eJournals Vox Romanica 72/1

Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2013
721 Kristol De Stefani

Magali Coumert/Marie-Céline Isaïa/Klaus Krönert/Sumi Shimahara (ed.), Rerum ges - tarum scriptor. Histoire et historiographie au Moyen Âge. Mélanges Michel Sot, Paris (PUPS) 2013, 710 p.

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2013
Gerardo  Larghi
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Marcenaro, I trovatori e la regalità. Approssimazioni metodologiche, hanno fatto il punto sulla relazione tra la filologia e l’etnografia. Rapporto assai delicato e che non ha mancato, né mancherà, di suscitare discussioni tra gli studiosi. In conclusione questi Atti dimostrano lo stato di salute della scuola filologica italiana, la sua apertura alle più moderne istanze metodologiche, culturali, filosofiche, linguistiche, storiche. Il ristretto numero di errori di stampa conferma la qualità del lavoro qui presentato. Gerardo Larghi ★ Magali Coumert/ Marie-Céline Isaïa/ Klaus Krönert/ Sumi Shimahara (ed.), Rerum gestarum scriptor. Histoire et historiographie au Moyen Âge. Mélanges Michel Sot, Paris (PUPS) 2013, 710 p. «Quelle a été, au Moyen Âge, la place de l’histoire? Qui a été historien? Comment ces historiens ont-ils travaillé? Par quel effort ont-ils reconstruit leur passé proche et lointain? Qui les a lus? Qui les a entendus? Quelle somme de connaissances, quelle image du passé ont-ils pu léguer à leurs contemporains et à leurs successeurs? Et de quel poids ces connaissances et cette image ont-ils pu peser sur les mentalités et les comportements? » 1 . Quando il compianto Bernard Guénée scriveva queste parole, oltre un trentennio fa, ad apertura del suo magistrale volume Histoire et culture historique dans l’Occident médiéval, non poteva sapere che l’argomento al quale aveva dedicato tante fatiche e tanto studio sarebbe assurto a tema di ricerche interdisciplinari e multidisciplinari, e a punto di congiunzione tra linguisti, storici, agiografi, filologi. Prova ne è la miscellanea che qui si recensisce e nella quale sono raccolti i contributi di cui amici e colleghi hanno voluto omaggiare Michel Sot, storico dell’Alto medioevo, i quali nella diversità di tempi, situazioni, fonti scrutati, hanno in comune proprio l’indagine sulla «scrittura della storia». Le appassionanti pagine che compongono questo ponderoso volume ci confermano che nell’età di mezzo, perfino verrebbe da dire nei dark ages volterriani, l’esperienza dello storiografo fu punto di propulsione per un’intera società la quale attraverso l’indagine sul passato seppe educarsi, costruire una memoria comune, affondare in un passato glorioso le radici di un presente che si voleva prestigioso. L’opera degli storici medievali assume così una valenza filologica, linguistica, sociale, istituzionale, politica: per i secoli di mezzo tanto quanto per la XXI centuria. Come detto la raccolta contiene numerosi articoli suddivisi in quattro parti, distinte per interesse specifico, ma accomunate dalla fedeltà alla via tracciata da Michel Sot, una strada che è lastricata di attenzione verso l’indagine semantica e di contaminazione tra le ricerche linguistiche, quelle archeologiche e quelle che esplorano il divenire di fatti e concetti nel lungo periodo. In altri termini il volume che stiamo recensendo dimostra non solo la vitalità dell’Accademia francese, ma più in generale la grande attualità del mestiere di storico. Data la ricchezza e varietà di temi affrontati ci si limiterà però qui a discutere nello specifico solo alcuni tra i numerosi e interessanti articoli. La prima parte del volume è dedicata al tema della storiografia in quanto esperienza politica e cioè come strumento utilizzato nel Medioevo per costruire una memoria comune ed ovviamente, dato il dedicatario, si concentra su opere scritte tra il VI e IX secolo. Attraverso una serrata analisi semantica Stéphane Lebecq, La guerre de Clotaire II et de Dago- 286 Besprechungen - Comptes rendus 1 B. Guenée, Histoire et culture historique dans l’occident médiéval, Paris 1980. bert contre les Saxons. Réflexions historiographiques et lexicographiques sur le chapitre 41 du Liber Historiae Francorum, getta luce sulla possibile autorialità del Liber Historiae Francorum, e sulla cronachistica prodotta nell’abbazia reale di Saint-Denis; Yann Coz, Saint Boniface, la grammaire et l’histoire, evidenzia invece l’incrocio che nell’Ars scritta da San Bonifacio si genera tra grammatica, storia e cultura religiosa. In un contesto cronologico che intendeva la gramatica come la scientia interpetandi poetas atque historicos, non sorprende dunque che Wynfried abbia tipizzato così nettamente il passato romano rispetto al presente ma con la ben chiara idea che «c’est ce dernier qui représente la norme» (53): non per nulla dal suo punto di vista «l’important est la langue telle qu’on la pratique et qu’on peut avoir à la connaître pour lire les textes chrétiens» (ib.), «la grammaire latine n’est pas une vérité éternelle» (54) e che in ultima analisi l’autore del trattato, pur riprendendo abbondantemente i materiali che gli consegnava la tradizione latina, abbia stabilito con essi un rapporto per nulla timido e subordinato tanto da ergersi di fronte a loro «comme le représentant d’une époque nouvelle» (57). Assai stimolante, dal punto di osservazione strettamente del linguista, risulta anche il contributo che Joëlle Alazard ha dedicato a Nithard et L’histoire des fils de Louis le Pieux, nel quale s’indaga su un’opera storica che è unica per più aspetti: come noto, infatti, l’Historia è la sola testimone dei Giuramenti di Strasburgo, ed è anche uno dei rari testi storici composti da un laico e per di più da un cugino dell’imperatore, del quale vorrebbe difendere l’onore. Lo studio stilistico dei quattro libri di cui si compone l’Historia consente alla Alazard di individuare nella cerchia imperiale l’uditorio cui essa era destinata, di provare che essa fu «une commande éminemment politique» destinata sì a stabilire la verità effettuale a pro dei posteri, ma anche a convincere i partigiani dei figli di Carlo della correttezza della loro posizione (64). Il duplice ruolo che il Medioevo attribuì alla figura biblica di Esdras, perfetto vescovo ma anche rerum gestarum scriptor e dunque garante della Scrittura, è al centro dell’attenzione di Marie Isaia, Le scribe Esdras à l’époque carolingienne comme modèle de l’historien, la quale, in poche pagine, ci consegna un’appassionante indagine che attraversa i secoli per fermarsi alla IX centuria. Particolarmente rilevante, dal nostro punto di vista, appare il profilo di Esdras che emerge dalle riflessioni di Incmaro, per il quale egli fu il modello dello storico che scavando tra le fonti antiche e le testimonianze, stabilisce un ponte tra un passato a rischio di esser sommerso dall’oblio e la generazione contemporanea che ha invece urgenza di essere informata e di sapere (73). Esdras insomma fu vescovo, ma anche storico e maestro del popolo, un modello per gli episcopati cui restituì forza normativa (77). Anche Hervé Inglebert, Les conceptions historiographiques de la totalité du passé à l’époque carolingienne (750-910), scruta dal punto di vista storiografico la produzione dell’800 d. C., investigando in particolare sulla creazione di Cronache universali da parte degli autori carolingi. L’agiografia, che gli storici del XXI secolo si sono educati a non disdegnare più come fonte storica, è stata oggetto della comunicazione di Charles Mériaux, Hagiographie et histoire à Saint-Amand: la collection de Milon († 872), mentre Lydwine Scordia, Le talisman de Charlemagne: l’empire d’un objet précieux, ha seguito le peripezie del famoso porta-reliquie imperiale lungo i secoli fino ai nostri giorni. Particolarmente rilevante ci è parso l’articolo che Michel Zimmermann ha dedicato a La souveraineté des comtes de Barcelone: une royauté par défaut (X e -XI e siècle). Attraverso una serrata indagine documentale e una sapiente analisi lessicale, l’esimio storico della Catalogna ha indagato «quelle image de leur souveraineté les comtes barcelonais» hanno inteso diffondere. Le pagine di Zimmermann affrontano dunque questioni come la vera natura tra il X e XI secolo di titoli quali consul, marchio, princeps, fino ad oggi oggetto di una comprensione solo parziale in quanto dipesa soprattutto dalla «analyse trop juridique du vocabulaire politique» (122) fatta dagli storici. L’indagine lessicologica su lemmi come potestas e dominium conduce l’autore a concludere per l’esistenza di una vera e propria 287 Besprechungen - Comptes rendus «monarchie comtale» nella quale «le comte de Barcelone n’est pas roi . . . mais il se conduit en roi et remplit ce qui apparaît comme une mission royale» (136). Il trionfo regale in ambiente carolingio ma anche nella Polonia del Trecento è l’oggetto dell’articolo di Wojciech Falkowski, Adventus regis. Le retour à pied d’un roi vainqueur, mentre la composizione, in ambiente ispanico duecentesco, della Vita sancti Isidori ha occupato Patrick Henriet, Nondum enim complete sunt iniquitates Yspanorum, ou l’hagiographie au service de l’Histoire générale. L’épisode de la venue de Mahomet en Espagne (Vita sancti Isidori, BHL 4486, ca. 1200) et sa postérité. L’utilità delle interrelazioni tra archeologia, archivistica e filologia è dimostrata da Alain Rauwel, che in «Grosses pierres» et «vieux manuscrits»: le roi Arthur à l’abbaye de La Crête indaga la rilettura in chiave arturiana della scoperta, in pieno XVI secolo, di tombe e vestigia archeologiche. Allo stesso modo, anche l’articolo Des légendes chevaleresques dans une Histoire ecclésiastique con cui Dominique Barthélemy omaggia il collega parigino è dedicato al problema del rapporto tra produzione storica e opere letterarie, ed in particolare alla relazione con i coevi poemi epici e il «ciclo delle crociate». Ne emerge un profilo inatteso di Orderico Vitale, il quale sempre si proclamò (ma lo si sapeva), chierico sdegnoso di storielle immorali destinate ai laici e cantate da giullari, ma che come storico non fu invece immune dal riutilizzo in chiave ideologica proprio di quei materiali che a gran voce pur respingeva. Elisabeth Crouzet-Pavan da parte sua in Arts de la mémoire: les récits de la Première Croisade, si è concentrata sui testi di otto tra gli autori che redassero le cronache relative alle prime spedizioni d’oltremare. Dalle parole di Roberto il Monaco, di Baudri de Bourgueil e di Guiberto di Nogent, ma anche dalle pagine dovute al laico Raul di Caen, emergono così almeno due linee interpretative di quei fatti: alla «memoria calda» di chi partecipò alla conquista di Gerusalemme, tenne dietro la «memoria fredda» di chi rilesse gli accadimenti entro il quadro più generale della Riforma della Chiesa. Nelle parole di quei cronisti s’intravvede il formarsi di una memoria collettiva, nei loro testi è possibile scorgere «un processus de façonnement des faits et de leur mémoire au profit . . . des contemporains», ma anche come «la construction narrative, procédant selon les auteurs et les moments d’écriture, a de manière plurielle proposé et composé des logiques historiques particularisées» (199). L’immagine del popolo ebreo nei tre prologhi della Historia di Ugo di Fleury è invece il tema proposto da Mireille Chazan, La place des juifs dans l’histoire du Salut, mentre André Vauchez ha magistralmente tratteggiato, in poche densissime pagine, un quadro su Le prophétisme et le principe de la correspondance typologique: nel suo articolo egli ci fornisce un mirabile esempio di indagine storica di lunga durata, inserendo il tema del profetismo nella prospettiva biblico-cristiana e in un arco cronologico che dagli antichi padri d’Israele giunge fino al Concilio Vaticano II. Conclude questa parte della miscellanea l’articolo John Rous et l’histoire ancienne de l’Angleterre, nel quale Jean-Philippe Genet analizza le fonti, il metodo esegetico e la prospettiva assunte dalla storico quattrocentesco britannico nelle sue opere. Un secondo gruppo di contributi che compone la Miscellanea in onore di Sot, è dedicato alla riflessione attorno al tema «Écrire l’histoire des héros et des saints: une expérience religieuse et morale», e si rivela una preziosa occasione per verificare come di volta in volta gli storici medievali abbiano interagito con le loro fonti, in particolare qui le vitae sanctorum, per creare nuovi modelli di santità, tracciare profili ideali di vescovi o prelati, presentare al loro pubblico (fosse questo quello delle corti reali o imperiali, o semplicemente un uditorio clericale), riflessioni sulle strutture politiche e sociali. Entro il ricco corpus di studi assemblato in questa parte del volume, ci sembra importante segnalare soprattutto sei articoli. Attira anzitutto l’attenzione il lavoro di Bruno Dumézil, La référence historique dans l’écriture épistolaire, nel quale lo studioso parigino, dopo aver rimarcato il punto di osservazione propizio rivestito dalle raccolte epistolari «pour déterminer si histoires, chroniques 288 Besprechungen - Comptes rendus et autres gesta ont pu servir de réservoirs d’arguments pour soutenir des intérêts présents» (273), e aver sottolineato come nella scrittura epistolare altomedievale «l’allusion poétique ou mythologique se présente plus facilement sous la plume du rédacteur que la réference historique», conclude che ciò dipese dal fatto che la «véritable culture commune aux élites» è rappresentata dalla retorica: ragion per cui «il existe une incompatibilité entre les genres littéraires», essendo l’epistolografia guidata dalla brevitas e la storiografia dalla expositio (279-80). Rilevante anche il contributo di Magali Coumert, L’écriture de l’histoire sous les Carolingiens: un exemple tiré des Annales royales, nel quale la storica bretone si dedica alla valutazione lessicologica sul significato assunto dal termine vassus nel corso dell’VIII secolo, passando esso dal designare una categoria di servi ad indicare uomini dall’importante ruolo sociale legati ad una autorità (289-90). Dalle riflessioni della Coumert emerge però soprattutto come l’uso di termini tratti della lingua vernacolare abbia consentito allo storico autore degli Annales regni Francorum di alludere «à des traditions et des origines communes» (292), finalizzate al dar vita a nuove costruzioni politiche. Il ben noto modello della conversione laicale tardiva e il tema della monacazione eremitica di un miles sono invece l’oggetto del contributo di Anne Wagner, L’ermite Adhegrin: conversion laïque, retrait du monde, nel quale la studiosa si focalizza su una figura apparentemente secondaria della cluniacense Vita Odonis, il cavaliere Adhegrin il quale, nel contesto dell’economia del racconto, assume il ruolo del consigliere che spinge il futuro beato a divenire monaco. Adhegrin resta però un marginal man nella società monastica: in effetti, egli fu pur sempre un cavaliere, dunque difficilmente integrabile nella visione cluniacense degli ordines, in base alla quale c’era incompatibilità tra milites e monaci. In questo senso andrebbe però sfumato, per apparire del tutto convincente, il rapporto che l’autrice stabilisce tra la Vita Odonis e le monacazioni (letterarie) dell’eroe epico Guglielmo di Gellona; in primo luogo la società che produsse queste ultime era assai diversa da quella dei secoli X e XI; quando giullari e chierici stesero le chansons de geste, inoltre, il monachesimo stava attraversando una fase di profonda crisi, si era avviato il tramonto di Cluny in favore di Citeaux, la stessa cavalleria era ben diversa da quella cui pensava il biografo dell’abate cluniacense: sono questi altrettanti elementi che in qualche modo mitigano le coincidenze rilevate da Wagner, pur senza peraltro smentirle totalmente. Yves Sassier, Deutéronome, royauté et rois bibliques dans le Policraticus de Jean de Salisbury: première et succincte approche, ci introduce nell’ambiente colto e raffinato degli intellettuali che trovarono ospitalità presso la corte plantageneta, e in particolare nelle pagine del Policraticus che il chierico salisberense dedicò alla necessità che il principe sia sottomesso alla legge, e che i suoi precepta siano sempre congruenti con la lex divina. Per fare questo l’amico di San Tommaso Becket fondò le sue riflessioni principalmente su alcuni passi del biblico libro del Deuteronomio, i quali gli servirono per rilevare come «l’institution de la royauté marque . . . la fin du meilleur des régimes que fut la théocratie sacerdotale» (391). Dominique Boutet, La succession de Pépin et la jeunesse de Charlemagne revues par Jean d’Outremeuse, si china invece sul racconto della giovinezza del grande imperatore, dimostrando quanto l’autore belga nel narrare i puerilia Caroli abbia voluto mescidare «la légende et les données de l’historiographie» (400), rimpiazzando «une fiction romanesque d’origine probablement folklorique . . . par une fiction de type historiographique . . . qui met en scène une vision politique générale sur la corruption des grands et les rapports entre suzerain et vassaux» (402). Le trasformazioni operate da Jean nella leggenda risposero dunque a precise esigenze politiche, seguirono un percorso ideologico che poco ha a che fare con il puro divertimento letterario e che invece si presenta, agli occhi dello studioso, come «une reconfiguration» della storia (404). Il contributo di Henri Bresc, Hercule espagnol fondateur de cités, esamina la metamorfosi in chiave politica subita da una figura letteraria (qui il mitico eroe ellenico). Nessuna fonte antica ci parla del figlio di Zeus come di un fondatore di città iberiche, mentre è ben nota l’esistenza in ambito ispanico di 289 Besprechungen - Comptes rendus una via eraclea 2 . Il ricordo di Ercole come fondatore di monumenta e di città pervenne dunque agli storici catalani che ne fecero memoria nelle loro cronache, attraverso racconti arabi innestati «sur la tradition d’histoires municipales transmises par les Mozarabes» (405). Particolarmente rilevante, in tal senso, è il ruolo assegnato da Bresc all’opera di Rodrigo Jimenez de Rada, arcivescovo e politico duecentesco, ma specialmente storico attento a cogliere gli utilia offertigli dalle fonti arabe, e che seppe imbastire una versione vulgata dei fatti che si impose nelle opere successive. Qualche perplessità permane comunque nel lettore circa il ruolo che secondo Bresc il toledano avrebbe assegnato all’eroe mitico, ovverosia «l’affirmation de l’antiquité de l’Espagne» (410). A nostro modo di intendere invece nella visione storiografica radiana, il ruolo ricoperto da Ercole servì soprattutto a riscrivere il rapporto tra popoli barbari e civilizzatori: così come il mitico semi-dio, espressione della forza bruta, eroe trasgressivo e feroce, aveva sottomesso i Celtiberi sotto il cui regno i popoli ispanici trascorsero una sorta di età dell’oro, per essere poi a loro volta civilizzati dai Romani, nella visione di Rodrigo i «nuovi barbari» rappresentati dai popoli mussulmani, furono sconfitti e civilizzati da reyes cattolici; non a caso insomma il mito fu fatto proprio dall’arcivescovo di quella Toledo che fu sede metropolita: «l’archevêque de la Reconquista . . . réécrit l’histoire antique du point de vue à la fois catholique et gothique» (Rimbault 2013: 18). Per la cultura medievale insomma, la storia era sempre presente, il nesso tra diacronia e sincronia era evidente, e gli eventi del passato erano in qualche modo assunti e riassunti nella contemporaneità. La terza parte del volume raccoglie le meditazioni degli studiosi intorno all’asse «Écrire l’histoire des institutions: une expérience sociale». Entro un ricco corpus di interventi (tra i quali si evidenziano per la loro specificità e per la dimensione davvero mondiale che con la loro presenza danno a questa Miscellanea, i contributi di due storici giapponesi come Osamu Kano e Sho-ichi Sato), ne abbiamo selezionato alcuni che ci sono parsi particolarmente apprezzabili, sotto diversi aspetti, per filologi e linguisti romanzi. Il primo di essi è Réforme monastique et discours historiographique. L’évocation par Adémar de Chabannes de la dédicace de la Basilique du Sauveur et de l’introduction de l’observance bénédictine à Saint-Martial de Limoges au IX e siècle, un apporto nel quale lo storico limosino Philippe Depreux studia il legame tra riflessione ecclesiale e produzione storiografica: se anche, questa la conclusione cui perviene il ricercatore, la testimonianza di Ademaro non può essere accolta nella sua letteralità, non di meno essa ci informa del processo eminentemente politico che presiedette alla trasformazione di una normale comunità presbiteriale in una comunità monastica «en communion avec la réforme d’Aniane» e del ruolo che in questa metamorfosi, «initiée par Louis le Pieux, peut-être dès l’époque où il était roi des Aquitains, et parfaite sous Charles le Chauve» svolse Limoges «haut lieu politique à l’échelle de l’Aquitaine» (452). Richiama invece alla drammatica vicenda di Abelardo ed Eloisa l’articolo che Michèle Gaillard dedica a Contributions aux Gestes des abbés de Saint-Denis Hilduin (. . . 814-855/ 59) et Suger (1122-51): à propos des droits de Saint-Denis sur le monastère d’Argenteuil, laddove si analizzano i rapporti tra la comunità monastica di Saint-Denis e il cenobio di cui fino al 1129 fu badessa la sfortunata allieva e amante del filosofo, giungendo a concludere alla inesistenza delle rivendicazioni parigine sui beni della vicina fondazione religiosa (486). Si trova in Alvernia viceversa il campo indagato da Albert Rigaudière, Un conflit réglé entre un prieur et son vassal laïc en Auvergne, interessante tanto per l’aspetto lessicologico (vi si rinvengono utili riflessioni in merito alle espressioni novalia, concordia, ordinatio, affar, plena proprietas, caminatae) e soprattutto sull’uso ambiguo che in alcune carte medievali è fatto del vocabolario giuridico (532-33). 290 Besprechungen - Comptes rendus 2 Si veda ora O. Rimbault, «Hercule, fondateur de Barcelone: renaissances et contestations d’un mythe antique au Moyen Âge et à la Renaissance», Réflexion(s) (2013): http: / / reflexions.univ-perp.fr/ . Il quarto e ultimo gruppo di lavori è legato al tema «Écrire l’histoire: méthodes et outils de l’historien du XXI e siècle», e da esso emerge nettamente come il mestiere di storico non esaurisca la sua funzione in un passato più o meno realisticamente ricostruito, ma come esso getti i suoi riflessi anche sul presente e in qualche modo costituisca il fondamento epistemologico di molta parte delle scienze umane odierne (nel contempo però traendo linfa vitale da esse). Segnaliamo in tale insieme la ricostruzione che Jean-Pierre Poly opera in Les aïeux d’Aurélius. Liste épiscopale et mémoire du passé, della mentalità con cui nell’XI secolo furono redatte le liste episcopali di Limoges: è l’occasione per lo storico parigino di ripercorrere le tappe della diffusione di alcuni nomi (tra tutti interessante appare il tracciato seguito da Ebolus per raggiungere il Poitou e segnare di sé la stirpe dei signori di Aubusson); la parziale ricomposizione ad opera di François Dolbeau dello scriptorium di Saint-Remy di Reims in Ex dono Hincmari. Livres donnés par Hincmar (845-882) à Saint- Remi de Reims; l’indagine intorno alla storia del canto liturgico in Igor Reznikoff, De la musique «Le chant des Gaules» avant les Carolingiens; il contributo fornito da Charles Vulliez, Les Miracula sancti Maximini de Létald de Micy: prolégomènes à une nouvelle édition, alle inchieste sulla produzione agiografica nell’ambiente monastico ligeriano; e la bella lezione di Guy Lobrichon, L’historien face à l’édition critique: un manuscrit de Berne (Bern, Burgerbibliothek 51), sull’utilità dell’edizione critica la quale «contraint le chercheur à comprendre en profondeur ce qu’il lit» (648), sui meccanismi che presiedettero al «grand effort d’acculturation qui s’est fait jour dans les royaumes francs depuis la fin du VIII e siècle» e il «nouveau mode de communication entre le monde privilégié des savants et les élites carolingiennes» (643). Segnaliamo inoltre l’indagine a largo spettro di Gilbert Dahan, La muraille qui sépare les deux peuples (Éphésiens 2, 14) dans les commentaires médiévaux, che mette a frutto l’analisi semantica per entrare in alcuni tra i meccanismi che guidarono gli esegeti medievali nella loro lettura delle pericopi bibliche. Ruotano intorno all’indagine lessicale gli studi di Daniel G. König, L’Europe des Francs et l’émergence de la France. Le terme «franc» et son évolution sémantique dans la littérature arabo-musulmane médiévale, e di Stéphane Gioanni, Propos sur la «gloire»: lectures politiques du «De gloria» de Cicéron de l’Antiquité à la Renaissance. Da evidenziare infine i contributi di Jean-Loup Lemaître, La place des chroniques dans la Nova bibliotheca du P. Philippe Labbe, sj (1657), e di Bruno Galland, Au service des archives, de l’Ancien Régime à la Révolution: Joseph Nicolas Pavillet, dedicati a due figure di eruditi e archivisti, alle cui oscure fatiche dobbiamo la ventura di poter ancor oggi accedere a numerose e preziose fonti. In sostanza, e al netto del fatto che moltissimi tra i temi trattati nella Miscellanea meriterebbero ad essi soli approfondimenti che lo spazio e il luogo ci impediscono, questi Studi dedicati a Michel Sot rappresentano una bellissima sorpresa, per di più confezionata nella degna cornice di una veste tipografica elegante e curata. Gerardo Larghi ★ An Faems/ Virginie Minet-Mahy/ Colette van Coolput-Storms (ed.), Les translations d’Ovide au Moyen Âge, Louvain-la-Neuve (Publications de l’Institut d’Études Médiévales) 2011, 294 p. Spetta a Ludwig Traube l’onore di aver suggerito la denominazione Aetas ovidiana per quei secoli, a partire dal XII fino al XV, che furono fortemente caratterizzati dalla ricezione, dalla rielaborazione, dallo studio e dal commento dei testi di Publio Ovidio Nasone. Non che ovviamente l’Alto Medioevo sia stato immune dall’influsso esercitato dalle opere del grande poeta latino, ma come ci dice il numero di manoscritti prodotti nelle diverse epoche, nes- 291 Besprechungen - Comptes rendus