Vox Romanica
vox
0042-899X
2941-0916
Francke Verlag Tübingen
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2016
751
Kristol De StefaniSugli esiti di zĭngĭber
121
2016
Lorenzo Tomasin
vox7510059
Vox Romanica 75 (2016): 59-72 Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber1 Résumé: Cet article s’intéresse à l’origine et la diffusion des termes désignant le gingembre dans les langues romanes. Toutes les formes disponibles peuvent être reconduites à une base étymologique latine, sans bésoin d’hypotiser - ce qui a été parfois proposé - un emprunt direct des langues romanes aux langues orientales. En particulier, la forme italienne moderne zenzero n’est pas un mot toscan: pour des raisons aussi bien phonétiques qu’historiques-documentaires il doit être considéré comme un vénetianisme de l’italien. Enfin, l’article propose la reconstruction historique de la formation de certains mots et locutions dérivés (gingebras, pain de gingembre, etc.). Keywords: Ginger, Gingembre, Zenzero, Etymology, Lexical history 1. Il problema etimologico Scopo di questo lavoro è mettere a punto l’etimologia e la storia lessicale dei termini romanzi che indicano lo zenzero, nonché di quelli non romanzi che sono stati attinti a lingue romanze e di alcune voci derivate. In particolare, per quanto riguarda la voce oggi accolta nell’italiano, si intende mostrare che essa non è da considerarsi un cultismo, né una voce di diretta provenienza esotica, ma un venezianismo della lingua nazionale - ciò che la lessicografia etimologica non ha ancora indicato. Lo zenzero arriva in Europa da lontano e il suo nome rappresenta un caso notevole di esotismo d’antico radicamento mediterraneo. I termini che lo designano in tutte le lingue europee sono riconducibili, quanto all’etimologia remota, a una voce indiana, per cui si suole richiamare (ad es. Mancini 1992: 99) il sanscrito ś r ̥ ṅ gaverae il p ā li si ṅ givera-, «antecedente diretto della forma araba» (zanjab ī l) che secondo lo stesso Mancini sarebbe la base della voce italiana, «non trasmessasi per via del latino volgare, in quanto spezia pregiata e di scarsa diffusione riacquistata dall’Oriente in epoca islamica» 2 . In realtà, nessuna delle voci romanze sembra richiedere una mediazione araba, come peraltro già supposto da Nocentini-Parenti 2010, s.v., e come verrà ulteriormente documentato in queste pagine. Dal greco antico ( ζιγγίβερις , con la variante ζιγγίβερι , cf. Liddle-Scott 1940, s.v.) si fanno normalmente discendere le forme latine della voce. Quella posta a lemma dai lessici (da quelli latini, e conseguentemente anche dagli etimologici romanzi, 1 Ringrazio Alvise Andreose, Daniele Baglioni, Luca D’Onghia e Michele Loporcaro per i preziosi suggerimenti di lettura. 2 Già Cardona 1975: 756 riteneva che il termine arabo fosse «alla base delle forme occidentali». Lorenzo Tomasin 60 3 Forma attestata in un ms. medioquattrocentesco del perugino Angelo Galli ed. da Wiese 1925. a partire dal REW) è il neutro z ĭ ng ĭ ber, ma ancora in Plinio (Nat. Hist. XII, 28) si legge la forma più compiutamente grecizzante con -i: «Non est huius arboris radix, ut aliqui existimavere, quod vocant zingiberi, alii vero zinpiberi, quamquam sapore simile» (così l’ed. Loeb). La forma alternativa zinpiberi citata da Plinio non manifesta solo una precoce oscillazione nomenclatoria, ma anche l’evidente tendenza del termine a interferire con altre voci semanticamente vicine - nella fattispecie, evidentemente p ĭ per. z ĭ ng ĭ beri, neutro, come l’identica forma greca è necessariamente accentata sulla seconda sillaba, a differenza del nominativo/ accusativo z ĭ ng ĭ ber, accentato ovviamente sulla prima sillaba. Un’ulteriore forma latina, accolta nelle edizioni moderne del rifacimento tardoimperiale del De re coquinaria di Apicio, è g ĭ ng ĭ ber (cf. in particolare Milham 1969, da cui le concordanze di Striegan-Keuntje 1992), ricorrente anche in numerose glosse medievali. Se l’oscillazione fonetica delle forme latine non lascia tracce significative nelle forme romanze, visto che nelle parole di tradizione diretta -zha lo stesso esito di -dj- (quindi in generale di -g e,i sia nell’Italoromània sia nella Galloromània), più interessante è quella morfologica, e per conseguenza accentuale, che ha interessanti ripercussioni sugli esiti romanzi. La loro struttura prosodica fa infatti intravvedere due distinte filiere: una procedente da una base quadrisillaba, pseudoaccusativale (non diversamente da quanto accade per gli esiti di p ĭ per del tipo pévere) accentata sulla seconda sillaba (*z ĭ ng ĭ berem se non proprio z ĭ ng ĭ beri), e una procedente dalla base neutra nominativale/ accusativale trisillaba (-ber) accentata sulla prima sillaba, che come vedremo è presupposta dall’esito toscano. Se dunque la voce in questione, accolta dal greco in latino, segue un destino simile a quello di altri grecismi, tipo cappar (o appunto p ĭ per, per cui la mediazione del greco non è però altrettanto sicura), essa «a été fléchie sur le modèle des thèmes consonantiques neutres du type cadauer, -eris, papauer, -eris» (come osserva Biville 1995: 248), le quali voci erano parossitone al nominativo-accusativo, laddove z ĭ ng ĭ ber è un proparossitono, ossia un particolare tipo di imparisillabo ad accento mobile. 2. Forme galloromanze e iberoromanze Come osserva Walther von Wartburg, «gingiber lebt weiter in ait. gengeri Z 45, 576 3 , gengevo, zenzovero, it. zenzero, piem. zenser, apiem. zanzevra KrJber 7, 157, alomb. çençauro AGI 12, 440, agen. zenzavro AGI 10, 147, akat. gingibre, gingebre, kat. agengibre, sowie im gallorom.» (FEW 14: 664). Accanto a forme antiche come gingivre, gengevere, nonché all’antico provenzale gingebre, gingibre, gengibre, si hanno dunque in mediofrancese forme con due z Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber 61 4 Non mi sembra in effetti persuasiva la pur ingegnosa ipotesi di Nigra 1898: 282, che spiega il termine francese, e le molte forme affini galloromanze, come «riflessi di un composto assai notevole per l’antichità del suo accento, e cioè *gel í vitrum, ‘gelo-vetro’ o ‘vetro-ghiaccio’». (tipo zinzembre), spiegate da von Wartburg col fatto che «im 15. und 16. jh. hat man sich der ältern lt. form zinziber wieder erinnert, und hat darnach fr. gingembre umgestaltet, zum teil nur im anlaut, zum teil auch in zweiten vokal». Né il FEW, né il DEAF nel suo ricchissimo articolo dedicato a gingembre (a firma di Albert Gier) distinguono però tra voci discendenti dalla forma con accento sulla prima e forme con accento sulla seconda sillaba, per la buona ragione che tutti gli esiti galloromanzi ricadono in quest’ultima fattispecie, sia che si parta da z ĭ ng ĭ beri/ -bere, sia che si presupponga già una forma sincopata zingibr-, per l’usuale trattamento della sequenza di muta cum liquida. La voce è assimilata, dal punto di vista dell’inquadramento morfologico, ai neutri del tipo marmor. Gli esiti galloromanzi presentano tuttavia varie anomalie, a partire dall’oscillazione (tra e ed i) delle vocali delle prime due sillabe: se per l’atona iniziale si tratta di una perturbazione poco significativa, per la vocale tonica siamo dinanzi a uno dei fenomeni che inducono il DEAF a commentare: «gingembre, nom d’une épice recherchée, a pu subir des altérations profondes dans la bouche des marchands et des clients». Il che è certamente vero, ma non può esimere dal tentativo di dare una spiegazione a ciascuna delle alterazioni stesse: tanto più che, come il DEAF stesso ricorda, citando Heyd 1923: 619, «au Moyen Âge, le gingembre était une des épices les plus connues: son emploi était presque aussi général que celui du poivre». Il passaggio da e a i della vocale tonica in questa voce sembra registrarsi con particolare frequenza nelle varietà occitaniche, dalle quali come vedremo irradiano probabilmente le forme iberoromanze. Esso non ha ancora ricevuto una conveniente spiegazione. Si potrebbe pensare a un innalzamento favorito dalla consonante palatale precedente, o in alternativa all’influsso - favorito dall’inusuale struttura del termine in questione, e dalla sua opacità etimologica - di altre voci, quali il nome del ginepro (che in numerose varietà francesi meridionali e occitaniche presenta forme con i, tipo genibre, accanto a quelle con e , ĭ , tipo ginebre: l’interferenza tra i nomi galloromanzi del ginepro e quello dello zenzero è del resto spesso richiamata dai dizionari, a partire dal Levy, Suppl., poi FEW e DEAF), o ancora le forme antiche corrispondenti al francese moderno givre ‘brina’, che nelle varietà galloromanze meridionali e nel catalano oscilla parimenti tra forme con e (gebre) e forme con i (il tipo gibre) 4 . Quanto al suono nasale nella seconda sillaba di gingembre, esso ha invero ricevuto puntuale attenzione. A descriverlo come un inserto nasale anetimologico affine a quello che si osserva in varie altre voci galloromanze, fu già Michaëlis 1876: 246, richiamando in parallelo le forme francesi cambuse e lambruche. Successivamente, Balcke 1912: 37 raccoglieva documentazione ancora più ampia nel quadro di uno studio sulle nasali anorganiche nel francese antico, e classificava la voce in questione tra i casi di «Nachklang eines Nasals von Silbe zu Silbe»: una sorta di Lorenzo Tomasin 62 assimilazione progressiva, insomma, provocata dalla nasale della prima sillaba e analoga a quella che si osserva in forme francesi antiche come ainsin, ainsinc, ensin, ensinc equivalenti ad ainsi, o in altre voci più rare come venrendi ‘venerdì’, per cui Balcke rinviava a varie attestazioni del Godefroy. Ancor più pertinenti, forse, degli esempi appena richiamati mi paiono due fitonimi foneticamente simili a quello di cui discorriamo, cioè il riflesso di c ŭ c ŭ mis nel fr. concombre , cocombre (di provenienza occitana, cf. FEW 2: 1457-58), e alcuni esiti galloromanzi semidotti del grecismo biblico zizania, per cui è documentato un tipo con reduplicazione della nasale molto diffuso anche in Italia settentrionale (zenzania/ zinzania): di nuovo dal DEAF (Rheinfelder) traggo il francoprovenzale (vodese) s suná, la forma zeinzena attestata per Aigle, mentre per Nizza e per il linguadociano rispondono i mediofrancesi zinzagno e zinzanío. La somiglianza col tipo gingembre fa pensare a un analogo processo di formazione (progressivo anziché regressivo, ma in contesto fonetico molto simile), che dà ancor maggiore sostanza alle ipotesi di Balcke. Ad ulteriore rincalzo aggiungeremo che una forma come gegimbre, attestata in un manoscritto lorenese della fine del Trecento edito da Meyer 1886: 183 mostra una tendenza alla metatesi della nasale (dalla prima alla seconda sillaba) che sembra ben conciliarsi con l’ipotesi di una sua reduplicazione, ossia dell’eco di cui parla Balcke. Sono comunque le forme galloromanze prive di inserto nasale, e segnatamente quelle occitaniche, a costituire il presupposto di quelle iberoromanze. Secondo il DCECH s. jengibre, «la forma castellana parece haberse tomado de otro romance, probablemente de oc. ant. gingibre», anche se «también podría venir del catalán, donde gingibre se halla en el s. XV, junto a gingebre. En todo caso no es de creer que sea forma castiza en castellano, pues tendríamos *enzebre, como resultado de gingiber». Assieme alla derivazione diretta dal latino, occorrerà escludere per le forme iberoromanze (compreso il portoghese gengibre) l’ipotesi dell’arabismo. Già Eguilaz y Yanguas 1886: 68 si pronuncia persuasivamente contro l’origine araba del termine castigliano; e se ancora Machado 1956 e Corriente 2003: 334 rigettano tale possibilità per ragioni legate all’accento (che s’attenderebbe sull’ultima sillaba in caso di provenienza dalla voce araba), occorrerà aggiungere che anche il trattamento delle consonanti nelle voci iberoromanze non sembra compatibile con il termine arabo, in particolare per quanto riguarda la consonante iniziale di quest’ultimo (fricativa predorsodentale sonora) che negli arabismi spagnoli è normalmente resa da affricate dentali (modernamente evolute nell’interdentale ciceante), non dalla fricativa cui rinviano tanto le scrizioni antiche, quanto le moderne pronunce. Le due forme assestatesi modernamente nello spagnolo e portoghese (jengibre, gengibre) e nel catalano (gingebre) ripropongono la caratteristica oscillazione dei timbri vocalici che, come mostrano le attestazioni antiche offerte dal DCECH e da Machado 1956 (s.v.), riflettono quelle presenti nei modelli galloromanzi. Questi ultimi, dunque, si confermano come la plausibile fonte delle voci in uso nella penisola iberica, nella quale significativamente non emergono voci sdrucciole simili a quelle che caratterizzano, con varie soluzioni, il dominio italoromanzo. Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber 63 5 TLIO (sito verificato il 10 febbraio 2016) lemmatizza distintamente géngiovo e zenzévero, e include sotto quest’ultima voce le forme settentrionali del tipo çençavro (entrambe le voci si devono a Francesca Faleri). Occorrerà aggiungere che alla voce zenzévero del TLIO è impropriamente ascritta la voce veneta çenevraro (dal Serapiom), che è evidentemente un ‘ginepro’. 6 Merlo 1948: 28: «Lo nz di zènzero, e degli antichi zenzàvero, -overo, -evero zingiber (gr. ziggíberis) RetW., 9619 si spiegherà da assimilazione regressiva (v. l’assimilazione contraria in gengiovo, gengevo)». Similmente, Bocchi 1991: 163 su gengebro: «forma con assimilazione da zingiber». 7 In compenso, proprio da una fonte toscana quale l’archivio dei Gallerani proviene la forma gençovo, con palatale nella prima sillaba e dentale nella seconda, che ricavo dal TLIO. 8 Mi sembra dunque irricevibile, a fortiori data la spiegazione che si darà oltre della forma italiana comune, l’ipotesi formulata da Flechia 1874: 197 che le voci appena citate fossero originariamente piane (gengévo, gengióvo: e come si spiegherebbe la vocale di quest’ultima forma? ) essendo «apocopate», mentre géngero, zénzaro e zénzero (pur riconosciuta come forma «ven.») risulterebbero voci «sincopate». 3. Forme italoromanze La distribuzione delle forme che ci interessano nei testi italoromanzi antichi interrogabili grazie alla base dati dell’OVI e al vocabolario del TLIO (che pure adotta un criterio di raggruppamento non del tutto idoneo a rappresentare tale distribuzione 5 ) consente di distinguere con chiarezza gli esiti in tre famiglie ben caratterizzate: quella meridionale, quella toscana e quella settentrionale. Le forme attestate nei testi meridionali antichi sono (a parte un’unica eccezione: la forma gengerva che figura nella Mascalcia del Rusio, e vari latinismi crudi) quadrisillabe accentate evidentemente sulla seconda (come le forme galloromanze sopra esaminate), con affricata dentale nella prima e nella seconda sillaba e con vario trattamento della consonante occlusiva labiale della penultima: si tratta evidentemente di cultismi, come il tipo napoletano çinçìbaro (attestato ad es. dal Regimen Sanitatis edito da Mussafia 1854 e nei volgarizzamenti del Moamin studiati da Glessgen 1996) e quello siciliano rappresentato ad es. dallo czinzìparu del volgarizzamento del Thesaurus pauperum edito da Rapisarda 2001. In Toscana domina invece il tipo trisillabo fiorentino géngiovo (usato anche da Boccaccio), con le varianti pisane zénzavo e zénzamo. Géngiovo appare il legittimo esito popolare toscano di una voce accentata sulla prima sillaba, cioè il neutro g ĭ ng ĭ ber. Per quanto riguarda le due consonanti affricate, non mi sembra necessario spiegare, come fa Merlo 1948: 28, le forme con due g a partire dalla base z ĭ ng ĭ ber per assimilazione regressiva avvenuta in àmbito romanzo 6 : forme preservate da tale ipotetica tardiva assimilazione (cioè con affricata dentale nella prima sillaba e affricata palatale nella seconda) non risultano in effetti attestate in Toscana, per cui si potrà partire anche qui, come suggeriva von Wartburg, direttamente da una base con g- 7 . Per quanto riguarda la vocale finale delle voci toscane, nella variante gengiove (attestata ad esempio nel Milione toscano e nel ricettario fiorentino trecentesco edito da Morpurgo 1890), si osserva forse la forma che meglio corrisponde a questo etimo, con -e regolarmente da -ER 8 . La più comune variante con -o finale, mostra Lorenzo Tomasin 64 9 Come per altri nomi neutri di vegetali e materiali commestibili, non mancano peraltro nei testi toscani antichi allotropi che fanno pensare a un’oscillazione nel genere, come il giengiova occasionalmente impiegato dal mercante senese Andrea de’ Tolomei (fine del secolo XIII) e il gengova che occorre nel Mattasalà pure senese (da confrontarsi con l’antico piemontese zanzevra segnalato da Salvioni 1902-03: 157 e con la citata gengerva della Mascalcia di Rusio, ed. Aurigemma 1998: 188). 10 Gengevo occorre nella redazione toscana dell’Itinerarium di Odorico da Pordenone (Andreose 2000: 140, 153, 161), giengievo nelle fiorentine ricette di Ruberto di Guido Bernardi (occorrenza ricavata dal corpus TLIO, che si basa sull’ed. Giannini 1898: 39). 11 Si tratta dei testi ed. da Bacci 1910: I, 157 e del Palladio volgare ed. da Zanotti 1810: 181. un trattamento rilevabile anche in vari altri imparisillabi della terza declinazione, come orafo da aurifex tràmite un *aurifus (lucchese antico orifo, Paradisi 1989: 53), oppure cespo , caespes 9 . Per quanto riguarda la vocale postonica, pur essendo documentate anche forme con e (gengevo e giengievo) 10 , il più frequente tipo con o si spiegherà per una tendenza all’assunzione del timbro velare medio in quella posizione dei proparossitoni. Il fenomeno è particolarmente frequente in Toscana davanti a / l/ (tipo debole, fievole, nespolo, agnolo, utole, nobole, Rohlfs 1966, §139), ma per lo stesso passaggio davanti a / v/ soccorre ad es. la voce anche fiorentina cànova alternante con càneva (l’etimo proposto dal LEI è canaba), nella quale in posttonia si produce una velarizzazione analoga a quella normale, in Toscana, nella sede protonica iniziale (e andrà osservato che le forme sdrucciole con -vnella sillaba finale preceduta da vocale palatale sono invero assai rare). Quanto al pisano zénzamo (registrato anche nel dialetto odierno da Pieri 1890- 92: 160), il suo trattamento consonantico potrebbe riflettere un plausibile influsso settentrionale, e quanto alla sequenza finale di zenzamo (o con nasale dentale, gengiano o gengiono, altre forme sporadicamente attestate in testi toscani - non fiorentini - trecenteschi 11 ), lo «scambio di suffisso» ipotizzato già da Pieri andrà meglio dettagliato: a una ragione meramente fonetica qual è l’oscillazione consonantica che si osserva, in Toscana, anche in altre voci sdrucciole come garofalo/ -fano, Cristoforo/ -fano, potrebbe prudentemente accostarsi anche l’influsso lessicale di altri termini simili, cioè i nomi di altre merci come il sìsamo (forma toscana antica per sesamo) e il cénnamo, con i quali lo zenzamo pisano sembra far serie. Per completezza, osserveremo che forme quadrisillabe occorrono occasionalmente anche in testi toscani: si tratta di zezibere, zinzibere e zinzibero, che figurano nel Milione toscano e sono con tutta evidenza adattamenti diretti del latino zinziber. Se dunque mettiamo da parte le occorrenze isolate e almeno apparentemente meno sincere, tra le forme toscane citate quelle pisane appaiono le più simili all’italiana moderna zénzero, che tuttavia non risulta attestata anticamente a Pisa (dove zénzamo, come detto, resiste anche nel vernacolo odierno), e che certo non può discendere in alcun modo dalla forma fiorentina géngiovo. A ulteriore conferma della non autoctonia toscana della voce zénzero sta un elemento d’altra natura, Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber 65 12 Cf. Caracausi 1983: 105. 13 Non mancano peraltro, anche nei testi antichi del Nord, forme quadrisillabe con sicura accentazione sulla seconda, come ad esempio zenzevero e zinzevro attestate nella Tarifa edita da Orlandini/ Cessi 1925 (la datazione post 1345 attribuitagli nel corpus OVI è fuorviante, trattandosi con tutta probabilità di un testo pienamente quattrocentesco, come m’induce un esame autoptico dell’originale conservato all’Archivio di Stato di Venezia, Procuratori di San Marco de ultra, b. 180, commissaria Filippo Marcello, fascicolo 22), nonché in testi quattrocenteschi di provenienza sia settentrionale, sia meridionale (Benporat 1996: 99, 101, 106, 112-15, 118, ecc.). Si tratta evidentemente di forme semidotte modellate sul lat. zinziberi, se non addirittura di adattamenti delle forme galloromanze accentate sulla seconda sillaba. 14 Per i Commemoriali, cf. Tomasin 2013: 28-30 (dove si ha anche çençevre, pur di lettura incerta); per lo Zibaldone da Canal, Stussi 1967: 141 (in cui si ha pure çençebro); per il Serapiom, Ineichen 1966: 232, e per gli Statuti veronesi, Bertoletti 2005: 517, che nel glossario accenta çénçevro sulla prima sillaba, anche se nel commento linguistico (p. 109) annette sorprendentemente la forma ai casi di sincope della sequenza -ver-, non chiarendo l’eventuale derivazione della forma trisillaba da quella quadrisillaba, che ovviamente non avrebbe potuto essere bisdrucciola. 15 I riferimenti sono all’edizione di Morozzo della Rocca 1957, che si è verificata sugli originali, conservati all’Archivio di Stato di Venezia, Sant’Anna di Castello, b. 48. cioè il fatto che ancora oggi essa non indica in Toscana il tubero di cui diciamo, ma il peperoncino rosso: slittamento di significato che evidentemente rinvia a una discontinuità dell’uso, cioè a un’importazione seriore della forma, verosimilmente da Nord, come ora vedremo 12 . Veniamo dunque alle voci settentrionali antiche, tra le quali appaiono particolarmente significative quelle trisillabiche, con una struttura che potrebbe essere interpretata in vario modo 13 . La forma çençevro è la più anticamente e copiosamente documentata nei testi veneziani medievali: essa è attestata fin dal secolo XIII, nella deposizione di Vitale Badoero del 1299 (Stussi 1965: 26), poi nei testi primotrecenteschi riportati nei Commemoriali e nello Zibaldone da Canal. Sempre in area veneta, e alla fine del Trecento, la forma çençevro compare nel padovano Libro agregà del Serapiom, e zenzevro (e çenz-) è negli Statuti veronesi del 1366 14 . Notevole è la situazione testimoniata dalla raccolta veneto-toscana delle Lettere di mercanti a Pignol Zucchello, della prima metà del Trecento, in cui il veneziano-candiotto Moretto Grego indica come çencevro (p. 115), çençevro (p. 116) quello che il fiorentino Vannino Fecini designa di norma come gengiovo (p. 87, 88, 108, 109, 111), giengiovo (p. 104), e una volta, con forma ibrida che quasi certamente risente dell’ambiente del fondaco veneziano di Alessandria d’Egitto (donde Vannino scrive), zeniovo (p. 110); parimenti isolate appaiono anche le forme zinzio, usata dal veneziano Iacomello Trevisan, e zenzovo (p. 123), che occorre nello stesso carteggio due volte in un listino di merci di mano ignota 15 . Considerandola una voce piana, çençevro si potrebbe interpretare come un semplice discendente sincopato della base quadrisillaba, come nel caso degli esiti galloromanzi. Ma a tale interpretazione osta, oltre all’altrimenti inspiegabile accentazione di zénzero, di cui diremo tra poco, anche la presenza di Nebenformen con a Lorenzo Tomasin 66 nella penultima sillaba, cioè çençavro (nel volgarizzamento del Libro de conservar sanitate di Gregorio medicofisico, Tomasin 2010: 27, ma anche, fuori Venezia, nella Parafrasi lombarda del Neminem laedi), difficilmente giustificabili se appunto la voce fosse parossitona (sembra piuttosto trattarsi di uno dei molti casi di passaggio della vocale postonica a una vocale neutra -ache Lausberg 1971, §289 rileva nelle aree della Romània nelle quali non si presentano sincopi sistematiche dei proparossitoni). Si aggiunga che il verso dell’Anonimo genovese «peiver, zenzavro e moscao» (Contini 1960: I, 756) non è dirimente, ma ha tutta l’aria di essere un ottonario con accento di terza (come il seguente e rimante «chi g’è tanto manezao»). Ancora, l’ipotesi che il veneziano antico zénzevro sia sdrucciolo si accorda con le condizioni di uno sviluppo fonetico da -ber, analogo a quello che s’incontra in voci avverbiali come semper, nel numerale quattuor e segnatamente in area veneta in sostantivi maschili come i nominativali in -tor . -(d)ro (tipo via(d)ro , viator, avoga(d)ro , advocator, salvar e salvaro , salvator, cf. Pellegrini 1991: 269, Zamboni 2000: 109), nonché ancor più pertinentemente negli esiti del neutro robur, rovre e rovro, da accostare al milanese edro , iter (in Bonvesin, Contini 1941: 285 e 292). Uno sdrucciolo çénçavre/ çénçevro costituisce l’unico credibile antecedente diretto della forma çénçero (questa certamente sdrucciola già in antico, come suggerisce l’alternanza con çençaro), con riduzione -vr- . -ranaloga a quella appena vista per i tipi in -tor. Le più antiche attestazioni della forma ora italiana comune vengono, direttamente o indirettamente, da Venezia, e sono più alte rispetto alla datazione «av. 1517» per cui DELI s.v. rimanda all’Itinerario di Ludovico de Varthema (ancor più bassa la datazione del DEI, XVII sec.). Con zenzer, zenzero e zenzeri sono persuasivamente sciolte da Melis 1972 (e si veda in particolare la nota paleografica di Elena Cecchi, a p. 574) le abbreviazioni zz, zz o e zz i con tratto obliquo che taglia le due z nelle numerose lettere redatte da mercanti veneziani: se ne trovano esempi (con riproduzione fotografica che consente la verifica) nella lettera di Niccolò Bernardo a Lorenzo Dolfin da Alessandria del 16 marzo 1424 (p. 190), nel listino veneziano datato 1424 conservato nella Commissaria Dolfin all’Archivio di Stato di Venezia (edito ibid.: 318), nella lettera di Michele Morosini a Lorenzo Dolfin da Londra, del 10 dicembre 1441 (p. 188), nella lettera di Antonio Negro a Marco Bembo da Damasco del 21 agosto 1484 (p. 186). Si tratta di forme in ogni caso non dirimenti a causa della peculiare grafia abbreviata. Più interessante, per cronologia e collocazione, è l’occorrenza della forma a piene lettere zenzero (con traduzione tedesca: ymber) nel codice Pal. Germ. 657 della Biblioteca Universitaria di Heidelberg (c. 23r), assegnato nel catalogo della biblioteca ad «Augsburg (? ), um 1420»: si tratta di uno dei glossari veneto-tedeschi studiati da Rossebastiano Bart 1983; che in questo caso le voci italoromanze siano veneziane o al più venete centrali appare suggerito dai numerosi tratti che, presenti (o assenti) in questo codice, oscillano tra Venezia e le varietà della Terraferma Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber 67 16 Regolari sono ad esempio la conservazione di iati secondarî nelle forme tipiche del veneziano quattrocentesco (tipo sabao 4v°, Tomao 6r°, figao 8r°, etc.); la lenizione consonantica nei limiti del veneziano, cioè senza i dilegui tipici del Veneto centrale, ad es. in manzadura, seradura 16r°. Si osservano peraltro anche: la generale assenza di metafonesi, ma con rari controesempi come chupi 14v°; l’esito di -arjoscillante tra -ere -arad es. erbera 9r, boter, bariler 17v°, ma chanevaro 15r°, ongestara 17v°. Quanto alla morfologia, veneziani sono i numerali do, tre 18r°. Vari elementi lessicali rinviano poi inequivocabilmente a Venezia, come ad esempio la serie portego 15r°, chamini, chorte, fundamenta 15v°, ecc. (traggo tutti questi esempi da un’ispezione dell’originale, che è stato digitalizzato ed è consultabile in linea nel sito della Biblioteca Universitaria di Heidelberg, http: / / digi.ub.uni-heidelberg.de). 17 L’edizione del testo, latore della redazione siglata VA del Milione, si legge ora anche nel sito dell’edizione digitale di G. B. Ramusio, Simion/ Burgio 2015. 18 La forma in questione si trova rispettivamente nelle iscrizioni numerate 348 e 549 dell’edizione Falchetta in c.s. Ho verificato entrambe le occorrenze su una riproduzione digitale dell’originale (ringrazio Piero Falchetta per avermela fornita). 19 Si veda ad es. il Dialogo di duoi villani padoani edito da ultimo da Milani 1997: 442: «bocca de zenzero e pimento». 20 Ne rintraccio esempi nel Libro de la natura di cavalli di Ruffo edito da Sessa nel 1502 (p. 29), nel volgarizzamento di Guglielmo da Saliceto (Guielmo vulgar) (p. [171r]) uscito il 23 aprile 1504 a Venezia, s.n.t., nel Collectorio de la cirogia composto per el clarissimo doctore maistro Guidone de Gauliaco, volgarizzamento di Guy de Chauliac stampato da Donnino Pinzi nel 1505 (p. xcviv°), ad essa più prossime 16 . Il codice è comunque materialmente redatto da una mano tedesca, che tutto lascia credere immune dalla conoscenza d’altre varietà italiane rispetto a quelle d’area veneta. Ancor più puntualmente localizzabili sono le attestazioni di çençero nel Milione veneto trasmesso dal codice CM 211 della Biblioteca civica di Padova, databile al 1435 e descritto dagli editori Barbieri/ Andreose 1999: 71 come «un limpido esempio di veneziano quattrocentesco» 17 ; di poco successiva, e ancor più nettamente veneziana è la duplice occorrenza della forma çençero (una volta con abbreviazione della nasale, e una a piene lettere) nel Mappamondo di fra’ Mauro, databile attorno al 1450 e conservato alla Biblioteca Marciana di Venezia, testo sicuramente veneziano (sebbene sia ignoto il luogo di nascita dell’autore, che visse e operò nel monastero di S. Michele di Murano) 18 . Anche il Dizionario veneziano cinquecentesco di Cortelazzo 2007 dà esempi di zénzari (al plurale) già dal secolo XV (dai Diarî di Priuli e da quelli del Sanudo), senza tuttavia render conto dell’esatta grafia. Nel secolo XVI, zenzero è forma consueta a Venezia, e propriamente locale, come mi sembra suggerire la sua duplice apparizione - questa volta in grafia non abbreviata - nelle edizioni a stampa delle Lettere di Andrea Calmo, cioè nel capolavoro della prosa veneziana cinquecentesca (lettera XXXIV del libro I, 1547, e lettera XXXIII del libro II, 1552). Nel corso dello stesso secolo, la medesima forma compare non solo in varie altre opere della letteratura dialettale veneta 19 , ma anche in vari trattati medici e ricettari a stampa, scritti in italiano e stampati a Venezia 20 : per questa via è verosimile che essa si sia definitivamente insediata anche nella lingua comune. Lorenzo Tomasin 68 nel volgarizzamento del De honesta voluptate et valetudine del Platina edito sempre a Venezia, s.n.t. nel 1508 (p.lxvr°); nell’isolario di Benedetto Bordone (Libro ... nel qual si ragiona de tutte l’isole del mondo) uscito dallo Zoppino nel 1528 (p. xiiv°). 21 Ancora secondo Wilhelm 2013: 232 «Ungeklärt bleibt hierbei die Genese des vokalischen Anlautes im Deutschen». Osserva Ross 1952: 21 che «a similar loss is found in other words, and the phenomenon has not been entirely explained: cf. MnHG. Enzian (Swiss. dial. also jentsjan , Lat. gentiana ‘gentian’)». A ulteriore conferma della sua non toscanità originaria, nella prima impressione del Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612) la forma zenzero è assente sia nel lemmario, sia nelle spiegazioni delle voci. Vi si trova, ovviamente, l’entrata gengiovo, chiosata «aromato di sapore simile al pepe». Zenzero entrerà come voce autonoma (accompagnata dalle varianti zenzevero e zenzovero) nella terza impressione (1691), chiosato - com’è facile attendersi - «gengiovo». Con un décalage cronologico usuale nella tradizione lessicografica cruscante, il Vocabolario recepiva in tal modo l’ingresso di una forma non toscana (cioè veneziana) nella lingua letteraria, pur non chiarendone l’origine geografica, rimasta poi generalmente ignota alla lessicografia italiana, con poche eccezioni che non sembrano aver ricevuto eco adeguata: tale è ad esempio il caso della Prosodia italiana, ovvero l’arte con l’uso degli accenti del palermitano Placido Spatafora (edita per la prima volta a Palermo nel 1682, poi più volte ristampata fino al sec. XIX), che classificava la voce zenzero come sdrucciola («p.b.», cioè «penultima breve»), e la indicava come settentrionale («voc. Lombar.»: ho consultato la terza edizione, Venezia 1692). 4. Da esotismo orientale a anglicismo camuffato Dopo aver ripercorso una minima parte dei problemi fonetici e morfologici posti da un così avventurato Wanderwort, converrà soffermarsi su alcune vicende della circolazione extra-romanza di un termine che anche alle lingue germaniche (ad esempio al tedesco: Ingwer 21 ) giunge più o meno direttamente attraverso il latino, e che ad alcune lingue romanze arriva, curiosamente, per tramite di lingue d’altra famiglia. Tale è, a quanto pare, il caso del romeno ghìmber, che si suppone mediato dall’ungherese, mentre la forma imber proviene allo stesso romeno dall’ucraino imbir (Leschber 2011: 33). Ma è anche il caso del neogreco τζίντζερ , evidentemente rifoggiato sull’inglese ginger: un cavallo di ritorno che solo in epoca recente ha soppiantato la voce popolare πιπερόριζα . La voce inglese ginger è in effetti oggigiorno la più produttiva tra quelle delle quali qui ci occupiamo: essa deriva da quella francese (priva d’inserto nasale), e l’accento sulla prima sillaba è dovuto a ragioni interne alla lingua d’arrivo (non si tratta, insomma, di un nuovo riflesso del tipo trisillabo latino). La grande fortuna del prodotto nella cucina e nella tradizione erboristica britanniche ha favorito l’arricchimento semantico per via d’uso traslato del termine: Sugli esiti di z ĭ ng ĭ ber 69 il verbo to ginger nel senso di ‘ravvivare’, ‘stimolare’ esprime una metafora che riecheggia più sporadicamente anche in varie lingue romanze (in francese si ha ad es. gingembre nel senso di ‘persona aggressiva’: TLFi, con un esempio da Huysmans; e per l’italiano il GDLI riporta zenzero nel senso di ‘modo particolarmente vivace e brioso di comportarsi’, con un esempio da Zena). Sebbene l’interno del tubero in questione sia, in natura, di un colore giallo simile a quello della patata, e sebbene i prodotti che se ne ottengono svarino dal colore bruno del gingerbread (di cui diremo tra poco) a quello biondo dorato dell’analcolica ginger beer, la colorazione arancione assunta - per un processo d’ossidazione - in alcune bevande e composti ha favorito l’uso del termine come appellativo per persona dai capelli rossi e dall’incarnato lattiginoso: un impiego che l’OED considera ancora gergale e spregiativo, ma che che mostra di essersi già ben acclimato in espressioni che riguardano oggetti o animali (ginger fur, ginger cat). Quanto al gingerbread, tale denominazione è uno pseudo-composto, derivando per falsa ricostruzione dal francese gingembras (FEW XIV: 663), fattispecie di un tipo attestato in tutte le lingue romanze occidentali (antico occitano gingibrat, catalano gingebrat): l’italiano zenzeverata (attestata a partire dal secolo XIII) presenta forme con affricate dentali e con t scempia anche nei testi antichi toscani ed è un gallicismo (Cella 2010: 84-85), probabilmente rimodellato sulle voci settentrionali, non troppo diversamente da quanto accade con il tipo peverada, frequentissimo al nord e diffuso in veste fonetica settentrionale (in questo caso con suffisso -ata) anche nei testi toscani. Zenzoverata è in effetti termine registrato (con o protonica velarizzata di tipo propriamente toscano) già dalla prima Crusca nel significato generico di ‘composto di più ingredienti medicinali’ (con esempi dal Crescenzi e da Maestro Aldobrandino toscano), cui nella quarta impressione del Vocabolario si aggiunge un significato ancor più estensivo: «E figuratam. per Mescuglio di cose imbrogliate, e confuse indicato dalla rozzezza del nome» (con spiegazione che si direbbe fonosimbolica), per cui si dà un esempio dal quattrocentista Bernardo Bellincioni. Prima di essere paretimologicamente equivocato nella forma inglese gingerbread (o in contemporanea con quello slittamento), il termine zenzoverata conosceva dunque anche nell’Europa continentale uno spostamento di significato che riflette, evidentemente, l’ampio uso popolare. Anziché trattarsi di parola rara come supponeva Mancini 1992: 99, il termine di cui discorriamo sembra dunque aver conosciuto un’ininterrotta e popolarissima vitalità nelle lingue europee, come mostrano sia le sue vicissitudini fonomorfologiche, sia quelle semantiche. Se il latino (e forse il greco, nell’Italia meridionale) è stato il suo principale vettore d’ingresso nelle lingue dell’Europa medievale, prima che provenzale e francese ne favorissero la diffusione rispettivamente in Spagna e in Inghilterra (senz’alcuna documentabile interferenza dell’arabo), giusto l’inglese ne ha rilanciato, per un curioso percorso geolinguistico, la pur limitata produttività lessicale nella fase più recente delle lingue europee. Così, il composto pan(e) di zenzero (fr. pain de gingembre - più raro di pain d’épices - sp. pan de jengibre, etc.) sembra avere atte- Lorenzo Tomasin 70 stazioni solo piuttosto recenti nelle lingue romanze, e chiara derivazione inglese. Se i dizionari storici non aiutano, la prudente e certo non risolutiva consultazione di Google Books offre come prima occorrenza francese del nesso «pain de gingembre» un passo dell’Histoire générale des voyages (1746-59) dell’abbé Prévost, traduzione-rifacimento della New general collection of voyages and travels di John Green; e il più antico esempio italiano rintracciabile nello stesso modo per «pane di zenzero» viene da una traduzione del Dizionario universale di Efraim Chambers, pubblicata a Venezia nel 1749, in cui si legge (s. zenzero): «Pane di Zenzero, Gingerbread presso gli Inglesi, una sorta di pane ricco e regalato, il di cui sapore, e fragranza, è esaltato e migliorato col mezzo di spezie, e particolarmente di zenzero; onde il suo nome» (p. 248). Per lo spagnolo, «pan de gengibre» è semplicemente la traduzione di Gingerbread nel Diccionario nuevo de las dos lenguas española e inglesa di Thomas Connelly, uscito a Madrid (Imprenta Real) nel 1798 (s.v.). Si tratterebbe insomma di un caso insolito di calco lessicale basato su un termine che a sua volta discende, per falsa ricostruzione, da un lemma già presente nella lingua d’arrivo: dal fr. genge(m)brat all’ingl. gingerbread, rientrato appunto come pain de gingembre. Il termine italiano gingerino, nome commerciale d’un aperitivo analcolico rosso-arancione prodotto da una ditta di Recoaro, nel Vicentino, ma già assunto in letteratura grazie all’uso straniato e anacronistico che (con iniziale minuscola, come per un nome comune) ne fa Alberto Arbasino in Super-Eliogabalo (1978), è forse l’ultimo episodio d’una derivazione suffissale che ormai non parte più né da basi esotiche, né da etimi latini, ma direttamente da una lingua, l’inglese, in cui il termine giunge dopo una catena ormai lunga di prestiti e di adattamenti. Lausanne Lorenzo Tomasin Bibliografia Andreose, A. 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