eJournals Vox Romanica 72/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2013
721 Kristol De Stefani

Sarah Lambert/Helen Nicholson (ed.), Languages of Love and Hate. Conflict, Communication, and Identity in the Medieval Mediterranean, Turnhout (Brepols) 2012, xxx + 286 p.

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2013
Gerardo  Larghi
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Il tema del rapporto tra l’epica romanza e quella germanica è trattato dall’articolo citato di Víctor Millet e da Philipp Bennett, Les Avatars de Guibourc I: cycle de Guillaume, Wolfram, i «Narbonesi» (93-105); Mario Bonansea, Le «Waltharius» et l’épopée romane: réflexions sur la temporalité épique (123-40); Stephanie L. Hathaway, The Maligned Sister of Guillaume d’Orange: Blancheflor in «Aliscans» and Wolfram’s «Willehalm» (241-55); Dimitri Pétalas, La lutte entre le héros et la femme guerrière dans le «Nibelungenlied» et dans une chanson de geste byzantine (421-28). Infine, per i rapporti tra l’epica e la Penisola iberica segnalo, oltre alla relazione di Matthew Bailey, che peraltro apre il volume, i seguenti contributi: Santiago López Martínez-Morás, «Florence de Rome» y su versión española (307-24) e Juan Paredes, Épica y cine. En torno a la figura del Cid (399-409). In particolare, M. Bailey percorre la fortuna del più importante personaggio epico spagnolo, il Cid, appunto, quel Rodrigo Díaz de Vivar (1045-99) che da personaggio storico è diventato presto quasi un eroe mitologico. Attraverso l’analisi delle principali opere che vedono il Cid al centro della scena, l’autore percorre un tragitto che va dalla Historia Roderici (che risale più o meno al 1110) al film El Cid uscito nel 1961, che rappresenta un prodotto tipicamente hollywoodiano dell’epoca (i protagonisti, non dimentichiamolo, erano Charlton Heston e Sophia Loren); in mezzo si collocano il grande Poema de Mio Cid, massimo esempio dell’epica castigliana, che presenta Rodrigo come «un guerrero castellano ya maduro y mesurado» (8), le Mocedades de Rodrigo (circa del 1300), che invece portano alla ribalta un eroe ancor giovane e ribelle, e le Mocedades del Cid (1612) di Guillén de Castro, poema basato sul precedente, «pero mucho más temprado» (ib.). Al termine del percorso, Bailey, dopo aver constatato che «la leyenda del Cid ha sobrevivido casi mil años más que la persona histórica», conclude che il processo evolutivo del personaggio non è stato passivo nei testi presi in considerazione, perché si può notare «una secuencia de intervenciones o mutaciones hechas a propósito para crear un héroe relevante a circunstancia contemporanéas» (18). Nulla da stupirsi del resto - mi sento di aggiungere - se scrittori o cineasti non abbiano voluto procedere a una rappresentazione «storico-filologica» del Cid: l’arte, a qualunque livello, ha le sue esigenze e le sue prerogative. Il volume è chiuso dal resoconto di due tavole rotonde, nelle quali si annunciano altrettanti programmi di ricerca: l’informatizzazione del corpus epico francese per il progetto JONAS, Répertoire des textes et des manuscrits médiévaux d’oc et d’oïl (si veda http: / / jonas.irht.cnrs.fr/ ), a cura di Maria Careri, Anne-Françoise Leurquin, Paolo Rinoldi, Marie-Laure Savoye (521-31), e una nuova edizione del corpus francese della Chanson d’Aspremont, presentata da Giovanni Palumbo e Anna Constantinidis (533-51), alla quale partecipano studiosi italiani e belgi (tutte le informazioni sul progetto si trovano all’indirizzo http: / / www.chansondaspremont.eu/ ). Paolo Gresti ★ Sarah Lambert/ Helen Nicholson (ed.), Languages of Love and Hate. Conflict, Communication, and Identity in the Medieval Mediterranean,Turnhout (Brepols) 2012, xxx + 286 p. Ha ancora senso oggi, in un clima geopolitico problematico, attraversato da tensioni che originano, almeno nella loro motivazione apparente, da profondissime differenze religiose e sociali, investigare le Crociate e cioè il periodo che, almeno nell’immaginario collettivo, ha portato allo zenit tali conflitti? Probabilmente sì, se non altro per mostrare che anche all’epoca del loro più prolungato conflitto, due mondi tanto contrapposti seppero conoscersi, vollero reciprocamente indagarsi, traendo gli uni dagli altri suggerimenti, suggestioni e conoscenze e, in termini meno politici e più scientifici, seppero dar ragione al paradig- 297 Besprechungen - Comptes rendus ma braudeliano del Mediterraneo come luogo del costante incontro tra culture e civiltà e non come barriera tra mondi contrapposti. Non a caso proprio una citazione del grande storico delle Annales apre le pagine con cui Sarah Lambert e Helen Nicholson introducono il volume che sotto il titolo di Languages of Love and Hate, raccoglie 14 comunicazioni dedicate da ricercatori europei, ma prevalentemente di scuola britannica e tedesca, ad investigare «a fascinating and vibrant complex of cultural and intellectual exchanges between Latin, Greek and Muslim worlds», ovvero «the expression and articulation, in a wide range of languages, registers and styles, of the records and traces of theses exchanges» (xx). In altri termini i curatori della raccolta e i promotori delle indagini sul «Clash of Cultures» nel Medioevo che hanno dato il via a questo filone di studi, sono partiti dal presupposto, forse truistico ma comunque da illustrare, che anche in epoca medievale vi fosse un sufficiente grado di similarità tra i tre mondi che si confrontarono sulle rive del Mare Nostrum, per rendere fruibile una certa comunicazione tra loro. Per questo, aggiungono le studiose, «language is interrogated as a potential sign» e perciò nel libro sono presi in esame testi appartenenti ai più diversi registri generi (lettere, cronache, poesie trobadoriche), stilistici (popolari, scolastici), o di discipline assai differenti (teologici, storici, letterari). Ne emerge un quadro vivace, assai più sfumato di quello che siamo soliti dipingere: nei testi si rinvengono certo (e come potrebbe essere altrimenti? ) espressioni che marcano differenze quasi ontologiche rispetto agli avversari, dipinti sovente come «no-umani» e/ o esseri inferiori, ma che lasciano trasparire, in misura assai maggiore di quanto ci aspetteremmo, anche curiosità e attenzione, quando non rispetto. Il Mediterraneo appare a questo punto ai nostri occhi non più come un bacino nel quale quattro popoli ciechi e sordi si scontrarono senza capirsi (oltre ai tre succitati, non si dimentichi il ruolo giocato nelle «crociate» dalla cultura di lingua ebraica), bensì come un inesplorato coacervo di curiosità, voci, sensibilità, interessi e passioni che si combinarono inestricabilmente. La correttezza scientifica con cui i contributi qui raccolti sono condotti, li mantiene poi ben lontani dal presentarci quel cronotopo secondo un modulo modernamente «politically correct». La prima sezione del volume, Western Depictions of Saracens and Others in Latin and French Vernacular Writing, accoglie studi consacrati alla rappresentazione dei mussulmani e dei non-cristiani nella letteratura mediolatina e romanza. Il primo testo, dovuto a Marianne Ailes, è dedicato a Tolerated Otherness: The «Unconverted» Saracen in the Chansons de geste. In esso la studiosa inglese esplora un gruppo di testi epici, dalla Chanson de Roland fino alla Chevalerie Ogier, senza rinunciare a ricorrere ad altre fonti, siano queste le Lettere di San Bernardo di Chiaravalle (5), ovvero le Decretali di Innocenzo IV, e dimostrando quanto le figure epiche siano assai meno stereotipate di quel che gli storici suppongono: se tra i cristiani non mancano i traditori, in campo avverso esistono fin dai primi poemi pagani «who would have been noble if only they were Christian» (6). Non difettano i testi nei quali le differenze tra i due campi si accentuano fino a generare reciproca repulsione (A. cita correttamente al riguardo il Simon de Puille e, all’opposto, la Chanson de Jerusalem), ma le disuguaglianze non sono tali da impedire gli inviti alla conversione operati in genere prima di dar vita ai combattimenti. Questi sforzi devono essere letti in chiave feudale, cioè come tentativi di sottrarre l’avversario alla fedeltà verso la famiglia e il suo signore in favore di una superiore lealtà verso Dio: il cambiamento di fede «remains an issue and is not a sideline», e se i pagani hanno il diritto di non convertirsi non di meno agli occhi dei trovieri è chiaro che essi «does not mean accepting that the belief could possibly be right» (18). Nonostante l’autrice non abbia omesso di rilevare che «the chansons de geste do not reflect at all the official Christian theological and polemic attitude to Arabs and Muslim» il suo studio avrebbe però tratto giovamento da un paragone tra le lasse epiche e la condizione in cui si trovarono i prigionieri dopo i combattimenti, le pressioni che essi subirono in favore di una loro conversione, come ad esempio è descritta 298 Besprechungen - Comptes rendus nelle diverse cronache coeve: ne sarebbe emerso un quadro in parte diverso, posto che ormai ci si accorda per notare come la guerra tra XII e XIII secolo abbia subito una radicale evoluzione verso forme premoderne e preindustriali 1 . Affine all’indagine di Ailes, per alcuni aspetti risulta l’intervento di Helen J. Nicholson, Love in a Hot Climate: Gender Relations in Florent et Octavien, la quale però sembra soffrire, almeno ai nostri occhi, di un difetto metodologico. L’autrice, infatti, ha applicato all’indagine delle relazioni tra i due sessi in una canzone di gesta di epoca tarda, come il Florent et Octavien, principi anacronistici, finendo così per sostenere che l’opera «can be read as a critique of mysoginist attitudes among the western European ruling class» (35) e che essa potrebbe essere stata «a message for both sexes» (36). L’uditorio delle canzoni epiche fu da sempre, a partire dalla stessa Chanson de Roland nella quale non mancano scene e figure femminili, il pubblico misto delle corti, e il fatto che «women may be every bit as brave and as faithful as men» (36) non ci sembra sufficiente per sostenere che il Florent sia diverso dalle altre opere congeneri. L’attitudine con cui l’autore del trecentesco poema guarda all’amore e alla dimensione erotica, non poteva che essere altra da quella delle canzoni scritte duecento anni prima, quanto meno perché la fin’amor aveva ormai mutato foggia, le crociate erano passate di moda, il contesto culturale e sociale era tutt’altro da quello feudale e cavalleresco di fine XI secolo. Per delineare a fondo l’attitudine del troviero la studiosa, a nostro modo di intendere, avrebbe invece dovuto scrutare oltre i confini delle canzoni di gesta, in direzione della coeva letteratura francese, e in questo senso avrebbe tratto sicuro giovamento anche dal ricorso a strumenti metodologici più raffinati, quali ad esempio lo studio delle raffigurazioni mentali così come esso è stato impostato dalla moderna ricerca 2 . Più ampio è lo sguardo gettato da Susan B. Edgington, nel suo articolo su «Pagans» and «Others» in the Chanson de Jérusalem, testo composto nel XII secolo da un autore noto come Graindor de Douai e destinato «to appeal to potential crusaders» (38), dunque interessato a presentare la guerra come un fatto d’armi anzitutto destinato al confronto con un nemico che per esser degno di rispetto e di stima doveva nondimeno essere annientato. Si comprende così perché le differenze tra cristiani e mussulmani sono assai più ampie nel raffronto tra i diversi gruppi sociali (donne, il popolino, gli altri «marginals groups») che non nel paragone tra le rispettive aristocrazie: come emerge dal linguaggio usato per descrivere la situazione, «the knights and ‹pagans› have far more in common than there are differences between them» (46). Carol Sweetenham, nell’analizzare il tema Crusaders in a Hall of Mirrors: The Portrayal of Saracens in Robert the Monk’s Historia Iherosolimitana, non esita a interpretare gli avvenimenti d’Outremer alla luce delle vicende politiche europee, in particolare dello scontro tra Urbano II e lo scismatico antipapa Clemente III, ed a concluderne che Roberto «adds depth to his text by using Saracens as a mirror to legitimize the doctrines of the Crusade» (62). Da parte sua Sarah Lambert si è volta verso un poema tut- 299 Besprechungen - Comptes rendus 1 Stupisce non aver riscontrato alcun riferimento nel contributo di A., pur pregevole per competenza e vastità del campo indagato, alla fondamentale ricerca di G. Ligato, La croce in catene. Prigionieri e ostaggi cristiani nelle guerre di Saladino, 1169-1193, Spoleto 2005. 2 La storia delle rappresentazioni è stata oggetto di numerose precisazioni metodologiche fondate soprattutto su un approccio antropologico: si vedano al riguardo almeno J.-F. Sirinelli, Pour une histoire culturelle, Paris 1997; C. Geertz, «Thick Description: Towards an Interpretative Theory of Culture», in: Id., The Interpretation of Cultures, New York 1973: 3-30; A. Burguière, «L’anthropologie historique», in: J. Le Goff, La Nouvelle Histoire, Paris 1990: 137-65; A. I. Gourevitch, «Histoire et anthropologie historique», Diogène 151 (1990): 79-94; J. Berlioz, «Les systèmes de représentation au Moyen Âge», Préfaces 18 (1990): 82-84; R. Chartier, «Le monde comme représentation», Annales E.S.C. 44 (1989): 1505-19; A. Boureau, «La croyance comme compétence. Une nouvelle histoire des mentalités», Critique 529-30 (1991): 512-26. t’affatto diverso, il Roman de Renart. Nel suo contributo su Translation, Citation, and Ridicule: Renart the Fox and Crusading in the Vernacular, la filologa analizza «the new context into which the language of crusade is transposed» (69), giungendo peraltro ad una conclusione («nothing is signified for certain») che ci lascia un po’ interdetti. Il secondo gruppo di contributi è dedicato per contro all’esplorazione delle Relations between the West and Byzantium, cioè ad un «Other» altro da quello ovvio del mondo mussulmano e del quale la storiografia ha solo di recente iniziato ad indagare la rappresentazione presso i crociati 3 . Un’analisi di lungo periodo e di largo spettro è quella condotta da Shaun Tougher, in merito a Eyeing up Eunuchs: Western Perceptions of Byzantine Cultural Difference, nella quale viene sezionata l’immagine che l’Occidente si creò nel corso dei secoli delle figure dei custodi dei sacri cubiculi. Le conclusioni sono però piuttosto affrettate («further, the attitude expressed regarding eunuchs can vary, and can be positive» [96]), e lo sviluppo dell’indagine non affronta compiutamente il nodo cruciale che per il Medioevo era rappresentato dal rapporto tra il fisico di un individuo e il suo temperamento morale: l’eunuco era considerato un essere «innaturale» e dunque anche moralmente predisposto alla fellonia. La sua effeminatezza lo rendeva simile agli altri Greci e di essi condivideva la conseguente predisposizione al tradimento ed alla menzogna 4 . Il contributo di Linda Paterson si pone, secondo il metodo messo a punto dalla grande filologa inglese, all’incrocio tra storia e letteratura, ed è dedicato a Greeks and Latins at the Time of the Fourth Crusade: Patriarch John X Kamateros and a Troubadour Tenso. Esso affronta la questione degli stereotipi latini sui Greci nella poesia in lingua d’oc, vale a dire la tenzone del trovatore Elias Cairel che fu scritta tra l’inverno 1203 e la primavera 1204 a Costantinopoli (137), presumibilmente di fronte ad un uditorio che includeva il Patriarca stesso citato nei versi del poeta occitanico, e cui rispose il troviero Conon de Béthune nella sua tenzone immaginaria con una donna che rivolge l’accusa di iresie all’amante da cui è stata abbandonata. La studiosa britannica ritiene che nei suoi versi Conon accusi il Patriarca non solo di eresia ma anche di sodomia: l’intero scambio di testi s’inserirebbe perciò in un preciso quadro politico e dimostrerebbe, qualora ve ne fosse ancora bisogno, quanto l’integrazione tra poesia e storia sia stata profonda (anche) nei secoli di mezzo. L’ipotesi è credibile e ben costruita ma a nostro avviso P. avrebbe dovuto schivare il rischio di trasferire nel passato la concezione moderna di omosessualità 5 . 300 Besprechungen - Comptes rendus 3 A tal proposito si vedano M. Balard, «Byzance vue de l’Occident», in: J. Le Goff/ J.-C. Schmitt, Dictionnaire raisonné de l’Occident médiéval, Paris 1999: 126-35; J.-C. Payen, «L’image du Grec dans la chronique normande: sur un passage de Raoul de Caen», in: Images et signes de l’Orient dans l’Occident médiéval, Aix-en-Provence 1982: 269-80; E. Albu, «Norman Views of Eastern Christendom: From the First Crusade to the Principality of Antioch», in: V. P. Goss/ C. V. Bornstein (ed.), The Meeting of Two Worlds. Cultural Exchange between East and West during the Period of the Crusades, Kalamazoo 1986: 115-21; J. Flori, «Oriens Horribilis . . .Tares et défauts de l’Orient dans les sources relatives à la première croisade», in: J. Flori, Croisade et chevalerie. XI e -XII e siècles, Paris 1998: 179-94; A. Nicolaou-Konnari, «Strategies of Distinction: the Construction of the Ethnic Name Griffon in the Western Perception of the Greeks (12 th -14 th centuries)», Byzantinistica 4 (2002): 181-96. 4 Alla bibliografia specifica citata da Tougher si aggiunga il volume di K. Ringrose, The Perfect Servant. Eunuchs and the Social Construction of Gender in Byzantium, Chicago 2003. 5 Su questo si vedano ad esempio le considerazioni di M. Foucault, Histoire de la sexualité. La volonté de savoir, Paris 1976: 59; J. Flori, Pierre l’Ermite et la première croisade, Paris 1999: 206; J. Boswell, Les unions du même sexe dans l’Europe antique et médiévale, Paris 1996; J. Boswell, Christianisme, tolérance sociale et homosexualité. Les homosexuels en Europe occidentale des débuts de l’ère chrétienne au XIV e siècle, Paris 1985. Sul concetto di effeminatezza si rinvia invece a G. P. J. Epp, «The Vicious Guise: Effeminacy, Sodomy and Mankind», in: J. J. Cohen/ B. Wheeler (ed.), Becoming Male in the Middle Ages, New York 1997: 303-20 (in particolare: 304, 307, 310). Jonathan Harris, Collusion with the Infidel as a Pretext for Western Military Action Against Byzantium (1180-1204), ha sondato la ben nota accusa di tradimento e di collusione con i mussulmani che numerose fonti storiche latine rivolsero alla politica bizantina, giungendo alla conclusione che nella tesa atmosfera bellica di quei decenni ogni azione greco orientale «that were aimed at protecting Constantinople were inevitably seen as a collusion with Muslims against Christian crusaders» (116). Sul tema della mollitia ellenica torna invece Teresa Shawcross, Greeks and Franks Aer the Fourth Crusade: Identity in the Chronicle of Morea, la quale ha scandagliato il prezioso testo annalistico greco, indirizzato ad un pubblico composto da famiglie di origine ellenica e di origine franca ma che ormai avevano formato una comunità «which not only possessed a common identity dividing and distinguishing it from other communities, but which was characterized by political autonomy» (155) e soprattutto che condivideva il medesimo linguaggio (157). Judith R. Ryder nella sua indagine su «Catholics» in the Byzantine Political Elite: The Case of Demetrius Kydones presenta il caso, estremo ma non per questo meno significativo, di Demetrio Kydones, teologo, politico e intellettuale, un esponente di rilievo della nomenclatura bizantina, aperto alle idee che giungevano dal mondo occidentale, tanto da divenire traduttore delle opere dell’Aquinate e sostenitore della posizione papale nella diatriba cattolico-ortodossa. Il terzo gruppo di apporti adunati nella miscellanea si volge verso le terre iberiche, essendo centrati sul tema Western Confrontation with Islam and Judaism in Iberia and the East, prendendo cioè in esame l’ambiente culturale rappresentato da una terra che da secoli era divenuta luogo di scontro, e pertanto anche d’incontro, tra culture diverse, opposte eppure profondamente intrecciate tra loro. Il primo intervento di questa sezione, dovuto alla penna di Karin R. Mathews, è dedicato alle arti visive: in Mamluks and Crusaders: Architectural Appropriation and Cultural Encounter in Mamluk Monuments la studiosa analizza il riflesso che la retorica della jihad ebbe sui monumenti architettonici mammelucchi. Ad un argomento che ha fatto già versare fiumi di inchiostro si volge invece Matthias M. Tischler, il quale nel suo contributo su Modes of Literary Behaviour in Christian-Islamic Encounters in the Iberian Peninsula: Pseudo-Turpin versus Peter the Venerable, indaga come due opere mediolatine, lo Pseudo Turpino e il Contra sectam Saracenorum di Pietro il Venerabile, presentino il rapporto con il mondo mussulmano. I due testi, pur affondando le loro radici nel medesimo ambiente monastico iberico, e specificamente quello cluniacense, sembrano infatti rispecchiare due atteggiamenti differenti. Per quanto riguarda l’autore dello Pseudo-Turpino, infatti, questi legge il duello tra Rolando e Ferragù alla luce della storia biblica di Davide e Golia, secondo l’interpretazione tropologica propria del monachesimo per il quale il duello tra il futuro re d’Israele e il gigante filisteo «is the best prefiguration of the victorious fight of Christ against the Devil» (205), sicché «Roland, the new David, preserves Spain from foreign and pagan dominion» (207). Accanto al duello in armis però, lo Pseudo Turpino riporta anche un duello in verbis, discussione che assume la veste di un dialogo interreligioso, oltre che tentativo di conversione. In questo senso a ragione Tischler accosta la diatriba ad un tipico interrogatorio di un catecumeno che si prepara al battesimo (209-10). Una generazione più tardi il clima intellettuale sarà però in parte differente e ciò grazie all’opera di Pietro il Venerabile ed alle traduzioni da lui promosse di testi mussulmani (in particolare del Corano e dei volgarizzamenti pseudo-islamici inerenti Muhammad): la lotta agli errori dell’Islam andava fondata, nella visione del grande abate cluniacense, «through reason and rational argumentation» (213), e non, si badi bene, su una «non-violent intellectual alternative to war and crusade», bensì attraverso la via obbligata del confronto. Obbligata, in quanto il pubblico cui egli indirizzò i suoi trattati era formato da monaci e non da quei laici che, come Carloma- 301 Besprechungen - Comptes rendus gno o Rolando, potevano (dovevano) usare altre armi oltre alla ragione ed alla scienza.Armi e predicazione sono anche i due strumenti utilizzati da Rodrigo Jimenez de Rada, autore di un cardine della storiografia iberica, la Historia Gothica, ad una cui parte, la Historia Arabum, è dedicato il testo di Matthias Maser, Rodrigo Jiménez de Rada and his Historia Arabum: An Extraordinary Example of Inter-cultural Tolerance? . Nel suo articolo lo storico tedesco analizza quest’opera, alla quale si è guardato come ad un caso tanto straordinario da essere definito unico, per la prospettiva con cui essa considera il suo oggetto «without any religious zeal» (228). Maser però a buona ragione dimostra che tale atteggiamento è da attribuire alle fonti (arabe) utilizzate dal vescovo iberico più che non al suo personale sentimento: Rodrigo «only translated into Latin the historiographical self-perception of the Muslim community of Al-Andalus» (232) e il prologo della Historia Arabum prova che il pensiero di Rodrigo sul mondo mussulmano e sugli storici di lingua araba era tutt’altro che benevolo (233). Identico atteggiamento sembra essere alla base anche del ritratto che egli ci fornisce del profeta Maometto, raffigurazione che si distanzia notevolmente dai consueti stereotipi medievali (233-34), e che potrebbe essere stata tratta «on the authentic Muslim tradition about the prophet and his actions» (235): Rodrigo cioè accedette a fonti storicamente ben informate e questo gli evitò anche di cadere in alcuni tra gli errori in cui invece inciampò buona parte della storiografia mediolatina. Una lettura puntuale delle pagine dedicate dal prelato al profilo del fondatore della religione mussulmana permette a Maser, infatti, di notare come Rodrigo partecipi pienamente dell’ostilità espressa dai suoi contemporanei nei confronti del mondo arabo (237). Conclude questa raccolta il contributo che Wolfram Drews riserva al tema della Integration or Exclusion of Judaism in the Later Middle Ages? The Apologetic Strategies of Ramón Llull, e nel quale l’opera del primo grande autore della letteratura catalana è indagata alla luce della posizione di frontiera che egli occupa nella storia intellettuale del XIII secolo, punto di snodo tra le diverse tradizioni monoteistiche, reperendo nei suoi testi una linea di cambiamento che lo portò da un certo irenismo verso posizioni più dogmatiche. In definitiva, nonostante qualche limite e qualche punto da sottoporre a revisione, non si può che accogliere con favore l’uscita di questo volume capace di lanciare, per di più corredandoli di una degna veste tipografica, sguardi nuovi su un tema tanto vasto e interessante. Gerardo Larghi ★ Cécile Le Cornec-Rochelois/ Anne Rochebouet/ Anne Salamon, Le texte médiéval. De la variante à la recréation, Paris (Presses de l’Université Paris-Sorbonne) 2012, 274 p. Da lungo tempo i filologi s’interrogano e dibattono attorno allo statuto della variante, dividendosi tra chi la considera un errore da espungere e chi ne fa solo il segno linguistico di uno status evolutivo del testo; i primi tra costoro sono dediti fondamentalmente a migliorare il cosiddetto metodo del Lachmann, affinandolo e rendendolo sempre più sensibile alla natura delle variazioni, al contesto storico, culturale, codicologico, paleografico che le ha generate. Il secondo gruppo di ricercatori sembra invece arroccato intorno al metodo Bédier ma, resi inquieti dal problema della identificazione del «meilleur manuscrit», sono stati inesorabilmente portati ad allocare la scelta su esemplari studiati con sempre maggior precisione. In questa situazione bipolare poi, le riflessioni di Paul Zumthor e Bernard Cerquiglini, pur oggetto di critiche e giudizi contrastanti, e per quanto siano state le scaturigini di scelte editoriali non pienamente condivise e condivisibili, hanno ulteriormente arricchito la bisaccia che ogni filologo e storico della letteratura deve portare con sé quando affronta l’ardua prova rappresentata dalla edizione critica di un testo. In altri termini, trascorsi i tem- 302 Besprechungen - Comptes rendus