Vox Romanica
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0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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Kristol De StefaniLucia Lazzerini, Les troubadours et la Sagesse, Moustier Ventadour (Association Carrefour Ventadour) 2013, 219 p.
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Gerardo Larghi
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Besprechungen - Comptes rendus 285 hâtivement comme des cas de polygenèse ou de contamination (voir par exemples les v. 43, 80, 100, 12, 191, plus beaucoup d’autres cas, en absence de PB, qui ne sont pas nécessairement tous imputables à l’archétype). Ces convergences sont en tout cas au moins équivalentes à celles qui permettent de configurer un couple MP, d’autant plus que certaines de ces dernières semblent douteuses: aux v. 27-28 l’hypométrie de MP est partagée par B, et pourrait remonter à l’archétype (faut-il restaurer la forme complète no se à la place de la forme enclitique no·s? ); aux v. 37-40 on ne peut pas parler d’une véritable faute commune. La tradition de la version courte semble donc décidément contaminée. Au-delà de ces cas douteux, le chapitre sur les critères d’édition est impeccable du point de vue méthodologique, et l’on peut partager toutes les prises de position de l’éditrice. Il faut d’ailleurs remarquer que ses conclusions sont valables pour les deux configurations possibles du stemma (à trois branches avec couple MP ou à deux branches avec opposition TM vs. PB), parce qu’il est toujours possible de respecter la hiérarchie établie entre les manuscrits (TMPB; quelques doutes pourraient surgir seulement dans les rares cas de convergence PB), et le témoignage de la source latine est toujours précieux dans les cas litigieux. La question de la restitution du texte est plus délicate dans le cas de la version longue attestée par un seul manuscrit. Ici, même si l’éditrice parle d’une certaine régularité métrique du texte, ses interventions pour corriger les hypométries et hypermétries sont assez nombreuses, et dans certains cas on pourrait facilement proposer des solutions alternatives parfois même préférables (par exemple aux v. 38, 59, 82, 103, 183, 226, 325, 411, 666, 978, 983, 1045, 1114-1115, 1179, 1213, 1215, 1329, 1379). Dans ces circonstances, en tenant compte de la nature du texte, une attitude plus respectueuse du témoin unique n’aurait pas été inopportune; le choix de l’éditrice de marquer en italique ou par des crochets toutes ses interventions rend néanmoins plus facile la lecture en filigrane de la leçon du manuscrit. Pour conclure cette courte réflexion, on peut dire que l’éditeur de textes romans caractérisés par une tradition de ce type est appelé à une application de la méthodologie critique plus pragmatique qu’idéologique, sans pour autant renoncer à l’ambition de proposer un texte le plus proche possible de l’original. Face à une tradition fluide et à la difficulté d’établir un stemma solide, il faut inévitablement s’appuyer sur le manuscrit le plus complet et le plus digne de confiance, qui sera de toute façon repéré grâce au travail préalable d’analyse et des comparaisons des témoins. Les amendements au texte seront faits bien sûr à partir des données offertes par la recensio, mais exigeront inévitablement une assomption de responsabilité de la part de l’éditeur pour repérer et justifier les meilleures leçons; les progrès de la critique philologique ont bien montré qu’une préparation solide et l’expérience permettent d’éviter le risque de faire prévaloir ses goûts personnels, ce que déjà Bédier stigmatisait. À cet égard, le travail de Maria Sofia Lannutti est un excellent exemple d’exercice philologique, qui aboutit à un texte extrêmement soigné et fiable, et offre toujours aux lecteurs les outils pour l’apprécier, l’évaluer et éventuellement l’améliorer. Luca Barbieri H Lucia Lazzerini, Les troubadours et la Sagesse, Moustier Ventadour (Association Carrefour Ventadour) 2013, 219 p. Come dichiarato dal titolo, nella sua più recente fatica, Lucia Lazzerini rilegge la lirica occitana medievale alla luce del concetto di figura e del metodo esegetico «dei quattro sensi della Scrittura». La filologa fiorentina, quindi, in questo bel libro dato alle stampe per i tipi di una piccola ma coraggiosa casa editrice limosina, i Cahiers de Carrefour Ventadour, si propone Besprechungen - Comptes rendus 286 1 G. Duby, La société aux XI e et XII e siècles dans la région mâconnaise, Paris 1953: 53, e 269-72; e id., «Les jeunes dans la société aristocratique dans la France du Nord-Ouest au XII e siècle» in: id., Hommes et structures du Moyen Âge. Le savoir historique, vol. 1, Paris-La Haye 1973: 213-25. di ridiscutere concetti ormai passati in giudicato e di riaprire la discussione sulla fin’amor, discussione che, da quando la tesi sociologica ormai quasi 60 anni fa ebbe il sopravvento su ogni altra ipotesi, ha fatto pochissimi passi in avanti. Approfondire ulteriormente alcune delle piste d’indagine che l’autrice aveva pionieristicamente già aperto e, insieme, indicare ai ricercatori nuovi e più ampi campi da esplorare sono quindi i due obiettivi cui tendono le dense pagine che qui recensiamo. L’idea chiave che muove la studiosa toscana è, anzitutto, quella di «interpréter la lyrique médiévale à la lumière de la culture de son époque» (7), vale a dire alla luce della polisemia, del pensiero simbolico e della lettura esegetica della Bibbia. Idea, dichiariamolo subito, difficilmente contestabile e che però, come tante uova di Colombo, ha rischiato a lungo (né oggi il pericolo può dirsi scampato), di essere delaissée dalla critica proprio in ragione della sua (apparente) semplicità. Come noto nella domna dei trovatori, secondo un’interpretazione che risale al grande studioso tedesco Erich Köhler, sarebbe da individuare la «domina» feudale, la sposa del castellano, immagine sublimata del desiderio frustrato degli juvenes, i giovani non casati, normalmente tutti i figli di un signore ad esclusione del primogenito, di essere investiti di un feudo. In virtù dello spitzeriano paradosso amoroso, nella canzone d’amore si rifletterebbe solo il desiderio di questi stessi juvenes di possedere la donna, giacché tale aspirazione mai potrà realizzarsi in quanto la vera gratificazione dell’amante risiederebbe nel continuo perfezionamento e non nel raggiungimento dell’oggetto del proprio desiderio. Evidentemente la riflessione kohleriana si inscrisse entro un’epoca in cui gli storici avevano scoperto l’importanza dell’indagine sociologica, e allorché da pochissimi anni era stata offerta alla riflessione degli studiosi la rivoluzionaria di Geroges Duby su Mâcon e la società mâconnaise. In quelle pagine il grande storico attirò la nostra attenzione sul gruppo di juvenes provenienti dalle fila della nobiltà ma destinati a restare senza eredità, gruppo che sviluppò un forte desiderio di conquistare nuove proprietà, beni e ricchezze 1 : non stupisce quindi, data la forza del quadro generale disegnato da Duby, che quella tesi, genialmente coniugata con i dati letterari, si sia imposta tra gli occitanisti. Riprendendo i dati della questione e partendo dalle vicende cluniacensi invece che dalla storia borgognona, e pertanto analizzando alcuni tra i più antichi testi della letteratura occitanica, riesaminandone contenuti e origini, Lazzerini dimostra inequivocabilmente come in essi sia pervasivamente presente la cultura biblica, frutto, a sua volta, di quella scuola di pensiero di origine monastica che improntò così profondamente di sé l’Europa occidentale (20). Il secondo capitolo del libro riguarda l’influsso del pensiero agostiniano nella elaborazione di alcuni concetti-chiave della poesia occitanica, da quello di joven, al jelos, al trovatore fin’aman. Attraverso alcune finissime considerazioni, l’autrice arriva a dimostrare come l’amata abbia avuto le sembianze non più di una improbabile castellana, quanto quelle della biblica Sapientia (23-30). Le pagine dedicate all’analisi dell’influenza esercitata dal Grande Codice sulla più antica lirica romanza (31-40) ed alla trasmutazione della domna e dell’amor de lonh giocato sulle allusioni alla metafora nuziale quale emerge dal Cantico dei Cantici (41-72), sono certamente tra le più appassionanti di questo bel libro. Giocando sul doppio registro della analisi filologico-semantica e della ricerca delle fonti vetero-testamentarie, ma anche frugando nell’immenso corpus medievale dei commenti biblici, Lazzerini perviene a dimostrare come la proposta dantesca del Convivio di leggere nella «mia donna» quella «luce virtuosissima, Filosofia, li cui raggi fanno [dal]li fiori rifronzire e fruttificare la Besprechungen - Comptes rendus 287 verace delli uomini nobilitade» (41) vada allargata almeno ad alcuni tra i principali canzonieri del corpus poetico in lingua d’oc. In particolare il minuscolo complesso artistico frutto del talento poetico rudeliano, si rivela intessuto di temi, immagini, parole tratte da testi di Sant’Agostino, San Bernardo di Chiaravalle, Guglielmo di Saint-Thierry. Au fil des pages l’amor de lonh si riconnette al tema del pellegrinaggio oltre che all’intenso dibattito che si sviluppò intorno alla seconda crociata (79; 81-102), alla questione del martirio e alla figura dello Sposo del Cantico, cioè al testo biblico che è, insieme, il più denso di metafore erotiche ed il più mistico (64). L’Amore poetico corrisponde dunque sì a Midons, ma in questa è da vedersi la allegoria della Saggezza biblica, a sua volta ipostasi, per i Padri della Chiesa, di Cristo: ne deriva che i trovatori furono gli inventori di un linguaggio polisemico, aperto ad una inesausta sperimentazione formale, fondato su un inesauribile repertorio di topoï che per essere decrittato richiedeva la attiva partecipazione del lettore. Riletto alla luce dei testi mediolatini ed inserito in un più ampio contesto storico-letterario anche il vers fondatore del paradosso amoroso, No sap chantar (BdT 262.3) di Jaufre Rudel si scopre diverso da quella lirica vagamente romantica con cui ogni tanto lo si descrive, e risulta invece assai profondamente immerso nella cultura del XII secolo. Non è più il moderno propagatore di un amor tutto psicologico e postromantico, ma l’emblema di una poesia «de pélerinage et de croisade» nella quale «sous l’énigmatique amor de lonh se cache non pas la dame inconnue du château lointain, mais une allégorie multiforme: l’effigie féminine du Christ, ... la Sagesse biblique réinterprétée ..., la Jérusalem historique ... la nouvelle Jérusalem, la civitas sancta eschatologique de l’Apocalypse» (119). Aiutandosi con una canzone di crociata composta in lingua d’oïl intorno alla metà del XIII secolo e destinata a sostenere la prima impresa oltremare di Luigi IX, Lazzerini può avvicinare No sap chantar a Lanquan li jorn (BdT 262.2), riconoscere in esse due opere artistiche destinate a cantare il senso mistico della spedizione outremer, seguire la storia della loro interpretazione da parte di cultori capetingi del lirico trobar, indicare nella canzone dell’amor de lonh il punto di riferimento al quale guardarono due trovatori narbonnesi del XIII secolo, Isarn e Rofian, quando anch’essi vollero accompagnare con i loro versi la tragica sorte del re-santo e pensarono bene di farlo accostandone i tratti mistici a quelli di Jaufre Rudel. La polisemicità della lingua medievale, e quindi anche dei verba tropatorum, consente a Lazzerini di seguire il filo dell’evoluzione del lessico rudeliano anche in tempi che i critici sono soliti definire di decadenza della poesia trobadorica e che sarebbe invece meglio catalogare sotto il titolo di epoca evolutiva. Proprio l’(apparente) indeterminatezza o, meglio, la pluridimensionalità dell’Amor, infatti, consentì agli autori delle duecentesche e novellistiche vidas e delle razos di annullare la polisemicità insita nei testi originari, trasformandoli in quelle simpatiche storielle, piccoli racconti esplicativi e razionalizzanti, che noi oggi conosciamo. Ma questa operazione consentì anche, in quei medesimi decenni e in quegli stessi luoghi, di mascherare (nascondere? ) dietro i vers occitani quel poco o tanto di eresia catara che alcuni trovatori avevano fatta propria. Si spiega (anche) così il fatto che in alcune vidas (ad esempio quella di Aimeric de Pegulhan), si dica che il poeta sia morto in odore di eretgia: espulsi dal loro mondo, soggetti alle indagini della nascente censura, sempre a rischio di denuncia, un manipolo di trovatori attivo soprattutto nel Veneto ezzeliniano, avrebbe sottoposto il corpus poetico ad una rilettura tesa ad eliminare da esso ogni traccia che non fosse ortodossamente interpretabile (127). Gli ultimi tre capitoli di questa bella indagine sono dedicati rispettivamente alla figura dell’amplexus biblico (129-48), alla domna filosofica (150-63) e alle conclusioni metodologiche (165-97). Nel primo di essi la filologa riconosce nell’alba Reys glorios di Guiraut de Bornelh un testo costruito su materiale tratto dal Cantico dei Cantici e destinato ad esaltare le virtù di Besprechungen - Comptes rendus 288 1 P. Béguerie, «La Bible née de la liturgie», La Maison-Dieu 126 (1976): 108-16. quell’Amor trascendente al cui abbraccio definitivo, oltre il portal della vita e della morte, il poeta anela. Il paradis, secondo questa credibile interpretazione, non risiede tanto nel gaudium, nel joi, della conoscenza carnale quanto nella natura mistica (e definitiva perché eterna) del plenum osculum, dell’amplesso totale: l’incontro di cui parla il poeta, sarebbe quindi un evento trascendente. Eppure la multidimensionalità del linguaggio trobadorico fu tale che anche in un testo apparentemente ortodosso potrebbero essersi nascosti semi di eresia: Lazzerini segnala alcuni elementi presenti in una strofa trasmessa da un solo manoscritto da cui potrebbe desumersi un’origine eterodossa del testo, soffermandosi in particolare su una possibile negazione dell’esistenza del purgatorio e quindi su una adesione, più o meno convinta e più o meno cosciente, del poeta alla dottrina eretica. Analizzando invece una lirica di Raimbaut d’Aurenga, l’enigmatica A mon vers drai chanso [BdT 389.6], la filologa vi individua un ipotesto scritturale dal quale emerge la superiorità esercitata dalla Sapienza divina sull’uomo: ne discendono l’identificazione di midonz con il Lògos divino, la trascendenza della domna trobadorica, e dunque, sulla scorta dell’esegesi allegorico-patristica, l’immedesimazione simbolica con il Cristo (160-63). All’esegesi ed ai suoi rapporti con la letteratura è dedicato l’ultimo capitolo di questa indagine, ed in esso l’autrice sostiene con forza la tesi secondo cui il pensiero simbolico è alla base della scrittura medievale anche romanza: «dans le monde médiéval on en arrive toujours au même problème, opposant, sous des noms différents, les mêmes positions. Tout aboutit en définitive au mystère de l’Incarnation, qui est le problème même de la médiation» (180). Sotto la scorza di tante storie, racconti, novelle che ai nostri occhi risultano insipide, fiabesche quando non irrazionali o addirittura immorali, i medievali, assai meno «prudes» di noi moderni, cercarono quindi quella medulla che, sola, poteva loro interessare. L’integumentum, la bella trama, doveva servire per attrarre e delectare ma il senso spirituale era il contenuto. Quel senso spirituale che, per sua natura, non era unico né sempre coerente né raggiungibile una volta per tutte. Il modello di lettura attiva, cioè compartecipe, proprio del XII e XIII secolo, rendeva infatti praticamente infinite le possibilità interpretative e proprio in tale ricchezza esegetica si nascondeva, nei secoli di mezzo e secondo la lettura proposta da questo bel libro, il valore ultimo della letteratura. Entro pagine tanto ricche e stimolanti, particolare rilievo hanno, a nostro giudizio, quelle nelle quali l’autrice esorta gli studiosi ad abbandonare la dicotomia, così moderna ma tanto poco medievale, tra letteratura sacra e letteratura profana, letteratura colta e letteratura popolare (199-200), così come la sua perorazione in favore di una lettura polisemica di tanta parte della letteratura romanza «maggiore» (200-01). Insomma un testo che farà discutere per la quantità di proposte avanzate e per la forza e la passione con cui sono sostenute. L’avanzamento di ogni riflessione sull’amore trobadorico non potrà in futuro che passare anche per queste pagine. Gerardo Larghi H Gianluca Valenti, La liturgia del «trobar». Assimilazione e riuso di elementi del rito cristiano nelle canzoni occitane medievali, Berlin/ Boston (De Gruyter) 2014, 295 p. Se, come si legge in un famoso saggio, è stato lecito ritenere che la riforma liturgico-pastorale introdotta dal del Concilio Vaticano II ha indotto a pensare che «pour le peuple chrétien, il semble que c’est la liturgie qui l’a ramené à la Bible» 1 , allora è stato tanto più lecito, per