eJournals Vox Romanica 70/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2011
701 Kristol De Stefani

Luciana Borghi Cedrini, Il trovatore Peire Milo, Modena (Mucchi) 2008, 638 p. (Studi, testi e manuali, nuova serie 10; Subsidia al Corpus des troubadours, nuova serie 7).

121
2011
Paolo  Gresti
vox7010369
quelques observations intéressantes sur le fonctionnement des MC, perdues dans ce magma aberrant, sont malheureusement très difficiles à apprécier . . . Arrivé au bout de l’ouvrage, le lecteur, extrêmement perplexe et quelque peu agacé, se sent en droit de demander si les personnes remerciées dans l’Avant-propos ont eu vraiment l’occasion de lire cette étude. Quid de la responsabilité de la direction scientifique et de la qualité de la recherche? Olga Inkova ★ Luciana Borghi Cedrini, Il trovatore Peire Milo, Modena (Mucchi) 2008, 638 p. (Studi, testi e manuali, nuova serie 10; Subsidia al Corpus des troubadours, nuova serie 7). A molti trovatori càpita in sorte di essere dimenticati dai moderni, perché considerati - a torto o a ragione - minori, se paragonati ai grandi protagonisti della stagione lirica in lingua d’oc. Succede, così, che anche la ricca antologia allestita alla metà degli anni Settanta da Martín de Riquer, che ancora oggi rappresenta la più pingue crestomazia trobadorica, non includa nomi di rimatori che furono apprezzati dai loro contemporanei e dagli immediati posteri che confezionarono i canzonieri attraverso i quali, come attraverso lenti zigrinate, noi riusciamo a intravedere i contorni di quel fondamentale movimento poetico 1 . È il caso di Peire Milo, il cui nome, dopo le edizioni ottocentesche di Carl Appel e un paio di brevi accenni da parte di Giulio Bertoni all’inizio del secolo ventesimo 2 , è rimasto coperto da un velo di nebbia. Eppure, sotto la rubrica che reca quel nome sono giunte fino a noi otto canzoni e una cobla - o forse due, come argomenta Lucia Borghi Cedrini, che aggiunge al 369 Besprechungen - Comptes rendus - p. 178 «À comparer avec la catégorisation fonctionnelle des occurrences, nous constatons qu’elle correspond . . .» - p. 195 «De fait, leur emploi dans un tel contexte est trop rare pour justifier leur compte rendu dans le cadre de ce travail, les rares occurrences de ceux-ci étant considérées comme des cas à part.» - p. 222 «Comparé à a ena sidan . . . a andra sidan, on peut dire que la dualité de . . .» - p. 224 «Ces deux composants ne sont pas contrastés l’un à l’autre». - p. 231 «. . . deux domaines entre lesquels il faut selon l’auteur distinguer . . .» - p. 237 «son emploi lors d’une relation de conjonction n’est pas non plus exceptionnel.» - p. 250 «valeurs qui influencent aussi bien l’interprétation de la force argumentative des composants sémantiques reliés que la structure informationnelle entre ces deux». - p. 252 «De fait la mise en question de la suffisance du premier composant sémantique . . . implique qu’il est admis comme étant vrai, et aussi qu’il est admis qu’il peut servir d’argument pour une certaine conclusion.» - p. 267 «La propriété de non seulement . . . mais est sinon que ce MC permet au lecteur de présenter quelque chose comme déjà connu . . .» - p. 269 «Un argument pour le statut thématique de déjà connu et de déjà admis du premier composant sémantique pourrait être l’absence d’introducteurs à gauche de la série corrélée . . .» - p. 280 «. . . c’est surtout dans cet emploi que ce manifeste la forme longue . . .» - p. 284, 294, 295, 304 - p. 320 «Exclusive pour ces deux est notamment le fait d’indiquer . . .» La liste est longue, sans être exhaustive . . . 1 Martín de Riquer, Los trovadores. Historia literaria y textos, Barcelona 1975. 2 C. Appel, Provenzalische Inedita aus Pariser Handschriften, Leipzig 1890; C. Appel, «Poésies provençales inédites tirées des manuscrits d’Italie (suite)», RLaR 29 (1896): 177-216; G. Bertoni, «Nota su Peire Milon», ZRPh. 33 (1909): 74-76; G. Bertoni, I trovatori d’Italia. Biografie, testi traduzioni, note, Modena 1915. corpus anche l’anonima Molt m’agrada trobar (BdT 461.170b), trasmessa dal solo canzoniere N (20s.); eppure, i testimoni che ci permettono di leggere i componimenti di Peire Milo (CIKMNPaz’ ω ) rappresentano tutte e tre le famiglie nelle quali solitamente si distribuiscono i canzonieri della lirica d’oc (e probabilmente alcuni suoi testi dovevano comparire anche nel perduto canzoniere di Sault, S a , quello usato da Jean de Nostredame per le sue Vies des plus célèbres et anciens poètes provençaux, 1575); eppure, tanto sul piano tecnicometrico quanto su quello del contenuto, Peire esibisce una qualche originalità. Per quanto riguarda la metrica, per esempio, il trovatore usa per metà della sua produzione schemi tanto comuni che si è pensato possano essere dei contrafacta, per l’altra metà, invece, usa degli unica: sul piano delle versificazione, dunque, «l’opera di Peire Milo appare segnata . . . da una forte contraddizione» (64), che può avere spiazzato i moderni come la veste linguistica dei suoi componimenti «così largamente deviante dalla koinè trobadorica» (11). L’eccentricità interpretata spesso come trascuratezza, soprattutto sul piano linguistico, ha certamente contribuito all’oblio del trovatore. Che Peire Milo godesse di una qualche reputazione ai tempi suoi si desume non solo dalla non trascurabile rappresentazione numerica nei canzonieri, ma anche dal fatto che in alcuni testimoni il suo corpus è aperto da un «ritratto»: in N, per esempio, canzoniere nel quale l’immagine che lo rappresenta sembra più individualizzata, il trovatore è provvisto di mantello, un indumento «che dovrebbe essere distintivo dei poeti di un certo livello» (35), anche se rimane il dubbio se «l’individuo raffigurato nella capitale del primo testo della sezione miloniana con bastone . . ., digitus argumentalis e mantello intendesse veramente rappresentare Peire Milo o non piuttosto il medico evocato nell’esordio di quel testo» (39). In questa nuova, eccellente, edizione i testi - tutti accompagnati da traduzione e breve commento - sono preceduti da una ricchissima introduzione, articolata in cinque capitoli: I. Studi e tradizione (11-58), II. Metrica (59-106), III. Stile e poetica (107-59), IV. Lingua (161- 341), V. Discussione ecdotica (343-427). Il volume è chiuso da un Indice linguistico e da una esaustiva Bibliografia. Non è il caso, qui, di sviscerare ogni singolo elemento trattato da Luciana Borghi Cedrini: accennerò, dunque, solo ad alcuni aspetti. Certo, l’impressione che si riceve sulle prime è di un canzoniere relativamente piccolo pericolosamente schiacciato dall’apparato critico che lo precede; in verità il materiale che la studiosa convoglia nell’introduzione è importante per meglio capire l’originalità dell’autore, e perché mette a disposizione degli studiosi, con generosa abbondanza, una messe di informazioni davvero imponente, e indispensabile per futuri studi e approfondimenti. Il capitolo più importante è quello dedicato alla lingua del poeta, nelle cui pagine, una vera e propria «grammatica miloniana», si mette in guardia opportunamente da un’accettazione troppo supina del dato linguistico offerto dai redattori dei canzonieri, troppo spesso eccessivamente rapidi e zelanti nell’amalgamare la lingua dei singoli autori, appiattendola sul modello offerto dalle grammatiche. Il rischio che corre ogni editore, in effetti, è di rimanere preso in trappola dal corto circuito che s’instaura tra grammatiche antiche, grammatiche moderne e canzonieri. D’altro canto, è anche vero che non si deve cedere alla lusinga opposta, di rendere norma - magari solo norma d’autore - ciò che norma non è mai stato. L’editore si trova a camminare su un filo molto sottile, che rischia di spezzarsi a ogni passo; egli può scegliere se accogliere con tranquilla acquiescenza oppure mettere problematicamente in discussione il dato manoscritto, con i rischi connessi a un ricostruttivismo «attivo» che può portare, nella quête del perduto e incognito originale, al «mai esistito». Mi pare che Luciana Borghi Cedrini abbia optato per una scelta coraggiosa - e comunque inevitabile per far progredire la conoscenza - gestita con equilibrio e saggezza, pur avendo contezza di dare ai lettori un work in progress, un prodotto «affatto provvisorio» (9): la precarietà è iscritta nel DNA di ogni lavoro d’edizione, ma credo di non sbagliare se affermo che la «provvisorietà» di questo lavoro, frutto maturo della nostra filologia occitanica, sarà di lunga durata. 370 Besprechungen - Comptes rendus Come appare ormai chiaro da molti studi recenti - quelli di Maurizio Pertugi, per esempio, e quelli di Walter Meliga -, la lingua dei trovatori è ancora tutta da scoprire, giacché la facies trasmessa dai canzonieri è spesso frutto di alterazioni successive, volte a smussare le punte più municipalistiche promuovendo «una imponente operazione culturale che ha trasformato la lirica dei trovatori in letteratura ormai da esportazione, e la loro lingua in una lingua morta» 3 . Peire Milo usa spesso forme che grammatiche antiche e moderne e edizioni rifiutano come errori, o al più accolgono sotto l’arbitraria e comoda etichetta di «licenze» o scorrettezze d’autore. Il primo sforzo della studiosa è stato dunque quello di tentare di ricostruire la lingua di Peire Milo; la constatazione che quelle «licenze» rientrano negli usi poetici o nelle consuetudini dialettali del Midi, «se da una parte ha accentuato la diffidenza verso la lingua risentitamente italianeggiante di IKNz’, d’altra parte ha indotto a chiedersi se la lingua di a, copia del canzoniere di Bernart Amoros, non sia stata rioccitanizzata dal chierico alverniate, che nella premessa affermava d’aver ritoccato molto di ciò che aveva trovato nel suo esemplare, così da riportarlo al dreg langatge» (162). In verità, l’analisi della sezione miloniana di questo canzoniere rivela che il sospetto di alterazione da parte di Bernart Amoros «si è rivelato infondato» (425); sembra infatti che l’Amoros, forse perché non lo comprendeva appieno, non abbia «compiuto sistematiche correzioni grammaticali» al testo di Peire Milo, anche se può «averne sistematicamente modificato l’assetto grafico» (426). Lo studio della lingua per un autore linguisticamente complesso ed eccentrico come Peire Milo non può che essere prioritario nel cammino di avvicinamento critico alla sua opera. E in pratica, «l’analisi linguistica è stata, di fatto, analisi testuale, ed è servita assai più che di norma a discriminare tra lezioni presumibilmente autentiche e presumibilmente erronee . . . e quindi a determinare le parentele fra i testimoni» (163). Questo ha portato, a livello testuale, a una «irrituale procedura ecdotica», scaturita da quello che la stessa Borghi Cedrini chiama «circolo vizioso», giacché «si sono prima assunte delle varianti prettamente linguistiche . . . come conferme - o perfino come indicatori - di rapporti genetici fra i testimoni e di caratteristiche delle loro fonti, e poi ci si è serviti di questi rapporti e caratteristiche per effettuare la scelta fra altre varianti linguistiche» (344). Non è un caso, dunque, se molte discussioni testuali si accampano nel capitolo sulla lingua anziché in quello più esplicitamente dedicato all’ecdotica. La situazione testuale delle liriche di Peire Milo è tanto compromessa che persino i rimanti, tradizionalmente più resistenti agli sfregi della tradizione manoscritta, appaiono alterati, al punto che in alcuni casi anche per essi l’editore non può fare a meno di prendere in considerazione l’ipotesi ricostruttiva. Consideriamo, per esempio, la canzone A vos, Merces (II), trasmessa da MNa, dove Na conservano sei coblas, M soltanto quattro. La tradizione manoscritta nel suo complesso mostra vari problemi - per esempio lacune o versi incomprensibili -, ma sembrerebbe che la cobla IV di M sia una riscrittura a posteriori della cobla V degli altri due testimoni, visto che presenta, mescolati insieme, alcuni elementi comuni e notevoli innovazioni. Globalmente, l’andamento di M è «più sciolto e più rispettoso della norma delle grammatiche», sia in relazione alla strofe V di Na, sia in relazione a tutte le altre: dunque «si può supporre che sia un rifacimento» (165). In generale il copista di M «propone delle lezioni linguisticamente più corrette» rispetto a Na, anche nelle coblas che i testimoni condividono: però la lezione di questo testimone altera la repetitio alternata delle parole cors e oils presente, invece, pur con qualche défaillance dovuta alle precarie 371 Besprechungen - Comptes rendus 3 Maurizio Perugi, Saggi di linguistica trovadorica, Tübingen 1995: 7. Nella bibliografia in chiave fornita dalla Borghi Cedrini alla N1 di p. 161 c’è Mölk 2003, che però non compare nella bibliografia generale. condizioni generali della trasmissione, negli altri due testimoni. Alcune delle innovazioni di M riguardano anche le rime. Del resto, anche il copista di C, o chi per lui, sembra voler normalizzare la lingua di Peire, come risulterebbe dalla varia lectio dell’unica canzone che questo testimone trasmette, Aissi m’aven (I), che è ricca di lezioni singulares, appunto, di C. L’analisi linguistica dei testimoni alla ricerca della lingua di Peire Milo è assai accurata e approfondita. Tra le «deviazioni» dalla norma, che si possono forse più correttamente rubricare, ormai, come «regole alternative», troviamo per esempio: l’assenza della -s segnacaso nel caso soggetto singolare o nel caso obliquo plurale; il caso soggetto singolare diverso dalla «norma» per quanto riguarda i sostantivi che appartengono alla declinazione con accento mobile, quelli, per intenderci, che derivano da imparisillabi latini della terza declinazione non parificati: amador per amaire; al contrario, il caso obliquo singolare tipo lar invece di lairo(n), oppure hom per home. Si tratta, in realtà, di deviazioni - e molte altre analoghe si potrebbero aggiungere - non del tutto ignote alla tradizione manoscritta di molti trovatori (e anzi a volte sono numerose), talché sembra azzardato bollare tout court le forme in questione come erronee: il problema di fondo è che non abbiamo ancora un quadro sufficientemente preciso della lingua dei trovatori e delle sue potenzialità fonetiche e morfologiche. Anche l’analisi del lessico è importante per cercare di definire la lingua di un trovatore. Peire Milo si serve di vocaboli rari, o di vocaboli diffusi ma ai quali Peire dà un significato non comune, o ancora usa parole poco attestate nella lirica in lingua d’oc, ma ben presenti in altri domini, per esempio nell’epica; Peire non rifugge neppure dagli hapax, come l’ataïnos della canzone Pois qe dal cor (VI), v. 20 e il musanza della canzone S’ieu anc d’Amor (VIII), v. 30. Si tratta di hapax riconducibili a famiglie lessicali attestate nella lingua trobadorica, e questo «farebbe pensare a una competenza nativa, piuttosto che acquisita, di quella lingua» (276), dalla quale non sono estranei neppure altri vocaboli, rari, usati dal trovatore. Interessante il caso di ataïnos, discusso alle p. 264-66. La varia lectio è la seguente: IK e ia pois non sera il tan iros N e ça pois non sera tan iros a e ia poissas non sera taïnos z’ e ça puois non sera tan iros ω e ia poisas non sera tan iros Il primo dato è che la lezione di Nz’ è ipometra di una sillaba. Carl Appel, nella sua edizione del 1896, aveva messo a testo «e ia poissas non serai tan iros», e Luciana Borghi Cedrini glossa, giustamente, che non si capisce come sia possibile che la limpida lezione serai tan iros sia stata fraintesa, e volta da tutti i testimoni dalla prima alla terza persona singolare, e neppure come sia stato possibile che il copista dell’antigrafo di a l’abbia addirittura stravolta in sera tainos, e infine «perché l’avo di IKNz’ avrebbe dovuto mutare pois(s)as in p(u)ois» (265), lezione che ingenerava, oltretutto, un’ipometria sanata solo dall’antecedente di IK con l’inserzione di il. Credo a ragione, la Borghi Cedrini sospetta che la lezione buona si nasconda in a, l’unico che si differenzia dal gruppo per il finale del verso: il sostantivo taïne ‘retard’, ‘délai’ è attestato, così come il verbo tauinar ‘tarder’; ma anche ataïna e ataïnar appartengono al lessico antico, con il significato, rispettivamente, di ‘délai’ e ‘tarder’, ‘retarder’: ma il verbo può valere anche ‘reizen’, ‘beunruhigen’ (anche riflessivo). È possibile, argomenta la Borghi Cedrini, che alla famiglia appartenesse anche ataïnos ‘assillante’, ‘irritante’, come esisteva l’antico francese atainos ‘fâcheux’, ‘hostile’, ‘désireux’ (secondo Godefroy). L’ipotesi è che «l’originale avesse e ia pois non serai ataïnos ‘e dopo non sarò più assillante’ (verso la dama)» (266). Comunque sia, il sera tainos di a sarebbe un errore d’archetipo «riprodotto tal quale dall’Amoros e banalizzato» da tutti gli altri; tale errore deriverebbe «o dalla falsa scansione serai atainos sera ia tainos, dove ia sarebbe poi stato 372 Besprechungen - Comptes rendus omesso perché pareva una ripetizione dell’avverbio posto a inizio verso, o più semplicemente dall’aplografia tra -ai del verbo e adell’aggettivo» (266). In pratica, ci troveremmo davanti a una diffrazione in absentia, o parzialmente in praesentia, e il ragionamento di Luciana Borghi Cedrini sembra corretto, anche se, almeno in linea teorica, se non si comprende il passaggio di poissas a pois (IKNz’), non si comprende benissimo neppure il contrario. È però curioso, soprattutto, il fatto che, in contraddizione con quanto detto qui, il testo critico suoni «e ia poissas non serai ataïnos» (464): viene, cioè, accolta la congettura ataïnos e la correzione serai per sera di tutti i testimoni, ma si lascia il poissas di a ω , che genera ipermetria; e non sembra trattarsi d’una semplice svista, giacché l’apparato riporta, con convinzione, poissas come lezione accolta a testo seguita dalle varianti (puois e pois) di IKNz’ 4 . A me viene però il sospetto - che resta solo tale, poiché non ho in verità trovato una soluzione - che si possa procedere in modo differente. Che a mantenga almeno una sinopia della lezione originale per quanto riguarda la fine del verso mi pare incontrovertibile; tuttavia non mi convince appieno l’ipotesi che si debba correggere il sera di tutti i testimoni in serai, giacché il soggetto potrebbe continuare a essere il cors del v. 17 (come lo è del vol del v. 22), e mi chiedo se non possa esserci stata, per esempio, una aplografia tra il tan testimoniato da tutti i codici, tranne appunto a, e l’aggettivo seguente. Si potrebbe, per esempio - ma, si badi, è un’ipotesi che avanzo solo per sottolineare che il luogo è davvero problematico, non perché sia davvero convinto della bontà dell’idea -, pensare a aziros, «e ia pois non sera tan aziros» ‘e certo poi non sarà tanto scorbutico’: una volta deposti il corruccio e la ritrosia, la vostra persona orgogliosa (così si traduce vostre cors, cf. p. 467) non si mostrerà più tanto sprezzante nei miei confronti, dice il poeta. Non mi pare, infatti, che nei versi precedenti ci sia l’idea che il poeta-amante sia stato in qualche modo assillante (secondo la traduzione proposta per ataïnos) nei confronti della dama. Certo, aziros è anche al v. 28, ma al femminile (aïros’), e dunque, al più, avremmo una rima equivoca. Nella canzone Aissi m’aven (I), al v. 30, Peire usa un vocabolo non consueto nella lirica amorosa, fust, arma che viene attribuita alla donna: «senz colp de fust m’a mort e m’a conquis». È difficile dire se si debba interpretare come semplice ‘bastone’ o come ‘lancia’, visto che spesso nella lingua epica il fust, cioè l’asta di legno alla fine della quale è montato il fer, è, per metonimia, la lancia stessa. Una svista di nessun conto: a p. 436 nella nota relativa alla parola il rinvio deve essere a 3.2.3, non a 3.3 (così anche nell’Indice linguistico s. fust). A v. 40 della medesima Aissi m’aven c’è l’aggettivo voltis attributo di oils: «si eu non bais li sos clers oils voltis». Anche in questo caso si tratta di un aggettivo raro, visto che nella lirica trobadorica c’è solo un’altra occorrenza, al v. 29 di Dous’amiga no . n puesc mais di un altro Peire, cioè Rogier: «li baises sos oils voltitz» (come si vede i due versi sono quasi identici). La Borghi Cedrini spiega in nota che voltis significa, alla lettera, ‘arcuati’, ‘rotondi’, «e quindi probabilmente ‘grandi’» (436); la traduzione è infatti «se non le bacio i grandi occhi luminosi» (434). Potrebbe essere l’interpretazione giusta, ma l’aggettivo mi pare avere un significato troppo preciso per poterlo facilmente banalizzare in ‘grandi’; scartata l’ipotesi troppo esotica degli occhi a mandorla, in verità voltis potrebbe riferirsi alle sopracciglia, non esplicitamente citate nel testo ma che fanno spesso parte della descrizione del volto femminile (per esempio nel Roman de la Rose, al v. 527 c’è, appunto, sorciex votis): ‘se non bacio i suoi occhi luminosi dalle sopracciglia arcuate’. Altri fatti fonetici e morfologici che solitamente sono - o sono stati - interpretati come estranei alla norma trobadorica sono in realtà riconducibili al Midi della Francia. L’idea che ci si può fare è che Peire Milo non usi espressioni estranee tout court alla lingua d’oc, quanto piuttosto forme e parole non codificate dalle grammatiche, per lo più - come la princi- 373 Besprechungen - Comptes rendus 4 Un problema di misura è anche al v. 27 di Aissi m’aven (432), il cui rimante deve essere ioïs: ma sarà un banale errore di stampa. pale, il Donatz proensals - scritte per non autoctoni del Midi; sembrerebbe che Peire, visto l’accumulo di forme e parole non ortodosse, non fosse in grado «di costringere il proprio discorso poetico entro i rigidi dettami del canone trobadorico» (277). Ma se è vero, come probabilmente è vero, che «la lingua dei trovatori era nel suo complesso assai più variegata e libera di quanto si credesse in passato», giacché «le grammatiche e le edizioni moderne» dànno un’immagine della lirica trobadorica che «potrebbe derivare da una reductio ad unum» (8), allora le deviazioni radiografate nella lingua di Peire Milo non sarebbero tanto dal canone, quanto piuttosto dalle grammatiche. E, a questo punto, ci si potrebbe anche chiedere se un canone sia davvero esistito. Già Appel e Bertoni avevano confrontato la lingua di Peire Milo con quella dell’anonimo autore dei componimenti religiosi del manoscritto di Wolfenbüttel: due scrittori che si tengono lontani dallo standard linguistico trobadorico, con tratti che possono far pensare all’Italia, ma che non sono riferibili con certezza alla nostra Penisola; è possibile che i due provenissero «da una zona . . . ubicata al confine con l’Italia» (303); si può pensare che Peire possa essere originario della fascia orientale del dominio d’oc (cf. p. 341). Il fatto è che le infrazioni alla norma linguistica che sono reperibili tanto nei testi miloniani quanto in quelli di Wolfenbüttel si ritrovano anche in altri componimenti, come per esempio in Pois q’en midonsz, attribuita a Rigaur de Berbezilh, ma non inclusa nel corpus di quel trovatore dai due editori (Vàrvaro e Braccini). La Borghi Cedrini giunge alla conclusione, provvisoria, che se esistono componimenti che si collocano molto vicino a quelli miloniani «per quantità e in parte per qualità di deviazioni linguistiche», se insomma «la ‹devianza› linguistica tra i trovatori è tanto diffusa quanto non univocamente localizzabile», significa che forse sotto l’etichetta di «devianza» sono poste «forme che all’epoca apparivano legittime» (308). Le conseguenze di ciò sono importanti, e non solo sul piano linguistico. Peire Milo adotta forme e lessico provenienti dall’epica franco-occitanica, il poeta di Wolfenbüttel tende ad abolire le divisioni tra la poesia lirica trobadorica e quella didascalico-religiosa dell’Italia settentrionale: «tutto ciò fa pensare che nella pratica viva l’osservanza del canone fosse meno diffusa di quanto lascino credere i canzonieri» (341), che rappresentano una specie di ingessatura della lirica in lingua d’oc sulla base di un certo numero di autori ritenuti classici. La lingua dei quali, la cosiddetta koinè trobadorica, risulta artificiale, rigida, e «‹andava stretta› anche ai migliori poeti autoctoni, che infatti si concedevano delle licenze»; a maggior ragione, i poeti «meno capaci, o meno preoccupati, di praticarla, ne sostituivano le forme con quelle che conoscevano da altri generi o con quelle della propria zona d’origine» (ibidem). L’ultimo capitolo dell’introduzione è dedicato all’ecdotica, anche se molti nodi legati ai problemi della trasmissione manoscritta e della costituzione del testo critico sono trattati, come anticipato, nel capitolo sulla lingua. In una tabella all’inizio dell’introduzione (p. 13) Luciana Borghi Cedrini aveva riassunto la distribuzione delle canzoni di Peire Milo nella tradizione manoscritta; sinteticamente: I: CIKNaz’ ω ; II: MNa; III: NP; IV: a; V: a; VI: IKNa ω z’; VII: IKNa ω z’; VIII: IKMNaz’; IX: IKNa ω z’. Per le canzoni con attestazione plurima l’archetipo è dimostrato in vari luoghi, come si spiega, con dovizia di particolari discutendo i singoli casi, alle p. 344s. Il v. 13 della canzone Quant om troba dos bos combatedors, per esempio, suona nel testo critico «e s’un autre vengues lo sol aidar» (472), ma i testimoni hanno queste lezioni: IK e s’un atre vol lo sol aiudar N e çasun autre vengues sol aiudar a e sim autre vengues sol aiudar z’ e çascun autre venges lo sol aiudar ω e s’un altrel venges l sol aiudar 374 Besprechungen - Comptes rendus La lezione dell’archetipo potrebbe essere stata l’ipermetro «s’un autre vengues lo sol aiudar», e si potrebbe individuare il luogo dell’ipermetria nell’infinito finale, visto che aidar, presente in tutti i testimoni, potrebbe essere la banalizzazione di un originario aidar, «forma bisillabica . . . che doveva essere poco famigliare ai menanti trobadorici» (347). Alla p. 346 bisogna però togliere la dieresi a aidar, appunto perché deve essere una forma bisillabica. Si può anche dimostrare l’esistenza di alcuni subarchetipi. I testimoni IKNz’ hanno un antigrafo in comune per le canzoni I, VI, VII e IX, testimoniato da alcuni errori, anche se non tutti significativi, e da un grande numero di varianti formali. Un luogo che proverebbe l’esistenza di questo subarchetipo è al v. 35 di Pois qe dal cor m’aven farai chanzos (VI), dove l’infinito trobar di a ω si contrappone a fabregar e simili di IKNz’ (il verso è, nel testo critico, «qe eu non puesc trobar clau e martel»: il poeta è chiuso nel tenebroso carcere amoroso). Semplificando, secondo Luciana Borghi Cedrini l’errore di IKNz’ potrebbe essere stato generato da un tbar con o soprascritta alla t, abbreviazione per trobar, che sarebbe stato male interpretato dall’antecedente dei quattro testimoni: infatti N ha fbar con una o soprascritta alla f. Il ragionamento in sé è corretto, mi pare, ed è probabile che la studiosa abbia ragione. Tuttavia si potrebbe invertire il ragionamento, e pensare che trobar sia la cattiva lettura, e banalizzante, di una abbreviazione non per fabregar, bensì per fargar ‘forger’, che è attestato, all’infinito, tre volte nella lirica occitanica: fargar permetterebbe, come trobar, di mantenere senza ipermetria la dialefe iniziale tra qe e eu, la cui eliminazione (palese in IK) può avere indotto all’uso del sinonimo trisillabico fabregar. Sono dimostrabili anche i subarchetipi per IK (359s.), per Nz’ (368ss) e per a ω (394s.), i quali ultimi conservano, comunque, delle singulares deteriori; globalmente si può in ogni caso affermare che a trasmette in più luoghi «lezioni superiori» a quelle di tutti gli altri testimoni, «e verosimilmente autentiche» (394). In effetti questo codice è quello che conserva il maggior numero di componimenti di Peire, in alcuni casi a testimonianza unica, e «sembra essere anche quello che in complesso . . . rende più fedelmente» le liriche del trovatore (426). Questo, e la globale coerenza grafica del codice, ha spinto Luciana Borghi Cedrini a servirsi proprio di questo testimone come base per la grafia. Il testimone M, latore di II e VIII, si mostra sempre piuttosto indipendente rispetto agli altri manoscritti, e spesso è sospettabile di aver rimaneggiato in senso «normativo» la lingua e i testi. Infine, C trasmette solo la canzone I: si distingue da tutti gli altri testimoni del componimento, e mostra, tanto in posizione di rima quanto all’interno del verso, numerose «singulares interpretabili come normalizzazioni» (387). Paolo Gresti ★ Roberta Manetti, Flamenca. Romanzo occitano del XIII secolo, Modena (Mucchi) 2008, 540 p. (Studi, testi e manuali, nuova serie 11; Subsidia al Corpus des troubadours, nuova serie 8). Del romanzo intitolato Flamenca dal suo primo editore parziale, François Raynouard, restano gli 8101 versi trasmessi da un unico testimone (Carcassonne, Bibliothèque municipale, 35), mutilo sia all’inizio sia alla fine, e privo anche di una parte centrale; solo pochissimi versi sono conservati da un altro testimone, catalano. Il codice che trasmette Flamenca è di piccolo formato, membranaceo, di fattura abbastanza elegante: ci sono alcune illustrazioni e più di duecento iniziali rosse e blu, alternate abbastanza regolarmente e quasi tutte filigranate; anche l’alternanza lato carne/ lato pelo viene rispettata. La mano è una sola per tutto il testo. È difficile computare la parte mancante di testo: per quanto concerne la lacu- 375 Besprechungen - Comptes rendus