eJournals Vox Romanica 70/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2011
701 Kristol De Stefani

La Prise de Cordres et de Sebille. Édité par Magaly Del Vecchio-Drion, Paris (Champion) 2011, 531 p. (Les Classiques Français du Moyen Âge 165).

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2011
Paolo  Gresti
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La Prise de Cordres et de Sebille. Édité par Magaly Del Vecchio-Drion, Paris (Champion) 2011, 531 p. (Les Classiques Français du Moyen Âge 165). Il volume si apre su una ricca introduzione (7-251), che termina con la bibliografia (252-76); seguono il testo critico della chanson (279-391), le note al testo (393-449), il glossario (451- 518) e l’indice dei nomi propri (519-31). Nell’introduzione Magaly Del Vecchio-Drion sviluppa tutti i problemi connessi a questa poco studiata chanson del ciclo dei Narbonnais. Nella prima parte la studiosa si occupa delle questioni più propriamente tecniche (manoscritto, criteri di edizione, grafia, lingua, versificazione, assonanze . . .); nella seconda, invece, approfondisce gli aspetti legati alla qualità letteraria della Prise de Cordres et de Sebille e alla sua posizione all’interno del ciclo. Scritta probabilmente nel primo quarto del XIII secolo, la Prise - per usare le parole della Del Vecchio-Drion - «ne brille pas par son originalité», e tuttavia essa è «une chanson intéressante à bien des égards» (249). La data presumibile di composizione spiega «les traits romanesques perceptibles dans l’organisation thématique et narrative de la chanson» (22), e in effetti questo poema, frutto tutto sommato tardo di un genere letterario che ha dato il meglio di sé durante il secolo XII, testimonia il tentativo di rinnovamento della chanson de geste nel momento in cui essa rischia di entrare nel cono d’ombra suscitato dal genere narrativo ora à la page, il romanzo. Certo, l’epica «n’a pas l’intention de se laisser mourir sans réagir» (250), e dunque innesta sui tradizionali motivi guerreschi altri temi, soprattutto quello amoroso, e rimodella il suo eroe, in modo da renderlo meno monolitico e roccioso, e insomma pronto alle prove della cortesia. Ecco dunque un motivo per cui, nonostante il valore intrinseco non elevatissimo dell’opera, la nuova edizione della Prise de Cordres et de Sebille è meritoria 1 : questa chanson «permet d’aborder bon nombre de notions essentielles relatives au fond et à la forme du poème épique», giacché la Prise «est un témoin des mutations littéraires, esthétiques et sociales de son siècle» (251). E sappiamo, posso aggiungere, che, di mutazione in mutazione, il poema epico è arrivato lontano, ha traslocato, ha cambiato forma e lingua, e ha prodotto i grandi capolavori italiani dei secoli XV e XVI. Questa nuova edizione della Prise de Cordres et de Sebille non può che essere benvenuta, e i rilievi che si troveranno nelle pagine seguenti non vogliono sminuirne il valore e l’importanza; si tratta per lo più di piccole mancanze, o di imprecisioni che possono rendere poco chiaro, e dunque equivocabile, un concetto: è noto che il filologo non è un pretore, e quindi si deve curare anche de minimis. La bibliografia è molto informata, anche se non è esente da una pecca molto «francese», se così posso esprimermi: s’incontrano solo rarissimamente opere che non siano scritte nella lingua di Parigi (la fonetica storica di M. K. Pope, il Wörterbuch di T-L, e poco altro); spicca perciò l’assenza degli studi sull’epica di Cesare Segre, del quale, se non ho visto male, viene citato (in una nota) solo l’importante articolo, peraltro in francese, sulla critica del testo e il diasistema - oltre, naturalmente, all’edizione della Chanson de Roland, nella sua ultima versione francese a cura di Madeleine Tyssens: ma questa è una presenza obbligata e, per così dire, lapalissiana. La Prise de Cordres et de Sebille è trasmessa da un unico manoscritto, conservato a Parigi (Bibliothèque Nationale, fr. 1448, siglato D), che trasmette alcune altre chansons de geste: questo testimone cerca di mettere assieme il ciclo di Guillaume con quello dei Narbonesi, e «le fait d’avoir intercalé des chansons des Narbonnais . . . au milieu du Cycle de Guillaume . . . pose au remanieur des difficultés dont témoignent les raccords effectués entre les chansons» (12)». La Prise, che si trova tra il Siège de Barbastre e le Enfances Vivien, è concepita 310 Besprechungen - Comptes rendus 1 La precedente edizione, a cura di O. Densusianu risaliva al 1896, mentre quella di K. Morneau, del 1974, è praticamente inutile, giacché non si discosta, nei fatti, da quella precedente. come una continuazione di Guibert d’Andrenas, come provano «les nombreux rappels d’événements ayant eu lieu dans Guibert»: ciononostante, come si vedrà tra poco, non mancano i contrasti tra le due chansons; in tutti i manoscritti ciclici il Siège precede la canzone di Guibert, ed è dunque notevole che quest’ultima chanson non sia presente in D, nel quale essa è di fatto sostituita dalla Prise, che non compare, come si diceva, in alcun altro manoscritto. Questo ha costretto il rimaneggiatore a mutare il finale del Siège de Barbastre per raccordarlo alla Prise, ma tale intervento «est imparfait et ne réussit pas à achever de façon vraiment satisfaisant le Siège, ni à résumer correctement Guibert pout introduire la Prise» (17). Ma come mai D ha una struttura diversa da quella degli altri manoscritti ciclici? Tra le ipotesi esposte dalla Del Vecchio-Drion alle p. 19s., riprendendole da un importante saggio di Madeleine Tyssens 2 , quella che mi convince di più è la terza: il modello di D non aveva né Guibert né la Prise, di cui però il compilatore è entrato in possesso grazie a un’altra fonte. Ma è anche possibile che il modello a disposizione nell’atelier nel quale è stato assemblato D contenesse tanto il Guibert quanto la Prise, e che il compilatore, deciso a non lasciar cadere la seconda chanson, abbia dovuto eliminare il Guibert, a causa degli evidenti contrasti di contenuto tra i due poemi. In effetti la Prise de Cordres et de Sebille non poteva essere facilmente collocata subito dopo il Guibert, perché, per esempio, in quest’ultimo poema il re saraceno Judas si getta da una torre e muore dopo la conquista della città di Andrenas da parte di Guibert, mentre nella Prise egli è ancora ben vivo. Sicché può essere che il compilatore di D abbia dovuto, per evitare un’improvvida quanto non spiegabile resurrezione di Judas, eliminare da questa raccolta il Guibert d’Andrenas. Il raccordo, dunque, tra il Siège de Barbastre e la Prise vorrebbe essere una specie di riassunto della chanson dedicata a Guibert, ma esso è impreciso e assai rabberciato, proprio per le incongruenze di cui si diceva tra le due canzoni. D’altra parte la Del Vecchio-Drion esclude che il compilatore di D sia anche l’autore della Prise, e l’ipotesi è verisimile, ma il fatto che nella copia ci siano errori di trascrizione - come la Del Vecchio-Drion sottolinea sulla scorta di uno studio di Duncan McMillan - non prova, di per sé, nulla: sappiamo di autori che, copiando sé stessi, commettono molti errori. Un raccordo era necessario anche tra la Prise e la canzone che segue, cioè le Enfances Vivien: e forse un inizio è nelle due lasse finali, anche se, secondo la Tyssens, gli ultimi ventisette versi della Prise «ne font pas à proprement parler partie du raccord» (Tyssens 1967: 401). Rimane il fatto che essi sono alessandrini, mentre il resto della canzone è in décasyllabes: dunque l’autore di questa parte potrebbe essere lo stesso che, in alessandrini, ha mutato il finale del Siège per raccordarlo alla Prise; ma in quel caso la scelta del tipo di verso non costituiva un problema, giacché l’intera canzone che narra dell’assedio di Barbastre è scritta in alessandrini. Un’altra particolarità del finale della Prise è che cambia il copista: la canzone è trascritta dalla mano B, mentre l’ultimo verso della lassa 177 e i soli due versi rimasti della lassa 178 si devono alla mano A (i tre versi inaugurano il recto della carta 182, che per il resto rimane bianca). Secondo Madeleine Tyssens il copista B ha trascritto i primi versi che gli vengono forniti dal rimaneggiatore; egli «s’est arrêté au bas du feuillet 181, cédant la place à A qui devait sans doute aménager définitivement le raccord pour le loger dans l’espace des deux derniers feuillets» (Tyssens 1967: 401). Ma è curioso che il copista B abbia tralasciato proprio solo l’ultimo verso (un petit vers, secondo lo stile della chanson) della lassa 177; i motivi di questo passaggio di mano devono essere altri, ma rimangono oscuri. Essendo conservato da un solo manoscritto, il testo della Prise de Cordres et de Sebille è stato sottoposto a una moderata toilette: lo scopo dichiarato, condivisibile, è di «fournir un 311 Besprechungen - Comptes rendus 2 M. Tyssens, La geste de Guillaume d’Orange dans les manuscrits cycliques, Paris 1967. texte lisible et compréhensible, le plus proche possible de la version contenue dans le manuscrit» (26), nella speranza, avrei aggiunto, di raggiungere un risultato non troppo distante da quello voluto dall’autore. Si sa che, soprattutto in assenza di autografi, il testo filologicamente critico non è altro che un’ipotesi di lavoro, un tentativo di intravedere, attraverso la selva delle varianti e degli errori germogliati nella tradizione manoscritta, un barlume dell’originale: oggetto, va pur detto, chimerico e mitico. La tradizione unitestimoniale obbliga il filologo a un lavoro paziente e attento, che in sostanza si limita alla ripulitura dagli errori evidenti del testo trasmesso dall’unico codice: talvolta ci si deve rassegnare a una semplice segnalazione di menda, talvolta si riesce a proporre, ope ingenii, una possibile medicazione. Magaly Del Vecchio-Drion lavora in questa direzione: «nous avons essayé» scrive infatti «d’apporter à la chanson de La Prise de Cordres et de Sebille un nombre minimal de corrections, afin de rester au plus près du texte d’origine» (27). Il metodo è senz’altro corretto, e certo migliore di quello del precedente editore, il quale, in ossequio ai criteri scientifici dettati dall’epoca, aveva tentato il ripristino di un «texte exemplaire», introducendo nell’edizione svariate «corrections arbitraires» (10); mi pare però ingeneroso, o inutilmente polemico, da parte della Del Vecchio-Drion sfruttare l’interventismo di Densusianu per attaccare il metodo lachmanniano, che, secondo la studiosa, «tend à retrouver le texte original de l’œuvre en recourant à une reconstitution composite, qui emprunte des leçons à différents textes»: affermazione vera e non vera al tempo stesso 3 . Ma soprattutto sorprende l’accostamento di queste parole con quanto poi scritto a p. 28 (e nota), dove la Del Vecchio- Drion ammette che «l’absence de versions concurrentes permettant d’amender le texte par différentes variantes» (il corsivo è mio) l’ha obbligata a procedere alle correzioni necessarie solo facendo ricorso a forme e espressioni presenti altrove nella Prise o in altri testi della medesima epoca. Dunque, sembra di poter inferire, se ci fossero stati altri testimoni l’editrice avrebbe proceduto a una edizione composite! In qualche caso, forse, si poteva limitare ulteriormente gli interventi; il v. 25, per esempio, suona: «François demoienent [grant] joie et grant baldor», sulla scorta, correttamente dichiarata, di Densusianu; in nota (p. 395) l’intervento viene così giustificato: «ce vers est hypométrique. Pour rétablir un décasyllabe, nous avons ajouté l’adjectif grant devant le substantif joie, sur le modèle des vers 26, 533, 981, 1066 etc. . . .». È ben vero che il sintagma grant joie è ricorrente nella Prise, tuttavia qui si poteva evitare l’aggiunta dell’aggettivo, perché joie è bisillabo (cf. v. 1038: «Deus! Ques honors et quel joie t’avive»), con dialefe seguente. L’analisi dei tratti linguistici conduce la Del Vecchio-Drion a una conclusione che non si discosta da quella della critica pregressa: emergono dalla scripta vari tratti dialettali, ma la lingua che sembra prevalere è il lorenese: «D est donc un manuscrit lorrain» (102); comunque il testimone della Prise de Cordres et de Sebille fotografa una situazione tipica dell’epoca medievale: «la langue médiévale n’est pas, au XIII e siècle, un ensemble figé relevant de l’influence d’un seul dialecte, mais bien le produit de plusieurs emprunts dialectaux: un véritable mélange linguistique» (101). Analizzando però le assonanze emerge che in alcune lasse si mescolano, nelle parole in punta di verso, le grafie -en e -an, che, proprio per rispettare l’assonanza, dovrebbero rappresentare entrambe il suono [ ]. Tuttavia la fusione delle due grafie in quell’unico fonema si realizza, durante il XIII secolo, nella zona linguistica franciana, non nelle periferie, visto che «la distinction entre [ ] et [ ] reste bien maintenue dans les dialectes picard, wallon et lorrain» (115). La conclusione è che l’autore si collo- 312 Besprechungen - Comptes rendus 3 Non è questo il luogo per innescare l’ennesima e sterile diatriba metodologica: ma nella prassi lachmanniana, che del resto non è sempre possibile adottare nella sua integrità quando si appronta l’edizione di un testo in volgare, la fusione tra due textes, quando c’è, segue di norma criteri ben precisi. cherebbe nel «Nord-Est de l’Île-de-France, près de la Champagne, car il écrit dans la langue commune, mais utilise souvent des traits régionaux qui doivent lui être familiers» (121, N 144). Si potrebbe ugualmente pensare forse a un autore, poniamo, lorenese, il quale, trasferitosi nell’Île-de-France, ha assorbito alcuni tratti fonetici della lingua della regione che lo ha accolto. Ma, a proposito dell’assonanza di cui s’è detto, la conclusione a cui giunge la Del Vecchio-Drion è che essa «montre . . . que les finales des verbes en -ent étaient accentuées et prononcées (voir notamment le v. 1088)»: frase che mi suona vagamente sibillina. A quali desinenze verbali in -ent si riferisce la studiosa? Il verso citato come esempio è: «fors serois mis ansois lou jau chantent», quindi «vous serez libérés avant le chant du coq» 4 ; qui chantent è ovviamente un participio - in un orrendo italiano letterale «. . . prima del gallo cantante» -, e dunque l’accento non può che cadere su -ent; che dovrebbe, è ben vero, essere scritto -ant, ma questo scambio non fa che corroborare la tesi che nella Prise (cioè nella lingua dell’autore della Prise) le grafie en e an valgono, foneticamente, [ ]. Lo stesso vale, per esempio, per il v. 1396 «[Paien] lo voient, si se vont atargent» e per il v. 1412 «Ques gent sont ce que vos alés chacent? ». Torniamo, però, al rapporto tra la lingua del copista e quella dell’autore, perché non tutto mi pare chiaro. Ho l’impressione, infatti, che a volte la Del Vecchio-Drion tenda a sovrapporre un po’ avventurosamente i due piani; la studiosa scrive che il copista «ne cherche pas à rajeunir considérablement la langue», ma poi aggiunge che «le scribe conserve . . . des traits syntaxiques anciens», e ancora che «il n’aime pas les tournures rares ou nouvelles et préfère s’en tenir aux traits communément admis et utilisés. Ainsi, la parataxe est encore vigoureuse . . .» (102). Ora, se è vero che è nelle facoltà di un copista decidere se ringiovanire o no la lingua dell’opera che sta trascrivendo, è altrettanto vero, mi sembra, che le scelte sintattiche e stilistiche siano da addebitare a chi scrive l’opera (dunque all’autore) e non a chi si limita a copiarla. A meno che - ma mi pare poco probabile - Magaly Del Vecchio- Drion non attribuisca due significati diversi a copiste e scribe. La Prise de Cordres et de Sebille conta 2948 versi distribuiti in settantotto lasse; in verità, dell’ultima lassa sono rimasti, come detto, solo i due versi incipitali: la chanson è infatti rimasta incompiuta, ovvero la copia giunta fino a noi è mutila. Non tenendo conto dell’ultima, la lassa più corta è la XII, di otto versi, la più lunga è la XLII, di 126 versi. Come si è già accennato, la Prise è scritta in décasyllabes, tranne i versi che compongono la lassa 77 e i due rimasti della lassa 78, che sono alessandrini. Tutte le lasse (tranne due) sono chiuse da un petit vers, un hexasyllabe che non è in assonanza con la lassa che conclude né lancia l’assonanza della lassa che segue. All’interno dei versi sono presenti, com’è normale, iati (dialefi) e elisioni; a questo proposito può suscitare qualche perplessità l’affermazione secondo la quale «l’élision de l’article masculin singulier est facultative. On trouve indifférement li aumaçor(s) . . . ou li asalz . . . et l’aumaçor . . . ou l’açalt» (103). Probabilmente sarebbe stato meglio specificare che la scelta per l’elisione o la forma piena di li è dettata da motivi prosodici (dunque l’elisione non è, in verità, né facultative né indifférente). Per esempio, il v. 1522 suona «Aieres traient, s’est li asalz remés»: la cesura epica, e dunque la sillaba soprannumeraria dopo l’accento di quarta, impone la dialefe (cioè la figura metrica che corrisponde allo iato linguistico) dopo li; al contrario, nel v. 528 «ne l’aumaçor n’est mie si destrois» l’articolo non poteva non essere eliso, pena l’ipermetria. In altri termini, la scelta grafica rispecchia le esigenze prosodiche. Gli alessandrini (27 in totale) hanno tutti la cesura dopo l’accento di sesta, come è ovvio; i décasyllabes dopo l’accento di quarta, e anche questo rientra tutto sommato nelle aspet- 313 Besprechungen - Comptes rendus 4 La prise de Cordres et de Sebille. Traduction en français moderne par Magaly Del Vecchio- Drion, Paris 2011: 54. tative del lettore di epica del tempo. C’è solo un esempio di cesura dopo l’accento di sesta, e, proprio perché isolato, si tratta di un caso assai sospetto; è il v. 2898 «en halt, par descovert, forment lou fiert», nel quale basterebbe invertire i termini iniziali, eliminando la virgola alla fine del verso precedente e leggere: «Inellement devers Butor revient / par descovert, en halt forment lou fiert». Non avrei, per prudenza, toccato il testo della chanson, ma avrei senz’altro suggerito l’ipotesi nel commento. L’edizione è infatti chiusa, come dicevo all’inizio, da ricche note al testo, nelle quali la Del Vecchio-Drion fornisce spiegazioni e chiarimenti, sia sul piano del contenuto, sia sul piano testuale, dando per esempio ragione dei principali interventi, per lo più mirati a ristabilire la misura di versi ipometri o ipermetri. Utilissimi, infine, sia il glossario, sia l’indice dei nomi che compaiono nella Prise. Paolo Gresti ★ La Prise de Cordres et de Sebille. Traduction en français moderne par Magaly Del Vecchio- Drion, Paris (Champion) 2011, 160 p. (Moyen Âge - Traduction 87). È la traduzione in francese moderno della chanson di cui la stessa Del Vecchio-Drion ha fornito l’edizione critica per la collana dei Classiques Français du Moyen Âge 1 . Il testo tradotto è preceduto da una breve introduzione ed è seguito da un essenziale apparato di note (che la studiosa cerca, nei limiti del possibile, di diversificare rispetto a quelle che accompagnano l’edizione critica), dalla tavola dei nomi propri e dalla bibliografia. Per comprensibili ragioni di spazio, la traduzione è stampata a mo’ di prosa, ma la suddivisione in lasse e soprattutto il riferimento ai versi dell’edizione critica alla fine di ogni paragrafo permettono un confronto abbastanza agile con il testo originale. La versione in francese moderno è ben condotta, letterale quanto basta perché il lettore si faccia un’idea dell’originale, senza però forzature eccessive, che renderebbero la resa moderna poco omogenea e, a volte, francamente incomprensibile. Giustamente la Del Vecchio-Drion armonizza i tempi verbali (nella lingua antica, per esempio, l’accostamento di tempi passati a tempi presenti, con passaggi anche bruschi, non provocava lo sconcerto che provocherebbe oggi), e usa un’unica forma per i nomi (di personaggi o di luoghi) che in francese antico possono comparire con grafie differenti. Del resto, i nomi geografici sono stati attualizzati, tranne, ovviamente, quelli di luoghi non (facilmente) identificabili: «la géographie épique fait toujours une large part à la fantaisie»; condivisibile la scelta di non tradurre il vocabolo aumaçor, che rappresenta un titolo onorifico saraceno, nome comune che deriva da nome proprio: Al Mansur ibn Abi Amir, celebre ministro dei califfi omayyadi al-Hakam II e Hish ā m II, abile amministratore, fu famoso per il mecenatismo letterario. Paolo Gresti ★ 314 Besprechungen - Comptes rendus 1 Se ne veda la recensione, a cura del sottoscritto, in questo stesso volume.