eJournals Vox Romanica 70/1

Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2011
701 Kristol De Stefani

Roberta Manetti, Flamenca. Romanzo occitano del XIII secolo, Modena (Mucchi) 2008, 540 p. (Studi, testi e manuali, nuova serie 11; Subsidia al Corpus des troubadours, nuova serie 8).

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2011
Paolo  Gresti
vox7010375
La lezione dell’archetipo potrebbe essere stata l’ipermetro «s’un autre vengues lo sol aiudar», e si potrebbe individuare il luogo dell’ipermetria nell’infinito finale, visto che aidar, presente in tutti i testimoni, potrebbe essere la banalizzazione di un originario aidar, «forma bisillabica . . . che doveva essere poco famigliare ai menanti trobadorici» (347). Alla p. 346 bisogna però togliere la dieresi a aidar, appunto perché deve essere una forma bisillabica. Si può anche dimostrare l’esistenza di alcuni subarchetipi. I testimoni IKNz’ hanno un antigrafo in comune per le canzoni I, VI, VII e IX, testimoniato da alcuni errori, anche se non tutti significativi, e da un grande numero di varianti formali. Un luogo che proverebbe l’esistenza di questo subarchetipo è al v. 35 di Pois qe dal cor m’aven farai chanzos (VI), dove l’infinito trobar di a ω si contrappone a fabregar e simili di IKNz’ (il verso è, nel testo critico, «qe eu non puesc trobar clau e martel»: il poeta è chiuso nel tenebroso carcere amoroso). Semplificando, secondo Luciana Borghi Cedrini l’errore di IKNz’ potrebbe essere stato generato da un tbar con o soprascritta alla t, abbreviazione per trobar, che sarebbe stato male interpretato dall’antecedente dei quattro testimoni: infatti N ha fbar con una o soprascritta alla f. Il ragionamento in sé è corretto, mi pare, ed è probabile che la studiosa abbia ragione. Tuttavia si potrebbe invertire il ragionamento, e pensare che trobar sia la cattiva lettura, e banalizzante, di una abbreviazione non per fabregar, bensì per fargar ‘forger’, che è attestato, all’infinito, tre volte nella lirica occitanica: fargar permetterebbe, come trobar, di mantenere senza ipermetria la dialefe iniziale tra qe e eu, la cui eliminazione (palese in IK) può avere indotto all’uso del sinonimo trisillabico fabregar. Sono dimostrabili anche i subarchetipi per IK (359s.), per Nz’ (368ss) e per a ω (394s.), i quali ultimi conservano, comunque, delle singulares deteriori; globalmente si può in ogni caso affermare che a trasmette in più luoghi «lezioni superiori» a quelle di tutti gli altri testimoni, «e verosimilmente autentiche» (394). In effetti questo codice è quello che conserva il maggior numero di componimenti di Peire, in alcuni casi a testimonianza unica, e «sembra essere anche quello che in complesso . . . rende più fedelmente» le liriche del trovatore (426). Questo, e la globale coerenza grafica del codice, ha spinto Luciana Borghi Cedrini a servirsi proprio di questo testimone come base per la grafia. Il testimone M, latore di II e VIII, si mostra sempre piuttosto indipendente rispetto agli altri manoscritti, e spesso è sospettabile di aver rimaneggiato in senso «normativo» la lingua e i testi. Infine, C trasmette solo la canzone I: si distingue da tutti gli altri testimoni del componimento, e mostra, tanto in posizione di rima quanto all’interno del verso, numerose «singulares interpretabili come normalizzazioni» (387). Paolo Gresti ★ Roberta Manetti, Flamenca. Romanzo occitano del XIII secolo, Modena (Mucchi) 2008, 540 p. (Studi, testi e manuali, nuova serie 11; Subsidia al Corpus des troubadours, nuova serie 8). Del romanzo intitolato Flamenca dal suo primo editore parziale, François Raynouard, restano gli 8101 versi trasmessi da un unico testimone (Carcassonne, Bibliothèque municipale, 35), mutilo sia all’inizio sia alla fine, e privo anche di una parte centrale; solo pochissimi versi sono conservati da un altro testimone, catalano. Il codice che trasmette Flamenca è di piccolo formato, membranaceo, di fattura abbastanza elegante: ci sono alcune illustrazioni e più di duecento iniziali rosse e blu, alternate abbastanza regolarmente e quasi tutte filigranate; anche l’alternanza lato carne/ lato pelo viene rispettata. La mano è una sola per tutto il testo. È difficile computare la parte mancante di testo: per quanto concerne la lacu- 375 Besprechungen - Comptes rendus na iniziale, essa potrebbe essere abbastanza consistente, poiché è probabile che ci fosse un prologo e che la descrizione di Flamenca occupasse uno spazio almeno uguale a quello occupato dalla descrizione dell’eroe maschile Guillem; per quanto riguarda invece la lacuna finale, non sappiamo quanto dovesse durare il torneo - del quale sono attualmente descritte la prima giornata e l’inizio della seconda -, e se fossero previste altre azioni tra la fine del torneo e l’epilogo della vicenda. Alla fine, non sappiamo neppure se il romanzo sia stato portato a termine dal suo autore (43s). L’inizio e la fine sono luoghi nei quali «in genere si trovano dediche, a volte addirittura firme (più o meno crittate), oppure allusioni a congiunture storiche precise che permettono di capire molte cose sul senso dell’opera» (11); certo, le mutilazioni del codice cadono laddove erano verosimilmente presenti delle miniature, il cui furto sarà stato all’origine delle deturpazioni: ma non è improbabile che la caduta della parte iniziale e di quella finale siano puramente accidentali, essendo le estremità di un codice particolarmente soggette agli schiaffi del tempo. Roberta Manetti avanza anche l’ipotesi che certe ablazioni possano essere state dettate da volontà censoria, visto un non escludibile «significato di secondo livello» (11) del romanzo, come vedremo di natura politica: del resto è ben difficile che l’autore di un’opera letteraria medievale, e di un’opera, poi, così finemente architettata e scritta come Flamenca, si fermi al primo livello interpretativo, cioè quello letterale. L’introduzione (7-76) apre il volume, il cui fulcro è ovviamente la nuova edizione critica del testo di Flamenca, che è accompagnata, a piè di pagina, dall’apparato delle varianti e da un ricchissimo - ma non strabordante, né soffocante - commento, e da una traduzione in prosa a fronte (78-475). Quest’ultima, la cui disposizione rallenta, ma è ovviamente menda di pochissimo conto, il reperimento di un dato punto del testo durante una consultazione rapsodica, è «il più possibile fedele all’originale», e rispetta «anche in buona parte le alternanze fra passato e presente ben note ai lettori di narrativa medievale, ma solo finché farlo non significhi cadere in eccessiva goffaggine» (74). Seguono, a chiudere il volume: il Calendario interno di Flamenca (476s.); l’Indice dei nomi contenuti nel romanzo (479-82); il Glossario (483-610), davvero ottimo, pressoché completo e arricchito da discussioni interpretative di singoli lemmi; una informatissima Bibliografia (612-38), dove forse manca solo la peraltro non facilmente raggiungibile thèse presentata all’Università di Zurigo da Hans Kalman, intitolata Étude sur la graphie et la phonétique des plus anciennes chartes rouergates (pubblicata a Zurigo da aku-Fotodruck nel 1974). Il romanzo di Flamenca è stato molto studiato, e molti si sono occupati di quest’opera; dopo la pubblicazione parziale del testo, curata da François Raynouard nel 1835-38, la prima edizione integrale, frettolosa e imprecisa per motivi contingenti, è stata curata da Paul Meyer del 1865, ma lo stesso studioso procurò, nel 1901, un’altra edizione che costituì, in pratica, la vulgata del romanzo. Da essa infatti dipendono, quale più quale meno, tutte le edizioni seguenti, compresa quella di Ulrich Gschwind del 1976, che è un lavoro di «carattere un po’ compilativo», pur rimanendo «un utilissimo punto di partenza» (47). Come efficacemente scritto da Roberta Manetti, Flamenca «è una magnifica e divertente storia d’amore e di corna ben congegnate» (7), che la studiosa brevemente riassume: del resto è ben nota a chiunque frequenti la letteratura romanza medievale la vicenda della gelosia di Archimbaut de Bourbon nei confronti della bella moglie Flamenca alla fine davvero felicemente fedifraga con il giovane cavaliere Guillem de Nivers. Questo è, ovviamente, il livello letterale del romanzo, ma vedremo, come ho già anticipato, che assai probabilmente si può intravedere anche almeno un secondo livello di lettura, di tipo politico. Per quanto riguarda la datazione, gli appigli in nostro possesso non sono molti, ma si può tuttavia avanzare qualche ipotesi basandosi su due fatti: il primo è la serie di riferimenti temporali (liturgici) di cui il romanzo è costellato, il secondo è l’individuazione dei protagonisti del torneo che chiude, nello stato attuale del testo, Flamenca. Per quanto riguarda il primo dato, la 376 Besprechungen - Comptes rendus Manetti ricostruisce, anche basandosi su studi precedenti (perché fin dalle prime analisi su Flamanca, per esempio quelle di Ch. Révillout del 1875, si è ragionato sui tempi di svolgimento degli avvenimenti narrati nel romanzo), un calendario che racchiude l’azione, seppure dubitativamente, tra il 1232 e il 1235: quest’ultimo costituirebbe un terminus post quem per la composizione di Flamenca. Il torneo che chiude, ora come ora, il romanzo non è descritto per intero, perché, come detto, il manoscritto è mutilo della parte finale: viene raccontata l’intera prima giornata e l’inizio della seconda, e come anticipato non sappiamo neppure quanto lungo esso sarebbe stato. Pur non essendo descritto fino in fondo, il torneo, attraverso i suoi partecipanti, offre numerosi e interessanti spunti per una possibile datazione. Sotto i nomi degli attori romanzeschi, infatti, si possono nascondere personaggi reali: il discorso è ovviamente molto complesso, mi limito a fare qualche esempio. Il comte de la Marcha che per primo viene sconfitto dall’eroe del romanzo, Guillem de Nivers (v. 7725-32), e che è costretto quindi a umiliarsi davanti a Flamenca, signora del torneo, e al re di Francia, invitato d’eccellenza, potrebbe adombrare Ugo X della Marca, promotore degli ultimi sussulti di ribellione da parte dei feudatari del sud contro i Francesi nel 1241-42. Se, infatti, Ugo fu il primo a innescare l’effimero tentativo, egli fu anche il primo a sottomettersi a Luigi IX dopo essersi pentito per la propria presunzione (13-16). In effetti, gli studiosi sono pressoché concordi nel ritenere che l’innominato re di Francia invitato da Archimbaut al torneo sia, appunto, Luigi IX, sovrano dal 1226 alla morte, avvenuta nel 1270; meno chiara l’identificazione della regina, che potrebbe essere la moglie del re, Margherita di Provenza, ma anche, e forse più verosimilmente, la madre, Bianca di Castiglia, «la cui invadenza e il cui attaccamento morboso al figlio sono stati ripetutamente messi in luce dai cronisti» (12). Se così fosse, secondo Roberta Manetti acquisterebbe un sapore più intenso la lamentela di Flamenca che ai v. 4173-78 dice, tra le altre cose, che la sua sorte non potrebbe essere peggiore di quella che è «s’agues neis rivala e sogra» (v. 4178). Il verso è tradotto ‘neanche se avessi una rivale nella mia stessa suocera’, in ossequio a un’interpretazione proposta da Lucia Lazzerini, secondo la quale rivala e sogra andrebbe interpretato rivala en sogra, dunque sovrapponendo in un’unica persona la rivala e la sogra: l’allusione potrebbe essere, infatti, a Bianca di Castiglia, suocera insopportabile per eccellenza (291). Può benissimo essere; mi pare però che non sia evidente il motivo per il quale Flamenca si debba qui identificare con Margherita di Provenza (31 N109). Non sempre è facile, o possibile, sciogliere i velami che avvolgono i protagonisti del romanzo per cercare di vedere chi nascondono. In Flamenca il conte di Tolosa si chiama Amfos, come il fratello di Luigi IX, Alfonso di Poitiers, che in effetti ricevette i possedimenti del conte di Tolosa, Raimondo, nel 1249: ma non è possibile identificare l’Amfos del romanzo con l’Alfonso storico, perché il primo fa parte dei cavalieri del sud, e si scontra infatti con Guillem de Nivers, che appartiene al campo di Archimbaut, dunque è con i Francesi: ma una simile scelta di campo da parte del fratello del re Francia non avrebbe senso (16-17). Nella quinta e nell’ottava giostra vincono sorprendentemente due cavalieri del sud: in entrambi i casi si sottolinea come costoro siano molto più piccoli dei loro avversari francesi, che, al contrario, sono caratterizzati dal gigantismo. Il vincitore della quinta giostra è un certo Guillem de Montpellier, ma dietro questo nome si potrebbe celare - come ipotizzato da Paul Meyer nel 1865 - Giacomo I d’Aragona, che aveva ereditato il feudo di Montpellier già nel 1219: in lui i signori del mezzogiorno avevano riposto le loro residue speranze di liberazione dagli oppressori francesi; Giacomo era considerato «salvatore della Provenza, quasi un mito, almeno fino al 1242» (29), e questa centralità spicca sia nell’altro grande romanzo in lingua d’oc, il Jaufre, sia in molti componimenti di trovatori del XIII secolo. Il vero trionfatore del torneo è comunque Guillem de Nevers, che parteggia per i Francesi, nella squadra di Archimbaut. Prima di vincere nel torneo, però, il giovane eroe «ha vinto una battaglia molto più impegnativa contro Archimbaut medesimo che teneva sotto 377 Besprechungen - Comptes rendus rigorosissima custodia l’ambita Flamenca, e non ha vinto con la forza, ma per gein», come egli stesso sottolinea al v. 5208 (30). Insomma, il messaggio recondito potrebbe essere: i Francesi non sono invincibili, ma si sconfiggono con l’astuzia, non con la forza. Il callido Guillem ha vinto nascostamente contro Archimbaut (con il tunnel e con il travestimento da chierico), e poi apertamente per Archimbaut, ma per finta, giacché il torneo è solo un simulacro di guerra (anche se, in verità, si trattava di spettacoli assai cruenti). Ma chi era Guillem de Nevers? Chi si nasconde dietro questo personaggio? Già nel 1958 P. A. Olson aveva rivelato la coincidenza del nome «con quello di un famigerato polemista cataro di inizio secolo . . ., originario della Francia, già canonico di Nevers, più acuto dei suoi colleghi» (31-32); su questa coincidenza ha poi messo l’accento anche Lucia Lazzerini (citata dalla Manetti), secondo la quale «la storia del giovane che per conquistare Flamenca s’apataris, ‘si fa patarino’ . . . è, in fondo, una fabula ancipite, leggibile sia alla luce di consolidate tradizioni d’esegesi allegorica, sia come metafora . . . d’una via eterodossa e sotterranea . . . alla Verità, conquistata in barba al ‹custode ufficiale›» 1 . Gli elementi raccolti permettono a Roberta Manetti di tentare - a mio parere con buone ragioni - di collocare la stesura dell’opera intorno alla metà del XIII secolo, «forse più probabilmente prima della morte di Bianca di Castiglia, avvenuta il 27 novembre 1252, che dopo» (33); insomma, tra la stesura dell’opera e la testimonianza manoscritta che è arrivata fino a noi potrebbe esserci un lasso di tempo non lunghissimo, più o meno una cinquantina d’anni. Per gli altri studiosi la composizione di Flamenca sarebbe, invece, da portare a date più basse: gli anni sessanta secondo Robert Lafont, dopo il 1272 secondo Charles Grimm e Rita Lejeune. Gli ostacoli che si solito venivano frapposti a una datazione più alta possono però essere agilmente aggirati, come viene mostrato dalla Manetti alle p. 33-34. Il romanzo sarà forse stato composto in due momenti diversi, come sostiene Robert Lafont (ma prove in tal senso non ci sono), ma deve avere comunque avuto una circolazione semi-clandestina, giacché l’argomento trattato era scottante: poteva non essere igienico, in anni in cui nel Midi della Francia all’Inquisizione bastava molto poco per trovare vittime da perseguire, sbeffeggiare un personaggio importante della casata di Bourbon, una delle più fedeli alla corona francese. Flamenca «ha circolato un po’, come suggeriscono le molte corruzioni stratificate nell’unico manoscritto superstite, che fanno presupporre più di una copia . . .; ma deve essersi sempre trattato di una diffusione per iniziati, un po’ sotterranea» (35). Dell’autore non sappiamo pressoché nulla; però al v. 1724 del romanzo viene citato le sener d’Alga, forse il protettore di chi scrive Flamenca. Il castello d’Algues, nel sud-est del Rouergue, era la sede principale dei Rocafolh, e tra i signori di questa famiglia che possono fare al caso nostro ci sono due fratelli, Arnaut e Raimon, protettori di alcuni trovatori. Arnaut ebbe anche un figlio illegittimo che venne preso sotto l’ala protettrice di Giacomo I d’Aragona, come abbiamo visto il personaggio che potrebbe nascondersi dietro il Guillem de Montpellier vincitore della quinta giostra nel romanzo. Tra l’altro, questo figlio illegittimo di Arnaut de Rocafolh si chiamava Guillem, come l’eroe di Flamenca, e dunque non è escluso che «se dietro Flamenca si intravede la Provenza, dietro il giovanissimo liberatore Guillem si può forse intravedere Giacomo I d’Aragona, velato dal . . . suo probabilmente giovanissimo e valente collaboratore» (37). Comunque sia, l’analisi del testo sul piano grafico-fonetico e lessicale permette di stabilire che l’autore di Flamenca doveva essere originario del Rouergue; tale analisi permette anche di affermare che tra l’originale e il testimone unico di Carcassonne ci devono essere stati più passaggi, anche se rimane «impossibile, naturalmente, determinare il numero delle copie da interporre tra» il testo uscito dalla penna dell’autore e la copia conservata (48). L’accurato studio sulla lingua, i cui frutti sono depositati alle p. 48s. dell’introduzione, porta Roberta 378 Besprechungen - Comptes rendus 1 Lucia Lazzerini, Letteratura medievale in lingua d’oc, Modena 2001: 218. Manetti a concludere che «è evidente che [l’originale] è stato trascritto più di una volta da copisti forse di zone diverse»: l’esemplare pervenuto fino a noi è, come detto, dovuto a una sola mano, ma il suo esemplare poteva essere il risultato del lavoro di più copisti, forse due, come dimostrerebbe la non omogenea distribuzione di alcuni fenomeni grafico-fonetico e morfologici. La mancata alternanza le/ lo per il caso soggetto e il caso obliquo dell’articolo determinativo maschile, per esempio, è solo nella prima parte del romanzo, come la forma agut del participio passato di aver, invece di avut (probabilmente più rouergate), che è presente nella seconda parte; o ancora: nella seconda parte fanno la loro comparsa grafie per rappresentare la palatale nasale che non vengono mai usate nella prima, ecc. Si tratta di una situazione non facilmente razionalizzabile, «che sembra presupporre il passaggio di mani forse più numerose delle tre (due copisti per il modello e un copista per il codice superstite)» (73). Per evitare la sovrapposizione di ulteriori patine, Roberta Manetti inverte giustamente la tendenza rispetto agli editori precedenti, e rispetta il manoscritto fin dove è possibile: lascia così «tutte le incongruenze formali, anche in rima, salvo dove la alterino pesantemente e non sia immediatamente ricostruibile . . . la rima perfetta» (ibidem). Per fare solo due esempi: al v. 2305 il gleisa del codice diventa gleia nel testo critico per rimare con Eia, mentre ai v. 4185-86 si lascia la rima destrecha: freja, giacché il fonema è lo stesso, ancorché rappresentato da due grafie differenti. La studiosa interviene solo «quando la patologia sia bastantemente acclarata e la soluzione sufficientemente univoca» (ibidem). Le soluzioni meno sicure, come tutte le discussioni, sono giustamente confluite nel commento, che è davvero ricchissimo e dà conto, fin nei minimi dettagli, delle scelte fatte, e di quelle alternative. Paolo Gresti Iberoromania Christian Münch, Sprachpolitik und gesellschaftliche Alphabetisierung, Frankfurt/ Main (Peter Lang) 2006. Das vorliegende Buch basiert auf einer im Jahre 2002 bei W. Oesterreicher in München verteidigten Dissertation. Die Daten dazu wurden größtenteils 1998 in Katalonien unter erwachsenen Teilnehmern an von der Commissió per a la Normalització Lingüística ausgerichteten Katalanischkursen erhoben. Christian Münch liefert gleich zu Beginn (in den Kapiteln 2 und 3) eine umfassende diachronische Darstellung der katalanischen Sprachgeschichte, besonders in Hinsicht auf den Kontakt mit dem Kastilischen. Dabei liegt das Augenmerk des Forschers verstärkt auf dem Schreiben und der Schriftlichkeit - im Gegensatz zur Behauptung des Autors auf p. 31 gibt es sehr wohl nationale Traditionen, in denen diese Bereiche der Soziolinguistik zugeordnet werden, gerade im Kontinuum-Modell von Nancy Hornberger 1 und allgemein in der literacy-Literatur von anderen europäischen und auch außereuropäischen Ländern 2 . Die katalanische «normalització lingüística» nimmt in Europa eine Vorreiterrolle in der Mehrsprachigkeitsplanung ein; dies wird im 2. Kapitel durch das Hinzuziehen von umfangreicher Literatur aus der Katalanistik belegt. Die wichtigsten Schlüsseldaten aus der jüngsten Vergangenheit sind der mit den olympischen Spielen verbundene wirtschaftliche Auf- 379 Besprechungen - Comptes rendus 1 N. H. Hornberger 2 2007: Encyclopedia of Language and Education. 10 vol., Berlin (http: / / www. springer.com/ west/ home/ generic/ search/ results? SGWID=4-40109-22-173482917-0 \t "_blank). 2 Cf. J. A. Fishman/ O. Garcia (ed.) 2011: The Success-Failure Continuum. Handbook of Language and Ethnic Identity, vol. 2, Oxford.