Vox Romanica
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2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniCécile Le Cornec-Rochelois/Anne Rochebouet/Anne Salamon, Le texte médiéval. De la variante à la recréation, Paris (Presses de l’Université Paris-Sorbonne) 2012, 274 p.
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Gerardo Larghi
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gno o Rolando, potevano (dovevano) usare altre armi oltre alla ragione ed alla scienza.Armi e predicazione sono anche i due strumenti utilizzati da Rodrigo Jimenez de Rada, autore di un cardine della storiografia iberica, la Historia Gothica, ad una cui parte, la Historia Arabum, è dedicato il testo di Matthias Maser, Rodrigo Jiménez de Rada and his Historia Arabum: An Extraordinary Example of Inter-cultural Tolerance? . Nel suo articolo lo storico tedesco analizza quest’opera, alla quale si è guardato come ad un caso tanto straordinario da essere definito unico, per la prospettiva con cui essa considera il suo oggetto «without any religious zeal» (228). Maser però a buona ragione dimostra che tale atteggiamento è da attribuire alle fonti (arabe) utilizzate dal vescovo iberico più che non al suo personale sentimento: Rodrigo «only translated into Latin the historiographical self-perception of the Muslim community of Al-Andalus» (232) e il prologo della Historia Arabum prova che il pensiero di Rodrigo sul mondo mussulmano e sugli storici di lingua araba era tutt’altro che benevolo (233). Identico atteggiamento sembra essere alla base anche del ritratto che egli ci fornisce del profeta Maometto, raffigurazione che si distanzia notevolmente dai consueti stereotipi medievali (233-34), e che potrebbe essere stata tratta «on the authentic Muslim tradition about the prophet and his actions» (235): Rodrigo cioè accedette a fonti storicamente ben informate e questo gli evitò anche di cadere in alcuni tra gli errori in cui invece inciampò buona parte della storiografia mediolatina. Una lettura puntuale delle pagine dedicate dal prelato al profilo del fondatore della religione mussulmana permette a Maser, infatti, di notare come Rodrigo partecipi pienamente dell’ostilità espressa dai suoi contemporanei nei confronti del mondo arabo (237). Conclude questa raccolta il contributo che Wolfram Drews riserva al tema della Integration or Exclusion of Judaism in the Later Middle Ages? The Apologetic Strategies of Ramón Llull, e nel quale l’opera del primo grande autore della letteratura catalana è indagata alla luce della posizione di frontiera che egli occupa nella storia intellettuale del XIII secolo, punto di snodo tra le diverse tradizioni monoteistiche, reperendo nei suoi testi una linea di cambiamento che lo portò da un certo irenismo verso posizioni più dogmatiche. In definitiva, nonostante qualche limite e qualche punto da sottoporre a revisione, non si può che accogliere con favore l’uscita di questo volume capace di lanciare, per di più corredandoli di una degna veste tipografica, sguardi nuovi su un tema tanto vasto e interessante. Gerardo Larghi ★ Cécile Le Cornec-Rochelois/ Anne Rochebouet/ Anne Salamon, Le texte médiéval. De la variante à la recréation, Paris (Presses de l’Université Paris-Sorbonne) 2012, 274 p. Da lungo tempo i filologi s’interrogano e dibattono attorno allo statuto della variante, dividendosi tra chi la considera un errore da espungere e chi ne fa solo il segno linguistico di uno status evolutivo del testo; i primi tra costoro sono dediti fondamentalmente a migliorare il cosiddetto metodo del Lachmann, affinandolo e rendendolo sempre più sensibile alla natura delle variazioni, al contesto storico, culturale, codicologico, paleografico che le ha generate. Il secondo gruppo di ricercatori sembra invece arroccato intorno al metodo Bédier ma, resi inquieti dal problema della identificazione del «meilleur manuscrit», sono stati inesorabilmente portati ad allocare la scelta su esemplari studiati con sempre maggior precisione. In questa situazione bipolare poi, le riflessioni di Paul Zumthor e Bernard Cerquiglini, pur oggetto di critiche e giudizi contrastanti, e per quanto siano state le scaturigini di scelte editoriali non pienamente condivise e condivisibili, hanno ulteriormente arricchito la bisaccia che ogni filologo e storico della letteratura deve portare con sé quando affronta l’ardua prova rappresentata dalla edizione critica di un testo. In altri termini, trascorsi i tem- 302 Besprechungen - Comptes rendus pi della contrapposizione ideologica, a chi guarda con attenzione alla questione ecdotica non può sfuggire che se in origine vi furono due campi l’un contro l’altro armati, oggi il panorama è assai più variegato e le due antiche scuole si sono lentamente avvicinate, i contendenti sono stati sempre meno portati ad assumere il proprio come il punto di vista univoco e totalizzante, e invece sono stati sempre più indotti ad arricchire la loro riflessione con suggerimenti e scandagli maggiormente raffinati. La mobilità stessa del testo medievale, sia essa definita mouvance o variance, non appare più come il comodo rifugio di chi rifugge dalla noiosa e meticolosa indagine sulla varia lectio, di chi vaga lontano dalla fase di confronto e raccolta dei dati testuali e dalla loro sistemazione in un ipotetico stemma codicum, ma rappresenta uno strumento con cui dar conto di una reale condizione storica: spostando l’attenzione dalla nascita del testo al suo divenire, l’indagine assume una prospettiva dinamica, si concentra sull’evoluzione e sul mutare più che sul momento della genesi, tuttavia non per questo si rivela meno utile di quelle lachmanniana o bédieriana. Se pure non applicabile a ogni tradizione manoscritta, essa consente infatti di affrontare l’analisi testuale con robusti e adeguati arnesi, di comprendere e anatomizzare le tracce che la circolazione di un’opera ha depositato sulla tradizione manoscritta, fossero queste impronte di ordine testuale, paleografico, paragrafematico, linguistico, ideologico, semantico, interpretativo e via discorrendo. Partendo dalla giusta considerazione che ogni lettore, ogni scriba ha inteso il testo che gli si poneva di fronte, l’ha adattato ai propri bisogni, la mouvance/ variance ci ricorda che la riproduzione testuale non è stata quasi mai cieca e sorda. Era dunque profondamente sbagliata quella sorta di parodia del Medioevo che emergeva in alcuni studi, particolarmente quelli di strettissima osservanza lachmanniana, secondo cui i secoli di mezzo avrebbero affidato solo a copisti ignoranti, quando non stupidi, il compito di trascrivere le opere classiche o contemporanee. Il passaggio da un manoscritto all’altro, da una lingua all’altra, da un dialetto all’altro, da un lettore all’altro, sono state, infatti, altrettante occasioni per adattare il testo o con interventi sul codice (non si deve dimenticare l’importanza che ebbero i segni di lettura, le capitali iniziali, la punteggiatura), o con annotazioni esegetiche, o anche con riscritture, ampliamenti e scorciamenti testuali. Il volume collettivo dato alle stampe da Anne Salamon, Anne Rochebouet e Cécile Le Cornec Rochelois, ha inteso proprio fare il punto su questo stato di perenne variazione cui il testo manoscritto, ma non solo esso come si vedrà, è stato sottoposto nel corso dei secoli. Il tema è trattato sotto diversi punti di vista. Un ruolo preminente occupa ovviamente la questione ecdotica alla quale non a caso è dedicata, ad apertura di libro, la riflessione che Patrick Moran pubblica intorno al tema Le texte médiéval existe-t-il? Mouvance et identitè textuelle dans les fictions du XIII e siècle, e nel quale lo studioso della Sorbonne, dopo aver accostato i modelli che nell’arco di due secoli sono stati utilizzati per visualizzare le relazioni tra un testo medievale e le sue copie (rispettivamente il modello archéologique, quello essentialiste e quello nominaliste), e dopo aver constatato come il cammino percorso abbia in ultima analisi condotto a considerare i singoli manoscritti come la sola realtà scritturale possibile (19), giunge alla conclusione che quando ci si confronti con la realtà medievale è «vain de chercher le texte médiéval . . . mais . . . aussi de vouloir faire l’économie de la notion de texte» (24), e a proporre non più l’albero (e dunque lo stemma) come strumento per rappresentare i rapporti tra i testimoni, bensì «une textualité sur le mode du réseau . . . sans centre ni pôle, mais où les éléments matériels seraient liés les uns aux autres au sein de nuages ou d’ensembles» (25). Dal nostro punto di vista anche tale suggerimento presenta qualche limite, se non altro perché lo strumento proposto non riesce a dar conto dei rapporti che possono essersi stabiliti tra i diversi manoscritti: anche l’albero stemmatico, certo, non riassume in sé ogni elemento della tradizione, ma esso resta pur sempre, ad oggi, l’espediente meno impreciso per visualizzare il cammino che un testo o, meglio, che il testo 303 Besprechungen - Comptes rendus così come noi pensiamo esso possa essere uscito dalle mani dell’autore, ha percorso lungo le strade del tempo. Se proprio un «insieme» (o cloud come oggi si usa dire con termine tratto dal mondo di internet) deve essere, allora forse esso dovrà assumere anche l’ulteriore dimensione della profondità cronologica, direttrice indispensabile lungo la quale collocare il cammino percorso dal testo: rinunciare a priori a stabilire questo tragitto significa inibirsi anche la possibilità di identificare gli influssi esercitati dal testo esaminato lungo il suo viaggio. D’altronde, come mostrano i contributi di Stefania Maffei, Mouvance de l’œuvre, fixation du texte: essai d’édition critique de quelques passages de Guillaume d’Angleterre, di Oreste Floquet e Sara Centili, Pour une grammaire de la mouvance: analyse linguistique de quelques structures adiaphores, e di Gilles Roussineau, De l’utilité des variantes pour l’édition de textes, cercare di stabilire l’autenticità di un testo non è mai fatica inutile, e non si può non concordare con chi sostiene che «la démarche qui consiste à ignorer délibérément une partie de la tradition manuscrite est bien plus réductrice» (30). Incrociare l’analisi della situazione variantistica con i dati della tradizione manoscritta, sfuggire alle trappole dell’applicazione meccanica dei principi lachamanniano-maasiani senza però rinunciare a essi, insomma «appliquer la méthode allemande avec moins d’idéalisme que Foerster» (33), può permettere agli studiosi, infatti, di ottenere una migliore conoscenza del testo medievale, isolando distici presumibilmente interpolati (36-8), lemmi linguisticamente arcaici e dunque espunti dalla tradizione successiva (33-36), brani nei quali la lectio difficilior è rappresentata dal referente meno prossimo al luogo di tensione (anche se andrebbe forse sfumata in senso meno deterministico un’espressione come quella che si trova a p. 58 per cui «le sous-ensemble est toujours plus marqué que l’ensemble qui le contient, et donc plus proche de l’original»). A ragione dunque Roussineau sostiene (proseguendo peraltro sulla strada intravvista da Contini) che le varianti, anche quelle adiafore, non sono mai un problema ma che esse rappresentano piuttosto una risorsa cui l’editore di testi deve ricorrere «pour limiter la part de sujectivité inhérente à l’édition» (77). Come noto da tempo la nozione di Urtext applicata alla lirica medievale è stata al centro di critiche e di discussioni: a ragione si è parlato di possibilità di originali plurimi, o affidati non tanto alla pergamena quanto alla voce o al canto. Ne è discesa anche una critica al concetto di Urcodex, o archetipo, fonte e origine dello stemma codicum: anche in questo caso non si è esclusa l’eventualità di una pluralità di archetipi indipendenti gli uni dagli altri, di scriptoria che si organizzarono autonomamente per conservare le poesie, fossero queste singoli esemplari o gruppi di liriche. Ovviamente non si deve mai escludere tali eventualità, ma il problema per ogni filologo sta proprio nel provarne l’esistenza rispetto a quella determinata e specifica tradizione i cui dati egli è chiamato a razionalizzare. Le scelte sul metodo da utilizzare per pubblicare un certo testo devono essere conseguenti alla classificazione di tutto il materiale esistente, e mai precederla. D’altra parte è accertato che anche il Medioevo volgare fece uso di archetipi, come dimostra il caso esaminato in Matthieu Marchal, Variations lexicales et édition: étude comparée des deux témoins manuscrits de Gérard de Nevers, mise en prose du Roman de la Violette, inerente cioè a un’opera, la versione in prosa del Roman de la Violette, per la quale a ragione si è parlato di un antigrafo unico, contenente già errori di copia e trascrizione, da cui sarebbero discesi i due testimoni che oggi ci conservano l’opera tratta dai versi di Gerbert de Montreuil (81). Insomma mouvance testuale e stemma codicum non sono necessariamente concetti alternativi tra loro, veicolando anzi informazioni che quasi sempre collaborano a illuminare la strada percorsa da un determinato testo e le tappe della sua evoluzione, fornendo ragguagli tra loro complementari e destinati a soddisfare le esigenze diverse di linguisti, filologi e storici della letteratura. Proprio quest’aspetto è messo in luce dall’intervento Le linguiste et la variante: quelle(s) leçon(s) en tirer? , nel quale Thomas Verjans evidenzia che le varianti «sont autant de possibilités permises par le système qu’est la langue, et leur prise 304 Besprechungen - Comptes rendus en considération devient ainsi un lieu d’observation privilégié de la réalité linguistique médiévale» (91), rappresentando esse «autant d’indices de l’évolution de la langue» (92): i casi chiamati a esemplificare tale assunto e studiati nell’articolo (quant con valore causale in luogo di car, il più arcaico cumfaitement per l’innovativo maintenant, la sostituzione della locuzione devant ce que con avant que), dimostrano l’utilità delle varianti per la linguistica diacronica, oltre che l’importanza che esse assumono come elemento probatorio dell’esistenza di una determinata tradizione manoscritta (99). Se questo concetto è applicabile alle opere conservate in codici manoscritti, esso non è estraneo neppure ai testi conservati negli incunaboli, i quali lungi dall’essere gelosi custodi di edizioni ne variatur, furono invece, come ben mostrano le analisi di Christine Silvi, La mouvance du livre imprimé en français: l’exemple des incunables du «De proprietatibus rerum» de Barthélemy l’Anglais dans la traduction de Jean Corbechon, ricettacolo di innumeri interventi a opera di tipografi, correttori, e anche dell’autore stesso. Gli strumenti tecnici cioè, lungi dall’eliminare gli errori e le varianti, ne modificarono solo la natura: anche allora, come oggi, «l’édition est un choix» (126). Sia che si voglia usare la nozione di variance sia che si preferisca il principio della mouvance, è certo però che entrambe rendono conto di due precise realtà testuali medievali. I copisti, infatti, soprattutto davanti a testi in volgare, non si limitarono a trasferire le parole, ma nei riguardi del loro esemplare ebbero di norma un atteggiamento attivo, partecipativo. Illuminante in questo senso l’analisi condotta da Nathalie Koble, L’intratextualité inventive: la singularité critique d’un compilateur de lais (Paris, B.N.n.a.f. 1104), la quale dimostra come le varianti testuali rispondano in massima parte a bisogni, programmi culturali, atteggiamenti mentali propri del copista che tenta «d’inscrire dans sa copie sa propre expérience de lecture» (131). In tale ottica i singoli mutamenti rappresentano altrettante tracce di letture critiche condotte sul testo secondo punti di vista individuali e che hanno lasciato impronte di sé tanto con amplificazioni o scorciamenti testuali, quanto nei margini dei folii attraverso segni paragrafematici (134). Se tali sono i risultati ottenuti dalle indagini condotte su testi due e trecenteschi, il panorama non muta quando ci si sposti più avanti nel tempo e ci si confronti invece con opere medio-francesi, come fanno Olivier Delsaux, Variantes d’auteur ou variance de copiste: «l’escripvain» en moyen français face à la mouvance de ses manuscrits, Stefania Cerrito, Entre Ovide et Ovide moralisé: la variance des traductions des Métamorphoses au Moyen Âge et à la Renaissance, e Florence Tanniou, Les variantes et le sens de la réécriture dans les versions du Landomata, ovvero quando accanto all’elemento testuale si introducano nella riflessione anche i dati desumibili dalle illustrazioni, dalle miniature, tema cui sono dedicati i contributi di Sandrine Hériché-Pradeau, «Ceste lame n’ert ja levee» ou l’esthétique du retable dans le Lancelot propre, Irène Fabry, L’ambassade du roi Loth et de ses fils auprès des barons rebelles: variations iconographiques (BnF fr. 105 et 9123), e Matthieu Verrier, Variations sur le mythe d’Actéon dans les enluminures de l’Ovide moralisé et de l’Epistre Othea. In conclusione la miscellanea rilancia la riflessione su un argomento che pur ha già fatto versare molto inchiostro, non aprendo però realmente nuove strade alla scienza ecdotica: che si assuma l’approccio post-bédierista o quello propugnato dalla new philology, in ultima analisi la scelta dell’editore resta comunque ancora quella tra intervenire mescidando, secondo criteri più o meno deterministici, uno (o più) manoscritti e quella di dare alle stampe la lezione trasmessa da un testimone solo. Se l’informatica oggi ci consente di rappresentare meglio la mouvance di un testo medievale o l’aspetto materiale del codice che lo veicola, essa però non ci dice nulla circa lo status dei versi al momento in cui furono composti. Per questo si deve ricorrere ancora all’acribia del filologo, il quale potrà allora scegliere tra diverse opzioni: lachmaniana, post-lachmaniana, bédierista, post-bédierista, l’edizione sinottica, semi-diplomatica, informatizzata, ma nell’optare per uno di questi strumenti 305 Besprechungen - Comptes rendus egli dovrà sempre essere guidato soprattutto da una stringente analisi della tradizione manoscritta. Dai contributi raccolti nel bel volume delle Presses Universitaires Paris-Sorbonne, emerge, in ultima analisi, l’indubbia centralità rivestita dalla recensio in una qualsiasi operazione filologica, sia quest’ultima di ordine ecdotico, linguistico, letterario, o storico. Gerardo Larghi ★ Anja Platz-Schliebs/ Katrin Schmitz/ Natascha Müller/ Emilia Merino Claros, Einführung in die Romanische Sprachwissenschaft. Französisch, Italienisch, Spanisch, Tübingen (Narr) 2012, 334 p. Die Einführung in die Romanische Sprachwissenschaft: Französisch, Italienisch, Spanisch stammt von vier an der Universität Wuppertal beschäftigten Romanistinnen, den Sprachwissenschaftlerinnen Katrin Schmitz und Natascha Müller, der Literaturwissenschaftlerin (und zugleich Lektorin für Sprachpraxis) Emilia Merino Claros und Anja Platz-Schliebs, die als Bibliotheks-Fachreferentin für Romanistik tätig ist. Die Autorinnen haben die einzelnen Kapitel untereinander aufgeteilt; lediglich das Kapitel 2 hat drei Autorinnen. Auf ein kurzes Vorwort (10-12) folgt das erste, von Natascha Müller stammende Kapitel «Die Wissenschaft vom sprachlichen Wissen» (13-51), in dem die Bereiche Spracherwerb, Psycholinguistik, Neurolinguistik und Soziolinguistik vorgestellt werden. Es schließen sich sechs für eine Einführung in die romanische Sprachwissenschaft «klassische» Kapitel an: «2. Phonetik und Phonologie» (52-86) (N. Müller, A. Platz-Schliebs, K. Schmitz), «3. Morphologie» (87-133) (A. Platz-Schliebs), «4. Die Romania: ihre Sprachen und Varietäten» (134-82) (K. Schmitz), «5. Semantik» (183-218) (K. Schmitz), «6. Syntax» (219-61) (N. Müller) und «7. Pragmatik» (262-83) (N. Müller). Die ungewöhnlich anmutende Mittelposition des Romania-Kapitels rührt daher, dass in diesem viele zuvor erläuterte Fachbegriffe vorausgesetzt werden. Die sieben linguistischen Kapitel werden ergänzt durch ein Kapitel «Sprachwissenschaft und Literaturwissenschaft: Berührungspunkte» (Kap. 8, 284-99) (E. Merino Claros) und ein Kapitel «Arbeitstechniken für Linguisten» (Kap. 9, 300-24) (A. Platz-Schliebs), beide Kapitel stellen eine durchaus sinnvolle Erweiterung des üblichen Gegenstandsbereichs von Einführungen in die romanische Sprachwissenschaft dar. Jedes Kapitel schließt mit Aufgaben 1 und mit speziellen bibliographischen Angaben zum jeweiligen Thema. Am Ende des Buches findet sich ein umfassender Index (325-34). Eine - meiner Ansicht nach positive - Besonderheit im Vergleich zu anderen Einführungswerken ist, dass die Autorinnen in den verschiedenen Kapiteln immer wieder empirische Belege aus dem Erstspracherwerb der romanischen Sprachen anführen. Mitunter werden ganze dem Erstspracherwerb gewidmete Unterkapitel eingeflochten, z. B. gibt es bei der Morphologie einen Abschnitt zur «Komposition im Erstspracherwerb» und bei der Semantik ein spezielles Unterkapitel zum Thema «Kind und Welt: Aufbau des Wortschatzes im Erstspracherwerb». Aber auch in anderen Kapiteln wie z. B. demjenigen zur Syntax werden wiederholt Bezüge zu diesem Gebiet hergestellt. Die Einführung ist sehr verständlich und in einem erfrischenden Ton geschrieben; sie überzeugt durch ihre Anschaulichkeit. Dass häufiger andere in den letzten Jahren erschie- 306 Besprechungen - Comptes rendus 1 Die Lösungen der Aufgaben sollen angeblich auf dem Server des Narr-Verlags stehen, doch bisher (Stand: August 2012) wird man dort nicht fündig.