eJournals Vox Romanica 71/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2012
711 Kristol De Stefani

John Haines, Medieval Song in Romance Languages, Cambridge (Cambridge University Press) 2010, 304 p.

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2012
Francesco  Carapezza
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John Haines, Medieval Song in Romance Languages, Cambridge (Cambridge University Press) 2010, 304 p. Dopo Eight Centuries of Troubadours and Trouvères. The Changing Identity of Medieval Music, pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2004, e in contemporanea al volume Satire in the Songs of Renart le Nouvel da poco uscito nelle «Publications romanes et françaises» di Droz, il prolifico musicologo statunitense, ora docente all’Università di Toronto, riconferma la vicinanza dei suoi interessi a quelli della filologia romanza con una snella monografia che ruota intorno ai canti in volgare romanzo attestati prima dell’anno 1200 e provvisti di notazione musicale. Come si capisce, l’oggetto di studio è sfuggente e problematico, sia per la rarità dei reperti e per lo stato talvolta frammentario della notazione, quanto per la loro appartenenza ad aree linguistiche, tipi letterari e ambienti culturali diversi. Non sembra un caso, dunque, che l’autore si concentri solo marginalmente sui singoli reperti e scelga invece di trattare questioni di carattere sociale e culturale, più che strettamente storicomusicale. In effetti il suo obiettivo dichiarato non è illustrare o discutere oggetti musicali ma dimostrare l’importanza di un corpus negletto dalla storiografia della musica medievale, che ha privilegiato soprattutto i settori della monodia liturgica latina e della polifonia tardomedievale a scapito della monodia (profana) in volgare romanzo, la cui apparizione si fa risalire tradizionalmente ai trovatori occitani (12-14 e 155-56). La «scoperta» di questo vasto patrimonio musicale prodotto dal VI al XII secolo ma irrimediabilmente sommerso non può che basarsi, ex negativo, sulle numerose condanne di «rustica carmina» et similia espresse dagli uomini di Chiesa (in parte riunite in ordine cronologico in un’appendice, 162- 71) e, in positivo, sugli sparuti reperti (in tutto dodici, presentati nella seconda parte del volume (195-296) col corredo di ottime fotoriproduzioni e delle relative trascrizioni musicali) che si accampano però nel corso degli ultimi tre secoli del lunghissimo periodo storico preso in considerazione dallo studioso. Diciamo subito che i presupposti da cui parte l’autore sono familiari alla filologia romanza fin dalla sua impostazione ottocentesca, mentre le è in parte estraneo il procedimento con cui si cercano di ricostruire le varie tipologie e talvolta anche le modalità esecutive di questi canti, sicuramente esistiti, ma che non ci sono stati tramandati. Sempre sul piano metodologico va osservato che il criterio di isolare canti romanzi attestati con musica prima del 1200 è di per sé ambiguo in quanto tende a sottovalutare nel discorso la produzione letteraria (e musicale) dei secoli XI-XII solo perché la relativa tradizione manoscritta è posteriore o perché è assente la notazione musicale: per fare qualche esempio, viene offuscata in questo modo la sostanziale contiguità fra i poemetti agiografici con musica e quelli senza (ma sicuramente destinati al canto), come pure la vicinanza cronologica fra la strofetta harleyana e la prima poesia trobadorica, o fra il più antico canto di crociata francese e quello quasi coevo del trovatore Marcabru, trasmesso con musica da un canzoniere francese del Duecento. Nel capitolo introduttivo (Song), dopo aver constatato il silenzio quasi assoluto degli scrittori latini medievali sui canti in volgare di tradizione orale, l’autore fa alcune considerazioni sui manoscritti contenenti reperti romanzi con musica dei secc. X-XII (i quali vengono riuniti sotto l’etichetta, invero discutibile, di «early Romance songs»: la proposta è argomentata a p. 16). Questi codici latini sarebbero stati dei «logical sites for the codification of vernacular songs» (23) e la loro disposizione testuale (layout) avrebbe addirittura influito sulla compilazione dei canzonieri musicali romanzi del sec. XIII. La generica proposizione viene argomentata con l’esempio del ms. harleiano 2750, raccolta di commedie terenziane del sec. XI in. sulla cui carta estrema si sono depositate le due famose strofette «pretrobadoriche» scoperte a suo tempo da B. Bischoff; del ms. Clermont-Ferrand, Bibliothèque du Patrimoine, 240 (sec. X ex.), contenente il Liber glossarum di Ansileubo [? ], ove la cd. Passion e il poemetto sulla vita di San Leodegario costituiscono delle aggiunte poste- 327 Besprechungen - Comptes rendus riori in fine di fascicolo; e infine del messale di Chartres (Médiathèque, 520, sec. XII ex.) e del graduale di Limoges (Bibliothèque francophone, 2, sec. XIII) che ospitano due redazioni diverse dell’Epistola farcita di S. Stefano. Nel primo caso è senz’altro da ritenere l’osservazione, indotta dal recente studio di J. Ziolkowski, Nota Bene. Reading Classics and Writing Melodies in the Early Middle Ages (Turnhout 2007) e sviluppata alle p. 78-79, che il testo dell’Andria terenziana è fornito di notazione musicale in corrispondenza della dichiarazione d’amore di Panfilo per Glicerio (c. 13r): il fatto potrebbe avere qualche attinenza con la strofetta amorosa Las! qui ne sun sparvir astur depositata sulla carta estrema del codice, a patto però che si tenga conto della sua sostanziale estraneità rispetto al contenuto e ai copisti del ms., talché non sembra opportuno qualificarla come «suitable medieval postscript to a Terence comedy» (25), ma semmai come un affioramento fortuito, in una zona di confine romanzo-germanica, forse facilitato dalla ricezione «musicale» di Terenzio testimoniata da quel manufatto di area renana. Per quanto riguarda il Liber glossarum di Clermont, è forse un po’ semplicistico ammettere che il rapporto di contiguità puramente linguistica fra glossari mediolatini e idiomi romanzi (si cita in proposito una frase del manuale di Elcock) abbia determinato l’inserimento nel codice dei due venerandi poemetti agiografici (26s.), come pure non sembra storicamente ammissibile un nesso fra l’ordine alfabetico dei lemmi nei glossari e quello dei componimenti lirici in alcuni canzonieri galloromanzi (32 sg.); interessante è invece l’ipotesi che l’«unusually large interlinear space» (29) riscontrato nella mise en page della Passion e del Saint Léger potesse servire per l’inserimento di neumi musicali (poi di fatto eseguiti rispettivamente sull’intera prima strofa e su alcuni versi sparsi) e la conseguente proposta di estendere tale ipotesi anche alla Sequenza di Sant’Eulalia, la cui natura musicale è certa ma che non fu mai annotata. Ancora diverso è il caso dei due codici, più tardi, dove l’Epistola di S. Stefano con tropo antico-francese si trova annotata nella sua integrità secondo un procedimento tipico dei ms. liturgici musicali ma che non avrà riscontro nei canzonieri lirici, in cui viene solitamente annotata soltanto la prima strofa. Più in generale, va detto che queste considerazioni non tengono conto del variabile grado di estraneità dei componimenti in volgare rispetto al codice-contenitore (massimo nel primo caso, minimo nel terzo) e che la visione complessiva dei reperti arcaici fra loro eterogenei come precursori diretti delle future raccolte di lirica profana tende a semplificare un processo di «scritturalità» romanza estremamente variegato e complesso (si veda ad es. in proposito un articolo recente di B. Frank-Job 1 ). Il discorso procede secondo un’articolazione in quattro capitoli intitolati Lament, Love song, Epic song, Devotional song (seguiti da un capitolo conclusivo) che appare in parte condizionata dal sistema di generi vigente nei primi secoli delle letterature romanze, cioè l’XI e il XII, ma che non è a rigore dimostrabile per i perduti canti di tradizione orale dei secoli tardoantichi e altomedievali. Per questo periodo, le uniche informazioni di cui disponiamo sono appunto le note condanne del mondo ecclesiastico, scaglionate dal III al XIII secolo: esse sembrano in effetti puntare sull’àmbito dei lamenti funebri e su quello dei canti d’amore, ma con formulazioni talmente laconiche da lasciare molto spazio all’immaginazione. L’autore ritiene ottimisticamente che tali giudizi negativi «can easily be turned inside out to reconstructive effect» (38), ma le sue speculazioni talvolta suggestive s’inseriscono in un enorme vuoto d’informazione e rischiano perciò di incorrere in errori di prospettiva storica. Per es. nel §2 la constatazione fatta da Pascasio Radberto († 865) in riferimento alle Lamentazioni di Geremia che «i compianti funebri (lamenta) sono considerati a buon diritto dei canti (carmina)» viene associata anche al frammentario e quasi illegibile compian- 328 Besprechungen - Comptes rendus 1 «Le rôle du scribe dans le passage à l’écrit des langues romanes», in: L’art de la philologie. Mélanges en l’honneur de Leena Löfstedt, Helsinki 2007: 89-100, recensito in VR 68 (2009): 241s. to di Maria in versi italiani annotati inserito nella cd. Passione di Montecassino del tardo sec. XII (. . . te portai nillu meu ventre. Quando te beio . . . ro presente. Nillu teu regnu agime ammente), il quale è posto come un significativo benché isolato esempio di compianto funebre in volgare anteriore al 1200. Se, da un lato, risulta arduo ammettere che il colto abate di età carolingia avesse in mente i lamenti funebri vernacolari del suo tempo, dall’altro non si può disconoscere un relativo grado di letterarietà anche ai versi in volgare dell’assai più tarda Passione cassinese, che difficilmente rifletterà lo statuto dei canti funebri medievali non attestati ed eseguiti tipicamente da lamentatrices professioniste. Nel §3 si trova una nutrita rassegna di fonti latine tesa a individuare le occasioni in cui avevano luogo quei canti, presumibilmente in volgare, aborriti dalla Chiesa, e a precisarne la tipologia degli esecutori: in conclusione, «a thriving vernacular love-song practice extending well over six centuries before the troubadours» (67) sarebbe esistita in concomitanza a festività liturgiche di vario tipo, specialmente celebrazioni di santi, e in associazione con danze di gruppo, mentre gli esecutori deputati per questi canti amatori sarebbero state «invariably women, ranging in age from young girls to mature adults and in status from professional dancers to the average church parishioner» (67). Se la prima affermazione non aggiunge nulla di nuovo a ciò che la filologia romanza ammette placidamente da tempo senza pregiudicare la specificità e le innovazioni apportate dalla poesia d’arte trobadorica, la seconda risulta invece un po’ perentoria, dal momento che solo in alcuni casi, e pour cause, i canti erotici vengono associati ad esecutori donne. Come ammette lo stesso autore poche pagine prima, «although prohibitions occasionally describe both sexes as singing this songs, women seem to predominate» (64): la specificazione del sesso degli esecutori di cantica luxuriosa e amatoria potrebbe ragionevolmente dipendere dalla cultura misogina degli scrittori e non costituire quindi indizio di una realtà storica oggettiva. Nello stesso capitolo (77s.) si fa una distinzione contrastiva fra una categoria di «festive love songs» (di registro «basso», eseguiti prevalentemente da donne in spazi pubblici e destinati a un pubblico ampio) e una categoria di «courtly love songs» (di registro «alto», eseguiti da uomini in luoghi esclusivi e destinati a un pubblico socialmente selezionato). A prescindere dalla liceità di tale categorizzazione, con cui si oppone semplicemente un repertorio ignoto di canti in volgare a una tradizione lirica nota (fra i quali non è escluso ed è anzi plausibile che siano esistiti rapporti di contiguità o derivazione a vario livello), va segnalato almeno che al primo àmbito viene attribuita la cd. Alba bilingue di Fleury in virtù del suo ritornello semivolgare e della sua forma musicale (senz’altro descritta come «rondeau form» a p. 75), senza tenere in debita considerazione gli studi di L. Lazzerini (si veda in ultimo Letteratura medievale in lingua d’oc, Modena 2001: 19-23), la quale ha proposto un’interpretazione del testo del ritornello che lo allineerebbe al contenuto intriso di «sapienza dottrinale» delle strofe latine, tenendolo dunque ben lontano da quella «festive lovesong tradition» invocata dall’autore. Inoltre, alla categoria di «courtly love songs» vengono ricondotti la seconda strofetta harleyana, Sacramente non valent (mettendo sbrigativamente da parte un’interpretazione divergente di L. Lazzerini: 81 N132), e il canto di crociata anonimo Chevalier, mult estes guariz, databile al 1146 e aggiunto entro un codice latino della seconda metà del sec. XII oggi conservato a Erfurt, adducendo che «its poetry and musical form . . . clearly place it in the courtly song tradition» (81). In realtà, questa affermazione andrebbe circostanziata: sia la forma strofica (7 coblas singulars con schema 8 abababab e ritornello abab; frequenti le assonanze al posto delle rime) che quella musicale (AB A’B A”B CD, C’E C”F) si discostano notevolmente dai tipi della lirica cortese (con Bédier: «par le type grossier de strophe . . . [le poète] n’a rien emprunté à la technique provençale» [J. Bédier/ P. Aubry, Les chansons de croisade avec leurs mélodies, Paris 1909: 3]); la tipologia melodica, inoltre, imperniata su schiette formule di recitazione sul do (v. 1 e 3), sul la (v. 2 e 4), sul sol (v. 10), o su una successione di scale discendenti intervallate da un salto di quinta 329 Besprechungen - Comptes rendus ascendente (v. 7, 9 e 11), non sembra comparabile a quella dei successivi canti d’amore o specificamente di crociata dei trovieri. Il reperto di Erfurt, in sostanza, anticipa alcuni elementi letterari dei componimenti analoghi di àmbito cortese mentre se ne discosta vistosamente sul piano musicale. Nel capitolo sui canti di guerra (Epic song) si affrontano due questioni d’ordine diverso. La prima riguarda la presunta esistenza di una categoria di «common war songs» in volgare romanzo più antichi e formalmente distinti dai «solo epic songs», ovvero le chansons de geste attestate a partire dal sec. XI: come esempio viene addotta la problematica Cantilena di San Farone, parzialmente riportata in latino ma come carmen publicum juxta rusticitatem da Ildegardo di Meaux nel sec. IX, che vanta una cospicua tradizione di studi filologici (nella N7 di p. 85 l’elenco si arresta alle Légendes épiques bédieriane del 1926, omettendo fra l’altro d’A. S. Avalle, La Cantilena di San Farone, in Studi in onore di Italo Siciliano, I, Firenze 1966: 289-307). L’altra questione, parimenti insolubile per mancanza di documentazione, riguarda l’esecuzione musicale dei poemi epici che non posseggono, com’è noto, alcuna notazione musicale nella tradizione manoscritta. Dopo aver fatto alcune considerazioni sul possibile influsso dell’epopea germanica su quella romanza anche a livello musicale, e dopo aver ricordato i casi isolati e problematici di notazione riferibile a chansons de geste - ad es. citazione musicale di Audigier all’interno del Jeu de Robin et Marion, rigo musicale in fondo all’ultima lassa della cd. Bataille d’Anesin -, l’autore si sofferma sulla contiguità formale fra agiografia e epica francese medievale (anche qui non si va oltre Bédier sul nutrito versante filologico) per rievocare opportunamente il passaggio del trattato musicale di Johannes de Grocheio (ca. 1300) dove si adduce come esempio di cantus gestualis la «vita beati Stephani protomartyris» accanto alla «historia regis Karoli». L’interessante riscontro, talvolta obliterato dagli studiosi, serve ad introdurre una sommaria descrizione delle diverse redazioni musicali dell’Epistola farcita di S. Stefano, trasmesse in cinque ms. scaglionati dal tardo sec. XII al primo sec. XV, con lo scopo di metterne a confronto la struttura formale. Se la redazione più antica del tropo francese, in 17 lasse monorime di ottosillabi in numero variabile (da 3 a 8), rispecchia la tipologia formale della lassa epica e presenta una struttura musicale (AAA . . . B) aderente alla descrizione fatta da Grocheio, secondo il quale la melodia dei «canti di gesta» si ripete identica per ogni verso (va precisato però che nel passaggio in questione la frase «Numerus versuum in cantu gestualis non est determinatus» si riferisce probabilmente al numero complessivo delle lasse e non, come vuole Haines, al numero di versi per lassa), le redazioni musicali più tarde esibiscono una struttura in distici di ottosillabi a rima baciata tendenzialmente organizzati in strofe di quattro versi (8 aabb) alle quali corrisponde una struttura musicale AB CD (fanno eccezione soltanto le sezioni VII e XVIII del tropo in volgare, le quali constano di una strofa di tre distici e ripetono perciò la seconda frase musicale, con variazioni, in corrispondenza dell’ultimo distico: rispettivamente AB CD C’D e AB CD XD’). L’autore non esita a riconoscere in questa «evoluzione» musicale del tropo l’influsso delle forme liriche dei trovieri, con formulazioni perentorie del tipo: «Its form downplays the short, repeated poetic laisse lines and subsumes them into what is to all intents and purposes a lyric song» (109); oppure: «[La melodia delle redazioni tardive del tropo] sets the Stephen story not as a recitation, like the Latin epistle it accompanies, but almost as a trouvère song, or at least as music strongly evoking courtly song music» (110); e soprattutto: «[Le redazioni tardive del tropo] bear the musical marks of secular song anthologies of the thirteenth century . . . The literary music of the trouvères had a great influence on thirteenth-century scribes . . . so did the music scribes of versions 2-3 of the Stephen tropes apparently refurbish the old-fashioned epic song they copied to fit the modern musical times of the thirteenth-century» (112). Come nel paragrafo sui codici contenitori discusso sopra, ritorna anche qui l’idea di una traiettoria evolutiva che collega direttamente i vari reperti arcaici alla monodia d’arte dei trovieri rappresentata nelle grandi sillogi musi- 330 Besprechungen - Comptes rendus cali del sec. XIII. Nel caso sotto esame, sembra lecito dubitare che i «copisti musicali» del Duecento abbiano innovato la struttura musicale del tropo di S. Stefano seguendo un modello di lirica profana ormai affermato, ma sarà semmai opportuno rivolgersi alla tradizione formale e musicale in cui s’inscrive a pieno titolo il componimento, quella cioè dei poemetti agiografici antico-francesi, dove non mancano casi di strutture metriche (e virtualmente musicali) affini a quella delle redazioni tardive dell’Epistola. Infine, nel §5 (Devotional song), discorrendo della rappresentazione eroica di Cristo redentore nella tradizione innologica latina, si ravvisa lo stesso motivo nella Passione di Clermont-Ferrand e, in maniera meno accentuata, anche in quella di Augsburg, la quale si accosterebbe agli inni anche dal punto di vista formale (129). Si ricorda altresì come, nella continuità storica fra paganesimo e culto mariano, si sia prodotta un’immagine sensuale di Maria, spesso correlata alla danza: nei due canti mariani in volgare del ms. BnF lat. 1139 (In hoc anni circulo e O Maria, Deu maire), strutturalmente e tematicamente affini all’innografia, non sussistono tuttavia indizi di carattere coreografico o «popolare» (140). In entrambi i casi, bisogna ammettere che il tentativo d’inquadrare culturalmente i reperti romanzi risulta poco perspicuo o innovativo nonostante la messe d’informazioni intelligentemente esposta. I rilievi fin qui addotti si sono concentrati volutamente sul modo in cui vengono utilizzati i reperti romanzi arcaici nel più ampio discorso sui canti in volgare non tramandati per sottolineare come una maggiore attenzione verso la tradizione di studi filologici (sia testuali che musicali), d’impostazione documentaria e storicista, avrebbe giovato in più di un’occasione all’avvincente discorso del musicologo (a p. 16 si trova un significativo accenno sulla decadenza della filologia romanza nell’università). Sintomatica in questo senso è l’assenza di riferimenti alla storia delle forme metriche e alle loro documentate ascendenze mediolatine, come pure alcune lacune bibliografiche relative ai «canti romanzi», prima fra tutte quella degli studi di d’A. S. Avalle sui componimenti aggiunti nel glossario di Clermont- Ferrand 2 . La mancata integrazione della prospettiva filologica in un discorso così vasto e articolato sulle tradizioni musicali del medioevo europeo consente all’autore di muoversi liberamente fra le più antiche e problematiche attestazioni di componimenti in volgare romanzo destinati al canto e di proporre lungimiranti traiettorie culturali laddove un filologo sarebbe stato indotto, più cautamente, a concentrarsi sul contesto immediato dei singoli reperti. Francesco Carapezza ★ Hélène Bouget, Écritures de l’énigme et fiction romanesque. Poétiques arthuriennes (XII e - XIII e siècles), Paris (Champion) 2011, 533 p. (Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge 104) Le rythme soutenu auquel continuent de paraître les volumes de la Nouvelle bibliothèque du Moyen Âge montrent à la fois la bonne santé de la collection et une tendance quelque peu préoccupante au ronronnement: l’ouvrage d’Hélène Bouget (H. B.), qui semble de prime abord participer de cette lourdeur académique légèrement superfétatoire qui dépa- 331 Besprechungen - Comptes rendus 2 Cultura e lingua francese delle origini nella Passion di Clermont-Ferrand, Milano-Napoli 1962, ristampato parzialmente in d’A. S. A., La doppia verità. Fenomenologia ecdotica e lingua letteraria del medioevo romanzo, Firenze 2002: 449-549; Sant Lethgier (X secolo). Nuova edizione critica con una nota introduttiva, in: Volume di studi letterari, Pavia 1967: 349-62 e Monumenti prefranciani. Il Sermone di Valenciennes e il Sant Lethgier, Torino 1967, ristampati parzialmente in: La doppia verità, cit.: 369-439.