Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2015
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Kristol De StefaniTra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di CA, GA
121
2015
Lorenzo Tomasin
Notre article porte sur le problème de l’évolution romane des groupes latins ca et ga, et en particulier sur les prétendues traces de leur palatalisation dans les dialectes de l’Italie nord-orientale, c’est-à-dire d’un domaine linguistique à la frontière entre la Galloromania d’un côté et le Frioul de l’autre (les deux caractérisés, de manière différente, par la palatalisation dans ce contexte). Étant donné que cette palatalisation est absente dans les dialectes actuels de cette région linguistique, nous illustrons ici la faiblesse voire l’incohérence des indices proposés jusqu’ici pour affirmer l’ancienne présence de la palatalisation dans cette zone, en proposant aussi une réflexion méthodologique sur l’emploi des textes anciens et des témoignages toponymiques dans les recherches de linguistique historique.
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Vox Romanica 74 (2015): 1-19 Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca , ga Résumé: Notre article porte sur le problème de l’évolution romane des groupes latins ca et ga, et en particulier sur les prétendues traces de leur palatalisation dans les dialectes de l’Italie nord-orientale, c’est-à-dire d’un domaine linguistique à la frontière entre la Galloromania d’un côté et le Frioul de l’autre (les deux caractérisés, de manière différente, par la palatalisation dans ce contexte). Étant donné que cette palatalisation est absente dans les dialectes actuels de cette région linguistique, nous illustrons ici la faiblesse voire l’incohérence des indices proposés jusqu’ici pour affirmer l’ancienne présence de la palatalisation dans cette zone, en proposant aussi une réflexion méthodologique sur l’emploi des textes anciens et des témoignages toponymiques dans les recherches de linguistique historique. Mots clés: Grammaire historique, phonétique historique, dialectes italoromanes nord-orientaux, philologie et linguistique, palatalisation, chronologie rélative et absolue, toponymie, dialectologie italienne 1. Lo stato dell’arte L’estensione geografica e la cronologia della palatalizzazione delle occlusive velari / k ɡ / davanti ad / a/ nella Romània è materia controversa dibattuta a partire da un famoso articolo di Heinrich Schmid uscito sessant’anni fa sulla Vox Romanica (Schmid 1956), che ipotizzava l’estensione, in età preletteraria, dell’intacco palatale di ca a tutta l’Italia settentrionale e la sua ricezione relativamente tardiva da parte delle aree marginali alpine e prealpine, che l’avrebbero successivamente conservata anche dopo la regressione del fenomeno - peraltro mai fonologizzato - in area padana per effetto dell’intervenuto sviluppo palatale di l postconsonantica. Quindi, dato cl, gl . ʧ , ʤ attraverso una fase [c], [ ɟ ], gli esiti analogamente palatalizzati di ca, ga, fermi «solo ad una prima fase kja (o k’a) non fonologizzata», sarebbero «rapidamente retrocessi per collisione con lo sviluppo palatale dei nessi cl, gl» (Vigolo 1986: 64) 1 . Per corroborare questa ipotesi - ciò che si sono proposti negli ultimi decenni in particolare Giovan Battista Pellegrini e la sua allieva Maria Teresa Vigolo - è evidentemente necessario rinvenire tracce convincenti dell’avvenuta palatalizzazione Ringrazio Daniele Baglioni, Marcello Barbato, Luca D’Onghia e Paul Videsott, che hanno discusso con me - senza condividerne errori o lacune - il contenuto di questo articolo. A Max Pfister un ringraziamento particolare per avermi fatto accedere a materiale ancora inedito dell’archivio del LEI. 1 Per un’ancor precedente discussione del problema in chiave storica, si tenga presente Migliorini 1929. Lorenzo Tomasin 2 in area padana, possibilmente non in zone a contatto con quelle in cui il fenomeno è ancor oggi visibile (quindi: il dominio propriamente galloromanzo a ovest, quello retoromanzo e lombardo-alpino a nord, e quello friulano a est); è inoltre necessario spiegare, volta per volta, le ragioni per le quali le eventuali tracce individuate non hanno subito il processo di retrocessione, cioè il ripristino della consonante originaria. Quanto a questo secondo passaggio, la sua importanza e la sua percorribilità teorica sono state di recente sperimentate da Paul Videsott in un altro articolo sulla Vox Romanica (Videsott 2001) a partire da voci latine presenti nel lessico germanico di aree ex-romanze (quella ch’egli chiama Romània sommersa alpina) o a contatto con la Romània: voci antiche che, essendo state sottratte all’evoluzione fonetica romanza, sono rimaste «congelate» in forme che manifesterebbero l’esito palatalizzato, o un suo riconoscibile riflesso. Uno dei più recenti accenni alla questione si legge nella pregevole sintesi di Michele Loporcaro per la Cambridge history of the Romance languages, che presenta l’ipotesi come passata in giudicato, affidando la documentazione del fenomeno, per quanto riguarda l’area linguistica veneta, ad alcuni presunti relitti toponomastici indicati da Vigolo: «Northern Italy nowadays displays only scattered remnants of ca, ga . [ca ɟ a] in areas which generally present / ka/ and / ɡ a/ as outcomes of Lat. ca, ga: this is seen, for instance, in Alto Vicentino placenames such as Chiampo , campus or (Contrada del) Chian , canem (Vigolo 1992: 13)» (Loporcaro 2011: 149). Già in precedenza, lo stesso studioso si era detto convinto che «varie testimonianze ... concordano nell’indicare che il mutamento si era esteso nel Medioevo anche all’Italia settentrionale cisalpina» (Loporcaro 2009: 67), fondandosi anche in quel caso sugli studi di Vigolo e di Pellegrini medesimo, i quali giusto nella zona subalpina compresa tra Belluno e il Polesine hanno indicato le presunte tracce di un’antica palatalizzazione che si passeranno in rassegna in questo lavoro. Tali tracce, se convalidate, varrebbero secondo gli autori citati a saldare tra loro due aree (quella friulana a est e quella lombarda alpina e retoromanza a ovest) nelle quali l’intacco palatale di ca, ga è in varia misura testimoniato ancora oggi: l’idea che a simili argomenti vada affidata la ricostruzione di un’antica Romània continua apparentemente frazionata da sviluppi successivi delle aree innovatrici, è stata esplicitamente proposta da Pellegrini 1985. Orbene, le testimonianze raccolte da Pellegrini e Vigolo per dimostrare l’antica presenza della palatalizzazione di ca e ga nella zona veneta prealpina e pianeggiante e sul litorale adriatico settentrionale sono di tre tipi, consistendo sia in occorrenze da testi antichi, cioè bassomedievali o della prima età moderna, sia in toponimi, sia in lessemi isolati documentabili nei dialetti odierni. Ritengo che almeno per quanto riguarda l’area veneta questi elementi, riducibili in realtà a non più di una decina, siano fuorvianti perché interpretabili più agevolmente in altri modi e tali da non bastare a reggere un’ipotesi che si presenta come impegnativa e gravida di conseguenze strutturali e che, come mostra l’esempio appena citato, è riuscita ad insediarsi stabilmente nella vulgata dialettologica corrente, anche di migliore qualità. Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 3 Obiettivo dell’istruttoria che qui propongo non è tuttavia di contrastare l’assunto della sicura presenza della palatalizzazione in area veneta contrapponendone con la stessa certezza una alternativa e contraria: documentare l’infondatezza delle prove fin qui addotte circa l’antica diffusione del fenomeno nell’area che ne è ancor oggi priva significa certo rimettere in discussione l’idea di chi è persuaso dell’antica estensione dell’intacco «in tutta la Cisalpina». Ma altra cosa è l’insufficienza di prove e altra la presenza di prove a discarico. È pur vero che onus probandi incumbit ei qui dicit, cosicché accertare l’inconsistenza delle prove positive finora addotte sembra comunque utile soprattutto per la riflessione che ne deriva a proposito di taluni metodi induttivi fondati sull’escussione di testi antichi, ancora oggi assai accreditati al punto da far dimenticare - o almeno da travisare con effetti distorsivi - la natura degli indizi linguistici ricavati per via filologica, che sono cosa ontologicamente diversa da quelli ricavati in sincronia attraverso le evidenze raccolte nelle varietà vive. Un corollario si ricaverà anche sull’opportunità e sui limiti dell’impiego di prove toponomastiche, attinte a un àmbito del sistema linguistico il cui concorso alla ricostruzione del sistema stesso nel suo complesso va sempre subordinato a forti cautele. Quanto ai presunti elementi lessicali ricavati dai dialetti odierni, il loro riesame consentirà di rilevare i possibili limiti di un uso indiscreto di spiegazioni fondate in realtà su forzature nell’impiego degli argomenti attinti alla grammatica storica. 2. Sulle testimonianze filologiche Gli indizi filologici - cioè ricavati da testi antichi - finora additati circa la presenza della palatalizzazione di cae gain area veneta sono tre. Li presento di seguito. a) Nel volgarizzamento del trattato De regimine rectoris di Paolino Minorita, redatto a Venezia nel secondo decennio del secolo XIV, ma conservato da un manoscritto quattrocentesco andato distrutto nell’incendio della Biblioteca Regia di Torino del 1904, occorrono le forme chian (1 volta) e chiani (2 volte) per ‘cane’ e ‘cani’. L’inaffidabilità di un simile indizio è già stata segnalata da Alfredo Stussi, che ha osservato come sia «difficile affidare l’onere della prova, per il veneziano antico, a chian e chiani in un manoscritto del trattato De regimine rectoris, perché è ben strano che solo in una copia del pieno Quattrocento emerga finalmente un fenomeno organico al dialetto, ma non documentato nelle precedenti scritture. Meno importa (dato un editore affidabile come Mussafia) che quello stesso manoscritto non si presti a verifica, essendo bruciato nell’incendio della Biblioteca di Torino» (Stussi 1995: 129). Già Mussafia e Ascoli, del resto, avevano dato a quelle forme interpretazione opposte, il primo leggendole (pur dubitativamente) come francesismi (Mussafia 1868: 143), il secondo, nel riprendere e discutere i materiali di «quella bellissima edizione», annoverandole tra i sicuri tratti ladini del veneziano antico (Ascoli 1873: 463-64) assieme a un relativo cui «nel significato dell’italiano Lorenzo Tomasin 4 2 Mette conto riportare la formulazione di Ineichen (1966: 225): «Nelle denominazioni composte indicanti la cotula (§2.20) si trova invece la forma vachia. Tale forma potrebbe far pensare al friul. vacie o a forme ibride che ricorrono nel veneto orientale». 3 Non ho potuto controllare direttamente il manoscritto perché la carta in questione sfortunatamente non si trova tra quelle riprodotte nella pagina del sito della British Library dedicata all’Erbario. chi» (ivi) che oggi sappiamo non essere certo esclusivo del friulano, né del veneziano antico (Rohlfs §483). b) Il cosiddetto Erbario carrarese, ossia Libro agregà de Serapiom, volgarizzamento di un trattato di erboristeria e medicina originariamente arabo, databile alla fine del Trecento o ai primi del secolo successivo, dovuto a un Frater Jacobus Phillipus de Padua, fu pubblicato da Gustav Ineichen sulla base del codice Egerton 2020 della British Library. Appuntandosi sulla menzione, in quel testo, di un fitonimo per cui l’editore ipotizzava prudentemente l’azione di un influsso friulano sul copista 2 , Pellegrini 1988: 215 scriveva: «è poi assurdo attribuire al friulano un fitonimo attestato in Serapione volgarizzato, cioè in Padovano antico, quale ojo de vachia, la ‘Anthemis Cotula’, un’erba che viene denominata altrimenti oyo de bò (segnalazione prima dovuta a Paola Benincà)». In effetti, ad affrancare questa forma dall’ipotesi per cui essa rappresenterebbe l’estrema traccia di un ampio fenomeno di palatalizzazione bastano considerazioni anche meno impegnative: già la plurima ricorrenza delle forme vacha e vaca nello stesso manoscritto isola gli esempi relativi all’anthemis cotula; l’assoluta trasparenza semantica del termine induce peraltro a scartare la possibilità che il fenomeno cercato da Pellegrini possa essersi realmente cristallizzato nella locuzione oyo de vachia venendo così sottratta all’ipotizzato «restauro» di / ka/ , che evidentemente sarebbe avvenuto per vaca come lessema autonomo. Né è troppo significativo il fatto che tale sequenza compaia tre volte, giacché le tre occorrenze si ritrovano nello spazio di sei righe in una medesima carta del manoscritto (la 104r) 3 : giusto l’esiguo spazio in cui le tre occorrenze ricorrono sembra fare di questo reperto un hapax di fatto, analogo a quello di cui al punto precedente. Due hapax lessicali (rispettivamente chian e vachia) non fanno peraltro un dìs, dato che le condizioni in cui simili forme si possono essere prodotte nei rispettivi manoscritti latori hanno dinamiche più simili all’occorrenza di fenomeni in relazione d’indipendenza stocastica che alla coerenza di eventi correlati. In definitiva: posto che la forma vaca/ vacha, che certo non esprime la pronuncia palatalizzata, ha dodici occorrenze nell’Erbario, si pone la domanda se il tipo vachia (quindi: [ ˈ vaca] o [ ˈ vakja], se non addirittura [ ˈ va ʧ a]) esistesse o meno nel sistema linguistico di chi ha redatto quel codice. Se così fosse, occorrerebbe investire le tre occorrenze di vachia, tutte riferite allo stesso oggetto e trascritte a distanza di poche righe (quindi: verosimilmente a pochi istanti) di un valore rivelatorio superiore a quello delle altre dodici occorrenze del termine. Un manoscritto medievale Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 5 4 Si tratta di un elemento tipico delle scritture coeve di natura pratica e mercantile, per cui basti il rimando a Petrucci 1989: 159. verrebbe così trattato alla stregua di un moderno campo d’inchiesta linguistica - ciò che si corre il rischio di fare se si trattano i testi antichi come inerti cave di materiali pronti per servire a ipotesi astratte, e non documenti da storicizzare in tutti i sensi e da esaminare nel loro complesso. Meglio forse tentar di risolvere il problema per via filologica, considerando la possibilità che il copista avesse davanti, per quel segmento di testo, un antigrafo con un legamento ch comune ad esempio nei testi in mercantesca 4 , facilmente equivocabile con chi e perciò occasionalmente trascritto in modo meccanico, senza badare all’evidente significato del termine. Occorre poi tener presente la totale assenza di qualsiasi altro indizio di palatalizzazione in tutto l’ormai cospicuo corpus delle testimonianze relative al padovano tardotrecentesco, nonché nell’ipercaratterizzata letteratura pavana quattro-cinquecentesca, sensibilissima - e talora ipersensibile - alle forme più marginali e peregrine, nonché pronta a generarne di nuove e artificiali, come accade in tanta parte della produzione dialettale riflessa, e come peraltro mostra l’esempio seguente. c) Nei versi del notaio e poeta dialettale bellunese Bartolomeo Cavassico (secolo XVI), una sola volta occorre l’espressione chian e giate per ‘cani e gatte’. Già Salvioni, nel commento linguistico dell’edizione curata da Cian per i versi del bellunese aveva ammonito: «il passo in cui occorre non permette di far gran caso di chian, che sarebbe altrimenti ben prezioso» (Cian-Salvioni 1894: 322); si tratta in effetti di un’Oda a rusticis recitata chiaramente e deliberatamente distinta, nella veste dialettale, dai componimenti bellunesi dello stesso poeta: come scrive Salvioni (ivi: 308) ossevando la voce davante che compare a pochi versi di distanza, «dev’essere, con l’intiero passo dove si trova, di una vicina varietà ladina»; e la stessa avvertenza è ripetuta a proposito di altre particolarità linguistiche di questo componimento, quali il vocalismo finale (ivi: 314) e l’occorrenza isolata del tipo duto (ivi: 322), che non si ritrova nei testi bellunesi dello stesso poeta e che il dialettologo ticinese provvede a segnalare come spie della natura linguisticamente peculiare di questo brano. Nel presentare il reperto, Pellegrini 1977: 181, riprendendo un suo lavoro del 1970, rilegge l’originale e modifica la lezione di Cian-Salvioni 1894: 144. A partire da questa lettura, che è anche quella della prima stesura del manoscritto autografo (l’attuale cod. 396 della Biblioteca Civica di Belluno): Dal cert i n’amaceva I ome dute cante, Che ghe fos zu davante E chian e gate. Lorenzo Tomasin 6 5 Cf. a c. 147r la correzione del verso «che tanto impacia te quanto me piaci» . «che tanto io precio te ...»; o a c. 149r: «e parasi» corretto in «e partasi» con inserzione della lettera nello stesso modo descritto per giate e thesoro. 6 Con le parole di Stussi 1993: 214: «Il rapporto è spesso così vincolante da configurare un circolo vizioso: non abbiamo una buona edizione perché ci mancano sufficienti conoscenze storicolinguistiche; per converso non abbiamo sufficienti conoscenze storicolinguistiche perché non disponiamo di edizioni affidabili dei testi donde dovremmo attingerle». Pellegrini ravvisa una «chiarissima correzione del medesimo Notaio il quale ha aggiunto dopo g un altro i in alto e cioè g i ate», e osserva che «anche se la strofa può ricordare assai da vicino i dialetti cadorini attuali ..., non si può escludere che alcune varietà rustiche del bellunatto cinquecentesco presentassero un dialetto simile». Sicuro è in effetti l’intervento sul manoscritto (e un controllo sull’originale, il cod. 396 della Biblioteca Civica di Belluno, a c. 140r, lo conferma). Ma più che di una correzione, del tipo di quelle che altrove nel codice rimediano ed evidenti errori di copia (sostanziali) 5 , sembra trattarsi di un ritocco in direzione espressiva o caratterizzante, come suggerisce il fatto che alla carta successiva (141r), in un componimento scritto in quella che Salvioni chiama «lingua illustre», cioè in un italiano «cortigiano», un’identica procedura (aggiunta di una lettera nell’interrigo superiore con segno d’inserimento in corrispondenza, sotto il rigo) trasforma un tesoro in un thesoro, con aumento - questa volta meramente grafico - del preziosismo formale. Tornando dunque ai chian e giate, non sembra prudente attribuire a questa lezione un significativo valore testimoniale chiamando in causa ipotetiche «varietà rustiche del bellunatto» che avrebbero conservato l’antica innovazione divenuta (ma quando? ) arcaismo dopo il restauro di [ ɡ ]; e gioverà osservare che la forma gat, senza correzioni, compare al v. 22 della stessa ode, dove non si nota alcuna correzione. Si rientra, per tal via, nel noto circolo vizioso che a lungo ha reso (e in parte ancora rende) difficilissimo avere un’idea definita dell’aderenza dei testi della letteratura dialettale riflessa rinascimentale alla realtà linguistica delle varietà rustiche da essa ricreata, più che riprodotta 6 . La mancanza di dati sicuramente sottratti all’artificiosità inerente ai testi poetici dialettali ha offuscato, o tutt’affatto fuorviato, la ricostruzione di quelle «varietà rustiche» tanto preziose e interessanti da essere cercate, con fiducia talora eccessiva - o meglio impropria - nella lezione dei manoscritti, tra i versi di testi lirici o teatrali, pur popolareggianti. Di fatto, nemmeno gli espliciti avvertimenti di Salvioni, che indicavano nel passo in questione l’imitazione di una varietà «semiladina» - o come diremmo oggi ladino-veneta - hanno impedito che, da Pellegrini in poi, la voce chian (e talora anche giate) sia stata attribuita al «bellunese» del Cavassico. Aggiungeremo che la forma can compare diciassette volte nel Cavassico in testi dialettali (ed. cit.: 47, 48, 61, 67, 82, 83, 93, 95, 106, 112, 116, 167, 183, 220, 232, 258, 273; si aggiungano cani 133 e cane 160 in componimenti scritti in lingua illustre compresi nell’edizione cit.), e che il drappello - purtroppo ancora sparuto - di testi pratici bellunesi antichi pubblicati e studiati linguisticamente nell’ultimo decennio Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 7 7 Alludo a Tomasin 2004 e a Bertoletti 2006. 8 Naturalmente l’ipoteca di scarsa affidabilità a fini ricostruttivi grava comunque sul complesso della produzione letteraria, anche anteriore al massimo sviluppo della produzione dialettale «riflessa», dato che come è ovvio già per il periodo medievale l’azione modellizzante di varietà non locali (siciliano, francese, provenzale) limita comunque l’attendibilità dei testi poetici a fini dialettologici; così, per fare un esempio, sarà preferibile non porre sullo stesso piano, come talvolta ancora si fa, raccolte documentarie come quella di Stussi 1965 per il veneziano e indagini pur pregevoli condotte su prodotti letterari come quelle di Pellegrini 1977 per la Canzone di Auliver (cf. Loporcaro 2009: 55): testo in cui Brugnolo ha messo in luce le fitte tramature linguistiche oitaniche e occitaniche (si vedano i vari lavori ora raccolti in Brugnolo 2010). 9 Cf. Olivieri 1961: 95. mostra i due nessi in questione regolarmente intatti, almeno nella grafia, in tutte le forme con cae ga- 7 . In definitiva, le presunte tracce del fenomeno finora indicate in testi veneti medievali e rinascimentali hanno l’aria di testimoni non troppo attendibili, o meglio di incolpevoli elementi accidentali promossi a spie rivelatrici di fenomeni linguistici ai quali non è prudente ricondurli. La circostanza è esemplare circa l’impiego di testi antichi manoscritti quali testimoni positivi dell’esistenza di fenomeni fonetici. Quale indicazione di prudenza generale si potrebbe dunque assumere che solo i fatti sistematici della scripta antica, o quelli vincolati da elementi contestuali che ne rendono inequivoca l’interpretazione: penso a fattori metrici o rimici - possono essere, e con le dovute cautele, convocati quali plausibili testimoni di fatti presenti nella langue, mentre qualsiasi occorrenza sporadica non andrà considerata significativa 8 . Naturalmente vale anche il reciproco, e cioè: date le caratteristiche peculiari della messa in forma scritta di varietà romanze antiche, la mancanza di riflessi grafici di un’innovazione fonetica non può essere considerata come una prova assoluta dell’assenza di quelle innovazioni, stante la vischiosità conservativa delle grafie. Prudente sarà, in casi come questi, rinunciare allo sfruttamento di isolate o incerte occorrenze manoscritte come sicure alleate di quadri ricostruttivi meramente ipotetici. 3. Sulle testimonianze toponomastiche La non-coincidenza geografica tra le aree dialettali di provenienza dei presunti indizi filologici descritti nel precedente paragrafo (Venezia, Padova, Belluno) e quelle per le quali Pellegrini e Vigolo additano elementi toponomastici dovrebbe già di per sé insospettire. Di fatto, i nomi di luogo che conserverebbero traccia dell’antica palatalizzazione di ca (non di ga, per la quale mancano del tutto indizi di questo tipo) si concentrerebbero nel Vicentino. Così è per la denominazione di Chiampo (pronuncia dialettale [ ˈʧ a ɱ po]: Tuttle 1997) ricondotta a campus da Pellegrini scartando l’alternativa già stabilmente insediata negli studi di toponomastica. «Da campus (non *campulus)», scrive Pellegrini 1991b: 36 9 , ma la voce Lorenzo Tomasin 8 10 Almeno per alcune di esse bisognerà comunque lasciare aperta la possibilità che si tratti di forme rianalizzate a partire dal comune tipo di plurale campora. Che le terminazioni -ula e -ora potessero oscillare in toponimi di analoga formazione e, forse, confondersi è d’altra parte dimostrato da serie di toponimi come Pratora, Pracchia, Praglia (quest’ultimo come pratula o pratalia). 11 La stessa spiegazione potrebbe valere per il Chiamp segnalato da Vigolo 1986: 68 presso San Lorenzo di Vittorio Veneto. che egli contrassegna con un asterisco è di fatto la più che probabile base di vari toponimi italiani (Campli Te, Campoli Appennino Fr, Campoli del Monte Taburno Bn, forse anche il calabrese Canchi Vv, con risoluzione meridionale di pl 10 ). Come già aveva supposto Angelico Prati, il toponimo Chiampo si può ben spiegare evocando un fenomeno fonetico attestato con certezza in area veneta, e ancora attivo in voci vive e di largo uso come il tipo ciopa da copula (Prati 1968: 53, con rinvio a REW 2209), o il tipo ciapo da capulum (ivi: 41) con metatesi di l 11 . Ritenere, come fa Vigolo 1986: 71, che tali spiegazioni siano semplicemente dettate dalla «convinzione che i dialetti veneti fossero privi di palatalizzazione» significa implicitamente assumersi la responsabilità di spiegare in altro modo le varie forme in cui l’identica metatesi è sicura e indipendente dal problema della palatalizzazione di ca-: rimettere, cioè, in discussione anche l’etimologia di forme del lessico comune. Per ciopa (napoletano e tarantino chioppa, Rohlfs §323) soccorrono così numerosi paralleli romanzi da determinare la doppia entrata di REW 2209 c ō pula/ *cl ō ppa, mentre a ciapo cui corrisponde, tra gli altri, il toscano acchiappare, in cui nessuno certo cercherà un ulteriore riflesso di palatalizzazione di ca-. In altre parole, la presenza sicura di un fenomeno fonetico in una lingua dovrebbe rendere il suo riconoscimento (in tutti i casi in cui lo si può convenientemente ipotizzare) preferibile all’escogitazione di spiegazioni alternative per le quali manca il conforto di esempi certi. Si aggiunga che condizione decisiva per la validità dell’ipotesi della retrocessione di [ca] a [ka] è la sua regolarità, che include necessariamente l’estensione a tutte le voci pertinenti nel medesimo (dia)sistema posto che esse abbiano struttura riconoscibile: se, come è ormai assodato, il mutamento fonetico può procedere per classi di parole, «motivabili su basi morfosintattiche o semantiche» (Fanciullo 1994: 78), resta difficile ammettere una dinamica distinta non per due voci appartenenti a due diverse classi lessicali, ma addirittura per la stessa voce in due usi distinti. Perché dunque l’evidente identità formale e semantica tra un chiampo ‘campo’ e un Chiampo toponimo avrebbe determinato la retrocessione del primo ma non quella del secondo? La ben nota conservatività dei toponimi e la loro tendenza a ritenere fasi dell’evoluzione fonetica che la lingua ha ormai superato non sembra facilmente applicabile a forme dal significato trasparente: per fare un esempio simile, nel dialetto di Prato gli esiti del latino pratum non sono diversi per il toponimo e per il nome comune (e sono in entrambi i casi innovativi, prevedendo l’ormai totale lenizione di -t-). Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 9 12 Pellegrini 1990: 19, senza riferimenti precisi: si tratta invero di un diploma pubblicato da Stumpff-Brentano 1881: 662. 13 Pellegrini 1990: 173 riprende quell’occorrenza spiegando: «Clampo cioè Kjampo con palatalizzazione (cl è solo grafico)», ma la compendiaria spiegazione non convince. Se - ciò che Pellegrini non sembra revocare in dubbio - l’intacco palatale di ca e la palatalizzazione del nesso cl non convissero in sincronia (tanto che il secondo provoca la retrocessione del primo), è difficile pensare che la grafia <cl> possa rappresentare un suono palatale anteriormente all’avvenuta retrocessione a [ka] degli esiti di ca precedentemente palatalizzati. La spiegazione più economica, insomma, consiste a mio avviso nel considerare la grafia <cl> di Clampo per quello che sembra: cioè l’espressione del nesso [kl]. 14 Mi fondo sui dati pubblicati nel sito ufficiale dell’amministrazione comunale: www.comune. roana.vi.it. Una conferma della spiegazione etimologica tradizionale per il toponimo di cui discutiamo sembra provenire, peraltro, dalla grafia Clampo in un documento del 1091 richiamata dallo stesso Pellegrini per documentare la sua ipotesi, cioè la pronuncia già anticamente palatalizzata della consonante iniziale 12 ; il referto potrebbe rappresentare in realtà piuttosto una smentita che una conferma, per due ragioni: in primo luogo a quell’altezza cronologica il nesso ca non sarebbe comunque ancora arrivato alla completa palatalizzazione, bensì più verosimilmente (come chiaramente desumibile dai dati esposti da Celata 2001 e Videsott 2001) alla fase [ca] non fonologizzata cui peraltro allude la stessa Vigolo, e che sembra antieconomico riconoscere in quella grafia 13 ; in secondo luogo, e a più forte ragione, il nesso cl non doveva avere ancora subito l’intacco che è premessa indispensabile per l’impiego del digramma <cl> per un suono palatale. L’ipotesi etimologica del toponimo che qui si propone ci sembra insomma preferibile perché la sua formulazione non richiede il ricorso a fatti che sono da considerare estranei alla fonetica locale fino a prova in contrario. Fragilissimo, tanto da polverizzarsi al tocco di una verifica, anche il secondo presunto relitto toponomastico indicato da Pellegrini e Vigolo, cioè la Contrada del Chian che i due studiosi attestano nell’Altopiano di Asiago, presso Roana, ma che per la verità non risulta annoverato nemmeno tra le sei frazioni ufficiali di quel comune, le quali in almeno due casi mostrano peraltro ca ben saldo (Camporovere e Canove; le altre sono Cesuna, Mezzaselva, Treschè e appunto Roana), né è rintracciabile nello stradario ufficiale della sua amministrazione municipale, che non comprende solo i nomi delle vie ma anche quelli di svariate altre località 14 . Con ciò non si vuol dire, naturalmente, che il microtoponimo non esista: ma si tratterebbe evidentemente di una località minuscola, la cui denominazione dev’essere stata raccolta sulla base di testimonianze orali, probabilmente individue e dotate perciò di un assai tenue valore documentario. Tanto è bastato, tuttavia, per proiettare la misteriosa contrada nel Lexikon der Romanistischen Linguistik, in cui Pellegrini 1988: 440 menziona il toponimo tra quelli illustrati per la sua panoramica toponomastica dell’Italoromania. Aggiungeremo, per completezza, che una Contrà dei cani esiste effettivamente nel Vicentino, nel comune di Bassano del Grappa (quindi in Lorenzo Tomasin 10 15 Diverso, naturalmente, è il caso dei dialetti lombardi alpini che presentano «pochi esempi dell’esito palatale fissato soltanto in alcune parole, mentre per il resto si hanno invece [k, g] apparentemente conservati (ma in realtà, si può dedurre, ricostruiti): così ad esempio a Livigno (alta Valtellina, prov. di Sondrio) ‘coda’ suona [co] (non *[ko])» (Loporcaro 2009: 67, sulla scorta di Salvioni 1925: 215). Altra cosa, infatti, è la conservazione di un esito nel corpo del lessico usuale - e a fortiori in termini di uso comune come quelli richiamati da Salvioni -, altra che una simile conservazione possa prodursi in un microtoponimo. un area linguistica ben distinta dall’altopiano di Asiago), ma in tale forma si trova ovunque citata, né risulta - sulla base di qualche sommaria indagine da me compiuta tra informatori di quella zona - che ne sia nota una pronuncia palatalizzata di cain questo toponimo. Non meno fragile la scheda toponomastica illustrata, per un altro microtoponimo della provincia di Vicenza (zona di Recoaro Terme), dalla stessa Maria Teresa Vigolo: «La dizione ufficiale conosciuta è Ponte del Castel d’Isòpo, ma tra gli informatori più anziani si nota l’intacco palatale di ka . kja in chiastèl, chiastèlo, riconosciuta dagli stessi parlanti come voce arcaica» (Vigolo 1992: 13-14): dove la testimonianza di informatori anziani (pur se non, voglio supporre, così anziani da riportare all’epoca in cui le ipotetiche forme con intacco della velare sarebbero «retrocesse», a meno di non ammettere casi di miracolosa longevità) viene evidentemente impiegata non tanto per convalidare la sopravvivenza di un fenomeno fino alle soglie della sdialettizzazione contemporanea - ciò a cui normalmente servono le attestazioni di questo tipo -, ma per documentare una fattispiecie fonetica sopravvissuta in un’unico lemma, in cui si manifesterebbe un allòfono ([c] o [kj]) altrimenti assente dall’inventario fonetico del vicentino e in generale dei dialetti veneti contemporanei 15 . Inoltre, perché mai l’ipotetico fossile fonetico rappresentato dalla pronuncia palatalizzata di Chiastel d’Isopo non avrebbe dovuto allinearsi ai nessi che si presume abbiano innescato la retrocessione degli esiti palatali di ca, cioè cl, gl, per i quali in questa zona si ha la solita affricata palatale (sorda o sonora) dei dialetti veneti moderni? L’ipotesi che un fono, un tempo regolarmente realizzato in tutti i contesti simili, venga mantenuto in un’unica forma, anzi nel suo uso in una locuzione toponomastica e per il resto realizzata in altro modo (giacché castel(o) è un termine del linguaggio comune, che localmente si pronuncia come in tutto il resto dell’area linguistica lombardo-veneta) è così poco economica da apparire francamente inverosimile. Poiché tuttavia alcune delle isolate testimonianze toponomastiche appena citate (in particolare Chiampo e Contrada del Chian) sono state quelle più spesso riprese nella migliore letteratura scientifica degli ultimi anni, ciò potrà indurre a qualche riflessione sull’impiego dei referti toponomastici per la ricostruzione di fatti fonetici sistematici. Per ragioni ben diverse, ma in modo simile a quanto si è detto per le presunte testimonianze che abbiamo detto filologiche, anche i referti della toponomastica, specie se isolati, non garantiti da plurimi esempi ed etimologicamente Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 11 16 Alla luce di tali cautele andranno riletti i dati raccolti - pur in un’area diversa da quella di cui qui si tratta - da Frank Jodl 2005: 160, che rileva, e interpreta come indizio dell’avvenuto intacco in area trentina, una grafia <çaltinaccio> per l’odierno toponimo Caldonazzo, in provincia di Trento, in un documento del 1127. 17 Esemplari, per la messa in luce di simili problemi e per la loro equilibrata discussione, i lavori di Jean-Pierre Chambon sulla toponomastica francese: cf. ad esempio Chambon 2007-2011. indubbî, sono testimoni tanto preziosi quanto infidi quando si tratti di ricostruire fasi ipotetiche della storia linguistica interna 16 . I casi analoghi in cui da un singolo specimen toponomastico si potrebbe, seguendo la mera e astratta plausibilità di un mutamento fonetico, ricavare dati di sistema sono evidentemente tanto numerosi quanto metodologicamente fuorvianti 17 . Il caso è per certi aspetti simile a quello dei due esemplari toponomastici (San Stae e San Stin, nomi i due contrade veneziane) indicati da Ascoli 1873: 464-65 come spie dell’antica «friulanità» del veneziano. Essi sono stati successivamente ricondotti (Monteverdi 1921-22 e Sepulcri 1927) alla piena plausibilità nell’àmbito di dinamiche tutte interne al veneziano concretamente documentato dai testi noti: col che si mostrano i limiti di simili ricostruzioni circolari, in quanto insieme deduttive - perché fondate sulla ricerca di conferme nel particolare di modelli interpretativi che si ritiene validi in generale - e induttive - perché adibite a dimostrare modelli generali tràmite l’attribuzione di valore probatorio a elementi particolari che contestualmente potrebbero essere interpretati in modo diverso. 4. Sulle testimonianze lessicali L’ultimo tipo di referti indicati in favore dell’ipotesi dell’antica diffusione (pan)veneta della palatalizzazione di caè a prima vista il più solido, in quanto è (o sarebbe) omologo alle tracce presenti in varietà lombarde alpine, in cui pure il fenomeno si presenta con certezza in forme etimologicamente trasparenti, come i cospicui e numerosi esempi adunati da Salvioni 1899 per i dialetti di quell’area; ancora, questo tipo di indizi avrebbe, se convalidato, un’estensione geografica ben maggiore rispetto agli isolati esempi tratti dai testi antichi o dalla toponomastica, di cui si è già illustrata la dubbia solidità. Il problema, in questo caso, è che le voci indicate come depositarie della conservazione del fenomeno sono di uso marginale e di etimologia discutibile: il che a prima vista potrebbe apparire un argomento di rincalzo all’ipotesi di partenza, visto che in questi casi la presunta regressione di [ca ɟ a] o di [ ʧ a ʤ a] potrebbe essere stata inibita proprio dall’opacità delle forme implicate. Ma come cercheremo di documentare, la possibilità che le voci indiziate si spieghino con il processo ipotizzato da Pellegrini è poco verosimile alla luce di una ricostruzione fonetica non forzata, ossia non tesa finalisticamente a dimostrare un’ipotesi cui i dati di realtà che si considerano assodati non offrono appigli sicuri. Lorenzo Tomasin 12 18 L’ipotesi è stata in seguito ripresa e confermata da Marcato 1982: 76. 19 Cortelazzo 1984 segnala la più antica attestazione lessicografica nel dizionario padovano di Patriarchi 1796, che riporta solo gionda (voce assente nella prima edizione dello stesso dizionario, 1775); per il veneziano, Boerio 1829 riporta giondar o far gionda; nel vocabolario dei dialetti bergamaschi di Tiraboschi 1873 le forme registrate sono gionda, giondina e giongina; all’attestazione nel dialetto giuliano di Rosamani 1958 già segnalata da Pellegrini si può ora aggiungere quella relativa al dialetto ladino-veneto della valle di Zoldo riportata da Croatto 2004, s.v. ğ ondà. È ora possibile qualche retrodatazione grazie all’uso letterario di queste forme: una preziosa attestazione cinquecentesca si ha in un testo scritto in italiano da un autore di Castelfranco Veneto: si tratta dei Pazzi amanti. Comedia pastorale di Lodovico Riccato, stampata a Treviso nel 1613 (p. 141: «In somma ho deliberato, intervenga o succeda ciò che può al mondo, di divenir una volta prodigo della robba altrui, & far gionda solennissima con li miei compagni»). Durante quel secolo l’espressione approda peraltro nella letteratura dialettale veneziana: «E come cavrioi gaiardi, e sneli/ in le belle occasion i sa far gionda» (Basnatio Sorsi [pseudonimo di Sebastiano Rossi], El Pantalon moderno, Venezia, Zamboni, 1676, p. 16). La più diffusa famiglia lessicale richiamata a tal proposito è quella riconducibile all’espressione far gionda (con la variante: far gianda, di cui diremo sotto) nel senso di ‘gozzovigliare’. Per il friulano il vocabolario del Pirona 1871: 186 riporta accanto alla voce principale gioldé e giòldi per ‘godere’ anche il verbo giondâ, con significato analogo (‘gongolare, giubilare, godere, trionfare’) e il sostantivo giònde ‘giubilo’. Evidente il nesso etimologico di questo grappolo di forme, e plausibile - nell’àmbito della fonetica friulana - la derivazione da gaudere proposta già da Ascoli 1873: 513 nelle sue chiose al Pirona, attraverso la probabile palatalizzazione di gae la concomitante evoluzione del nesso audsecondo le dinamiche fonetico-articolatorie descritte da Tuttle 1991 con riferimento a tutta l’Italia settentrionale. Rilevando l’espressione far gionda nell’Agordino (cioè in una zona del bellunese a contatto con l’area cosiddetta ladino-veneta in cui l’intacco di ca è a tutt’oggi verificabile), Pellegrini 1947-48: 267 ipotizza che, per tramite del verbo giondar, essa abbia qui la stessa origine 18 ; constatandone poi la presenza anche nei dialetti urbani della pianura e in quello di Venezia, egli estende la stessa spiegazione a fenomeni autoctoni di quelle varietà: far gionda è in effetti attestato, in epoca moderna, fra Treviso, Venezia e Padova, e qualche attestazione letteraria già seicentesca si può ora aggiungere alle occorrenze lessicografiche già prodotte da Pellegrini e da Cortelazzo 19 . Giusto la disposizione del materiale, tanto più fittamente attestato e più antico quanto più si risale dalla pianura verso la montagna e dal Veneto verso il Friuli, può far supporre che, come ipotizzava già Cortelazzo, la voce vada intesa come un prestito - esattamente come gli allotropi delle stesse basi qui ipotizzate transitati attraverso il francese, cioè i tipi ˹ gioia ˺ e ˹ gioire ˺ - anziché come un prodotto autoctono del veneziano o del padovano. Oltre a quelle con giolde giondil Pirona non attesta altre forme autoctone per gli esiti di gaudere, e anzi qualifica come venez.(ianismo), cioè prestito la voce godi (‘giolito, godimento, diletto’); a Venezia, per contro, gli esiti locali della stessa base sono, fin dall’abbondante documentazione medievale, caratterizzati da voci Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 13 20 Cf. rispettivamente Vidossich 1906 e Prati 1968: 165: «può forse esservi il legame tra s’gianda e cianta, dati i poles. sbríndolo ‘sbrendolo’ e sbrindolare ‘sbrindolare; girellare, ecc.’, sbrindolón ‘brindellone, dondolon ecc.’, sbrindola ‘girellona, sgualdrina’, il tosc. cimbràccole ‘panni di poco valore’, cimbràccolo ‘ciondolo, straccio’ e cimbràccola ‘donna sciatta e becera’. S’gianda provenne forse dal trentino, in cui ć e ǵ per z e ζ persistono a volte anche nel parlare cittadino. Però il rover. s’gendom richiama il river. s’gendàr ‘tritare, sminuzzare’ che si prestano a sensi spregiativi». certamente non dotte come galder, golder e simili, e nessuna delle basi affini con aud (laudare, audire, ecc.) mostra alcun esito del tipo di quello che si ha (o si avrebbe) da gaudere in gioldar; l’ipotesi di una doppia trafila etimologica è dunque francamente meno probabile di quella del prestito, o dell’incrocio con una famiglia di voci la cui parentela con quelle appena mostrate è solo apparente. Fino a Chioggia e a Grado (far sgianda: Naccari-Boscolo 1982), partendo dal Trentino, dove la quantità d’attestazioni e la varietà di forme e di significati appaiono anche maggiori ( ʃ giandona ‘sgualdrina’ a Trento, ʃ giandom ‘straccione’ a Rovereto, ʃ gianda, gianda e ʃ giandona ‘donna sciatta’ in Valsugana) si rileva infatti un tipo alternativo gianda/ sgianda per il quale la presenza, in francese, di un glander che oltre a ‘raccogliere ghiande’ significa ‘perdre son temps à des simulacres d’occupation, se promener sans but précis’ (TLF), consiglia di prendere in considerazione la derivazione da glans. Forse meno convincenti, ma comunque alternativi all’ipotesi di un’autoctona palatalizzazione di gain area veneta, sono gli etimi proposti da Vidossich (*gondolare) e da Prati, che segnalando le voci trentine e valsuganotte appena citate le connette a cianta ‘schianta’, ‘scheggia’ 20 . Quel che importa qui rilevare è che la distribuzione cronologica e geografica di tali forme, sia che esse riflettano un’unica base etimologica, sia che risultino da un incrocio di diverse fattispecie lessicali - fatto non raro in voci espressive ed evidentemente connotate come sono tutte quelle citate - rende assai poco probabile che si tratti di voci autoctone dell’area linguistica veneta. Il secondo insieme di voci indicato da Vigolo e Pellegrini è tratto dall’ittionimia adriatica e riguarda la forma chioggiotta e veneziana [ ʧ a ˈ von] (chiavon, ciavon), nome del mugil capito in una delle sue fasi di sviluppo. Lo stesso pesce in italiano si chiama capitone, ma quest’ultima denominazione è considerata d’origine non settentrionale, cioè napoletana (Zolli 1986: 11: sebbene a Napoli il capitone sia un’anguilla) o siciliana (Marcato 1997: 61); a caput, ciononostante, rimonterebbero secondo Vigolo 1986: 72 anche le forme venete appena citate. Un’agevole spiegazione alternativa di simili ittionimi è in realtà offerta dalla stessa Vigolo, che rilevando a Chioggia e a Marano Lagunare il diminutivo ciavarin per indicare i piccoli dello stesso pesce, osserva: «la denominazione ciavarìn pone ... qualche difficoltà in quanto non è un diminutivo di ciavón e si connette piuttosto ad una voce veneta assai diffusa: ciavare ‘fottere, imbrogliare’ ecc. come risulta anche dal Naccari-Boscolo, 109, che registra s.v. ciavarín ‘donnaiolo’ e al pl. ‘i piccoli del mugil cephalus’». Vigolo ne conclude: «è probabile quindi che ciavarín sia una reinterpretazione di ciavón, rifatto su ciavare, più facilmente interpretabile, Lorenzo Tomasin 14 non essendo risultato ciavón ad un certo momento, più trasparente». L’argomentazione, si diceva, contiene già la soluzione più agevole: che cioè tanto il tipo chiavon quanto il diminutivo chiavarin siano riconducibili, esattamente come il verbo ciavar(e) alla base clave ‘chiave’, dalla quale tutti possono discendere per la via più diretta, cioè nell’ambito delle stesse condizioni fonetiche che caratterizzano oggi i dialetti del litorale adriatico settentrionale. Gioverà ricordare, a complemento dell’ipotesi etimologica appena avanzata, che la forma e l’aspetto del mugil capito, pesce snello dalle squame argentate, sono compatibili con una simile denominazione metaforica, come mostra la diffusione, in altre zone d’Italia, di denominazioni come pesce calamita per animali della stessa specie (Palombi-Santarelli 1960: 18). Sempre nell’àmbito dell’ittionimia trattiene un’ulteriore forma addotta da Vigolo 1986: 73, cioè [ ʤ a ˈ vitso] (giavizo), nome con cui a Marano Lagunare - in area linguistica bisiacca - si indica la spicara vulgaris: lo stesso pesce è chiamato a Venezia garizzo e in area giuliana gavizzo (ivi). Tale alternanza potrebbe in effetti far pensare a un residuo della palatalizzazione: tuttavia la base etimologica garum («che indica sia una salsa di pesce in uso presso gli antichi ..., sia il nome di un pesce non identificato, prestito dal gr. γαρος »: Vigolo 1986: 73) appare assai problematica e - di nuovo - antieconomica rispetto a ipotesi alternative. Le forme evidentemente affini ghiriza e ghirizo del triestino, zerro e zèrolo della costa tirrenica (cf. Palombi-Saltarelli 1986: 82) sono comunemente ricondotte a gerres, REW 3746 (e di recente anche Zamboni 2005: 280), base da cui converrà ripartire per più convincenti ipotesi etimologiche, affrancate da qualsiasi dipendenza con il nesso che qui si discute. Un ulteriore relitto dell’antica palatalizzazione è indicato nel lessico marinaresco da Vigolo 1986: 73-74: si tratta della locuzione veneziana schiavete o giavete de spago (queste le grafie del Boerio) nel significato di ‘matassina o piccola quantità di spago’, che la studiosa riconduce, sulla scorta di DEI III 1175, al «lat. medioev. gavecta , lat. scabellum, nel senso di ‘arcolaio’, REW 7633.2, con lo stesso mutamento di suffisso avvenuto nel francese (échevette contro écheveau)»; e ancora, sulla scorta del GDLI, «il Battaglia ... cita il ven. giaveta accanto all’it. gavetta , lat. medioev. gavecta, probabilmente da cavus ‘fune’». Vigolo conclude: «qualunque sia la base etimologica, la palatalizzazione in veneziano è ben documentata e trova riscontri storici anche in Citolini, uno scrittore vittoriese [cioè di Serravalle] del sec. XVI citato dal Battaglia VI, 619, che registra un giavette». Ancora una volta, un cambio di prospettiva disponibile alla ricerca della soluzione più lineare spinge a tornare al Boerio 1856, il quale in realtà lemmatizza anche la voce giaveta nel significato di ‘chiavetta o copiglia. Pezzo a cuneo che si mette sul foro di un perno di ferro per fermarlo e assicurarlo’. Se dunque il nome veneziano delle schiavete o giavete de spago risultasse da un incrocio tra il più comune gavetta e questa legittima giaveta discendente di clave (altra voce marinaresca, per la quale risponde in francese la clavette chiosata appunto giavetta dal Dizionario di marina in tre lingue, Milano, 1813), non sarebbe necessario far balenare nel veneziano, varietà priva di Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 15 21 Cf. l’introduzione di Pellegrini a Tomasi 1983. In particolare, un notevole valore è stato attribuito da Pellegrini (e poi da Vigolo) a varie forme dialettali venete riconducibili alla base calathum, che Prati 1968 attribuiva, ancora, a metatesi di l; e a un diminutivo clatula rinvia anche REW 1488 per i molti esiti italiani non riconducibili direttamente all’etimo principale, per il quale sono insoddisfacenti anche il triestino kaltro e il lomb. kadre ‘Schublade’, comasco kàdora: tutte forme per le quali evidentemente l’eventuale palatalizzazione di caresta fuori campo. esiti palatalizzati di ca nella documentazione diacronica e nel lessico di sicura spiegazione etimologica, un fenomeno che gli è evidentemente estraneo. L’insieme dei materiali lessicali adunati da Vigolo 1986 si integra con pochi altri elementi che, per essere attestati sporadicamente in aree confinanti con quelle ladino-venete o friulane, sono più agevolmente inquadrabili come prestiti individuali (tali saranno gli esempi segnalati per il dialetto di Revine Lago, in provincia di Treviso ma a ridosso dell’amfizona veneto-friulana) 21 : come abbiamo già notato all’inizio di questo lavoro, la documentazione dell’intacco di ca, ga appare più significativa nelle aree remote dal confine, o meglio dall’ampia fascia che separa le zone che ne sono attualmente aliene da quelle che lo presentano tutt’ora. Ed è, o sarebbe, di valore dirimente se documentabile con certezza nelle aree urbane e rurali della pianura e del litorale. Per quanto riguarda i confini nordoccidentali dell’Italoromania, ancora Pellegrini ha voluto sottrarre le voci piemontesi interessate al fenomeno dall’influsso del francoprovenzale, spiegandole come forme autoctone (Pellegrini 1988). Ma in realtà, se si ammette l’idea che la palatalizzazione ebbe uno dei suoi punti d’irradiazione nella Pianura padana (l’altro si trova evidentemente nella zona oitanica, mentre altre zone della Galloromania come la Provenza o la Piccardia ne restano lungamente indenni, a differenza del dominio francoprovenzale), è chiaro che giusto le valli alpine del Piemonte si trovano sul confine tra zone interessate da entrambi i presunti fuochi dell’irradiazione. E quanto alla Liguria, Fiorenzo Toso 2010 ha recentemente ribadito la natura di gallicismo «documentabile come tale» dell’unico termine (genovese ciantê) a suo tempo indicato da Schmid 1956: 55-56 come residuo in quella varietà dell’antico intacco del nesso. 5. Conclusioni e cautele L’intento di documentare l’antica presenza dell’intacco palatale di ca, ga nei dialetti veneti, e in particolare in quelli centrali e orientali, è legato - come si è detto all’inizio di questo articolo - all’idea di una Romània continua estesa a tutto l’arco alpino e alla Pianura padana, cioè all’enfatizzazione di un’antica solidarietà fra le parlate di quella che Ascoli considerava la famiglia ladina ossia retoromanza da un lato, e quelle galloitaliche e venete da un altro. Nell’economia complessiva di un simile modello, molto attrattiva è la rilettura della palatalizzazione di quei nessi non come una caratteristica innovazione da cui la maggior parte dei dialetti Lorenzo Tomasin 16 22 Cf. Pfister 1987, Wüest 1995 e più di recente gli studi di Lusignan 2012. gallo-italici e veneti resterebbe immune, ma al contrario come un tratto che da questi ultimi sarebbe stato successivamente scalzato, venendo tardivamente accolto nelle varietà alpine e friulane, e permanendovi nelle forme tipiche della conservazione in area laterale. Rebus sic stantibus, accertare l’infondatezza documentaria o la scarsa verosimiglianza delle presunte tracce di palatalizazione in area padana non significa necessariamente dimostrarne l’assenza, quanto piuttosto riproporre gli argomenti di una realtà storicamente concreta, e perciò appannata e talora contraddittoria, sul lineare schematismo di una teoria che tuttavia talora sembra refrattaria a un confronto sereno con i dati della realtà documentaria. Del resto, i segnali che giungono (o non giungono) dai documenti qui esaminati mi paiono perfettamente coerenti con quelli che, per altra via, facevano cercare ad Alberto Zamboni 1995: 62 «le premesse della palatalalizzazione di / ka, ga/ nella tendenza all’anteriorizzazione che - più o meno nelle stesse aree, si osservi - coinvolge [a] in posizione forte (cioè in sillaba tonica libera): fenomeno notoriamente francese, romancio engadinese (ma non surselvano), ladino (non friulano tuttavia) e galloitalico (non veneto quindi)» (corsivo mio) - dove è in gioco, evidentemente, l’interpretazione degli elementi di agallicitià a più riprese evidenziati dal compianto studioso nelle varietà venete. Se pure - con mezzi che è difficile immaginare, vista la natura fluida e meramente convenzionale delle grafie dei testi antichi - fosse possibile raccogliere elementi positivi in direzione opposta a quella percorsa da Pellegrini nella sua pluridecennale e per tanti aspetti magistrale indagine glottologica, ciò non importerebbe, d’altra parte, un risoluto smantellamento della sua complessiva ipotesi di continuità geografica del fenomeno. Piuttosto, condurrebbe a considerare quella continuità in modi forse meno schematici rispetto a come essa è stata talora proposta. Così, cambiando quadrante geografico una generale compattezza linguistica galloromanza è riconoscibile anche a prescindere dal fatto che proprio sul punto qui esaminato - cioè l’intacco generalizzato delle occlusive velari davanti alla vocale centrale - alcune importanti varietà del dominio linguistico compreso tra Alpi e Pirenei non rispondono come il francese oitanico: così è per l’occitano (salvo le varietà settentrionali, limosine-alverniati), per il normanno e per il piccardo, che come è noto ha conosciuto una palatalizzazione solo parziale, per ragioni che Dauzat 1937 e Wartburg 1946 connettevano all’influsso germanico, ma sulle quali oggi si tende ad essere più cauti 22 . D’altra parte, lo stesso schema basato sulla dinamica innovazione/ conservazione, che individua naturalmente nella pianura il centro d’irradiazione delle novità e nelle pendici alpine il luogo ricettivo e conservativo ha ovviamente una profonda ragion d’essere, ma proprio nelle aree toccate dai fenomeni che si sono qui esaminati conosce anche significative varianti (se non le si vogliano considerare controesempi). Il caso di Venezia, culla di un dialetto che, almeno nella fase documentata, Tra linguistica e filologia. Contributo al dibattito sugli esiti di ca, ga 17 23 Tale considerazione muove in un senso solo apparentemente contrario rispetto a quella lucidamente espressa da Marcello Barbato a proposito dell’interpretazione dei dati linguistici desunti dai testi antichi (in sintesi: «È giusto esercitare un sano scetticismo sui testi scritti, a patto però che l’ipotesi che ne deriva continui a tenere insieme tutti i dati»: Barbato 2014: 108). Le sue acute e misurate deduzioni funzionano perfettamente nell’economia dell’esempio da lui scelto per documentare l’attendibilità di dati linguistici a prima vista confusi ricavabili da un singolo documento medievale (un resoconto del molisano Nicola di Bojano, 1361), ma giusto nella sistematicità dei referti da lui puntualmente catalogati scorgiamo in realtà una conferma di quanto qui si propone: la sincerità linguistica dei testi antichi si presume tanto maggiore, quanto più i dati che essi offrono interagiscono coerentemente tra loro. L’idea che le ipotesi complessive tengano insieme tutti i dati va naturalmente intesa nel senso che l’errore materiale, l’interferenza di fattori esterni, i forti condizionamenti che incombono sui testi letterari e i fenomeni di variazione sociolinguistica e stilistica sono pure essi elementi di una grammatica, o se si preferisce, di una realtà linguistica intesa in un senso un poco più ampio di quello per cui talvolta l’esprit de géométrie di noi posteri vuole ridurre a piena e rigorosa coerenza le testimonianze del passato. A tale coerenza i metodi ricostruttivi della linguistica storica non possono che (anzi: dovrebbero per certo) tendere asintoticamente, preferendo forse la ponderata cautela delle spiegazioni verosimili alla perentorietà assertiva delle pretese dimostrazioni. palesa una tendenza innovativa minima tra le varietà del quadrante italoromanzo nordorientale, è emblematico allorché l’innegabile influsso cittadino finisce per avere un effetto inibitorio sui meccanismi innovativi delle varietà extraurbane, come si verifica in tanti àmbiti della fonomorfologia. In conclusione, nel ricostruire fasi trascorse della storia linguistica interna, l’escussione dei documenti disponibili non può esimersi dal tener presente l’intrinseca fluidità dei materiali: lungi dal compromettere la verosimiglianza o la onestà dei suoi assunti, la ricostruzione del passato linguistico - nella quale, come ha osservato Pietro Trifone 2013: 9 proponendo un’interessante applicazione alla ricerca storico-linguistica di una riflessione epistemologica di Hans Albert, non è possibile pervenire a verità assolute - non può che attenersi, nella ricerca di ipotesi plausibili e di dati di realtà aperti a plurime interpretazioni, a un costruttivo, e tutt’altro che debole, scetticismo 23 . Losanna Lorenzo Tomasin Bibliografia Ascoli, G. I. 1873: «Saggi ladini», AGI 1: 1-537 Barbato, M. 2014: «Vocali finali in molisano, o dell’importanza dei testi antichi», Lingua e Stile 1/ 2015: 91-112 Bartoli, M. G. 1906: Das Dalmatische. 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