eJournals Vox Romanica 72/1

Vox Romanica
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2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2013
721 Kristol De Stefani

Valeria Bertolucci Pizzorusso, Scritture di viaggio. Relazioni di viaggiatori e altre testimonianze letterarie e documentarie, Roma (Aracne Editrice) 2011, 304 p.

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2013
Massimo  Danzi
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Italoromania et Ladinia Valeria Bertolucci Pizzorusso, Scritture di viaggio. Relazioni di viaggiatori e altre testimonianze letterarie e documentarie, Roma (Aracne Editrice) 2011, 304 p. Questa raccolta di scritti, apparsi sull’arco di vent’anni (1988-2008), fa centro sull’autore del Milione e la sua opera, al quale rinviano almeno 7 dei 13 saggi, i restanti essendo dedicati a questioni di metodo o ad altri autori implicati nella letteratura di viaggio. Uno dei principali interessi del libro di Valeria Bertolucci Pizzorusso è, del resto, affidato alla sicura conoscenza di testi odeporici tra Duee Cinquecento, che permette di calibrare il discorso su Marco Polo entro il lungo periodo e con grande varietà di panorami storico-geografici. Un altro è costituito dalla dimensione storico-filologica alla quale è sottomessa e costantemente verificata ogni ipotesi sullo «statuto» testuale delle narrazioni, sugli autori e sui redattori, che spesso collaborano con gli autori in questo genere di letteratura: temi, che costituiscono il filo rosso di un libro che si apprezza per intelligenza di metodo e per godibilissima lettura. Fin dalla premessa, l’autrice identifica il punto di vista privilegiato, che la porta a «enucleare e descrivere lo specifico «statuto testuale» delle singole testimonianze», con un’attenzione originale alla «fisionomia di scrittura di ognuna di esse» e dunque al loro «aspetto linguistico e filologico» (5-6). Si parte da pagine alte sulla certificazione autoptica di retaggio classico e specialmente erodoteo. La Bertolucci Pizzorusso sottolinea come l’autopsia, principalmente visiva e poi uditiva (come voleva Aristotele, e come è poi nel padre della storiografia Erodoto), costituisca una delle strategie testuali maggiori della «relazione di viaggio», che da lì si diffrange in altri «generi» come la biografia e l’autobiografia (strettamente connessa alla relazione) o il romanzo cortese in prosa. Questa strategia, sul lungo periodo, è personalmente fatta propria, strapazzata o assecondata (a seconda dei testi), da autori come Luciano di Samosata (II sec.) o François Rabelais. Brillante è qui la riconduzione ad un esercizio di parodia del topos della figura del vecchio gobbo e mostruoso «Ouydire» (‘sentito-dire’), che tiene scuola di testimonianza nel Cinquième Livre di Rabelais (17-19). Al topos, l’Autrice riconosce una «collocazione pressoché fissa» nei testi (liminare o finale: 20) e una funzione di sigillo redazionale, poiché la sua inserzione connota spesso il passaggio da una redazione «privata» degli appunti di viaggio a una redazione pubblica se non «definitiva» (14 e 125). L’analisi di «ogni impronta d’autore o meglio del soggetto (o dei soggetti) della scrittura» (30) è condotta, nel capitolo II, privilegiando il testo francese della cosiddetta redazione «genovese» ma senza disconoscere le versioni volgari (di quella toscana trecentesca, la studiosa ha dato l’edizione critica nel 1975 presso Adelphi) e subito fa centro su quel «patto di collaborazione» tra Marco Polo e Rustichello da Pisa (l’altra grande presenza del libro), che è un elemento singolare della facies testuale del Milione. Osservato, del resto, che il titolo più probabile della più antica redazione (Divisament dou monde) riporta l’opera nel solco della tradizione enciclopedica più che non dei ricordi personali o delle relazioni di viaggio, l’accento cade su ciò che la Bertolucci Pizzorusso definisce il «sistema delle voces e delle modalità temporali ad esse legate» (34): dove il nos di autore e redattore (di cui l’esito è il notre livre) si sfrangia nella terza persona assunta dal Polo e nella prima attribuibile invece a Rustichello, entro una narrazione che - sullo sfondo di Genette - la studiosa definisce «autodiegetica» per il primo («autore-narratore-protagonista») e «eterodiegetica» per il secondo («redattore del testo»). Sono pagine di grande finezza, feconde perché il metodo è esportabile ad altre narrazione odeporiche, nelle quali l’Autrice analizza separatamente il prologo e il libro.Al primo, formato dai capitoli II-XIX («je vous ai con- 313 Besprechungen - Comptes rendus té le fat du prolegue», esplicita il narratore a XIX, 55) 1 , è affidata la vicenda biografica dei Polo e di Marco in particolare, nonché la necessaria, strategica costruzione dell’«attendibilità» dell’autore, che così come ha guadagnato la fiducia del Gran Cane dei Tartari avrà, a questo punto, anche la fiducia del lettore (45). Al secondo (44-67) è demandata la vera e propria descrizione dei luoghi, affrontata attraverso l’analisi dei tempi verbali e dei pronomi personali. Dal passato del prologo si passa al presente della descrizione etnogeografica, nel mentre si vivacizzano i riferimenti al vos del destinatario. Percorso il «prologo», l’analisi del sistema pronominale attuata sul testo francese (je/ il/ nos/ vos) mostra più di un’oscillazione nel «libro», dove al Polo anche compete a volte il pronome di prima persona singolare. Una instabilità - va detto - che nella versione trecentesca dell’«ottimo» alleggerisce il dettato di vari elementi (in sintonia con la tradizione volgare discesa dal testo francese): cadono, per es., molti cenni al «plurale collaborativo» («en nostre livre») o riserve di carattere religioso (per es. quelle sulla tomba di Adamo: versione francese cap. 179, 65) o giunte «spontanee» del tipo registrato a p. 58 «que j’avoie dementiqué» o ancora modalità linguistiche che, nel testo francese, assecondavano, per es. (come dimostrano le p. 59-60) la logica dell’«itinerario» nelle parti più poliane e geoetnografiche del testo. L’attenzione al sistema performativo della versione francese è messa mirabilmente a frutto nel serrato confronto, proposto nel cap. III, tra l’esordio del romanzo di Rustichello, già noto come Meliadus (e oggi leggibile nella bella e privata edizione pisana curata da Fabrizio Cigni nel 1994) e quello del Milione francese, dove - a distanza di ventisette anni dalla prova arturiana (1272) - Rustichello passa da autore a redattore e il gioco delle «voci» si complica notevolmente. Nel seguito (Lingue e stili nel Milione, cap. IV), il francese fortemente mescidato di italianismi di Rustichello è posto al centro di importanti interrogativi e considerazioni maturate sulla base del confronto con la lingua del romanzo arturiano, quale permette l’edizione Cigni. Il capitolo che segue allarga all’affascinante tradizione volgare primotrecentesca, toscana e veneta, nonché alla appena più tarda traduzione latina del domenicano Francesco Pipino da Bologna (1310-17): versione che rimedia all’esclusione, sancita nel proemio di Rustichello, della società litterata del clero, delle università e del mondo scientifico dando al testo la forma di un vero trattato etnografico, funzionale alle ragioni e alle strategie dell’ordine domenicano, il cui titolo diviene De consuetudinibus et conditionibus orientalium regionum. E, sulla stessa linea, si pone il cap. VI in cui l’Autrice discute nuovi interventi di natura linguistica e filologica relativi alle redazioni volgari del testo contestando in particolare l’ipotesi della indipendenza della versione latina di fra’ Pipino dalla redazione veneta, presentata nel 1993 da Barbara Wehr (116-25). Si diceva del «patto di collaborazione» tra Marco Polo e Rustichello da Pisa, che è l’altra importante presenza del libro. Essa si traduce, nel cap. VII, in un’indagine di grande interesse sullo statuto del redattore nelle descrizioni di viaggi tardomedievali, sullo sfondo dei principali itinerari asiatici del Medioevo (in parte, come è il caso di Ibn Battuta, contemporanei di Marco Polo), la cui tradizione comporta il coinvolgimento di un «redattore» a volte fin entro il piano stesso della «storia» come nella più antica redazione poliana a noi giun- 314 Besprechungen - Comptes rendus 1 È il cap. XIII della versione trecentesca del codice «ottimo» (II iv 88 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze), tale giudicato dalla Crusca, che lo promosse a testo di lingua, manoscritto tenuto a base - con integrazioni per le parti giudicate «mancanti» - dalla vecchia edizione del Ponchiroli (Marco Polo. Il libro di Marco Polo detto Milione nella versione trecentesca dell’«ottimo», a cura di D. Ponchiroli, Torino 1954). La più recente edizione critica della versione toscana, a cura dell’Autrice, tiene invece a base il ms. II iv 36 della stessa biblioteca, giudicato «migliore» e integrato o corretto sulla base di altri quattro codici (Marco Polo, Milione. Versione toscana del Trecento, edizione critica a cura di V. Bertolucci Pizzorusso, Milano 1975 [rist. 1994]). ta, quella appunto «franco-italiana». Di questo discorso, un complemento essenziale è costituito dall’analisi del trattamento che il proemio del testo poliano subisce nelle successive redazioni volgari, nel rifacimento latino e nelle prime edizioni a stampa: dalla princeps veneta del 1496 all’edizione ramusiana del 1559, nelle quali la figura del redattore Rustichello pare a rischio scomparsa. La storia della tradizione di Marco, è il caso dell’ed. veneta del 1496, incrocia d’altra parte la Relatio o Itinerarium che sia di un altro viaggiatore, in Asia tra il 1318 e il 1330: il francescano Oderico da Pordenone, che probabilmente fece in tempo a conoscere il testo di Marco Polo. Il confronto tra i due testi è al centro del denso capitolo VIII e mostra le strategie diverse del francescano, tra agiografia e geoetnografia (centrale è in lui il racconto del martirio di quattro confratelli a Tana, nel 1321), anche quando fa sue modalità e temi del Polo, il cui racconto s’incentrava invece piuttosto sulla figura, la corte e le magnificenze del Gran Khan dei Tartari. Non meraviglia, a questo punto, che seguendo le vicende della vita carsica e meno carsica del testo poliano, l’Autrice affronti anche due moderni rifacimenti, quali la biografia romanzata del Marco Polo di Viktor Š klovskij (1936) e il romanzo de Le città invisibili di Italo Calvino (1972), allo stesso modo (vien da pensare) in cui uno studioso di Leone Africano, ai miei occhi equivalente per l’Africa di Marco Polo e testo pure presente nel Ramusio, potrebbe fermarsi sul romanzo di Amin Malouf. E se - come ricorda l’Autrice a p. 180 - le sceneggiature di Š klovskij e Calvino non vennero realizzate, la vicenda cinematografica di Leone ebbe invece più certa fortuna. L’interesse per quello che l’Autrice chiama il «discorso di scoperta» (189) e la sua langue si allarga, dopo Š klovskij e Calvino, alle grandi scoperte rinascimentali con l’analisi della lettera che il portoghese Pero Vaz de Caminha scrive dal Brasile al suo re Don Manoel nel 1500. Un testo che si colloca al discrimine tra genere espistolare e relazione di viaggio e di cui la studiosa indaga finemente i numerosi «itinerari di senso» (208). Non può essere qui restituita, ovviamente, la complessità della lettura del «sistema semiotico» del testo (206), che si appoggia a opposizioni primarie come quella di spazio/ tempo, di comportamenti/ linguaggio verbale, ritualità del vecchio mondo/ innocenza del nuovo, aggressività/ mansuetudine, ecc. per giungere poi all’analisi diffusa della lingua e dello stile del testo. Le vicende narrate da Caminha sono omologate a uno «spettacolo» dotato di un proprio linguaggio, che inscena l’approccio con l’indigeno della nuova terra del Brasile. E qui, più che altrove nel libro, il linguaggio della studiosa aderisce, con termini come «ripresa», «obbiettivo mobile», «messa a fuoco», «inquadratura», «angolazione» ecc., alla dimensione cinematografica di un testo veramente singolare. L’insieme di questi interventi sul tema odeporico configura non una semplice raccolta di «saggi» ma un vero libro, la cui compattezza si misura avanzando nella lettura e che dall’attenzione prestata allo «statuto» dei testi si allarga all’illustrazione della langue delle relazioni geografiche tra Duee Trecento. In questo movimento, un posto originale spetta a Filippo di Novara, autore di un’opera storica in francese sulla crociata di Federico II composta verso il 1260 nell’Oriente latino e serbata, in tradizione indiretta, entro una cronica trecentesca (nota come Les gestes des Chipriotes), copiata a Cipro nel 1343 e oggi affidata a un unico codice della Biblioteca Nazionale di Torino. L’analisi dettagliata del testo, a livello di struttura, di narrazione e della cultura letteraria che esprime, mostra tutta la vivacità di un autore che, nelle inserzioni di versi qua e là ricuperati dalla sua produzione poetica, sovrappone alla III pers. del narratore in prosa il diverso statuto di poeta-epico in I persona, rispondendo a una scelta che pare prossima a quella delle «razos» provenzali. La rappresentazione di Filippo è partigiana, aderendo l’autore decisamente alle ragioni del signore di Beirut Jean d’Ibelin, avversario dell’imperatore svevo. E l’opera è una buona occasione per uno sguardo che apre, sul tema della crociata e, in modi originali per un lettore europeo, sullo spazio mediterraneo tra Cipro e le coste della Siria. 315 Besprechungen - Comptes rendus Chiude il volume l’edizione di due documenti d’archivio, provenienti rispettivamente dall’Archivio di stato di Venezia e dalle Archives Nationales di Parigi e entrambi riprodotti nel libro (268 e 290), la cui illustrazione erudita si agglutina con naturalezza alle anamnesi testuali fornite nel libro. Il primo documento è il testamento di un commerciante veneziano attivo a Acri, in Palestina, redatto probabilmente a Famagosta in data 22 gennaio 1293 (per il calendario cipriota in vigore, 1294), che nomina un sir Marc Pol (per il quale l’Autrice non esclude la candidatura del viaggiatore, 258) e reca nuovi elementi sulle relazioni che, alla fine del Duecento, possono ricostruirsi tra Venezia e quello spazio d’Oltremare. Il secondo è la versione trecentesca in volgare di una lettera, che il sovrano mongolo Öljeitü, nipote del Gran Cane dei Tartari Kublai Khan di poliana memoria e da poco asceso sul trono persiano, invia nel 1305 al re di Francia Filippo il Bello per rilanciare l’alleanza antimussulmana. L’originale della lettera era edito e tradotto fin dal 1824; non, invece, questa prima coeva versione italiana, che la Bertolucci Pizzorusso colloca linguisticamente a Pisa (281) e inserisce nel panorama delle relazioni documentabili con l’Oriente. Tra i risultati che derivano dall’analisi linguistica del documento, è un profilo socio-culturale dello scrivente che la studiosa propone di identificare nel pisano Ciolo di Anastasio Bofeti, attestato come diplomatico alla corte persiana del padre e poi del fratello di Öljeitü e dunque intermediario autorevole tra Oriente e Occidente proprio in quel breve giro d’anni. Massimo Danzi ★ Stefano Telve, Ruscelli grammatico e polemista: i «Tre discorsi» a Lodovico Dolce, Manziana (Vecchiarelli) 2011, 186 p. Il volume di Stefano Telve è un importante studio monografico dedicato a una delle più e aspre e famigerate polemiche linguistiche del medio Cinquecento italiano: quella che oppose Girolamo Ruscelli a Ludovico Dolce. Nati sulla scia delle schermaglie sorte dall’edizione del Decameron pubblicata dal Ruscelli nel 1552, i Tre discorsi (riprodotti utilissimamente in edizione anastatica in un volume a parte che accompagna questo studio) rispondono alle critiche del Dolce - editore egli stesso del capolavoro boccacciano per il Giolito - mettendo impietosamente sotto accusa l’insieme della sua produzione di editore, grammatico, traduttore. Se il primo dei tre riapre la questione della veste linguistica data al testo del Decameron, il secondo prende in esame le Osservationi della volgar lingua (1550), mentre il terzo non risparmia le Trasformationi, traduzione-riscrittura delle Metamorfosi ovidiane stampate nello stesso 1553. Con questo triplice attacco il Ruscelli intendeva smascherare le manchevolezze del Dolce (diversamente da lui, già ben affermato a Venezia) e allo stesso tempo imporsi come voce autorevole in campo linguistico ed editoriale: ciò che di fatto avvenne. L’importanza dei Tre discorsi va dunque ben al di là di quella che potrebbe avere un astioso instant book scritto nell’ambito di una polemica tra letterati in competizione per fama e danari. La quantità, la diversità, l’acume delle osservazioni del Ruscelli rendono quest’opera, come ricorda Telve (12), la più puntuale definizione delle idee del viterbese in fatto di grammatica e di lingua prima dei Commentarii della lingua italiana, apparsi postumi quasi trent’anni dopo (1581). Nel primo capitolo (Ruscelli polemista, 9-38), dopo aver ricostruito le circostanze all’origine del libro, Telve si sofferma sulle tecniche persuasive messe in atto dal Ruscelli per screditare il rivale agli occhi dei lettori, avanzando le suggestive ipotesi che la prosa vivace e mordente dei Tre discorsi «abbia risentito dello stile della conversazione argomentativa dell’oratoria forense e politica veneziana» (28). Sul piano espressivo, la lingua della critica 316 Besprechungen - Comptes rendus