eJournals Vox Romanica 73/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2014
731 Kristol De Stefani

Claire Meul, The Romance reflexes of the Latin infixes ‑i/esc‑ and ‑idi̯‑. Restructuring and remodeling processes, Hamburg (Helmut Buske Verlag) 2013, 328 p. (Romanistik in Geschichte und Gegenwart 20)

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2014
Marco  Maggiore
vox7310257
1 L’autrice non manca tuttavia di mettere in rilievo casi particolari. Si vedano ad esempio, per quanto riguarda i dialetti dell’Italia meridionale, le considerazioni espresse a p. 77 e passim. Besprechungen - Comptes rendus Philologie et linguistique romane générales - Allgemeine Philologie und romanische Sprachwissenschaft Claire Meul, The Romance reflexes of the Latin infixes i / esc and idi ̯ -. Restructuring and remodeling processes, Hamburg (Helmut Buske Verlag) 2013, 328 p. (Romanistik in Geschichte und Gegenwart 20) Lo studio di Claire Meul prende in esame uno dei problemi più complessi e affascinanti della morfologia verbale romanza, qual è la continuazione, non meno frammentaria che problematica, dei segmenti lat. -i/ esce -idi ̯ - (secondo la rappresentazione grafica adottata dall’autrice, che accogliamo per praticità). Si tratta, come sottolineato in apertura del volume (3), del primo tentativo sistematico di inquadrare i due tratti entro un’indagine monografica unitaria e specifica, benché siano noti da tempo gli elementi che ne accomunano i percorsi evolutivi in seno alle lingue romanze. La bibliografia alla base dello studio è prevedibilmente assai folta, dato l’interesse che il tema ha suscitato presso diverse generazioni di romanisti, da Mussafia a Maiden e oltre: l’intero volume di Meul è percorso da un dialogo serrato con gli studi di settore, che l’autrice sottopone a un vaglio critico fruttuoso e inesauribile, condotto con rigore e lucidità analitica. I meriti della monografia, tuttavia, ci sembrano andare oltre il pur utile lavoro di inquadramento critico e di sistemazione dei dati desumibili dalla letteratura scientifica. Se tra gli apporti originali agli studi si segnala un’indagine monografica sull’odierna situazione dialettale del ladino dolomitico, condotta a partire da inchieste sul campo e accolta nel sesto e più corposo dei sette capitoli di cui si compone lo studio, si dirà in aggiunta che tale contributo è inserito all’interno di una trattazione di spessore e organicità notevoli, entro cui l’autrice riesce a dominare una materia che per sua stessa natura richiede l’applicazione di uno strumentario analitico diversificato: a tale scopo, Meul ricorre agli apporti di numerose branche delle discipline linguistiche (dalla linguistica descrittiva a quella storica e comparativa, dalla sociolinguistica alla dialettologia), dimostrando ripetutamente come un approccio globale, capace di dare conto della correlazione multipla di diversi fattori, possa restituire risultati migliori di un tentativo di interpretazione unilaterale (302). Lo studio, nel complesso, ci sembra pervenire a risultati significativi, che promettono di dare ulteriore impulso a un settore di studi che pure poteva già annoverare contributi di grande spessore. Prima di svolgere ulteriori considerazioni, sarà utile richiamare in breve i problemi principali sollevati dai continuatori romanzi dei segmenti verbali -i/ esce -idi ̯ -. Come l’autrice ricorda nell’introduzione (1), essi vanno soggetti nelle lingue romanze a due trattamenti diversi (e almeno in principio alternativi 1 ) per quel che ne concerne gli schemi di applicazione formale e funzionale: [1] possono generalizzarsi all’interno del paradigma verbale, finendo per ricorrere come morfemi integrati nel tema lessicale («lexically integrated morphemes»): è il caso della classe dei verbi in -ec-er dello spagnolo sul versante dei continuatori di -i/ esc-, o, per gli eredi di -idi ̯ -, del gruppo dei verbi in -eggi-are dell’italiano; [2] possono presentarsi come morfemi flessionali non lessicalizzati («inflectionally-bound Besprechungen - Comptes rendus 258 2 A partire da M. Maiden, «Verb augments and meaninglessness in Early Romance morphology», Studi di grammatica italiana 22 (2003): 1-61. morphemes»), coinvolti nella realizzazione di una particolare sottoclasse flessionale. Entro questa seconda tipologia, l’occorrenza intra-paradigmatica dei riflessi di -i/ esce di -idi ̯ risulta obbligatoria, benché ristretta a un certo numero di forme verbali la cui distribuzione nei diversi paradigmi configura schemi applicativi ricorrenti: è tipicamente il caso dei riflessi di -i/ escnella IV coniugazione dell’italiano o del rumeno, o di quelli di -idi ̯ nella I coniugazione del rumeno, la cui applicazione è notoriamente limitata a una porzione del paradigma, corrispondente alle voci del singolare e alla terza persona plurale del presente indicativo e congiuntivo (lo «N-pattern» individuato da Maiden 2 ); si tratta segnatamente di quelle voci verbali che senza l’inserzione del segmento risulterebbero rizotoniche. Non è peraltro casuale né privo di implicazioni il fatto che, salvo rare e motivabili eccezioni, i due segmenti, nella loro sopravvivenza come morfemi flessionali non lessicalizzati, si applichino rispettivamente a due distinte classi flessive (tendenzialmente le sole produttive nelle lingue romanze): alla I coniugazione i continuatori di -idi ̯ - (che anche come morfemi derivazionali sono implicati nella formazione di verbi della I classe, cf. it. -eggi-are), alla IV coniugazione i riflessi di -i/ esc- (che invece, nel binario parallelo di prosecuzione come morfemi integrati nel tema verbale, sono implicati piuttosto nei tipi flessivi in / e/ : cf. sp. -ec-er). Benché -i/ esce -idi ̯ seguano analoghi binari evolutivi, il loro comportamento varia tuttavia secondo modalità differenziate nelle singole parlate romanze (cf. 202), seguendo inoltre linee di tendenza generali ben diverse: se -i/ esctende a comportarsi come morfema connesso alla flessione, non sopravvivendo come elemento lessicalizzato che in una sezione del dominio romanzo, -idi ̯ si continua quasi ovunque prevalentemente come morfema derivazionale integrato nel tema verbale, ed è una minoranza di varietà a esibirne un impiego flessionale. Una caratteristica importante accomuna tuttavia i continuatori di -i/ esce di -idi ̯ -: essi non pervengono mai a generalizzarsi nella totalità dei paradigmi verbali. In tutte le varietà romanze esiste sempre un gruppo di verbi più o meno esteso, la cui composizione varia da un sistema all’altro, che resiste all’intrusione del segmento nel paradigma flessionale. Almeno per quel che riguarda la IV coniugazione, tale gruppo tende a coincidere con il nucleo più arcaico di voci del fondo ereditario latino caratterizzate dalla più alta frequenza d’impiego (126-32). Lo studio di Meul si concentra sul secondo dei due «destini», quello che vede i due segmenti (o infissi, secondo la designazione accolta dall’autrice) continuarsi come elementi flessionali non lessicalizzati. I motivi di tale scelta sono chiari ed esplicitati nell’introduzione: si tratta innegabilmente del fenomeno maggiormente dibattuto e caratterizzante. Lo studio si prefigge due obiettivi principali (4): rendere conto delle principali differenze negli schemi di configurazione dei due segmenti flessionali in seno ai paradigmi verbali romanzi e, al contempo, descrivere i caratteri delle restrizioni lessicali all’applicazione di tali schemi nel contesto della prima e della quarta coniugazione. Tra gli obiettivi più ambiziosi del volume c’è quello di individuare i fattori che determinano la suscettibilità dei verbi in questione all’accoglimento del tratto. Di seguito proveremo a dare conto sinteticamente della struttura del volume, cercando di metterne in evidenza i nodi salienti e gli elementi di maggiore interesse. Il capitolo introduttivo (1-18) delinea l’oggetto e le tematiche della ricerca, ne descrive l’articolazione interna, si sofferma a discutere i concetti e i presupposti teorici che reggono l’analisi, non trascurando di offrire un primo esame dei principali nodi che derivano dalla bibliografia pregressa. Un paragrafo (16-18) è dedicato alla discussione dell’etichetta di «infisso» adottata dall’autrice per descrivere i due segmenti, la cui stessa definizione è resa problematica dalla loro natura a metà strada tra morfologia flessionale e derivazionale, Besprechungen - Comptes rendus 259 nonché dalla difficoltà oggettiva di associarvi qualsivoglia contenuto di informazione propriamente morfologica (tempo, persona, numero). Meul riconosce l’inappropriatezza di fondo del termine «infisso», che a rigore designerebbe un elemento inserito all’interno del tema verbale, come l’infisso °/ N/ in una parte del paradigma di lat. rumpo ma pf. rupi, vinco ma pf. vici. Gli «infissi» romanzi sono invece suffissi di tipo particolare, che si inseriscono tra la radice e la desinenza verbale propriamente detta. La studiosa giudica tuttavia insoddisfacenti anche le altre proposte terminologiche avanzate (aumento, suffisso, interfisso), dichiarando di accogliere il termine «infisso», con le dovute cautele, in ragione soprattutto della sua maggiore diffusione negli studi di settore. Alle spalle della scelta c’è tuttavia un’altra ragione: l’autrice avrà spesso modo di sottolineare il nesso, tipico della morfologia verbale del latino classico, tra la distinzione aspettuale dei tempi dell’infectum e del perfectum e la distribuzione dell’«infisso» -i/ escin latino, parzialmente accostabile al comportamento degli infissi propriamente detti (floresco, pf. florui come rumpo, pf. rupi; 60-61). Questa scelta terminologica non è dunque del tutto priva di implicazioni teoriche. Il secondo capitolo (19-49) è dedicato a una sintetica descrizione del sistema verbale latino nelle sue componenti flessionali e derivazionali. Sono passate in rassegna la distinzione tra infectum e perfectum e la classificazione quadripartita delle classi flessionali, già acquisite alla tradizione grammaticale (20-32); su questo sfondo è quindi analizzata la morfologia derivazionale del verbo latino con particolare riguardo per la suffissazione, entro cui si colloca il segmento -i/ esc-, in origine morfema propriamente derivazionale (32-38). Sono quindi descritte le principali modificazioni cui il sistema fin qui delineato andò incontro nella sua evoluzione storica: collasso del sistema flessionale quadripartito, a partire da una precoce confusione tra la II e la III coniugazione e dall’estensione analogica di alcune terminazioni verbali, tipiche in origine di una sola classe, a discapito di altre («cross-conjugational syncretism»); emergenza di strutture perifrastiche che rimpiazzano i vecchi tipi sintetici, dando luogo nelle lingue romanze a tempi verbali analitici (passato; passivo) e a tempi sintetici di tipo nuovo (futuro, mentre non si fa cenno al condizionale, innovazione tutta romanza); eliminazione e riassegnazione di serie flessionali (38-47). Il capitolo delinea efficacemente uno «sfondo» per l’analisi successiva, ma risulta utile anche al di là del suo scopo immediato: l’autrice riesce a proporre una buona sintesi di una problematica nota ma tutt’altro che agevole, enucleandone opportunamente i caratteri fondamentali. Richiede forse l’apertura di una breve parentesi di natura terminologica il fatto che, qui come altrove, si fa ricorso al concetto di «Proto-Romance». Trattandosi notoriamente di una tra le etichette più controverse negli studi romanzi, vale forse la pena di osservare che, nell’impiego di Meul, il termine sembra equivalere (e sovrapporsi) almeno in parte a «Late Latin», col quale ricorre spesso in associazione: il secondo capitolo, ad esempio, si intitola «Morphological structure of the verb in Latin and Late Latin/ Proto-Romance transformations» (corsivo aggiunto). Da questo come da numerosi altri passi sembra evincersi che il «Proto-Romance» di Meul sia da identificare pressoché interamente col latino tardo, considerato non tanto (o non solo) come sistema (o, piuttosto, come insieme di deviazioni dalla norma del latino classico) storicamente attestato e descrivibile, quanto soprattutto come stadio linguistico latore o anticipatore di alcune tendenze evolutive che giungeranno a piena manifestazione nelle lingue romanze. La rinuncia a ogni tipo di interpretazione dicotomica tra i termini «latino» e «protoromanzo» sembra peraltro confermata dall’attitudine dell’autrice a rintracciare nel sistema verbale latino le premesse degli sviluppi romanzi. Il capitolo 3 (51-77) delinea la storia di -i/ esce -idi ̯ dal latino alle lingue romanze. Partendo da un cenno sulla remota origine di -i/ esccome formante ie. *-(V)sk e/ o - (52), l’autrice descrive l’evoluzione del segmento dal latino arcaico a quello classico, dove divenne un morfema derivazionale coinvolto nella formazione di verbi trasformativi (o, secondo l’etichetta tradizionale, incoativi) della III coniugazione a partire da verbi stativi della II (flor ē re Besprechungen - Comptes rendus 260 3 Ad esempio è il caso di Maiden 2003, art. cit. → flor ĕ scere, horr ē re → horr ĕ scere, ecc.). Il nesso tra il morfema flessionale / e/ e il suffisso / sk/ determinò l’emergenza di -esc- (53), che divenne assai produttivo come morfema autonomo insieme alla variante -isc- (54-55). Sono discusse approfonditamente varie questioni relative alla natura di questo segmento, dalla quantità vocalica (55-56), ai valori semanticoaspettuali (56-58), fino alla distribuzione all’interno del paradigma, normalmente limitata ai tempi dell’infectum (58-61). L’autrice evidenzia come in latino tardo questo quadro sia turbato in primo luogo dalla crisi della seconda classe flessionale, che veniva a colpire il principale serbatoio per la formazione di verbi in -escere, i verbi stativi della classe in ē re. Nello stesso tempo la classe dei verbi in ĕ re perdeva progressivamente vitalità a vantaggio della prima e soprattutto della quarta. Questa situazione, unita alla forte spinta analogica convogliata dal processo di sincretismo flessionale in atto, finì per determinare la perdita di autonomia di -i/ escin quanto morfema derivazionale autonomo, e la sua graduale ristrutturazione in quanto proprietà flessionale della coniugazione in / i/ . I derivati in -escere e -iscere furono convogliati in quest’ultima classe in latino tardo: pressoché tutte le lingue romanze, compreso l’antico spagnolo, testimoniano tale cambiamento (63). Risulta così inquadrato il processo evolutivo fondamentale, di cui sono discusse varie ipotesi interpretative (65-68). Venendo meno nel passaggio alla morfologia verbale romanza la distinzione funzionale latina tra infectum e perfectum, il segmento, nella sua applicazione ad alcuni verbi della IV coniugazione, finì per trovarsi in evidente rapporto con la struttura morfo-prosodica, posizionandosi come elemento tonico in quelle voci verbali che altrimenti avrebbero ricevuto l’accento sulla radice: andò così definendosi la sua natura di elemento paradigmatico che emerge in seno alla flessione (68-70). Un percorso ben diverso si delinea per l’origine di -idi ̯ -. Il segmento è acquisito al latino come prestito dal greco, e diventa produttivo come morfema formatore di verbi della I coniugazione solo in una fase piuttosto tarda (70-75). La stessa definizione dello statuto formale del suffisso è tutt’altro che semplice (70-71), e la situazione di alcune varietà romanze ha talvolta condotto gli studiosi a evocare l’influenza concomitante di ulteriori segmenti derivazionali, come -ic-, -ig-, -ili-. La stessa autrice, che pure è incline a ricondurre complessivamente a una comune base -idi ̯ - (rappresentata da altri autori come *-edj- 3 ) la frastagliata materia romanza (75), nell’analizzare un tipo particolare di segmento flessionale della prima coniugazione caratteristico delle parlate vallone e francoprovenzali dovrà ammettere la possibilità che soprattutto -ice -igin questi territori possano essersi sovrapposti in maniera complessa al percorso diacronico di -idi ̯ - (181-82, 189-90, 193). Un percorso dunque ancora più accidentato rispetto alla continuazione di -i/ esc-, ma caratterizzato da un dato di fondo: i continuatori di -idi ̯ nelle lingue romanze, tanto quelli di trafila popolare quanto quelli colti, hanno mantenuto più chiaramente lo statuto di morfema derivazionale lessicalizzato che era proprio al segmento nel latino tardo; solo una minoranza di varietà dialettali, col rumeno come unica lingua standard, ha conosciuto uno sviluppo di -idi ̯ come elemento inerente alla flessione. Il terzo capitolo si chiude con un confronto tra i due percorsi di -i/ esce -idi ̯ -, che ribadisce in particolare un’importante differenza: -i/ esc-, originario, conosceva già in latino una diffusione limitata a un settore del paradigma (segnatamente i tempi dell’infectum), mentre il più tardo -idi ̯ era un «semplice» morfema derivazionale (76-77). Alla luce del quadro sin qui delineato, i capitoli successivi si concentrano sull’interpretazione della diffusione in sincronia di -i/ esc- (cap. 4) e -idi ̯ - (cap. 5 e 6) in quanto segmenti inerenti alla flessione. Il capitolo 4 (79-140) si prefigge di rendere conto tanto della distribuzione intra-paradigmatica di -i/ escnelle lingue romanze quanto delle limitazioni che si Besprechungen - Comptes rendus 261 oppongono alla diffusione lessicale del tratto. Dopo aver descritto i caratteri di tale distribuzione (80-83), l’autrice passa criticamente in rassegna le diverse proposte interpretative avanzate dagli studiosi: le ipotesi che attribuiscono la diffusione dell’infisso all’esigenza di evitare conflitti d’accentazione (84-85), o a fenomeni di allineamento accentuale (85), o ancora al contrasto all’allomorfia radicale (85-86) sono puntualmente vagliate da Meul, che a p. 89-100 discute approfonditamente anche l’approccio morfomico di Aronoff/ Maiden. Basandosi poi su dati raccolti su ampia scala e sulle testimonianze medievali (100-04), l’autrice esprime una posizione scettica circa la possibilità di dimostrare che gli schemi di applicazione che si manifestano in numerose varietà romanze siano attribuibili già alla fase del latino tardo(/ protoromanzo). Nella sezione seguente (104-36) Meul allinea una serie di fatti relativi alle varietà romanze: l’allargamento del segmento flessionale -i/ escal di fuori dello «N-pattern» in francese standard (104-09), la sua intrusione nel passato remoto documentata nella varietà popolare parigina del XIX secolo (110), le notevoli attestazioni in corso, lombardo (milanese), ticinese e friulano di un futuro e di un condizionale «infissati» nei quali il segmento -i/ escsi accompagna a una vocale tematica / a/ derivata dalla I coniugazione (112-17), l’impiego del segmento per marcare i tempi del congiuntivo nella varietà francoprovenzale di Sottens, in cui finisce per venire meno il consueto criterio di selezione lessicale (118-21). Questi e altri casi di studio, altamente significativi, inducono l’autrice a sottolineare il valore funzionale cui è subordinata l’applicazione del suffisso, impiegato alla stregua di un vero e proprio marcatore della IV coniugazione, o, in casi particolari, di determinate porzioni del paradigma (il congiuntivo nella varietà di Sottens). Un’importante controprova è dedotta dall’osservazione ravvicinata di quel nucleo di verbi della IV, richiamato in precedenza, che si oppone all’inserzione del segmento flessionale (126-36): sulla base della situazione delle varietà italoe galloromanze, Meul rileva come questo gruppo di verbi esibisca una particolare instabilità paradigmatica a livello substandard, con tendenza marcata al passaggio alla coniugazione in / e/ , mentre i verbi che accolgono il tratto dell’infissazione risultano più stabili: cf. nap. sentì ~ sèntere, partì ~ pàrtere ma fernì (ind.pres. 1 fernesco) ~ *fèrnere, ecc. (136). Ulteriore elemento notevole è l’incompatibilità paradigmatica osservabile sul piano fonologico in alcune varietà (francese standard, milanese, francoprovenzale) in cui la sequenza *[/ isk/ + / i/ ] risulterebbe interdetta; Meul ne trae lo spunto per sottolineare il possibile valore del segmento come alternativa morfemica per marcare i verbi della IV coniugazione (137). Sembra interessante l’ipotesi di una rifunzionalizzazione grammaticale dell’infisso nel passaggio dalla III alla IV coniugazione, nel quadro del complessivo collasso del sistema flessionale latino, collocata dall’autrice in una visione d’insieme entro cui sono recuperate e rivalutate le interpretazioni discusse nel corso di tutto il capitolo (137-40). Il capitolo 5 (141-202), dedicato esclusivamente al destino frammentario di -idi ̯ come segmento inerente alla flessione, risponde all’obiettivo dichiarato di colmare una complessiva lacuna nella bibliografia di settore, con l’indagine accurata del tratto «on the basis of an extensive collection of contemporary data» (5). Sono perciò passate analiticamente in rassegna tutte le varietà romanze per le quali la bibliografia consente di isolare particolari schemi di applicazione flessionale dell’infisso: rumeno standard, arumeno e meglenorumeno (142-47), istrioto e veglioto (147-54), dialetti veneti, accostati per un principio di contiguità geografica e di solidarietà nel tratto al friulano e al ladino dolomitico, con dati di prima mano (154-65, e cf. cap. 6), dialetti corsi ad inclusione del gallurese in territorio sardo (165- 70, 176), un’area «adriatica» dell’Italia meridionale comprendente varietà dell’Abruzzo, del Molise, della Puglia (a esclusione del Salento, dove -idi ̯ si continua solo come morfema lessicalizzato) e della Basilicata (170-76). A parte rispetto a questi gruppi si collocano due propagginazioni in territorio transalpino, per le quali l’autrice descrive casi di «‹infixed› first Besprechungen - Comptes rendus 262 4 G. Mischì, Vocabolar Todësch - Ladin (Val Badia), San Martin de Tor 2001. conjugation pattern» prudentemente accostabili a quelli sopra descritti: si tratta in particolare di due sezioni marginali del dominio galloromanzo, l’area del vallone (177-83, 192- 93) e quella del francoprovenzale (183-93). A parte, infine, è analizzato il caso delle varietà romance del cantone dei Grigioni, dove i prosecutori di -i/ escsi sono estesi alla prima coniugazione (al contrario di quanto osservabile per il veglioto e l’abruzzese/ molisano, dove invece è -idi ̯ a conoscere espansioni in altre classi flessionali (151-53, 174)). Lasciamo al lettore il compito di addentrarsi nei dettagli dell’analisi davvero ricca e articolata raccolta da Meul in questo capitolo. La prospettiva è quasi sempre sincronica, ma alcune incursioni nella documentazione medievale (in particolare per le varietà galloromanze, cf. 191), lasciano intravvedere l’interesse che simili ampliamenti d’indagine potranno sortire negli studi futuri. Dall’analisi dispiegata nel capitolo l’autrice trae alcune conclusioni, richiamate ripetutamente nel corso dei paragrafi e sintetizzate nelle conclusioni del capitolo (199-202): è anzitutto rilevata una particolare predisposizione all’accoglimento del tratto nelle voci la cui radice lessicale è polisillabica, e ancor più se essa è terminante in un suffisso (parametro definito dall’autrice morfo-prosodico); inoltre, nella maggioranza delle varietà interessate, la configurazione flessionale che prevede l’inserzione dell’infisso risulterebbe produttiva, estendendosi tendenzialmente soprattutto alle voci di prestito (parametro etimologico). Un’analisi quantitativa più approfondita portata sulle varietà dialettali del ladino dolomitico occupa per intero il capitolo 6, di natura «monografica». Il capitolo si divide in due sezioni: nella prima l’autrice propone un’analisi degli aspetti generali di una varietà ladina standardizzata, il badiotto attraverso l’immagine che ne offre il dizionario elettronico di Mischì 4 (203-24); nella seconda e più cospicua sezione è proposta un’analisi statistica, improntata a parametri di tipo sociolinguistico e dialettologico, basata interamente su dati raccolti sul campo (225-81). Dallo spoglio del dizionario di Mischì l’autrice dichiara di ricavare, accanto all’immagine di una significativa vitalità del tratto, una conferma dell’incidenza sulla sua applicazione lessicale del parametro morfo-prosodico e di quello etimologico, individuati nel capitolo precedente: in altre parole, voci polisillabiche (eventualmente terminanti in suffisso) e prestiti da altre varietà (italiano, tedesco) risultano particolarmente sensibili all’acquisizione dell’infisso. L’autrice propone quindi i risultati delle sue inchieste dialettali, esplicitando in primo luogo i criteri di compilazione del questionario (coerenti con i parametri individuati nello spoglio della bibliografia), descrivendo la rete dei punti sottoposti alla sua inchiesta (tale da coprire tutte le aree ladinofone) e offrendo capillare descrizione delle procedure statistiche applicate al corpus così ricavato. In estrema sintesi, risulta in primo luogo che i controlli sul campo danno l’idea (peraltro facilmente preventivabile) di una variazione estremamente più pronunciata di quanto non lasci intendere la bibliografia; sul piano areale, una maggiore vitalità del tratto è osservata dall’autrice per le varietà della Val Badia (badiotto e marebbano) e della Val Gardena (gardenese), mentre nelle altre zone dialettali i parlanti mostrano un comportamento più oscillante (261-71); il dato è messo in relazione con la maggior fortuna del ladino (e, diremmo, del ladino standard) nel parlato della Val Badia e della Val Gardena, zone in cui questa varietà è insegnata nelle scuole (265). L’indagine statistica dell’autrice rileva inoltre l’incidenza complessivamente bassa se non nulla di parametri sociolinguistici come l’età (239-53), la competenza dialettale (253-59) e il genere degli intervistati (259-61). Le statistiche lascerebbero tuttavia intravedere una modesta flessione della popolarità del tratto presso le generazioni giovani (251-52). Besprechungen - Comptes rendus 263 5 Per tale attestazione, cfr. G. Loewe/ G. Goetz (ed.), Corpus Glossariorum Latinorum, 7 vol., Leipzig 1888-1923, vol. 7: 364. Sulla continuazione di tremere e tremulare nelle lingue romanze, cf. G. I.Ascoli, «Saggiuoli diversi», AGI 11 (1890): 417-48 (439-48); W. Meyer-Lübke, REW, Heidelberg 3 1930-35 [ 1 1911-20] n° 8879; W. von Wartburg, FEW, 25 vol., Bonn/ Heidelberg/ Leipzig-Berlin/ Bâle 1922-2002, vol. 13/ 2, col. 241a-244b. Se un appunto si può muovere a questo capitolo, che ha il pregio non secondario di offrire agli studiosi risultati completamente inediti (dando per giunta conto in maniera certosina ed encomiabile delle procedure analitiche dispiegate), è forse quello di aver dedicato all’esemplificazione, che si intuisce di notevole interesse, meno spazio di quello che il lettore desidererebbe. Non a caso uno dei momenti più interessanti della sezione è quello in cui si affaccia l’esemplificazione di un caso notevole, individuato dall’autrice, di rifunzionalizzazione semantico-aspettuale dell’infisso nelle varietà fassane di Brach e Cazet e nell’ampezzano (267-69), significativo non solo per la difficoltà rilevata altrove dalla studiosa di isolare precise funzioni semantiche nella continuazione romanza di -idi ̯ -, ma anche perché, come giustamente sottolinea, esso si configura come un esempio (tra gli altri possibili) in contrasto con le teorie dell’unidirezionalità del cambiamento linguistico (cf. 298). L’esempio lascia immaginare l’interesse del materiale raccolto dalla studiosa, che speriamo possa essere più dettagliatamente presentato all’attenzione degli studiosi nei suoi futuri lavori. Arriviamo così al settimo e ultimo capitolo (283-302), dedicato in prima istanza a una sintesi dei principali risultati, in cui sono ribadite e richiamate idee esposte nei capitoli precedenti. È qui inoltre esplicitata l’ipotesi, assai realistica data la diversa fortuna dei due tratti, che la larga affermazione di -i/ esccome segmento flessionale debba aver preceduto e influenzato l’applicazione (in una parte ridotta del dominio romanzo) dello stesso schema anche ai continuatori di -idi ̯ nella prima coniugazione; in altre parole il tipo flessivo -i/ escavrebbe esercitato un’influenza analogica sui riflessi di -idi ̯ - (286-87). Un ulteriore punto sottolineato qui dall’autrice è l’incompatibilità della propria analisi con le interpretazioni nel segno della «degrammaticalizzazione»: la traiettoria storica dei segmenti -i/ esce -idi ̯ -, così come è delineata dal volume, evidenzia piuttosto i processi di rifunzionalizzazione e «regrammaticalization» cui essi vanno soggetti nel passaggio dal latino alle lingue romanze (297). Chiudono il volume alcuni spunti proposti alle ricerche future (301-02). La sintesi che abbiamo fin qui tentato rende forse un’idea, sia pure approssimativa, della complessità della tematica trattata e della ricchezza dei dati e degli spunti racchiusi nel volume di Meul. Quanto alle questioni di dettaglio, proponiamo poche osservazioni forse utili: - A p. 39 l’autrice sceglie opportunamente, tra gli esempi di passaggio dalla terza alla prima coniugazione, il caso del latino classico trem ě re, che ha ceduto il campo in una parte della Romania a un tipo *tremare (italiano e suoi dialetti, istrioto, friulano, ladino, antico spagnolo, asturiano). Occorrerà tuttavia rettificare parzialmente l’indicazione etimologica ivi fornita: «Lat.conj. III trem ě re ‘to tremble’ . conj. I: It. tremare, Old. Sp. tremar ( . Mod. Sp. temblar), Fr. trembler». A rigore, infatti, sp. temblar non può considerarsi un’evoluzione ulteriore di sp.a. tremar, né fr. trembler può essere collocato sullo stesso piano di it. tremare: pur presentando valori semantici sovrapponibili a quelli della base latina trem ě re, fr. trembler e sp. temblar rimontano in realtà a una base tremulare continuata da tutte le lingue romanze e attestata solo a partire dal VII secolo nelle glosse dette dello Pseudo-Cirillo 5 . - Ancora a p. 39 sono citati come esempi della fusione fra la II e la III coniugazione del latino, oltre a *sap ē re e *cad ē re, anche le forme di trafila ereditaria *potere e *volere Besprechungen - Comptes rendus 264 6 La stessa autrice a p. 21 N6, menziona a parte proprio i tipi posse e velle, escludendoli dalla descrizione delle quattro coniugazioni latine in quanto verbi irregolari, i quali «obviously cannot be classified into one of the four conjugation classes». 7 W. Meyer-Lübke, Grammaire des langues romanes [ristampa della traduzione francese (1890- 1906) dell’originaria versione tedesca (1890-1902)], 4 vol., Ginevra/ Marsiglia 1974, vol. I: 460; E. G. Parodi, «Il tipo italiano alia’re aleggia», in: Miscellanea linguistica in onore di Graziadio Ascoli, Torino 1901: 457-88, 462. 8 G. Rohlfs, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, 3 vol., Torino 1966-69, vol. 3, §1160. 9 G. Rohlfs, Grammatica storica, cit., vol. 1, §276. Nulla da eccepire invece sull’origine del tipo -eare per tramite provenzale. 10 Cf. M. L.Wagner, «La questione del posto da assegnare al gallurese e al sassarese», CN 3 (1943): 243-67; più di recente, M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Bari 2009: 159; S. Pisano, Il sistema verbale del sardo moderno. Tra conservazione e innovazione, Pisa 2012: 5-6. 11 Meyer-Lübke, REW, cit., n° 6503; C. Battisti/ G.Alessio, Dizionario etimologico italiano, 5 vol., Florence 1950-57, s. pigliare. opposte ai tipi del latino classico posse e velle, citati accanto sap ĕ re e cad ĕ re. L’autrice intende verosimilmente sottolineare come anche le coniugazioni irregolari sono state talora attratte dalla II coniugazione al pari di alcuni verbi della III, ma forse sarebbe stato opportuno esplicitare questa precisazione 6 . - A p. 72 N45, sulla base rispettivamente della Grammatica delle lingue romanze del Meyer- Lübke e di un articolo di Ernesto Giacomo Parodi del 1901 7 , è accolta la seguente interpretazione dell’origine fonetica del tipo it. -eggiare: «The Italian outcome of -idihas been modeled on the basis of the third singular -éggia ( , -idi ̯ at): -idiáre would have given -iáre». Si segnalerà che tale ipotesi del Parodi è considerata «poco convincente» dal Rohlfs 8 , che ha buone ragioni per ritenere -eggiare l’esito toscano regolare di -idiare 9 . - L’autrice sembra mostrare un eccesso di cautela nella trattazione del dialetto gallurese («the Gallurese dialect ... has much in common with Corsican», 169), che insieme al sassarese è in realtà da considerare una varietà di tipo corso a tutti gli effetti, da escludere dunque di fatto dal sistema dei dialetti sardi propriamente detti 10 . L’etichetta di «Sardinian (Gallurese)» adottata a p. 169 e passim può pertanto risultare fuorviante. A p. 42 sono inoltre citati come esempi di «Southern Italian varieties» il tipo sardo apo a kantare accanto al salentino aggiu a ffare; date le differenze tipologiche tra le varietà sarde e quelle dell’Italia meridionale (in questo caso estrema), sarà bene considerare distinti i due tipi linguistici, senza naturalmente voler negare l’evidente affinità strutturale che lega i due esempi citati. - A p. 220, infine, è citata una base latina *pigli ā re insieme ai derivati *ad- *des- *impigli ā re. L’etimo, sulla cui veste grafica avrà agito l’influsso dell’it. pigliare, si lascia agevolmente correggere in *p ī li ā re (dal lat. tard. p ī l ā re) sulla scorta del REW e del DEI 11 . L’esigua lista di marginalia che precede non tocca che questioni secondarie, e non intende (né potrebbe) togliere nulla alla validità della ricerca prodotta da Meul. Come queste pagine sperano di aver lasciato intuire al lettore, il volume rappresenta una significativa acquisizione per gli studi sulla morfologia verbale romanza, tanto per il pregevole lavoro di sistemazione documentale quanto per lo sforzo analitico condotto con esemplare rigore, e capace di approdare a risultati degni di attenzione. Alcune proposte di Meul potranno essere discusse o sottoposte a verifica sperimentale, e studi ulteriori potranno ampliare e precisare la mole della documentazione prodotta: ad ogni buon conto, il saggio si candida ad arricchire positivamente il dibattito critico, contribuendo a un’auspicabile intensificazione delle ricerche sul Besprechungen - Comptes rendus 265 1 W. U. Dressler, «Dallo stadio di lingue minacciate allo stadio di lingue moribonde attraverso lo stadio di lingue decadenti: una catastrofe ecolinguistica considerata in una prospettiva costruttivista», in: A.Valentini/ P. Molinelli/ P. Cuzzolin/ G. Bernini (ed.), Ecologia linguistica, Roma 2003: 9-25. 2 J. N.Adams, Bilingualism and the Latin language, Cambridge 2003. 3 S. Gal, «Linguistic repertoire», in: U.Ammon/ N. Dittmar/ K. J. Mattheier/ P.Trudgill (ed.), Sociolinguistics: An International Handbook of the Science of Language and Society, Berlin 1986: 286-92. tema. Tra i meriti principali dello studio riteniamo di poter indicare il costante sforzo di adottare un approccio di tipo complesso e multifattoriale, accanto alla considerazione attenta portata nei confronti del dato storico e dell’antecedente linguistico del diasistema latino, prezioso fondamento dello studio diacronico e sincronico delle lingue romanze. Marco Maggiore H Piera Molinelli/ Federica Guerini (ed.), Plurilinguismo e diglossia nella tarda antichità e nel medio evo, Firenze (Sismel) 2013, x + 342 p. (Traditio et Renovatio 7) Cela fait de nombreuses années qu’est née une sociolinguistique historique qui applique, en dialogue avec les philologues et les historiens, des questionnements nourris de réflexions de la sociolinguistique moderne à des périodes reculées, ceci afin de mieux comprendre «l’interface entre les structures grammaticales et le contexte» (Dressler 2003: 9 1 ). Le plurilinguisme et les langues en contact sont deux de ses domaines d’étude favoris (voir p.ex. l’œuvre magistrale d’Adams 2003 2 ). Les contributions de ce volume, issues d’un séminaire à l’Université de Bergame en 2007, poursuivent cette réflexion en se concentrant sur la longue période allant de l’antiquité tardive (III e -VI e s.) jusqu’au début du Moyen Âge (aux alentours de l’an 1000). Le livre s’articule en trois parties: «I: Sguardi teorici», «II: Un’area e le sue lingue» et «III: Plurilinguismo e testi». Dans la première contribution (Federica Guerini/ Piera Molinelli, «Plurilinguismo e diglossia tra tarda antichità e medio evo: discussioni e testimonianze», 3-28) les éditrices présentent la thématique et le volume. Un accent concerne la diversité des situations de contact dans l’ère analysée - l’ancien empire romain - et la nécessité d’affiner les outils terminologiques, en particulier autour de la notion de diglossie. On regrettera pourtant l’absence d’une distinction claire entre plurilinguisme social, voire répertoire plurilingue en tant que tel («The totality of linguistic resources available to members of a community for socially significant interactions constitutes the linguistic repertoire of that community. The linguistic resources include all the different languages, dialects, registers, styles and routines spoken by the group.» [Gal 1986 3 ]) et les différentes formes de répartition fonctionnelle entre les variétés («diglossie classique», «diacrolettie» et «dilallie», 71). La deuxième contribution conceptuelle (Carmen Codoñer: «Terminología antigua sobre los hechos de lengua respecto al fenómeno de cambio lingüístico», 29-85) part du stéréotype: «latin vulgaire = langue corrompue» pour analyser systématiquement l’évolution du champs notionnel autour de la paire «bon usage - mauvais usage» dans l’usage métalinguistique de l’époque et le rôle des grammairiens comme gardiens de la langue («custodes latini sermonis», 56). La prémisse de cette réflexion est prometteuse: pour comprendre les usages (en grande partie inobservables) d’une époque, il est nécessaire de connaître les représentations des contemporains telles qu’elles se reflètent dans le discours, normatif et sur la langue («discours sur») plus généralement. Codoñer peut montrer que le terme «vulgo» et sa famille