le concordanze bibliche - di muoversi dall’inizio alla fine della sua orazione de auctoritate ad auctoritatem, ricongiungendosi, nel finale, al versetto d’apertura, il cosiddetto thema. Nel bagaglio libresco del predicatore non potevano mancare i manuali di storia universale, e d’altra parte c’è una certa congruenza tra la predicazione e la storiografia degli ordini mendicanti. C’è un forte interesse nei confronti della storia, soprattutto romana, perché, 277 Besprechungen - Comptes rendus come scriveva Umberto da Romans (XIII secolo), «sunt enim multae historiae, non solum apud fideles, sed etiam apud infideles, quae interdum semper valunt in praedicatione ad aedificationem» (113). La storia irrompe nelle omelie soprattutto attraverso l’exemplum. Ma il fatto storico non ha valore in sé, serve nel momento in cui permette di illustrare l’intervento di Dio nelle vicende umane: «la storia è assorbita nella teologia», perché «i predicatori, come spesso i cronisti . . ., sono al servizio dei teologi» (121). E dunque c’è spazio anche per la favola e la parabola, «cioè il racconto che si riferisce ad una realtà ipotetica, che veicola un significato allegorico» (207); infatti, «il predicatore . . . non si propone di ricostruire il passato accertando i fatti: gli basta utilizzare l’effetto di verisimiglianza per convincere e convertire l’uditore» (113). Il volume è chiuso dall’indice dei nomi. Paolo Gresti ★ Paul Videsott, Padania scrittologica. Analisi scrittologiche e scrittometriche di testi in italiano settentrionale antico dalle origini al 1525, Tübingen (Max Niemeyer Verlag), 2009, xvii + 624 p. (Beihefte zur Zeitschrift für romanische Philologie 343) Il lavoro di Paul Videsott si iscrive nella migliore tradizione degli studi sulle scriptae volgari medievali, colmando insieme un vuoto di ricerca per l’area italiana ormai piuttosto sensibile. Esso nasce come Habilitationsschrift presso l’Università di Innsbruck, successivamente rivisto per la pubblicazione e bibliograficamente aggiornato fino al gennaio 2006 (p. 1). Com’è noto, la ricerca sulle scriptae romanze medievali - generata dall’intuizione di Louis Remacle nel 1948 - ha conosciuto un brillante sviluppo in area galloromanza, specialmente per l’opera di Carl Theodor Gossen e del suo allievo Hans Goebl: a quest’ultimo sostanzialmente si deve la svolta in direzione quantitativa dell’analisi, ovvero dalla scriptologia alla scriptometria (o scritto-, come preferisce Videsott, con assimilazione); ai lavori di questi due importanti studiosi va almeno aggiunto quello di Anthonij Dees, i cui due atlanti delle forme e delle costruzioni delle carte e dei testi letterari d’oïl rappresentano a tutt’oggi l’esempio più vicino a un desiderabile atlante linguistico del francese antico. Di tutto questo e del resto della produzione scientifica sulla «questione scripta» è ben consapevole Videsott, che nell’Introduzione (7-62, escluso l’elenco dei documenti) all’analisi (parziale, come vedremo) presenta un quadro epistemologico e uno stato dell’arte essenziali quanto precisi. Si tratta di una parte molto pregevole del libro, che può valere anche come avviamento allo studio della questione in sé e nella quale la bibliografia è stata acquisita in modo esaustivo, come anche correttamente rilevata la distanza della ricerca italiana in direzione scriptologica. Congruente con la storia linguistica dell’Italia settentrionale è la sezione diacronica (13- 17) sottoposta a indagine: dalle origini (qui la cosiddetta Dichiarazione di Paxia ligure, del 1182) al 1525, data della pubblicazione delle Prose del Bembo e noto punto di svolta nella storia linguistica italiana, valida anche come momento di separazione fra le fasi antica e moderna dei dialetti italiani; tale lungo arco temporale è poi suddiviso in cinque periodi convenzionali, dalle origini al 1300 e poi per tratti per lo più di mezzo secolo, allo scopo di meglio collocare nel tempo l’evoluzione dei fatti osservati. L’analisi di Videsott è fondata su 36 centri scrittori, in grado di fornire documentazione sulle principali aree dialettali nonché su alcuni centri extraitaliani di pertinenza genovese e veneziana (18-25), e su 320 criteri (ovvero tratti) grafici (25-50), corrispondenti per lo più a fenomeni fonetici (ovviamente la maggior parte) e morfologici, ripresi dall’escussione della bibliografia linguistica di riferi- 278 Besprechungen - Comptes rendus
