eJournals Vox Romanica 74/1

Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
Es handelt sich um einen Open-Access-Artikel, der unter den Bedingungen der Lizenz CC by 4.0 veröffentlicht wurde.http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/121
2015
741 Kristol De Stefani

Patrick Moran, Lectures cycliques. Le réseau inter-romanesque dans le cycle du Graal du XIIIe siècle, Paris (Honoré Champion) 2014, 720 p.

121
2015
Gerardo  Larghi
vox7410309
Besprechungen - Comptes rendus 309 une potentielle source d’inspiration pour d’autres travaux grâce aux pistes qu’elle trace; on ne peut qu’inviter tout chercheur travaillant, de près ou de loin, sur le droit médiéval et sa langue à s’y reporter. Aude Wirth-Jaillard H Patrick Moran, Lectures cycliques. Le réseau inter-romanesque dans le cycle du Graal du XIII e siècle, Paris (Honoré Champion) 2014, 720 p. La letteratura francese medievale annovera, tra i suoi molti aspetti singolari, anche quello di aver dato vita, nel giro di poco più di 40 anni, a complessi testuali ciclici, sopravvissuti grazie alla loro conservazione in decine di manoscritti i quali trasmettono un intricato corpus di riscritture, aggiunte, redazioni nuove e diverse nelle quali eroi ed ambienti immaginati dalla fervida fantasia di Chrétien de Troyes trovano nuova vita e diversa sistemazione. Un fenomeno simile (non identico) riguardò poi anche opere che si faticherebbe a non considerare cicliche, come i romanzi della volpe Renard, o le diverse chansons de geste o anche alcune Continuazioni. L’ampiezza dei problemi che una simile selva pone allo studioso sembrava aver fin qui sconsigliato ai ricercatori di affrontare l’argomento nel suo complesso mentre, ovviamente, non sono mancate le indagini su singoli rami o su gruppi limitati di opere. Ad essere tralasciato fin qui era invece proprio il «fenomeno ciclico» nel suo insieme. Questione che ora è affrontata, con indubbia competenza, da Patrick Moran, il quale seppure senza risolvere (e come avrebbe potuto? ) tutti i problemi legati ad un simile tema, imposta indubbiamente il suo lavoro con notevole perizia. La domanda da cui partire - ed è, infatti, ad essa che l’autore dedica un larghissimo numero di pagine - era quella relativa alla natura stessa della forma-ciclo, la quale comparve praticamente in contemporanea con l’apparizione della prosa romanzesca, tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo. Gli insiemi narrativi che si formarono, colpirono il pubblico medievale, abituato a narrazioni certamente meno vaste. Ogni romanzo, in quel contesto, non fu più solo un’opera unica, in sé conclusa e racchiudente un sens, une aventure, eroi con caratteri precisi e riconoscibili, ma si ritrovò ad essere anche, e talvolta soprattutto, una parte di un più vasto complesso, che solo nel suo insieme poteva aspirare ad una esaustività del messaggio. Fu come se la materia arturiana sentisse il bisogno di debordare rispetto al solo singolo romanzo nel quale era stata fin lì costretta, e avesse l’urgenza di svilupparsi in un più grande affresco, composto da diversi romanzi: fin dal più antico dei cicli noti, quello di Robert de Boron, composto tra il 1205-10, la storia graaliana viene inserita in un contesto universale. La narrazione, infatti, prende avvio con l’origine stessa del Graal, narrata nel Joseph d’Arimathie, e si sviluppa fino alla ricerca del Graal ed alla realizzazione del regno arturiano nel Perceval, non prima di aver narrato nel Merlin la conquista del regno bretone da parte di Artù. Come noto, questo è il cosiddetto «piccolo ciclo» di Robert de Boron, piccolo in quanto di dimensioni ridotte, mentre un secondo insieme, quello chiamato Ciclo «Vulgate» della Tavola Rotonda, estenderà la narrazione delle avventure dei cavalieri arturiani su un ancor più vasto piano. Scritto intorno al 1215-35, questo ciclo è composto, nella sua versione più lunga, da una Estoire del saint Graal (che contiene la creazione del Graal in Terra Santa e la migrazione del lignaggio dei suoi guardiani in Bretagna), dal Merlin e dalla Suite Vulgate di derivazioni «boroniane», da un Lancelot (il cui fulcro sono ovviamente le avventure cortesi dell’eroe eponimo), da una Queste del saint Graal (nella quale trovano posto soprattutto la Besprechungen - Comptes rendus 310 dimensione spirituale e mistica del ciclo) e da La Mort le roi Artu (che segna la conclusione dell’intera storia). Intorno a questi due insieme, abbastanza coerenti nel loro complesso, si devono poi catalogare alcuni altri testi che, pur essendo singoli, si riallacciano al complesso ciclico: si pensi, ad esempio, alle due continuazioni del Merlin, il romanzo noto come Suite Post-Vulgate, e il Livre d’Artus. Primo punto del lavoro di Moran, come si diceva, è stato dunque quello di individuare una definizione per il concetto di ciclo: ripercorrendo le riflessioni che su questo tema si sono andate accumulando a partire dal XIX secolo e dai dibattiti intorno alla questione del «ciclo troiano», Moran analizza i risultati ottenuti dagli antichisti per poi giungere alle affermazioni e agli studi nei quali i medievisti applicarono tali risultati ai loro argomenti, in particolare nei contesti epici e romanzeschi, ad iniziare dal ciclo più antico, quello guglielmino, affermatosi dalla metà del XII secolo e vivo ben oltre la fine del medioevo. I cicli epici e romanzeschi condividono meccanismi simili: sono unitari e coerenti al loro interno ma anche suddivisibili in parti autonome, sono formati da canzoni autonome ma che acquisiscono ulteriore senso e significato solo se ricontestualizzate in un insieme più vasto ed armonico. Secondo Moran la nozione di ciclo si situa all’interno della tensione che si può creare tra autonomia e unitarietà, tra componibile e scomponibile. I cicli arturiani scritti tra il 1200 e 1240 circa presentano poi caratteristiche particolari rispetto agli altri cicli più o meno coevi o composti nel secolo precedente. In essi la narrazione ha più ampie volute stilistiche, rese possibili dall’affermarsi della prosa come strumento letterario. A fronte della brevità e della linearità narrativa dei romanzi in versi di Chrétien de Troyes, i cicli si caratterizzano per un impulso totalizzante, come se rispondessero al desiderio di affrontare ogni possibilità narrativa, di inserire in un contesto organico, diremmo storico-universale, ogni singola avventura e come se si fosse voluto esaurire ogni possibile avventura insita nella materia ciclica: l’ambizione ciclica è per sua natura totalizzante. Il soggetto del ciclo è affrontato sempre ab origine, e non a caso nel più vasto disegno concepito, e realizzato, cioè quello del Ciclo della Vulgata, le storie di Artù e del Graal si intrecciano in un affresco che ha l’ambizione di coprire tutti gli aspetti della vicenda, dalle origini della (sua, ma anche del mondo) creazione, fino alla morte del protagonista. O almeno alla sua morte in terra giacché l’intento escatologico che guida la mano del (o degli) autori, proietta questa prosa in una dimensione ultraterrena che è a-cronica e insieme eterna, cioè che trasforma la natura stessa del testo romanesco. Dopo aver analizzato la forma-ciclo e i suoi contenuti, Moran passa a discutere il funzionamento testuale di tale narrazione, nella quale si fondono la prosa con una materia, quella bretone arturiana, profondamente rivista sia nel numero e nelle caratteristiche dei personaggi sia nei topoi e nella costruzione degli episodi. I romanzi ciclici, anzitutto, includono una quantità di episodi spropositamente superiore rispetto alle relative opere in versi. Inoltre essi affiancano al classico clima cortese una forte spinta d’ordine storico-religioso che finisce ben presto per sostituirsi al discorso cavalleresco. Una tale apertura, sostiene Moran, è resa possibile soprattutto dalla forma prosastica che consente la moltiplicazione dei fili del testo e quindi ne elargisce incredibilmente l’intreccio narrativo. Pur mantenendo in vita la circolarità di fondo che caratterizza queste avventure, il determinismo storico che le contraddistingue obbliga gli autori ad introdurre importanti modifiche per far concordare l’ordine di composizione con la ciclicità e la cronologia interna. Pur formalmente autonome, infatti, la complessità delle avventure contenute, la lunghezza dei testi, l’intreccio delle parti che costituiscono ogni ciclo, costrinsero il pubblico ad una lettura che non fu né unidirezionale [cioè dall’inizio alla fine delle vicende], né casuale giacché la materia doveva pur seguire un filo narrativo credibile. L’enormità della materia e Besprechungen - Comptes rendus 311 la quantità di personaggi che affolla quelle pagine, obbligarono dunque ad una lettura parziale di ogni ciclo, parzialità che ebbe certamente riflessi sulla tradizione manoscritta. Moran sceglie di affrontare una materia tanto vasta e i problemi che essa pone attraverso il metodo jaussiano, leggendolo cioè attraverso la lente della ricezione piuttosto che non quella della produzione dei cicli arturiani. In effetti, fino ad oggi la critica si è di norma concentrata piuttosto sul nucleo originario del Ciclo-Vulgata, cioè la trilogia formata da Lancelot - Queste - Mort Artu, individuando in questo insieme una omogeneità ed una unitarietà di fondo che la distingue dagli altri due romanzi (Estoire e Merlin Vulgate) che invece sarebbero stati aggiunti in seguito e che risponderebbero a un diverso intento compositivo. Neanche la trilogia attribuita a Robert de Boron è stata considerata come un tutto omogeneo ed organico, essendo opinione comune che dietro il nome Robert de Boron si celino in verità diversi autori: il Joseph e il Merlin sarebbero in effetti la versione in prosa di testi poetici boroniani, mentre dubbia appare ai più la relazione tra Boron e il Perceval, di cui non si conoscono redazioni in versi. Se poi si aggiunge che la responsabilità di Robert de Boron nella messa in prosa dei due primi romanzi è tutto meno che certa se ne desume che il cosiddetto Piccolo Ciclo potrebbe essere il frutto del lavoro di uno, di due o anche di tre scrittori. Proprio per la fluidità della nozione di autore nel Medioevo, e la difficoltà a determinarne con certezza l’unitarietà compositiva, a Moran appare più utile concentrarsi su una lettura interna del Ciclo che non sulla sua origine. Il Ciclo insomma è interpretato come un’opera unica, un dato di realtà, un oggetto da studiare nel suo complesso, lasciando invece sullo sfondo la questione della sua origine, che viene considerata più ancora che insolubile, abbastanza ininfluente. Moran analizza perciò i romanzi come un sistema unico, nel quale il lettore funge da connettore tra le singole parti. È, infatti, attraverso la ricezione che la forma-ciclo rivela le sue specificità: una struttura composita e diversamente modulabile, le innumerevoli combinazioni di lettura rese possibili dalla ampiezza e dalla varietà delle aventures e delle trame narrative. Solo così, cioè solo attraverso l’opportunità offerta ai singoli fruitori di scegliere percorsi praticamente individualizzati entro quello che poteva essere considerato l’universo ciclico, si spiega anche una parte della tradizione manoscritta, e specificamente quella che conserva non l’intero corpus ciclico ma sue parti, talora parcelle romanzesche, talaltra singoli testi, talaltra combinazioni di romanzi. In altri termini i manoscritti che conservano non i Cicli interi bensì parti di essi, ce ne rivelano anche lo scopo, la modalità di fruizione, in ultima analisi gli intenti compositivi. Non una lettura lineare, dall’inizio alla fine, bensì una lettura personalizzata, che seguiva percorsi diversi di situazione in situazione, di persona in persona. Non a caso, sottolinea Moran, il piccolo Ciclo è conservato per intero in soli due manoscritti su quindici, mentre il ciclo-Vulgata si legge integralmente in una decina di manufatti sugli oltre 160 che ne compongono la tradizione. Moran definisce questo tipo di approccio lettura modulare, cioè una lettura che tende a scartare alcuni romanzi, ad accostarsi ad altri per sottoinsiemi, a mescolare romanzi provenienti da cicli diversi. Le diverse combinazioni possibili (moltissimi sono i manoscritti relatori del piccolo ciclo che sono composti da Joseph e dal Merlin ed escludono il Perceval; numerosi manufatti pergamenacei della Vulgata si limitano a copiare la trilogia Lancelot - Queste - Mort Artu, ma esistono anche due trilogie Estoire - Queste - Mort Artu), corrispondono ad altrettante letture possibili, ad altrettante interpretazioni del mondo graaliano, il che spiega anche le contaminazioni tra i cicli. Ogni manoscritto rappresenta, anzitutto, un percorso di lettura: la forma ciclo, infatti, permette al fruitore vie di entrata ed uscita dal testo ben diverse dalla sola lettura integrale e consecutiva. La lettura può essere ordinata, ma anche al contrario, disordinata, casuale, riguardare le vicende di un singolo personaggio, saltare da una zona testuale all’altra senza Besprechungen - Comptes rendus 312 un ordine apparente che non sia il gusto di chi legge. Certo Moran non può sottovalutare il fatto che un tale esercizio era, date le rispettive dimensioni, assai più facilmente applicabile alla Vulgata che non al Piccolo ciclo di Robert de Boron, ma proprio i numerosi segnali che là si rinvengono sono la prova più evidente a sostegno delle affermazioni dello studioso canadese. L’intreccio narrativo non è, infatti, solo la figura retorica chiave della prosa romanzesca, ma caratterizza di sé anche la forma-ciclo. In questa, infatti, gli episodi si rispondono di romanzo in romanzo, singole avventure si risolvono non nel romanzo che le espone bensì in un altro testo. Tali collegamenti sono altrettanti fili che si intrecciano nei romanzi, ma sono anche mezzi per comporre nella mente del lettore, e nella sua memoria, la materia arturiana: ogni lettura del ciclo era dunque un unicum giacché il ciclo stesso era diverso e variegato tanto quanto unico, nei suoi desideri, nella sua scelta, era il suo lettore. Il lavoro che Moran porta avanti è quindi fondato su una interazione tra gli studi di teoria letteraria e quelli di filologia, ed ecdotica specificamente. Come si sarà riconosciuto agevolmente, infatti, la sua teoria sulle differenze compositive tra i diversi manoscritti, può affiancarsi alla teoria cerquigliana della mouvance, mentre per quanto attiene la teoria della ricezione siamo nei dintorni della lezione di Hans Robert Jauss. Parallelamente a ciò Moran rileva come la ciclicità sia, insieme, una questione storica ed una questione formale. Non a caso i cicli arturiani da lui studiati nascono e si sviluppano nei primissimi decenni del XIII secolo, quando la prosa assume un ruolo vieppiù rilevante ed allorché la società stessa si va lentamente urbanizzando, quando cioè i meccanismi sociali mutano in favore di un sistema diversamente, ma non meno, gerarchizzato rispetto a quello feudale. È ovvio che la transizione tra i due non sia avvenuta improvvisamente: il lavoro di Moran conferma che natura non facit saltus neppure in letteratura. L’universo arturiano costruito, o almeno immaginato, da Chrétien de Troyes, lascia spazio ad un nuovo mondo, più vasto, nel quale il corpus arturiano venne rifondato sulla base di nuovi parametri, la ciclicità appunto e la ricezione presso nuove classi sociali. Il ciclo, in conclusione, secondo Moran fu la modalità attraverso cui i romanzi in versi del XII secolo si aprirono al potenziale inesausto della prosa. Ma fu anche una modalità per sua natura transitoria in quanto destinata a lasciare il posto a più organiche summae, le quali, comunque, non mancheranno di sviluppare alcune delle caratteristiche salienti dei cicli, a partire da uno sviluppo narrativo decisamente più maturo rispetto a quello delle singole opere e, quindi, da un ruolo diverso del lettore, il quale da semplice fruitore diviene in qualche misura generatore di audaci architetture narrative, fondate su testi anteriori, ma sempre aperte a nuove sperimentazioni, a letture inedite in quanto individuali. In questo senso ogni manoscritto ciclico è un’opera diversa, un insieme singolo e unico. Forse anche in questo risiede il segreto del successo che la forma-ciclo assicurò alla materia arturiana. Al netto, dunque, di scelte metodologiche che non sempre si rivelano condivisibili, la chiave di lettura scelta da Moran non manca di novità e in ogni caso si rivela in grado di fornire giustificazioni e spiegazioni a fenomeni fin qui poco studiati o sui quali si rimaneva nel campo delle generalizzazioni. Ben scritto, abbondantemente provvisto di note e completo nella bibliografia, il libro che qui abbiamo recensito è destinato a far discutere e ad aprire nuovi campi di indagine per quanto riguarda la ricezione e la diffusione della materia arturiana oltre che per ciò che attiene al passaggio, nei primissimi decenni del Duecento francese, dai versi alla prosa. Gerardo Larghi H